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Dave97

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  1. Dave97

    Raid over Tokio

    Raid over Tokio Nella primavera del 1942, l'allora colonnello e asso dell' Aviazione americana James Doolittle fu incaricato di compiere una missione al limite dell'« impossibile »: bombardare Tokyo. I comandi strategici americani, dato l’esiguo numero di aerei che potevano essere impiegati nell'impresa, non si ripromettevano di ottenere un vero e proprio successo militare, ma piuttosto un vantaggio «psicologico » determinato dall'impressione negativa che un tale bombardamento avrebbe suscitato fra la popolazione e negli ambienti militari nipponici, convinti assertori dell'inviolabilità del territorio giapponese. Dopo il disastro di Pearl Harbor, si sarebbe trattato di una prima rivincita, anche se soltanto dimostrativa. Ecco, nelle parole dello stesso Doolittle, il ricordo della straordinaria impresa. Le giornate del dicembre 1941, che seguirono al disastro di Pearl Harbor, furono probabilmente le più buie di tutta la storia degli Stati Uniti. Era evidente che bisognava fare qualcosa per rialzare il morale della nazione e per dimostrare ai giapponesi che eravamo tuttora abbastanza forti da reagire al loro attacco. Se ben ricordo, un primo suggerimento venne da un capitano sommergibilista che faceva parte dello Stato Maggiore dell'ammiraglio King. Si chiamava Francis S. Low. Egli sottopose all'ammiraglio questo progetto: mandare sul Giappone dei bombardieri facendoli partire da una portaerei. L'ammiraglio King discusse la cosa con il generale George Marshall (capo di Stato Maggiore generale) e col generale Henry Arnold, capo della nostra Aviazione e qualche giorno dopo,io a quel tempo ero soltanto colonnello , Amold mi mandò a chiamare. Era in progetto, mi disse, una «certa missione », per la quale occorrevano aerei con 3.800 chilometri di autonomia, capaci di trasportare una tonnellata di bombe a testa e soprattutto capaci di decollare da una pista cortissima. Era possibile averne? Dopo aver riflettuto, proposi il B-25 Mitchell. Arnold approvò e mi incaricò di adattare sedici B-25 per la misteriosa impresa. Come ingegnere aeronautico, trovai le soluzioni tecniche abbastanza rapidamente. Sotto la mia guida, i nostri piloti spogliarono un B-25 di ogni peso superfluo e lo fecero decollare da una portaerei, perché avevo finalmente intuito che cosa intendeva Arnold per «pista cortissima» Allora la cosa era del tutto insolita; sulle nostre portaerei, a quei tempi, c'erano soltanto caccia. Riducemmo le dimensioni dell'apparecchio smontando la torretta posteriore; e per aumentare al massimo il raggio d'azione installammo serbatoi supplementari nelle ali, modificando inoltre il « ventre» dell'aereo, in modo che solo la parte inferiore fosse occupata dal carico utile (quattro bombe da 226 chili l'una) mentre quella superiore poteva contenere altro carburante. Per scoraggiare attacchi da parte di caccia giapponesi piazzammo in coda quattro finte canne di mitragliatrice. Gli aerei erano ancora in fase di trasformazione quando il generale Arnold mi chiese di scegliere gli equipaggi e incominciare gli allenamenti speciali. E seppi allora in che cosa consisteva la missione: si trattava di bombardare Tokyo! Le portaerei ci avrebbero accompagnati fino a distanza utile dall'obiettivo, poi sarebbero tornate indietro; noi, effettuata la missione, avremmo dovuto proseguire fino a raggiungere il territorio cinese non ancora occupato dal nemico, dove avremmo potuto sperare di atterrare. Dopo, dovevamo riunirci, avvicinare qualche unità regolare dell'esercito cinese e metterci infine in contatto con le nostre forze armate. Mi servivano davvero equipaggi d'eccezione. La mia scelta cadde sui piloti del diciassettesimo gruppo bombardieri, di stanza a Columbia, nella Carolina del Sud. Dapprima chiesi dei volontari, ma poiché tutti si offrivano, bisognò fare una cernita degli equipaggi più preparati, più competenti e più affiatati. Il giorno dopo tornai con sedici equipaggi alla base di Eglin, vicino a Valparaiso in Florida. E l'allenamento incominciò subito. Il punto essenziale stava nell'abituare i piloti a decollare da un ponte di una nave lunga 150 metri invece che da una pista di almeno 700 Poi c'erano le esercitazioni di volo radente, di bombardamento, di navigazione aerea. Nulla fu la¬sciato al caso, e tutto si svolse nel massimo se¬greto. Ci rendavamo perfettamente conto che la nostra incursione su Tokyo, dati gli scarsi mezzi di cui disponevamo, sarebbe stata tutt'altro che una mazzata per il Giappone: perciò bisognava almeno scegliere con astuzia gli obiettivi, per scuotere il morale del nemico. Mi venne, fortissima, la tentazione di bombardare il palazzo dell'imperatore. Ma scartai quella idea, ricordando che la Luftwaffe tedesca, attaccando Buckingham Palace, aveva solo ottenuto il risultato di forgiare l'unione sacra di tutti gli inglesi intorno alla corona. E così scegliemmo obiettivi di carattere militare: officine, raffinerie di petrolio, installazioni portuali. Siamo stati avvistati: è necessario anticipare il decollo Gli artificieri ci fornirono bombe dirompenti di grosso calibro, o grappoli di spezzoni incendiari, secondo l'obiettivo che ciascun aeroplano si prefiggeva di colpire. Ogni B-25 aveva un equipaggio di cinque uomini: primo e secondo pilota, navigatore, bombardiere e meccanico - mitragliere, sistemato in coda. Il meccanico era responsabile della manutenzione dell'apparecchio fino al momento della partenza, nonché del buon funzionamento dei motori e degli altri dispositivi durante il volo. Sorvolando il Giappone, invece, il meccanico avrebbe dovuto trasformarsi in mitragliere per « respingere » , termine alquanto ottimistico , gli assalti della caccia nipponica. La missione era stata decisa nel gennaio del 1942. Gli allenamenti e le prove si protrassero fino a metà marzo. Intanto i giapponesi avevano avuto il tempo di invadere le Filippine, Hong-Kong, Singapore, le Indie Olandesi e l'isola di Wake. A Bataan la battaglia era perduta, e la caduta di Corregidor sembrava imminente. Noi, ripeto, partivamo senza illuderci di ottenere risultati spettacolari. Si era ancor ben lontani dall'epoca in cui l'aviazione americana avrebbe potuto mandare su Tokyo cinquecento B-29 alla volta, ciascuno con dieci tonnellate di bombe. Tuttavia i capi giapponesi, i signori della guerra, andavano proclamando che l'arcipelago nipponico era al sicuro da ogni offesa nemica; e a noi, in quel momento, bastava incrinare il mito della loro invincibilità. Verso la fine di marzo lasciammo la nostra base della Florida a bordo dei B-25 e raggiungemmo Sacramento sulle coste del Pacifico, dove i bombardieri furono imbarcati sulla nuovissima portaerei Hornet. Il giorno 2 aprile 1942, scortati da altre unità, eravamo in navigazione. Una volta in alto mare non trovammo davvero il tempo di annoiarci. Alla partenza avevo fatto distribuire ai piloti i singoli piani di volo durante la navigazione perfezionammo lo studio dell'impresa e ci tenemmo in forma facendo ginnastica sulla pista, nel poco spazio che ti lasciavano gli aerei. L'ammiraglio Halsey, comandante della squadra navale che ci portava verso il Giappone, promise di farci arrivare il più vicino possibile al territorio nemico, compatibilmente con le sue esigenze di sicurezza; se i giapponesi non si facevano vedere in mare, egli pensava di far decollare gli aerei quando fossimo a 750 chilometri da Tokyo. In cambio, io gli feci un'altra promessa. Se aerei nemici avessero attaccato la squadra navale, noi avremmo immediatamente decollato, qualunque fosse la distanza dal Giappone, per lasciar libera la pista agli aerei da caccia destinati a difendere le navi. In questo caso, noi avremmo puntato sul Giappone anche da una distanza che richiedesse tutto il nostro carburante, lanciandoci poi in territorio nemico col paracadute dopo aver gettato le bombe. Se al momento del decollo di emergenza la distanza dal Giappone fosse stata invece proibitiva, allora, invece di dirigerei su Tokyo, avremmo puntato sulla base americana più vicina, le Midway o le Hawaii. Per nostra disgrazia, all'alba del 18 aprile incontrammo due pescherecci giapponesi, armati malissimo, ma dotati di potenti stazioni radio. Furono affondati ma ebbero il tempo di segnalare la nostra presenza. Fedele alla promessa di sgombrare il ponte di volo al primo segnale di pericolo, ordinai immediatamente il decollo dei sedici bombardieri: ma eravamo a 1.200 chilometri da Tokyo, non a 750. Riesco a sfuggire all’inseguimento di cinque caccia E questo fatto provocò una serie di conseguenze. Se fossimo partiti a minor distanza dall'obiettivo, i primi a decollare avrebbero poi aspettato gli altri, in modo che tutta la formazione arrivasse insieme su Tokyo. Ma a quella distanza non potemmo più seguire il metodo classico: occorreva un'ora per far decollare tutti gli aerei, e non si potevano costringere i primi a volare in cerchio sulle navi per tanto tempo, aspettando gli ultimi. Il carburante doveva adesso servirei per coprire almeno 400 chilometri in più. Ricordo i drammatici momenti del decollo. I marinai della portaerei fecero miracoli. Uno di essi scivolò e un'elica gli tagliò di netto un braccio. La nostra situazione, a causa di questa partenza anticipata, era francamente preoccupante. All'ultimo momento ciascun aereo aveva imbarcato altri sei bidoni di benzina da venticinque litri l'uno: durante il volo, il meccanico di bordo avrebbe pensato a travasare questa benzina dai fusti nei serbatoi. Nonostante ciò, non eravamo affatto sicuri che saremmo arrivati fino alla costa cinese, dopo aver bombardato Tokyo. Il vento contrario avrebbe potuto costringerei a scendere in mare, soluzione che non ci sorrideva affatto, ma che eravamo comunque pronti ad accettare. Del resto sapevamo che due sommergibili americani operavano nei paraggi; non restava che sperare di poter ammarare nelle loro vicinanze e di essere ripescati. I nostri sedici bombardieri rappresentavano tutto quello che l'America poteva mandare in quel momento sul territorio nemico; e, sparpagliati com'erano su una linea di centocinquanta chilometri d' aria, avrebbero dovuto attaccare in ordine sparso, ognuno per conto suo. lo pilotavo il bombardiere di testa. L'aereo che seguiva il mio , e che ci raggiunse qualche tempo dopo il decollo , era pilotato da un certo Travis Hoover. Secondo il piano d'operazione ogni apparecchio, dopo aver sganciato le sue bombe, doveva dirigersi dapprima verso sud, e poi virare decisamente ad ovest. In nessun caso, però, avrebbe dovuto cercare di tornare verso la squadra navale americana; al contrario, bisognava fare ogni sforzo per trascinare lontano dalle nostre navi eventuali inseguitori nemici. Abbordammo la costa giapponese a volo radente, cioè ad una altezza che ci consentiva appena di non urtare negli alberi. I nostri aeroplani, allora, erano contrassegnati da una stella bianca in campo azzurro, con al centro un disco rosso. Quel disco rosso in pratica si rivelò assai utile: somigliava infatti allo stemma giapponese del «Sol Levante», e tutti i nostri equipaggi poterono vedere, a terra, sulle strade e nei campi, viandanti e contadini che salutavano con le braccia. Ci scambiavano per giapponesi! D'improvviso ci arrivò addosso la caccia nemica. Seppi dopo che molti dei nostri aerei furono sforacchiati dai suoi proiettili benché nessuno riportasse gravi danni. Quanto a me, stavo volando bassissimo sugli alberi quando scorsi cinque caccia in.alto sulla mia sinistra. Anch'essi dovettero vedermi nello stesso momento perché rallentarono bruscamente. Forse aspettavano che io gli passassi sotto per aggredirmi in picchiata. Portai i motori al massimo, a costo di sacrificare qualche litro di preziosa benzina, poi eseguii una virata di 180 gradi, un mezzo giro completo. I caccia fecero altrettanto, ma la mia manovra ebbe un esito fortunato. Mi trovai di fronte due colline; imboccai la valle che le separava, girai intorno ad una di esse in una specie di fantastico rimpiattino a bassa quota. Quando rimisi l'areo in linea, i caccia giapponesi, sconcertati, filavano in un'altra direzione. Mi ero svincolato, e ripresi la via di Tokyo. Quando dovevamo sorvolare un abitato facevamo un largo giro,in modo da evitare palazzi, serbatoi d'acqua e antenne della radio. Poi, arrivando su Tokyo, fummo costretti a salire un po' di quota, se non altro per sfuggire agli effetti delle esplosioni delle nostre stesse bombe. Portai il mio aereo a 300 metri di altezza. La difesa contraerea fu subito fastidiosa, ma il suo tiro apparve largamente impreciso. D'altra parte volavamo ancora tanto bassi da comparire improvvisamente « sopra i cannoni », senza lasciare ai serventi il tempo di prendere la mira. Per sorvolare tutta l'immensa città occorsero, alla velocità di 330 chilometri orari, ben sei minuti. Il mio obiettivo si trovava circa nel centro di Tokyo e i punti di orientamento non mi mancavano. Lo riconobbi facilmente. Sorvolammo la zona senza fretta, in modo da sganciare con precisione le nostre bombe; e subito dopo puntammo decisamente a sud. Dovevamo raggiungere al più presto il mare dove, volando a pelo d'acqua, saremmo stati pressoché al sicuro dalla caccia nemica. Quando fummo abbastanza lontani dalla costa giapponese virammo ad ovest, verso la Cina, che in quel momento ci sembrava terribilmente lontana. Anche il vento era contrario, sicché dovemmo mettere ogni cura nell'economizzare il carburante. A 1.700 chilometri dalla costa, fortunatamente, il vento contrario si indebolì; a 800 aveva completamente cambiato di direzione, e addirittura ci sospingeva. Solo allora fummo certi che avremmo raggiunto la terra ferma, e il nostro morale si risollevò di colpo. Impossibile atterrare: ci gettiamo col paracadute Dovevamo andarci a posare in una piccola valle di quattro chilometri per 17, dove i cinesi avevano improvvisato per noi un aerodromo di fortuna. Ma quando ci mettemmo a cercarla incominciarono i veri guai. Il campo doveva essere dotato di radio per guidare il nostro avvicinamento alla zona: dopo un volo di 3.800 chilometri era inevitabile che arrivassimo con un certo scarto rispetto alla rotta prevista. Chiamammo quell'aeroporto, ma in risposta, nelle cuffie di ascolto, non ci giunsero che vaghi ed insignificanti fruscii, provenienti da chissà dove... L’ aerodromo restava muto. Solo più tardi venimmo a sapere che non aveva nessuna radio, perché l'aereo incaricato di portargliela era precipitato durante la missione e nessuno dell'equipaggio si era salvato. Sicché, arrivando sulla Cina, trovammo questa drammatica situazione: nessuna radio a guidarci, una notte assolutamente buia, un tempo pessimo. Alcuni dei miei bombardieri preferirono ammarare subito nei pressi di qualche spiaggia, agli ultimi barlumi del crepuscolo. A me, giunto sulla Cina un'ora e mezzo dopo il calar del sole, non era possibile fare altrettanto. Così, ci mettemmo a cercare il nostro campo di atterraggio. Il tempo si faceva sempre più brutto,la visibilità si poteva stimare in duecento metri o poco più. Avvicinandoci alle alture, fu chiaro che non potevamo restare sotto le nuvole senza correre il rischio di sfracellarci contro qualche cocuzzolo. Salimmo dunque fino a ma tremila metri. Per la verità le carte non segnalavano montagne più alte di 1.700 metri nella regione, ma nessuno di noi si fidava completamente di quelle carte. Era notte fonda ormai, e procedevamo in mezzo a banchi compatti di nuvole. Guardavamo disperatamente in giù, ogni tanto s'apriva uno squarcio, ma tutto quel che si vedeva era qualche lumino, perduto nella campagna. La valle sembrava introvabile e un atterraggio alla cieca non era certo da calcolare fra le soluzioni possibili. Intanto la pioggia infittiva, diventava torrenziale. Qualcuno dei miei piloti lanciò dal suo aeroplano una serie di potenti bengala, nella speranza di poter almeno scoprire qualche pianura sufficientemente estesa. Invece non si intuivano che montagne, rocce, corsi d'acqua. In mezzo a quella maledetta valle doveva esserci anche una cittadina, ma non riuscivamo a vedere neppure quella. Non potevo far altro che dare ai miei uomini l'ordine di gettarsi con il paracadute. Si lanciò dapprima il meccanico-mitragliere, che stava in coda, poi il bombardiere, quindi il navigatore e il secondo pilota. Lo aspettai ancora che i serbatoi fossero completamente vuoti di carburante; poi mi gettai a mia volta nel vuoto. Durante la discesa ci sparpagliammo per un raggio di molti chilometri. L'aeroplano planò lentamente nella notte e andò a sfasciarsi lontano, contro un cucuzzolo. Tre dei miei uomini fecero un brusco atterraggio e uno di essi si fratturò una caviglia. L'indomani mattina constatai che solo il mio meccanico ed io eravamo in grado di camminare. Per fortuna eravamo scesi in territorio amico, nei pressi di Tien Mu Shen, centoventi chilometri a nord della vallata che ci aspettava. Incontrai un cinese che portava a spalla, su un bilanciere, due sacchi di concime. Ci guardava esterrefatto e non sapeva una sola parola d'inglese. Tuttavia ci accompagnò ad una caserma, dove parlai con l'ufficiale più elevato di grado, che conosceva abbastanza l'inglese. Ma era sospettosissimo, e la conversazione incominciò male. togliermi la pistola d'ordinanza; ma io replicai che eravamo alleati per una stessa causa e che non mi sembrava il caso di perdere tempo a disarmarci a vicenda. Finalmente rinunciò a quella stravagante pretesa e si decise ad ascoltare il mio racconto; gli dissi di far cercare nella zona dov'ero disceso, perché avrebbe potuto rintracciare il mio paracadute, come prova della verità di quanto gli dicevo. L'ufficiale cinese diede subito gli ordini, ma sfortunatamente il mio paracadute non fu ritrovato. Allora incominciò a guardarmi con palese diffidenza, e in cuor mio non mi sentivo di dargli torto. Tre compagni fucilati dai giapponesi Per fortuna due dei soldati ebbero l'idea di frugare la casa vicino al luogo del mio atterraggio e alla fine, misteriosamente, il mio paracadute fu ritrovato nel solaio. L'ufficiale cambiò di colpo atteggiamento, e da allora tutto fu facile. Dopo una buona dormita andai a vedere i resti del mio apparecchio caduto. Non era più che una pietosa carcassa: gli abitanti del posto l'avevano spogliato di tutto ciò che ai loro occhi poteva offrire un minimo di interesse. Intanto i membri degli altri equipaggi s'erano a loro volta riuniti alla bell'e meglio, e tutti insieme ci dirigemmo verso la cittadina, raccogliendo altri sbandati lungo la strada. In quattro giorni ci trovammo quasi al completo. Le nostre perdite umane erano state, nel complesso, assai modeste. Uno dei piloti era rimasto ucciso durante il lancio col paracadute, non riuscimmo a capire come. Ci portarono il suo corpo (anch'esso completamente spogliato come la carcassa dell'aereo) sospeso ad una lunga canna di bambù portata a spalle da due cinesi. Gli demmo onorata sepoltura. Non potemmo fare altrettanto per due compagni che erano affogati durante l'ammaraggio di un bombardiere nei pressi della costa. Tre, dunque, i morti accertati, ma alcuni aviatori mancavano ancora all'appello. Che era accaduto di loro? Lo seppi molto tempo dopo. Uno dei nostri B-25, guidato dal tenente Edward York, era andato ad atterrare in Russia, e l'equipaggio, ritrovato dai sovietici, rimase per tredici mesi in un campo d'internamento. Altri due equipaggi, più sfortunati, erano andati a finire in una zona controllata dai giapponesi. Furono catturati; tre uomini vennero fucilati sul posto, un quarto morì di fame e di scorbuto, gli altri riuscirono a sopravvivere. Tornato a Washington, mi presentai al generale Arnold, e gli feci il mio rapporto. Mi condusse subito dal generale Marshall, e qualche giorno dopo fui ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Roosevelt, il quale, alla radio, aveva potuto annunciare il bombardamento di Tokyo, senza però dire che gli apparecchi erano decollati da una portaerei; annunciò ironicamente che erano partiti dalla base di Shangri-la, il paradiso perduto che un romanziere americano ha situato in una valle sconosciuta della catena himalayana. Poi mi dettero un periodo di vacanze, che per me furono piene di amare riflessioni. Pensavo che la missione si era risolta in un fallimento completo; per gettare poche bombe su Tokyo avevo perduto tutti i bombardieri che mi erano stati affidati. Il mio meccanico, il sergente Paul Leonard, mi faceva coraggio continuando a dirmi: «Vedrete, colonnello, che vi faranno generale e avrete anche la medaglia » Oggi, a distanza di tempo, il mio giudizio su quella missione è parzialmente modificato. Oggi penso che fu un mezzo successo, soprattutto per il sensibile effetto psicologico che provocò. Ma sinceramente non credo che si possa parlare della «Operazione Tokyo» come di un successo realmente completo. James Doolittle Attacco a Pearl Harbor Mondatori 1972
  2. Reach for the Sky - Paul Brickhill The bestselling story of Britain's most courageous and most famous flyer, the Second World War hero Sir Douglas Bader. In 1931, at the age of 21, Douglas Bader was the golden boy of the RAF. Excelling in everything he did he represented the Royal Air Force in aerobatics displays, played rugby for Harlequins, and was tipped to be the next England fly half. But one afternoon in December all his ambitions came to an abrupt end when he crashed his plane doing a particularly difficult and illegal aerobatic trick. His injuries were so bad that surgeons were forced to amputate both his legs to save his life. Douglas Bader did not fly again until the outbreak of the Second World War, when his undoubted skill in the air was enough to convince a desperate air force to give him his own squadron. The rest of his story is the stuff of legend. Flying Hurricanes in the Battle of Britain he led his squadron to kill after kill, keeping them all going with his unstoppable banter. Shot down in occupied France, his German captors had to confiscate his tin legs in order to stop him trying to escape. Bader faced it all, disability, leadership and capture, with the same charm, charisma and determination that was an inspiration to all around him. Ne esiste una versione Condensata e in Italiano, pubblicata nel 1974 da Selezione dal Reader’s Digest con il titolo : Il cielo è la mia vita Il 14 dicembre 1931, il giovane e brillante pilota e atleta Douglas Bader perse entrambe le gambe in un incidente aereo. Un avvenire ricco di promesse sembrava in tal modo tragicamente e irrimediabilmente compromesso. Invece, il giovane Bader, grazie al suo coraggio e alla sua forza d’animo, riuscì a superare la grave menomazione. Non solo impaò a camminare di nuovo, ma fu anche riammesso nella R.A.F. e combattè coraggiosamente durante la seconda guerra mondiale.Fra l’altro, fu uno dei più valorosi piloti nella storica battaglia d’Inghilterra. Questa appassionante biografia è un esaltante esempio di vita Selezione dal Reader’s Digest
  3. Beh!! Parliamone Prova a leggere, Reach for the sky - Douglas Bader ...e ne riparliamo
  4. Grazie al suggerimento di KOMETONE, mi sono preso la briga di cercare una recensione di questo splendido libro. La storia del pilota giapponese che diventò una leggenda Nato il 26 agosto 1916 da una famiglia di ex samurai, Saburo Sakai rappresenta una leggenda nella storia aeronautica mondiale. Pubblicato in Italia per i tipi della TEA DUE, è possibile acquistare a poco prezzo questa straordinaria autobiografia, che ci riporta con la mente, attraverso vivide immagini, nella vita di questo asso giapponese della seconda guerra mondiale. Nelle sue quasi 400 pagine, il libro descrive con dovizie di particolari la vita, le azioni (straordinariamente dettagliate, grazie all'ausilio dei diari redatti all'epoca), e le avventure di Sakai, durante il periodo bellico nel Pacifico meridionale. Scritto in maniera egregia ed avvincente, il libro, si pone tra le testimonianze post belliche dei numerosi assi di ogni nazione, ma tra queste risalta per la sua unicità, che è quella del personaggio e delle sue uniche avventure. Accreditato di più di 60 vittorie aeree, rimane uno dei più grandi piloti usciti dalla dura scuola di volo del Sol Levante (quella precedente lo scoppio della guerra). Il libro è ricco degli episodi rocamboleschi che hanno contribuito a creare la sua leggenda, come quello del 7 agosto 1942, quando ferito gravemente in un combattimento solitario contro otto Dauntless e dato per morto riusci a tornare comunque alla base dopo quattro ore e mezza, si rimise e tornò a volare, nonostante la perdita dell'uso dell'occhio destro. Altro episodio che mostra l'animo di questo uomo: ai comandi del suo Mitsubishi Zero, Sakai intecettò un Dc-3 Dakota da trasporto dell'aeronautica olandese (in guerra nel teatro di Rabaul insieme ad inglesi, australiani e statunitensi). Come spesso faceva, munito della sua macchina fotografica (pagata con tre mesi di stipendio da pilota militare navale) si avvicina all'aereo per controllarlo e studiarlo (ed ovviamente abbatterlo). Con sua grande sorpresa scorge nei finestrini il volto di una infermiera e di un bambino: senza pensarci sopra, Saburo tira la cloche e si allontana. Dopo la guerra l'infermiera protagonista dell'avventura, contattò la Croce Rossa giapponese per avere notizie di quel pilota (una descrizione di questo episodio la trovate qui: http://www.elknet.pl/acestory/sakai/sakai.htm ). Terminata la guerra, Sakai, ridotto alla fame (sua moglie morì di stenti), non si perse d'animo (Never Give Up era il suo motto, Mai Darsi per Vinti), e dopo molte difficoltà riuscì a mettere su una piccola tipografia, che con il tempo riuscì a dare lavoro a ex piloti o loro congiunti rimasti nella povertà post bellica che anche in Italia è stata sperimentata. Ospite d'onore in numerose manifestazioni (americane), ebbe la possibilità di conoscere alcuni dei piloti da lui combattuti. E' morto il 22 settembre del 2000.
  5. Dave97

    World War II Aces

    Capitano di Corvetta IYOZO FUJITA Iyozoh FLljita fu uno dei due piloti di marina capace di abbattere dieci aerei nemici in un solo giorno. Figlio di un medico e di una levatrice, vide la luce nella provincia di Shantung, in Cina, nel novembre del 1917. Durante la scuola superiore maturò l'intenzione di avviarsi alla carriera in marina, e le sue attitudini scolastiche gli consentirono l'ammissione all'Accademia Navale di Etajima, classe 1938. Il giovane guardiamarina completò l'addestramento aereo nel giugno 1940. Quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbour il 7 dicembre 1941, il sottotenente di vascello Fujita decollò dalla portaerei Soryu come capopattuglia della seconda ondata di caccia di scorta. Mitragliò al suolo diversi obiettivi e il suo Zero venne colpito dal Fuoco nemico. In seguito, mentre si stava ricongiungendo ai suoi per il rientro, la sua formazione fu sorpresa da una squadriglia di P-36 o di P-40, e ne scaturì un selvaggio duello. Sganciatosi dall'azione col suo Zero danneggiato, Fujita ricondusse i suoi uomini sulla portaerei, e subito dopo l'appontaggio si staccò un pezzo dal suo motore. I piloti giapponesi salutarono il 1942 con un morale altissimo e una totale fiducia nei propri Zero. A quei tempi un pilota di marina doveva avere al suo attivo tra le 50 e le 100 ore di volo, oltre a quattro o cinque appontaggi, per ricevere il brevetto di aviatore navale, e anche il più giovane dei piloti della flotta aveva alle spalle almeno 500 ore di volo. Uno di quelli prescelti per Midway in virtù dei suoi precedenti successi fu proprio Iyozoh Fujita. "Dopo Midway, molti piloti sopravvissuti furono distolti dal servizio attivo per divenire istruttori" si lamentò Fujita. "Il trasferimento dei veterani dalle unità in prima linea ci fece perdere la nostra capacità combattiva. In definitiva, le conseguenze sopportate dai nostri piloti furono spaventose, e credo che a Midway almeno il dieci per cento dei nostri veterani andò perduto." L'incarico successivo del tenente di vascello Fujita fu come ufficiale di divisione sulla portaerei Hiyo. Partecipò ai combattimenti nelle Salomone e a Guadalcanal, e nel novembre 1943 venne promosso comandante del 301° Gruppo aereo, agli ordini del capitano di fregata Katsutoshi Yagi. In qualità di esperto pilota di prima linea, il tenente Fujita inoltrò ripetute richieste di miglioramento delle armi e dei congegni di mira, e anche se i costruttori ascoltarono i suoi suggerimenti, ben poche, se non addirittura nessuna, furono le modifiche effettivamente apportate. Prima che terminasse il conflitto, il tenente Fujita prese parte alle battaglie di Iwo Jima, Formosa e alla difesa dell'arcipelago giapponese. Terminò la guerra presso il campo d'aviazione di Fukuchiyama, attendendo quell'attacco finale degli americani che non si materializzò mai. Il bottino finale del capitano di corvetta Fujita è difficile da stabilire, poichè gli storici gli assegnano 11 vittorie, mentre altre fonti gliene attribuiscono 42. Il numero di aerei abbattuti confermati era di sette. Dopo la guerra Iyozoh Fujita divenne un pilota delle linee aeree giapponesi, finchè non andò In pensione nel 1978. Già presidente dell' Associazione piloti dei caccia Zero, è stato uno degli ospiti d'onore alla conferenza sulla Battaglia di Midway tenuta presso la Naval Air Station di Pensacola nel 1988. Aerei Militari
  6. Sezione Off Topic --------------------------> Discussioni a tema -------------------------------------------------------> Pilot Reports http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=5517
  7. Bravo!!! Molto Interessante Mi consenti solo due piccoli consigli ? No!!! Troppo tardi 1) Se hai altri racconti del tipo, ti consiglio di munirti di un economico Scanner e relativo programma O.C.R. che ti consente di convertire in formato testo l'articolo precedentemente scannerizzato... Occhio però al copyright , sempre in agguato!!! 2) Per questo tipo di racconti, esiste un bel topic ( ) Pilot Reports... Ciao!!!
  8. Dave97

    World War II Aces

    La crisi di Dunkerque In una delle camere dell'alloggio ufficiali situato in una palazzina di mattoni, a due piani, dell'aeroporto di Northolt l'aviere Thomson, con in mano una tazza di tè caldo, scosse leggermente il capitano R.R. Stanford Tuck per destarlo; era buio perché non era ancora spuntata l'alba del 23 maggio 1940. In quella mattina di primavera il 92° Gruppo doveva trasferirsi sulla base di Hornchurch, dalla quale avrebbe mandato le proprie pattuglie su un porto che ben presto sarebbe divenuto famoso: Dunkerque. I piloti erano ansiosi di levarsi in volo perché non avevano ancora avuto occasione di combattere fin da quando era cominciata la guerra, nove mesi prima. Tuck accolse Thomson con la solita frase: «Che cos' è questa maledetta porcheria che mi stai portando?» e l'aviere gli dette la solita risposta: «È un tè, signore». Lo bevve mentre si alzava dal letto, vesti l'uniforme grigio-azzurra sulla quale portava una sciarpa rossa e, visto che doveva fare un volo di prova per dare un'occhiata alle condizioni atmosferiche, prese una tazza di caffè con il maggiore Roger Bushell e insieme salirono su una macchina che li condusse a una piccola baracca nera, decentrata ai margini del campo; dopo aver parlato con gli addetti alle operazioni, Tuck se ne andò al suo aeroplano... uno Spitfire, fermo a una cinquantina di metri dal piccolo ufficio. Gli specialisti gli avevano già scaldato il motore e subito fu a bordo, pronto e legato, con l'elica in moto. Poiché era l'unico velivolo che doveva volare non c'erano particolari procedure o attese e quindi dette motore e si mise a rullare; sul campo gravava una leggera nebbia che però si stava alzando. Poco dopo correva sul prato, decollava e puntava verso il cielo sereno. Il tempo, al di sopra, era magnifico; dopo pochi minuti discese e, con il carrello e i flap abbassati, penetrò nella foschia col motore ridotto, dirigendosi all'atterraggio. Rullò fino alla baracca, saltò fuori dall'aeroplano e telefonò al comando per dare il suo parere: «Va bene, il gruppo può partire». Poco dopo tutti i piloti si recarono al decentramento e cominciarono a prepararsi per il decollo. Bushell si mise in rotta verso est-sud-est e i dodici Spitfire pitturati di colore verde-brunastro atterrarono, dopo venti minuti di volo, sulla vecchia base di Tuck, Hornchurch; su quell'aeroporto si sarebbero uniti ad altri gruppi (54°, 65° e 74°) per le operazioni previste in quel giorno su Dunkerque. Il colonnello Cecil «Boy» Bouchier, tenne una riunione dalla quale i piloti ebbero la conferma definitiva e i particolari delle operazioni della giornata; il comandante disse, rivolto ai più anziani: «Sarete lieti di sapere che, per la prima volta, quest'oggi andremo in azione; a Dunkerque c'è roba che brucia; sta avvenendo un'evacuazione; andate e attaccate qualunque velivolo che cerchi di contrastare ,le nostre truppe o le navi». Gli equipaggi vennero informati che dovevano attendersi d'incontrare i caccia tedeschi in masse di forse anche una quarantina di aeroplani. I comandanti di gruppo rivolsero delle domande circa le quote di volo, il tempo, le informazioni sulla situazione, e poi tutti se ne tornarono nelle zone di decentramento. Giunti a quella del 92°,Bushell e Tuck discussero della formazione da adottare, delle quote e di altri particolari con i loro piloti,che aspettavano con i nervi resi. Erano le 10.30 quando il telefono suonò nella baracca, che subito si svuotò: Tuck si era infilato i guanti e, con il casco in mano, stava correndo verso il suo velivolo. Salutò gli specialisti, saltò a bordo dal portellino di sinistra e s'infilò nell'abitacolo... dove subito si mise al lavoro. La manovra era facile e ordinata: freni tirati; compensatori a posto, con le righe bianche di controllo combacianti per la posizione di decollo; flap su; ripetitore della bussola escluso; serbatoi pieni; leva di comando del carrello abbassata e bloccata; alette del radiatore aperte al massimo per il raffreddamento del motore in decollo, maschera dell'ossigeno attaccata e bretelle bloccate. Tuck urla: «In moto» e spinge i due bottoni del pannello di destra mentre lo specialista preme a sua volta il comando di collegamento dell'impianto di bordo con il carrellino delle batterie a terra. L'elica comincia a girare;dà un paio di scosse, poi si muove più velocemente e qualche sbuffo di fumo, bianco e nerastro, esce dagli scarichi; di colpo il motore Rolls-Merlin si mette in moto con i suoi milleduecento cavalli e una,ventata penetra all'improvviso nell'abitacolo aperto. La spina degli accumulatori viene estratta dalla presa di bordo e lo specialista salta a terra dall'ala; Tuck dà un' occhiata al velivolo del maggiore e vede che Bushell sta già rullando per portarsi in posizione di decollo. Dà il segnale di partenza alla sua squadriglia, molla i freni e spinge la manetta: il motore prende a rombare più forte e, mentre specialisti e avieri salutano augurando buona fortuna, comincia il rullaggio Cinque Spitfire lo seguono, mettendosi in posizione... il 92° decollerà in due pattuglie di sei velivoli, ciascuna delle quali comprende due « V» di tre; negli auricolari giunge la voce del comandante di gruppo che ordina: « Decollo! » Bushell sta già correndo sull'erba alla testa dei primi tre velivoli e quasi subito l'altra terna lo segue. Tuck frena, li guarda levarsi nel cielo sereno, poi dà motore fin quasi al massimo, la sua pattuglia prende velocità e si fa sempre più 'leggera; tira legger¬mente la leva, il velivolo risponde al comando e ab¬bandona ii prato che gli scorre sotto; subito, levata la mano dalla manetta e afferrata con quella la leva, porta l'a:ltra sul comando del carrello e lo fa rientrare, poi ridw:e motore, chiude il tettuccio e lo fissa per mezzo dell'apposito galletto. Uno sguardoal'le spalle... gli altri velivoli sono in ordine; dà allora un'occhiata al cielo e scorge i sei velivoli di Bushell leggermente avanti sul,la sinistra: comincia allora ad avvicinarsi lentamente al suo comandante. Tuck e il 92° Gruppo sono in volo... stanno andando verso il loro primo combattimento: sono le 10.50 e, sebbene Tuck non lo sappia, è il suo ultimo giorno da comandante di squadriglia. I suoi sei Spit tagliano la strada e si stringono a quelli di Bushell, che si mette in rotta diretta per Dunkerque. Il famoso tiratore accende il collimatore: un cerchietto color arancio-rossastro e due sbarrette compaiono nel vetro inclinato davanti ai suoi occhi; la distanza tra le due righe poteva essere variata a piacere, facendo girare l’apposita manopola, per adattarla alla larghezza dell'apertura alare del velivolo nemico. Tutto funziona a dovere: aveva anche inciso una tacca sul parabrezza in modo da poterla adoperare come linea di mira se per caso il collimatore si fosse spento ed era situata in modo da non dover nemmeno spostare la testa, se avesse dovuto farne uso. L'armamento delle sue mitragliatrici è preparato in modo speciale: infatti vi ha fatto mettere un percento maggiore del prestabilito di pallottole De Wilde, un tipo di perforante-incendiaria-tracciante. Questo munizionamento sporca moltissimo le canne, ma Tuck lascia che di questo si preoccupino i suoi armieri perché lo ritiene ben più efficace di quello normale. Toglie la sicura alle armi mentre il gruppo, che sta facendo quota, supera le coste inglesi a millecinquecento metri. I dodici Spit salgono nell'azzurro verso il sole mattutino... 2000, 2500 metri; la radio tace e l'unico rumore che si sente è quello del motore, che romba sicuro; sotto di loro navi e barche ondeggiano, lasciandosi dietro una leggera scia. Un velo di fumo si leva dalle coste... ancora lontano davanti a loro... Dunkerque! Si vede da molto distante. La formazione, appena un poco più allargata, continua la sua rotta verso il porto di scampo. Tuck vede diversi Hurricane, sotto di lui, che se ne tornano alla base dopo aver effettuato le prime crociere e intanto l'indicatore di velocità comincia a salire fino a raggiungere le duecento miglia, la velocità di crociera la salita è terminata. I piloti si contorcono sui sedili cercando di tener d'occhio sia il cielo sia le spiagge sottostanti, profondamente interessati al dramma che vi sta accadendo. Quando sono sul porto, Bushell vira decisamente a sinistra e porta il gruppo a risalire la costa; non vi sono nemici in vista, ma tutti ne sono alla ricerca... aspettandoli. Il maggiore si mette parallelo alla spiaggia tenendosi a 2500 metri di quota e andando avanti e indietro in modo da eseguire quella che gli ordini descrivono come una «crociera offensiva »; in quel momento però non vi sono velivoli nemici contro i quali svolgere azioni offensive e il gruppo continua il suo pattugliamento. Un batuffolo nero fa la sua comparsa nei dintorni: la flak! Altri vi si aggiungono... abbastanza lontani dalla loro rotta; i tedeschi stanno sparando da una certa distanza, i caccia non sono in pericolo immediato e Tuck ha anche il modo di dare un' occhiata al movimento che s'intravede in basso. Scorge delle esplosioni di bombe presso le navi che sono lungo la costa; ma dove sono i bombardieri? Scruta il cielo, ma non vede niente; però non può rimanere a lungo a guardare nell'azzurro perché deve anche mantenere la formazione e guardarsi alle spalle. Non gli piace la formazione stretta che i gruppi della RAF sono stati abituati a tenere anche in prossimità del nemico, perché i movimenti essenziali o immediati divengono pericolosi, come lui sa fin troppo bene, senza contare che riducono il tempo disponibile al pilota per scrutare il cielo d'intorno. Il gruppo incontra una zona di aria agitata; la formazione si allarga, ma subito dopo i velivoli riprendono il loro posto. Tuck non si sente a suo agio. A ogni inversione di rotta, Bushell dà l'ordine per radio; adesso ordina: «Virare a destra. Via! » e i dodici caccia levano verso il cielo l'ala sinistra mentre si preparano a virare di centottanta gradi a dritta. Sono su Dunkerque e Tuck dà un' occhiata a ognuno dei piloti che lo fiancheggiano; per un qualche incognito motivo fa loro un cenno di mano, al quale essi rispondono alzando le due dita in modo da formare la V. Un urlo risuona negli auncolari: non si può fare a meno di sentirlo, è un urlo di eccitazione. Gira di colpo la testa; qualcosa sta succedendo... dietro, sulla sinistra, stanno venendo giù dalle nuvole che sovrastano, veloci... picchiano... sono caccia! Me 109 ! Stanno puntando quasi addosso agli Spit... dirigono proprio su di loro. Tuck. dà motore mentre uno dei suoi velivoli esplode in una fiammata: tutto è successo in un attimo; il silenzio radio viene rotto e diversi piloti gridano avvertimenti; Bushell urla un ordine. È un caos ! I piloti degli Spit reagiscono istintivamente e la formazione si rompe ! Tuck vira violentemente portandosi fuori della linea di tiro, poi torna indietro; il comandante dei caccia nemici, forse lo stesso che ha incendiato lo Spit, passa come un bolide in "mezzo agli inglesi e poi fa una cabrata; poiché ha picchiato da almeno millecinquecento metri di quota il tedesco ha il grande vantaggio della velocità che impiega appunto per mettersi di nuovo più in alto, fuori della portata degli Spit e delle loro otto Browning. Tuck guarda il comandante nemico di fronte a lui, sulla destra in alto e, mentre lo tiene d'occhio, sorveglia anche il proprio settore di coda. Ce la farebbe ad attaccarlo? In un attimo decide di tentare. Gli altri caccia, Spit e Me 109, si stanno mischiando in tutte le direzioni e allora Tuck dà tutto -motore, il Rolls-Merlin ha come un muggito e il pilota restituisce un poco la barra per prendere velocità. Il caccia nemico è davanti, a destra, e lui non lo abbandona un attimo... mentre effettua una stretta virata a sinistra cominciando una picchiata per iniziare un nuovo attacco. Questo è il momento buono per Tuck; mentre il tedesco vira può girare più stretto dietro di lui e tagliargli la strada; piega decisamente il velivolo a sinistra tenendogli il muso basso per acquistare ancora velocità. Il pilota nemico non sembra essersene accorto e inclina ancor più il velivolo mentre lo Spit gli si avvicina con una virata più stretta; Tuck allenta un po' la barra pur tenendola di lato per mantenere la virata e comincia a sentirsi eccitato mentre la sagoma del 109 si avvicina al centro del collimatore. Lavora di piedi e di leva per mettersi in buona posizione di mira; s'inclina ancor più sulla sinistra per spostare il cerchietto luminoso davanti al musetto appuntito del Me 109 che sta, ovviamente, correndo forte; ma la virata interna effettuata da Tuck consente a questi di arrivargli addosso, a portata di tiro. Tutto il suo addestramento, tutta la sua preparazione degli anni che hanno preceduto la guerra hanno valore per questo solo momento, quello del suo primo combattimento della seconda guerra mondiale. Poiché è uno dei migliori tiratori che siano in servizio nella RAF dovrebbe far fare al caccia tedesco, davanti a lui, quello che gli è sempre riuscito di fare contro i bersagli sui quali si è esercitato per tutti quegli anni; ma non ha mai sparato a un essere umano su un altro caccia... fino ad ora. Eccolo a tiro! Ancora un controllo per assicurarsi che la compensazione della virata sia giusta; lo è; poi Tuck preme il pollice, otto Browning si mettono a urlare facendo vibrare lo Spit . Ha sentito molte volte questo rumore e tante volte ha visto il bersaglio rimorchiato sul quale sparava stracciarsi nel vento, tutto sforacchiato dalle sue pallottole; ma non ha mai visto l'effetto del fuoco di otto mitragliatrici su un altro aeroplano. Cosi, mentre l'urlo delle sue armi viene a sovrapporsi al rombare del motore, fissa con l'animo teso il caccia nemico che ha davanti. La prima indicazione dell'accuratezza del tiro gli viene dalle leggere scie lasciate dalle traccianti... vanno tutte a finire addosso al 109, che sta ancora virando a sinistra, ma il cui pilota tira la barra con tutte le sue forze per uscire dalla picchiata. Adesso Tuck vede le pallottole colpire l'ala destra: il nemico gli ha offerto un buon bersaglio... sta infatti cercando di riprendere quota proprio davanti allo Spit che gli piove addosso e al quale offre una bella porzione di superficie alare sulla quale mirare. Le pallottole continuano a centrare l'ala destra e qualche pezzo comincia a staccarsi, perdendosi nella scia; il 109 continua a salire e anche Tuck tira leggermente verso di sé la leva, per seguirlo nella manovra. Adesso è l'alettone destro che si stacca e si perde rotolando e rimbalzando nell'aria, ma le pallottole continuano a penetrare nel velivolo danneggiato, ormai decisamente centrato. L'ala è uno dei punti più delicati del 109 (si sapeva che alcuni piloti tedeschi avevano perso le ali all'uscita da una picchiata) e il fuoco concentrato di Tuck è fatale; il Messerschmitt sembra stia sprofondando e comincia a rimettersi in volo orizzontale. Poi, di colpo, la sorpresa subitanea: l'intera ala destra si stacca dalla fusoliera e cade lentamente verso il suolo mentre la fusoliera, con ancora attaccata l'altra ala, è più pesante e precipita rapidamente. Tuck ha smesso di sparare e guarda affascinato la sua prima vittima di guerra che va in vite cadendo verso la costa sottostante; si dà un'occhiata d'intorno per esser certo di non aver nessuno nei pressi e si mette poi a virare a sinistra e a destra fino a che non vede i resti del velivolo sbattere per terra; l'ala destra sta ancora voltolandosi qua e là, scendendo più lentamente. Allora si guarda alle spalle, guarda in alto, intorno a lui: è rimasto solo; poiché ha inseguito il nemico nell'entroterra si è allontanato dal suo gruppo e, come tutti i caccia isolati su territorio avversario,è in pericolo. Subito si dirige a nord-ovest... verso l'Inghilterra e Hornchurch; ha ridotto il motore fino a portarsi a velocità di crociera, così non ha timore di restare con poco carburante, tranne che non incontri un'altra formazione nemica. Arriva sulla costa di Dunkerque e si butta sull'acqua domandandosi quanti del suo gruppo possano essere stati colpiti, quanti Spit siano stati abbattuti e quanti caccia possa aver perduto il nemico. Un'occhiata all'orologio gli indica che sono le 12.10; ormai è in volo da un'ora e mezzo e, mentre attraversa la Manica, si dà regolarmente delle occhiate alle spalle. Ma nessun velivolo nemico è in vista e allora comincia a rilassarsi e a concentrare il pensiero sulla prima vittoria che ha conseguito contro il più veloce e miglior velivolo di cui disponga il nemico: è un buon inizio! I minuti trascorrono mentre Tuck, riflettendo sull'accaduto, si sente più sicuro di sé e, nell'eccitazione del suo primo successo, quasi arrossisce. Ancora un minuto o due e la costa inglese è in vista... una debole, sottile linea scura sull'orizzonte, davanti a lui. E’ una terra amica e una vista piacevole. Guardando in basso sul mare vede, di fianco, un' ombra che corre da una cresta all'altra verso nord-ovest: alza gli occhi dall'acqua e ne scorge l'origine: un altro caccia. Scruta attentamente la forma delle ali... è uno Spitfire! Così non è del tutto solo, anche se l'altro compagno ha qualche centinaio di metri di differenza di quota. Intanto pigia il bottone della radio e cerca di mettersi in contatto con «Cornflower », il nome in codice di Hornchurch; ma non ha risposta. Chiama di nuovo e questa volta stabilisce il contatto; riferisce la sua posizione e comunica di stimare l'arrivo alla base tra dieci minuti : così, almeno, adesso sanno che il comandante dell'altra pattuglia di Bushell non è stato abbattuto. Taglia la costa e si dirige verso il campo, subito a est di Londra. Il verde della campagna gli sembra risplendente, sfuggendo sempre più veloce sotto le sue ali man mano che perde quota; in pochi minuti avvista la zona dell'aeroporto di Hornchurch e chiede l'autorizzazione per l'atterraggio, che gli viene subito concessa. Fa il suo giro regolare dopo aver abbassato il carrello e i Flap; toglie motore per ridurre la velocità dello Spit ed entra in finale a circa cento metri di quota; la velocità scende ancora man mano che fa alzare il muso e sedere il velivolo... centotrenta, centoventi, centodieci. Il campo è vicino, supera la recinzione, tiene fermo il caccia: toccato ! Barra al ventre, lo tiene diritto lavorando di pedaliera. L'aeroplano rallenta fino a velocità di rullaggio e Tuck si dirige verso il suo decentramento dopo aver aperto il tettuccio; guarda in avanti, vede i suoi uomini che lo aspettano. Arrivato al suo posto fa ruotare il velivolo, poi sorride mentre chiude definitivamente la manetta e il motore si ferma: sono le 12.45. Tutto il personale gli si affolla intorno per salutarlo, lui fa il racconto della sua prima vittoria e, mentre riceve le congratulazioni, si rende conto della grande attività che regna dappertutto. Gli specialisti stanno approntando altri Spitfire nei suoi pressi e qualche pilota sta già accanto ai velivoli: Tuck è stato uno degli ultimi a rientrare, ma il personale di terra sa che potrebbe venir richiesta un'altra crociera Corre alla baracca, dove spara una serie di domande agli altri piloti, che ne rivolgono altrettante a lui. Parecchi di loro hanno riportato delle vittorie e la maggior parte del gruppo è rientrata ed è in salvo; manca Pat Learmond e Bushell è molto addolorato della perdita, come lo è anche Tuck. S'informa del perché corra voce di un'altra pattuglia: gli rispondono che il gruppo è di allarme per un' eventuale nuova crociera su Dunkerque! Descrive la sua vittoria all'ufficiale addetto alle informazioni e a qualche altro camerata e gli vien detto che nel feroce combattimento del mattino sono state denunciate cinque vittorie, contro la perdita di un solo Spitfire: tutti sono soddisfatti della proporzione. Tuck, dopo aver ricevuto le congratulazioni, va a far colazione poi se ne torna al decentramento; ma non arrivano altri ordini e il tempo trascorre lentamente: le ore passano, le tre, le quattro, le cinque del pomeriggio. ************ Poi, una chiamata dall'ufficio operazioni: decollo! Di nuovo si butta di slancio fuori della porta e corre al suo Spit; per la seconda volta Bushell è alla testa di sei caccia e Tuck lo segue con altri sei. Sono le 17.20. La rotta è la stessa e il gruppo punta di nuovo sulle spiagge di Dunkerque; le vittorie della mattina hanno aguzzato i loro appetiti e tutti si sentono stimolati. I dodici Spit (un pilota di riserva ha preso il posto di Learmond) attraversano la Manica e, ancora una volta, Tuck accende il collimatore e leva la sicura alle armi: non hanno combattuto per nove mesi e adesso stanno facendo la seconda crociera della giornata! Secondo Tuck la formazione è ancora troppo stretta; ma lo stile è tuttora una cosa sacra nella RAF e il gruppo, ben compatto, fa quota e si dirige sul porto; dopo pochi minuti la cortina di fumo è di nuovo visibile, davanti a loro, poi anche Dunkerque appare in vista. I velivoli, adesso a tremila metri, virano al comando di Bushell e iniziano il volo di pattugliamento; sono le 17.45 e il sole sta scendendo verso occidente. Tuck, pur tenendo il suo posto informazione, scruta il cielo, specialmente verso l'alto, dato che loro sono alquanto bassi proprio per proteggere le truppe e le navi. Questa situazione lascia troppo cielo libero verso il sole e i piloti ricordano la frase abituale dei cacciatori alleati della prima guerra mondiale: « Attento al tedesco contro il sole». Il pomeriggio è limpido e tutta l'attività, intensissima, delle truppe, dei veicoli e delle navi, è chiaramente visibile sotto di loro. Urla negli auricolari! Tuck intercetta una delle voci che avverte «alcuni nemici in picchiata dall'alto»: sono diversi i piloti che li hanno visti contemporaneamente. Alza la testa e guarda in su; Bushell ordina una virata a sinistra per buttarsi in una specie di «Lufbery»! una manovra difensiva. La tensione aumenta mentre l'ordine viene eseguito; i piloti... tengono d'occhio il cielo sopra di loro; Tuck scorge delle macchioline nere che stanno piovendo dall'alto a gran velocità... sono più grandi dei soliti caccia monomotori: vede poi che hanno due gobbe, una per ala... ma non sono bombardieri, non stanno attaccando in picchiata. Me 110! Sono i caccia tedeschi bimotori! È la prima volta che li vede; sono armati con cannoncini e mitragliatrici anteriori e hanno un mitragliere con un'arma brandeggiabile alle spalle del pilota. Mentre Bushell mantiene i dodici Spit in uno stretto cerchio, Tuck li guarda venire avanti: la loro formazione è grande... venti o trenta, ma non ha tempo da perdere a pensare agli svantaggi perché il capopattuglia punta direttamente contro gli Spitfire. Le sue armi prendono a fiammeggiare e le traccianti innaffiano il cielo verso gli Spit, sempre circolanti. A questo punto i piloti del 92° Gruppo cominciano a manovrare ciascuno per proprio conto perché altri 110 stanno arrivando dietro al capo formazione, pronti per l'attacco; tutti cercano di salvarsi le spalle e di sfuggire al fuoco mettendosi nel con tempo in posizione per attaccare a loro volta gli assalitori. Tuck vira violentemente per evitare una raffica nemica mentre alcuni Spit, che si trovano in posizione di poter sparare di muso contro gli attaccanti, aprono il fuoco; lui cerca un bersaglio, una vittima; deve virare ancora, strettissimo, per evitare un 110 che attacca dal basso, poi un altro ancora... si rende conto che anche i 110 stanno mettendosi a virare, per battersi contro gli Spitfire: non hanno alcuna intenzione di passare, sparando, attraverso la formazione per poi sparire in picchiata. I combattimenti isolati si accendono da tutte le parti. A un tratto una forma scura gli compare davanti al muso, quasi di fronte, proiettata verso l'alto... è un bimotore... un 110! La mano sinistra di Tuck sbatte in avanti la manetta del motore mentre il 110 sta inclinandosi leggermente: il suo mitragliere posteriore, sorpreso, scorge lo Spitfire proprio dietro di loro e, subito, gira la mitragliatrice e comincia a sparare. Tuck vede le traccianti che gli vengono addosso mentre sta freneticamente lavorando di leva e pedaliera per prendere di mira il caccia nemico. Troppo tardi: zeng! Zeng! sente i colpi... vede le traccianti venire diritte verso di lui che, istintivamente, china la testa per un secondo... sente puzzo di cordite... è colpito. Deve far subito qualcosa... un'occhiata veloce attraverso il collimatore... le ali del 110 sono a tiro... il pollice preme il bottone di sparo; nel frattempo qualche pallottola rimbalza sul parabrezza corazzato e qualche altra penetra, alle sue spalle, nell'abitacolo... da dove viene il puzzo di cordite. Il suo fuoco, più formidabile (otto armi contro una), rovescia la situazione... le De Wilde colpiscono dappertutto il Me 110 la cui struttura è leggera, le perforanti-incendiarie sfondano le vetrate del compartimento del mitragliere posteriore, che ora non spara più: quel viso coperto dal casco nero non lo sta più guardando e la mitragliatrice è ferma. Tuck, però, è adesso arrivato molto vicino mentre il 110 stringe al massimo la virata... preme ancora il pollice sul bottone e questa volta la raffica di traccianti investe in pieno il motore di sinistra; da cosi breve distanza i suoi colpi sfasciano l'ala e la navicella del motore stesso (le sue armi sputano pallottole al ritmo di oltre un centinaio al secondo). Questo è troppo per il caccia nemico, che comincia a emettere un sottile filo di fumo dalla sinistra; il 110 vacilla... da una parte e dall'altra; il pilota ha perso i comandi o è morto. Il Messerschmitt si rovescia di fianco. Tuck smette di sparare e guarda... è quasi arrivato in coda al nemico, che ha il ventre in alto... poi il muso punta la terra e il rottame cade verso la spiaggia mentre una scia di fumo, che esce dal motore sinistro, ne segna la discesa in candela. È la seconda vittoria! Il combattimento sta ancora infuriando intorno a lui; questa volta non è solo, come lo è stato quella mattina dopo la sua vittoria sul 109. Da ogni parte può vedere i caccia che picchiano o che virano... negli auricolari gli giungono delle urla e degli avvertimenti di non usare troppo la radio. Grida un ordine per radio, ma le voci continuano. Cerca di portarsi nel centro di tutta quell'attività... ma in quel momento gli passa vicino uno Spit, quasi addosso a un 11O che cerca di sfuggire; riconosce Tony Bartley... che sta quasi mangiando la coda del nemico con l'elica mentre il 110 incassa colpi. Di fianco c'è una vista poco incoraggiante: uno Spitfire che precipita in fiamme: pensa che sia il sergente Klipsh; non vede nessuno saltarne fuori e rimane con quel pensiero quando... zeng! Zeng! Zeng! Colpito di nuovo! Tuck alza di scatto la testa... eccolo, davanti: gli sta piovendo addosso un Me 11O con il bordo d'attacco dell'ala scintillante per gli spari delle armi. Prende di mira la sagoma che sta avvicinandosi, con qualche breve manovra di leva e pedaliera, poi preme il pulsante di sparo. Il 110 arriva... ritiene di scorgere i propri colpi andare a segno, ma quando ci si scontra di fronte si vede poco e il velivolo nemico offre un bersaglio molto piccolo: soltanto i motori e la linea sottile delle ali. I due caccia si avvicinano a quasi seicento miglia l'ora e Tuck ha appena qualche istante ancora... le sue pallottole fanno centro... ma ormai stanno per scontrarsi: sta puntando diritto contro la macchina nemica... nessuno dei due piloti cambia assetto e ambedue continuano a sparare. Non vogliono offrire all'altro un bersaglio più grande dando una strappata ai comandi: in un certo senso, è tutta questione di nervi. Tuck china la testa sapendo che si scontreranno; si avvicinano... sono passati: il caccia nemico lo ha sfiorato sopra o sotto, Tuck non lo sa con esattezza. Si guarda alle spalle... eccolo! Il 110 sta virando verso est, si dirige nell'interno, sta andandosene... non torna indietro. Tuck ha sparato una gran quantità di munizioni, ma forse ne ha ancora abbastanza... se riesce a raggiungerlo. Piega a destra e picchia; il nemico sta anch'esso picchiando, diretto a oriente; ha più di un miglio di vantaggio e Tuck guadagna qualche poco nella virata. Lo Spit va ancora a tutto motore; il 110 non è veloce come il 109 e Tuck, picchiando con l'elica al massimo dei giri, guadagna terreno. Il nemico deve averlo visto perché picchia sempre più mentre lui lo insegue, avvicinandosi velocemente: lo vuole agguantare, e presto. Il 110 è quasi a terra, ovviamente diretto al proprio campo e il mitragliere è chiaramente visibile, di fronte a lui, in attesa con l'arma già puntata. Ben presto è a tiro. Il 110 sta pelando le cime degli alberi e lo Spit si avvicina ancora: cinquecento metri, quattrocento. Tuck lo ha collimato e tiene fermo il proprio velivolo. Il pilota nemico tenta di togliersi di mira, muovendo i timoni di fianco e facendo lievi accostate; ma Tuck aspetta e poi riprende a puntarlo... più vicino, sempre più vicino, con qualche correzione... adesso... è a tiro. Fuoco! Le traccianti volano verso il 110 e il suo mitragliere, arcuando leggermente la loro traiettoria nel vento. Zeng! Tuck sente un colpo; un altro gli si viene a schiacciare contro il parabrezza: il mitragliere nemico è un buon tiratore. Sono cosi vicini alle cime degli alberi e ai tetti che un piccolo sbaglio può essere l'ultimo. Vede i suoi colpi entrare nel 110, ma il pilota nemico vira e s'inclina: Tuck spara ancora, una breve raffica; l'avversario si butta ancora più basso. Proprio davanti... una linea ad alta tensione e il tedesco vi passa sotto; lui invece esita e poi tira su all'ultimo momento: cosi facendo espone il ventre del velivolo, l'armiere nemico spara immediatamente e Tuck sente i colpi che gli arrivano sotto. È stato preso. Deve eliminare il mitragliere prima che lo Spit sia colpito gravemente su territorio nemico: picchia di colpo inseguendolo; il pilota tedesco tenta ancora azioni evasive, ma questa volta Tuck gli si attacca addosso con una violenza feroce... prende la mira... è a tiro... sta volando diritto e livellato: fuoco ! Tuck non sa bene quante munizioni gli siano rimaste, ma sa che deve, per prima cosa, eliminare il mitragliere. Lo Spit gli è quasi addosso: vede i suoi colpi entrare nella parte posteriore dell'abitacolo, l'armiere cade di colpo e la lunga canna si affloscia di lato senza più sparare: lo ha fatto fuori ! . Anche il pilota se n'è accorto e vira bruscamente, ma Tuck lo segue. Il Me 110 è alla sua mercé; si sta dirigendo verso un campo aperto che gli si apre davanti: gli si mette in coda e sta quasi per sparare di nuovo quando il 110 si abbassa, si abbassa sempre più... diminuendo la velocità. Lo sta sorpassando e allora vira di fianco. Il 110 sta atterrando; guarda il bimotore sfiorare il prato, toccare terra... scavare un solco in mezzo a una nuvola di polvere e di fango. Tuck vira di nuovo e si mette a girare attorno all' aeroplano ormai fermo; il pilota ne salta fuori, sano e salvo e rimane vicino al suo velivolo a guardare lo Spitfire che vola basso. Un buon pilota... ma lo Spit era troppo veloce per lui. Tuck gli passa sopra con i flap abbassati... apre l'abitacolo e saluta con la mano il nemico sconfitto. Ma un foro appare d'un tratto nel fianco del tettuccio: un colpo attutito e un buco; guarda in giù: il pilota nemico è in piedi con qualcosa in mano. Gli ha forse sparato? Tuck sente bollirsi il sangue: vira di colpo e si butta a terra mirando al 110 sfasciato e al pilota che gli sta vicino; prima che questi abbia il tempo di muoversi, o si possa rendere conto di quanto sta facendo, lo Spit gli è sopra, a pochi metri di quota. Tuck preme il bottone; ha ancora delle munizioni e le armi sputano uno zampillo di pallottole: il fango saltella e il 110, squarciato, s'incendia. Tuck non sta a vedere che cosa accade al pilota nemico, ma questa volta nessuna pallottola colpisce il suo caccia: si mette a cabrare e si dirige verso la costa. Comincia adesso a risentire gli effetti del combattimento e della lunga giornata; è solo e molto addentro in territorio nemico: deve perciò arrivare alla base senza farsi scoprire. Mette la prua a occidente e continua a far quota ,controllando continuamente il cielo alle sue spalle; per sua fortuna è del tutto libero. Non ha molto tempo da dedicare al pensiero di tornarsene con due vittorie... tre in un giorno! È troppo dedito alla navigazione, al livello del carburante e al nemico. Mentre prende quota gli si scopre davanti la costa; Dunkerque è di fianco: vira a nord-ovest e ben presto passa veloce al di sopra della spiaggia... diretto in Inghilterra. Dopo qualche minuto si sente più sicuro, ma continua a guardarsi alle spalle; poco distante un altro velivolo, sulla stessa rotta... è uno Spit. Si dirige verso di lui: è uno del 92° Gruppo, è Tony Bartley! Avvicinatosi all'aeroplano vi vede molti buchi, ma nel frattempo Bartley lo chiama per radio per dirgli che il suo caccia è molto malridotto! Si mettono in coppia e si dirigono verso Hornchurch; la costa inglese è visibile davanti a loro e poco dopo la sorvolano... ambedue i motori funzionano ancora bene. Però le lancette degli strumenti stanno andando verso il rosso, sul velivolo di Tuck; pare che stia perdendo anche le ultime gocce del liquido di raffreddamento; il Merlin continua a girare, ma il suo rombare comincia a suonare in falso, senza contare che le temperature continuano a salire di momento in momento. Ecco il campo! Bartley gli è accanto e Tuck gli dice di essere nei guai; Tom risponde che lui può attendere e gli suggerisce di atterrare subito. Chiude un po' la manetta e picchia leggermente, ma proprio in quel momento il motore si mette a zoppicare e non ne vuol più sapere: dà un'occhiata agli strumenti: tutte le lancette sono sul rosso, al massimo: bisogna fermarlo. Deve atterrare subito, senza stare a seguire il circuito, diritto come si trova. Abbassa il carrello e guarda l'indicatore di velocità che cala rapidamente, poi picchia e si mette in volo planato: non ce la fa ad arrivare nella consueta striscia di atterraggio... è troppo corto. Il motore borbotta, cigola e si arresta definitivamente. Non può più contare sul suo aiuto, deve atterrare a tutti i costi; potrà arrivare giusto giusto sul prato che è accanto alla torre di controllo. Tira la leva, lavora di piedi... rimbalza un po', ancora... poi rulla diritto, con l'elica in croce; lo Spit tende ad andare a destra e Tuck deve fare continuo uso del freno sinistro per tenerlo diritto, oltre che del timone di direzione: evidentemente la gomma destra è a terra. Riesce a evitare di fare una cappottata e finalmente il caccia cosi mal conciato si ferma. Tuck si alza lentamente dal posto di pilotaggio dopo essersi slegato e avere slacciato cinghie e cavi; poi scende sull'ala sinistra e allora può vedere bene i buchi che ha riportato nella fusoliera e nella velatura. Il primo ad arrivare è Bouchier, il comandante della base, che appare agitatissimo: urla a Tuck di togliere subito di lì il caccia. Evidentemente indignato ricorda al pilota che deve sapere benissimo come sia vietato parcheggiare gli aeroplani in quel punto; Bouchier teme che altri velivoli debbano atterrare e potrebbero andare a sbattergli contro. Mentre ancora sta camminando a gran passi, urlando in continuazione di levare di lì l'aeroplano, dà un'occhiata allo Spitfire e tace di colpo. Vede poi la gomma sgonfia, i buchi e i danni sparsi qua e là dappertutto, si rende conto dell'assurdità di tutta la scena e a un tratto si mette a ridere, quasi senza accorgersene. Ride così forte e così di gusto che anche Tuck si mette a ridere con lui.. ************* Dopo quel primo giorno di combattimento, Tuck continuò la sua dura guerra contro la Luftwaffe per quasi diciotto mesi; in molte altre occasioni, durante questo periodo, si portò vicinissimo al nemico, rischiando molto e incassando colpi pur di distruggere l'avversario. nel gennaio del 1942, venne abbattuto dal fuoco dell'artiglieria contraerea mentre stava mitragliando obiettivi terrestri nei pressi di Boulogne. In quel momento aveva ventinove vittorie confermate. Fu catturato dai soldati tedeschi, ma solamente dopo aver attaccato di nuovo la postazione che lo aveva colpito, distruggendola con tutti i serventi e il veicolo che li portava. Poco dopo ebbe un'interessante conversazione con un pilota tedesco che era il comandante della caccia della Luftwaffe che si batteva contro la RAF: il tenente colonnello Adolf Galland. Questi aveva già avuto notizia di Tuck perché, nell'ultimo scontro che avevano avuto, lo aveva quasi preso di sorpresa alle spalle. Gli aveva mandato l'invito per una cena alla mensa del 26° Stormo la sera stessa della sua cattura; nel riceverlo egli fece notare che nel loro ultimo incontro era stato quasi sul punto di ucciderlo. Tuck si mise a riflettere e poi si ricordò di quel volo: era alla testa del suo stormo che effettuava una crociera offensiva sulla Francia ed era stato preso di sorpresa da dei 109 che gli erano piovuti addosso dall'alto. La coppia di testa della formazione tedesca era passata attraverso tutte le pattuglie degli Spit buttandosi direttamente sul comandante britannico, Tuck. Questi, all'ultimo momento, aveva virato disperatamente, ma il Messerschmitt, che gli era ormai in coda, aveva abbattuto il suo gregario; a sua volta, Tuck aveva abbattuto quello di Galland. «Cosi, era lei» disse Tuck. «lo feci fuori il suo gregario mentre mi passava davanti» Galland gli aveva risposto: «E io avevo fatto fuori il suo, il che ci mette, come dite voi? sullo stesso piano ». Tuck venne inviato in un campo di prigionia (lo Stalag Luft III) dove ritrovò Bushell, Douglas Bader e molti altri. Sfuggi alla morte in diverse occasioni soltanto per la sua buona fortuna: una volta, quando avrebbe dovuto partecipare a quella che, fin da allora, venne conosciuta come «la grande fuga» (esiste un libro con questo titolo, scritto da Paul Brickhill, che narra tutta la storia nei suoi particolari) fu trasferito per due settimane in un altro campo. La fuga avvenne com'era stata progettata e settantasei prigionieri evasero attraverso una galleria che avevano scavato; furono però tutti ripresi, compreso Roger Bushell, meno tre e furono poi uccisi dalla Gestapo. Dopo diversi tentativi gli riusci alla fine di scappare da un campo della Polonia, nel tremendo gennaio del 1945; per settimane e settimane, insieme ad altri fuggitivi, si diresse verso est, incontro alle armate russe che avanzavano. Diverse volte fu sul punto di rimanere intrappolato dalle truppe tedesche ma, alla fine, congelato in più parti e quasi morto di fame, incontrò i russi che, prima di accettare per vero quello che raccontava loro, stavano per sparargli; non riuscì a ottenere di essere spedito a Mosca e fu invece obbligato a combattere con loro contro i tedeschi per due settimane, rifacendo all'incontrario la strada che aveva percorso nella sua fuga. Sfuggito finalmente anche ai sovietici riuscì a scappare dalla Polonia fino in Russia, dove gli fu possibile telefonare all'ambasciata britannica a Mosca; qui gli dissero di prendere il primo treno per la capitale, il che fece immediatamente. Da Mosca venne mandato a Odessa dove s'imbarcò su un piroscafo diretto in Inghilterra. Il totale delle vittorie realizzate da Tuck è notevole per il fatto che, anche alla fine della guerra, si trovava all'ottavo posto nella classifica dei cacciatori della RAF, nonostante che fosse stato prigioniero per tre anni! Nel periodo successivo al conflitto era stato riconosciuto come uno dei più valenti piloti bellici sia dal suo antico nemico, Adolf Galland, sia dai suoi stessi compagni. Ricevette la DSO, la DFC e due barre e la decorazione americana DFC: quel ragazzo che stava per essere esonerato dalla scuola di pilotaggio ed era stato oggetto di particolari cure da parte dei suoi istruttori aveva dimostrato quanto queste fossero state bene spese. The Fighter Pilots
  9. Dave97

    Attacco a Pearl Harbor

    Minoru Genda, capitano di fregata della Marina giapponese all'inizio della seconda guerra mondiale, fu incaricato di elaborare il piano di attacco a Pearl Harbor e di organilzare tutta la serie di esercitazioni necessarie all'impresa. Riportiamo qui la sua viva testimonianza di quei momenti. Nel settembre del 1940 tornai in Giappone dopo un soggiorno di due anni in Gran Bretagna come addetto navale presso la nostra ambasciata di Londra. Al mio ritorno fui assegnato allo Stato Maggiore della prima squadra di portaerei, che stava partendo per le manovre. Verso la fine del gennaio 1941, terminate le esercitazioni, la squadra raggiunse la baia di Ariake, ed io ricevetti un messaggio del contrammiraglio Takijiro Onishi; capo di Stato Maggiore dell'undicesima squadra di portaerei, che mi invitava ad andarlo a trovare, solo, alla base di Kanoya: doveva mettermi al corrente di un affare della massima importanza. Il contrammiraglio mi aspettava nel suo ufficio, con un'espressione grave sul volto. «Dia un'occhiata a queste carte», disse, tendendomi alcuni fogli quadrettati, su cui riconobbi facilmente la bella calligrafia dell'ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della nostra flotta. La lettera descriveva in succinto e senza enfasi quello che si voleva da noi. Ma io, a mano a mano che leggevo, mi sentivo invadere da un profondo turbamento. « In caso di guerra con gli Stati Uniti », diceva la lettera, «non abbiamo alcuna speranza di vincere se non distruggeremo completamente la Flotta americana del Pacifico, concentrata nella rada di Pearl Harbor. Anche con questa operazione io non sono affatto certo della vittoria finale: tuttavia l'azione contro Penrl Harbor è assolutamente necessaria. Penso di gettare contro la flotta americana la prima e seconda squadra di portaerei, e desidero che questo progetto sia messo allo studio. » Il seguito della lettera era ancora più sconvolgente: «Contro Pearl Harbor verrà lanciato un solo attacco. Gli obiettivi saranno le corazzate. Il responsabile delle forze d'assalto sarò io personalmente ». Rabbrividii!!! Certo, un attacco a Pearl Harbor era stato già preso in considerazione, come semplice manovra strategica. Ma il buon senso aveva sempre impedito alla Marina giapponese di pensare davvero a realizzarlo. E adesso, invece, lo stesso capo delle nostre forze navali aveva deciso di metterlo in esecuzione! Terminai la lettura emozionatissimo, e per qualche istante il contrammiraglio Onishi ed io restammo a guardarci senza parlare. Fu infine lui a rompere il silenzio: «Come vede, l'ammiraglio è proprio deciso: per questo lei è stato chiamato qui. Metta immediatamente allo studio questo progetto. Inutile aggiungere che si tratta di un segreto militare di primaria importanza ». Ma io chiesi: «Perché bisogna mirare alle corazzate? Mi sembra che il nostro obiettivo principale dovrebbero essere le portaerei. E che cosa intende l'ammiraglio Yamamoto quando dice che ci sarà un solo assalto? ». Potevo infatti capire che si cercasse di assestare al nemico un unico colpo per mantenere al sicuro le nostre portaerei, che erano poche. Ma spingere l'ingenuità fino a credere di poter annientare la flotta americana senza subire perdite a nostra volta, sfiorava l'assurdo. Dissi dunque chiaramente al contrammiraglio che mi sembrava impossibile affondare le corazzate o le portaerei senza lanciare una seconda ondata di bombardieri subito dopo la prima. Takijiro Onishi mi rispose subito: «Capisco, e ho fatto anch'io lo stesso ragionamento: ma l'ammirglio ha una logica tutta sua, e mira soprattutto all'effetto psicologico di questo unico e folgorante attacco. Bisogna convincere gli americani che sarebbe insensato continuare la lotta con la strategia ordinaria, visto che noi giapponesi impieghiamo metodi del tutto eccezionali. Forse questo metterà fine rapidamente al conflitto: l'ammiraglio è persuaso che una guerra prolungata porterebbe alla distruzione totale del nostro paese ». « Ho capito », risposi. E mi tornò alla mente che l'ammiraglio Yamamoto aveva sempre considerato le corazzate come ornamenti da salotto di cui solo le flotte dei paesi ricchi non sapevano fare a meno, per motivi di prestigio. Ed ora noi eravamo sul punto di liquidare d'un colpo le corazzate americane. Si poteva provare una soddisfazione più grande? Il mio turbamento fu sopraffatto da una vivissima eccitazione. Tornai alla base di Ariake, stabilendo il mio ufficio sulla portaerei Kaga. Pensavo alla pesante responsabilità che incombeva su di me: ero diventato l'arbitro dei destini della flotta giapponese. Non potei impedirmi di maledire la mia incapacità. Per una settimana mi consacrai anima e corpo allo studio dell'impresa. Una tormentosa fatica resa ancor più penosa dalla necessità di mantenere il più assoluto segreto, lavorando al fianco di colleghi persuasi che si stesse progettando semplicemente una nuova manovra per la nostra squadra. Quali sarebbero state le principali forze d'attacco e quanti gli effettivi da impegnare? Lungo quale direttrice muovere su Pearl Harbor, da sud o da nord? Sarebbe stato possibile organizzare rifornimenti lungo la rotta? Bisognava rispondere a questi e a molti altri interrogativi. L'obiettivo, comunque, era unico e preciso: le corazzate. E l'arma più efficace per colare a picco una corazzata era senza alcun dubbio il siluro. Ma il siluro, una volta lanciato, scende sott'acqua per sessanta metri prima di risalire, e la profondità massima della rada di Pearl Harbor era di dodici metri. Difficile dunque prevedere con precisione l'efficacia d'un attacco con aerosiluranti. Yamamoto decide di impiegare le maggiori portaerei Per preparare un piano mi furono di grande utilità i documenti sulle esercitazioni condotte nelle acque di Kashima a cura del Kui Kenkyukai (Gruppo di ricerca sulla potenza delle forze aeree). Sulla base dei dati di cui venni in possesso stabilii un progetto strategico iniziale dell'attacco, dopodiché tornai dal contrammiraglio Onishi. Letto e riletto il mio studio, Onishi mi chiese: «Dunque, la cosa si può fare? ». «Si può fare », risposi; e in verità, date le circostanze, sarebbe stato difficile concludere diversamente. « Magnifico », disse il contrammiraglio con un lieve sorriso. « Il vostro primo gruppo aereo costituirà il nerbo delle forze da impiegare nell'operazione; perciò vi chiedo di inserire, nei programmi di addestramento, tutti gli esercizi preparatori che potranno riuscire utili ai piloti durante l'attacco. » Seppi più tardi che Onishi, dopo qualche modifica, aveva sottoposto il mio progetto all'ammiraglio Yamamoto, il quale verso il mese di aprile ordinò ufficialmente a tutti i membri importanti dello Stato Maggiore di prendere le misure preparatorie in vista di un possibile attacco a Pearl Harbor. Il 10 aprile fu apportato un cambiamento rivoluzionario alla formazione di combattimento della nostra flotta: nacque il gruppo operativo incaricato di lanciare il grande assalto. Le principali unità di questo gruppo operativo sarebbero state le portaerei Akagi, Kaga,Soryu e Hiryu. Ad esse sarebbe spettato l'onore di colpire a morte la mastodontica flotta da guerra americana. Il concentramento delle nostre maggiori portaerei stava a significare l'incrollabile volontà dell'ammiraglio Yamamoto di riuscire nella impresa. lo fui assegnato al comando della forza aerea; il vice-ammiraglio Nagumo ebbe quello dell'intero gruppo ed il contrammiraglio Ryunosuke Kusaka fu promosso capo di Stato Maggiore. Raggiungemmo i nostri posti a bordo dell'unità ammiraglia, l'Akagi. Alcuni giorni dopo, l'ammiraglio Nagumo mi chiamò nella sua cabina, con un altro ufficiale, e a voce bassa ci confidò: «I capi della Flotta hanno immaginato un'operazione senza precedenti: si tratta di un attacco alle isole Hawaii. Noi dobbiamo renderlo eseguibile: studiamo dunque questo problema ». Capii allora che il mio progetto era stato approvato. I piloti si allenano a sganciare siluri nei bassi fondali L'ufficiale che era con me fu sbalordito dall'annuncio e io stesso dovetti simulare sorpresa, facendo una faccia di circostanza davanti a Nagumo, il quale ignorava che il piano d'attacco l'avevo preparato io. Quel tormentoso progetto al quale avevo tanto lavorato due mesi prima, mi tornava finalmente tra le mani. Quando l'avevo portato al contrammiraglio Onishi, esso conteneva queste fra si: « Non ci si può affidare ad un attacco con siluri, che si presenta d'incerta efficacia, né ad un bombardamento orizzontale, durante il quale andrebbero a segno pochi colpi: il mezzo più sicuro consiste dunque nel bombardamento in picchiata». Così avevo concluso. Invece nel piano che mi tornava sotto gli occhi, si prendevano in considerazione anche gli altri due tipi di attacco aereo. Non che io li avessi trascurati: sapevo. bene che non si poteva ragionevolmente sperare di affondare delle corazzate con le bombe da 250 chili utilizzate allora negli attacchi in picchiata. Per squarciare le corazze ci volevano gli ordigni da 800 chili del bombardamento orizzontale. Ma ben pochi avevano la probabilità di andare a segno. Quanto ai siluri, lo scarsissimo fondale di Pearl Harbor ne rendeva l'uso assai discutibile. Comunque bisognava superare tutte le difficoltà, quali che fossero, con approfonditi studi e rigorose esercitazioni. Era la guerra, e bisognava vincerla. Ma occorreva sempre tener nascosto che il nostro obiettivo era Pearl Harbor. Solo pochissimi ufficiali di marina erano al corrente del grande progetto. Altri avevano cercato certamente di sondare le intenzioni dello Stato Maggiore, ricevendo però risposte canzonatorie: « Attaccare Pearl Harbor? E' una fantasia da sonnambuli!». Nel frattempo, il 29 luglio, le truppe giapponesi sbarcarono nella parte meridionale dell'Indocina francese. Cogliendo a volo il pretesto, gli Stati Uniti congelarono i capitali giapponesi depositati nelle banche americane ed organizzarono ai nostri danni il blocco del petrolio, imitati ben presto dall'Olanda e dalla Gran Bretagna. Questo voleva dire l'annientamento della nostra forza navale, per mancanza di rifornimenti, entro pochissimo tempo. Terminai di mettere a punto il piano d'attacco su Pearl Harbor verso la fine di agosto. Secondo i miei calcoli, l'azione doveva essere condotta da 360 aerei: specificai che questo numero era il minimo indispensabile, e che non bisognava ridurlo neppure di una unità. Il 6 settembre si riunì il consiglio di guerra alla presenza dell'Imperatore e si decise di non temporeggiare più. L'apertura delle ostilità con gli Stati Uniti fu stabilita per la fine di ottobre, e i preparativi militari incominciarono immediatamente. Ma già dal primo settembre io avevo assegnato cinque basi, a sud dell'isola di Kiushu, ai 360 aeroplani della prima e quinta squadra portaerei (la quinta squadra, con le nuovissime Zuikaku e Shokaku, era stata aggregata alla prima). Tutti gli ufficiali e tuttii soldati furono sottoposti ad un allenamento severo. I risultati di queste esercitazioni furono così riassunti: «Aerei da caccia: molto bene; bombardamento in picchiata: efficace; aumenta anche l'efficacia del bombardamento orizzontale ». Tra le buone notizie che ricevevo, e che facevano crescere di giorno in giorno le nostre probabilità di successo, l'unica zona d'ombra restava l'aerosiluramento. Proprio come avevo previsto. Gli aviatori continuavano ad esercitarsi sganciando siluri su acque profonde pochi metri, senza capire perché mai lo Stato Maggiore avesse dato ordini tanto stupidi. Verso il 20 settembre si svolse presso la scuola navale di Tokyo, alla presenza dei più alti comandanti della Flotta, una esercitazione figurata con modellini di navi e di aerei. I risultati della finta battaglia furono questi: noi avevamo perduto due portaerei e 127 apparecchi, ma la flotta americana era stata annientata. Ma non tutti i problemi potevano dirsi risolti dopo la battaglia coi modellini. Agire di sorpresa era un imperativo categorico; ma in pratica si poteva realizzarlo? E sarebbe stato possibile organizzare un rifornimento lungo la rotta, condizione essenziale per il buon esito dell'operazione? L'atmosfera della riunione incominciava a farsi pessimistica; lo Stato Maggiore generale esprimeva, nel complesso, parere contrario. Già qualcuno incominciava ad alzarsi per abbandonare la seduta, quando un vecchio ufficiale, Naoto Kuroshima, gridò con voce tonante: « Se i militari discutono la guerra, significa che non la fanno! ». Era un modo di dire molto diffuso tra i marinai. Mi fermai col respiro mozzo. Il vecchio ufficiale aveva detto bene: le snervanti discussioni prima della battaglia, di solito portano a concludere che non vale la pena di battersi. Più tardi venni a sapere quale furibonda reazione ebbe l'ammiraglio Yamamoto, di solito così calmo e sorridente, quando gli riferirono l'esito di quella riunione. «Chi, chi l'ha proposta? », gridò. «Chi è che sogna di poter sbarcare in Malesia o nelle Filippine senza prima aver distrutto la Flotta americana del Pacifico? » Gli obiettarono che l'operazione Pearl Harbor appariva troppo rischiosa, un vero gioco d'azzardo. «Non è affatto un gioco d'azzardo », replicò Yamamoto, « perché se noi non attacchiamo Pearl Harbor non potremo fare la guerra; e se l'attacco non riesce vuol dire che il Cielo ci è contrario. In questo caso dovremo rinunciare alla guerra per sempre! » Ad ogni modo, il 7 ottobre io insistetti presso il vice-ammiraglio Nagumo sulla necessità di rivelare agli alti ufficiali della nostra Aviazione navale ed ai comandanti delle squadriglie il vero obiettivo dell'azione. Così avrebbero potuto allenarsi consapevolmente all'attacco con siluri. Non dimenticherò mai l'espressione di quegli ufficiali quando appresero dalla viva voce di Nagumo, a bordo della Akagi, che si progettava di assaltare Pearl Harbor. Per qualche istante rimasero paralizzati dallo stupore, e poi esplosero tutti insieme in un "oh!" di ammirazione; una specie di grido contenuto, grave e profondo, che sembrava esprimere il senso di potenza da cui si sentivano pervasi. Shiegaru Murata, un fanatico del siluramento, commentò: «Questa sì che è una impresa! ». E quando poi discutemmo della scarsa profondità della rada di Pearl Harbor, che rendeva problematico il lancio dei siluri, essi conclusero: «Ci sono buone probabilità di riuscire egualmente, ma dovremo allenarci con molto impegno in una zona che abbia caratteristiche simili a quelle di Pearl Harbor». Intanto per l'attacco era stata scelta la data del 17 novembre: non ci restavano perciò che quaranta giorni. Tutte le esercitazioni successive ebbero come punto di partenza la base di Kagoshima, situata in una regione la cui topografia ricorda quella dell'isola di Oahu, nelle Hawaii, dove si trova Pearl Harbor. Gli aerei decollavano, poi si mettevano immediatamente in formazione di battaglia sopra le colline di Shiroyama; quindi scendevano ad angolo acuto fino alla valle di Iwasaki. A questo punto viravano bruscamente, sboccavano sul litorale e si gettavano sul mare fino a sfiorare le onde ad un'altezza inferiore ai dieci metri. Gli equipaggi puntavano i siluri sui bersagli e li sganciavano. Questo era l'incredibile tour de force a cui si sottoponevano continuamente, giorno per giorno, i nostri aerosiluratori. All'improvviso lo Stato Maggiore cambia programma Un brutto mattino di metà ottobre, tuttavia, ci giunse una notizia che sconvolgeva completamente tutti i nostri piani. Lo Stato Maggiore della Marina aveva preso una decisione sorprendente: quella di richiamare a sud, per i progettati sbarchi nelle Filippine e in Malesia, le portaerei Soryu, Hiryu ed Akagi. Non solo : era stato anche stabilito uno scambio di equipaggi, cosicché il contrammiraglio Jamon Yamaguchi , sostenitore entusiasta dell'azione su Pearl Harbor avrebbe dovuto condurre a sud le sue portaerei con a bordo piloti nuovi e scarsamente allenati, mentre i suoi piloti, quelli destinati a Pearl Harbor, avrebbero compiuto l'azione agli ordini di un altro comandante. Mentre io spiegavo all'inviato dello Stato Maggiore della Marina che con tre portaerei in meno non avrei potuto attaccare la base americana, Yamaguchi m'interruppe e gridò: «Qualunque cosa mi si venga ad ordinare, io morirò soltanto davanti a Pearl Harbor, non altrove. Che le mie navi vadano pure al sud: io, costi quel che costi, andrò ad attaccare le Hawaii con i miei vecchi piloti ». Poi, in tono addolorato, quasi supplichevole, continuò rivolto all'inviato dell'alto comando: «Signor ufficiale dello Stato Maggiore, forse la decisione è stata presa perché le mie navi, la Soryu e la Hiryu, hanno un'autonomia inadeguata rispetto alla distanza che ci separa da Pearl Harbor? E allora mi si dia soltanto il carburante che occorre per il viaggio di andata. Per il ritorno mi arrangerò; andrò alla deriva, sfrutterò le correnti. Che importa quello che accadrà dopo l'attacco? Signor ufficiale dello Stato Maggiore: io non posso separarmi adesso dai miei piloti, davvero, non posso ». Queste parole mi addoloravano profondamente, ma non potevo fare nulla per Yamaguchi, e cercavo perciò di sfuggire i suoi sguardi imploranti. Il vice-ammiraglio Nagumo e il capo di Stato Maggiore addetto alla spedizione, Kusaka, si rassegnarono a metà, perché non c'era altro da fare: ma Yamaguchi non ci riusciva. Poco dopo, però,l'ammiraglio Yamamoto inviò un messaggio che ci riempì di gioia: « Conformemente ai desideri delle squadre, l’operazione su Pearl Harbor sarà effettuata da sei portaerei, come deciso anteriormente ». A rischio di vedersi togliere il comando, Yamamoto era riuscito ad imporre la sua volontà. Ormai l'azione è decisa per il 7 dicembre Sempre in quei giorni apprendemmo che l'inizio delle ostilità con gli Stati Uniti era stato ancora rinviato. Non più metà novembre: l'offensiva sarebbe stata scatenata ai primi di dicembre. Il rinvio, in fondo, ci faceva comodo, permettendoci di completare l'addestramento dei piloti e la scorta di bombe. Del resto, non eravamo ancora giunti a conclusioni positive per quanto riguardava la possibilità di usare i siluri. Ad ogni modo, nei giorni 2 e 3 novembre eseguimmo grandi esercitazioni preparatorie per l'assalto alle Hawaii, basandoci sui piani di volo ideati da me. Il coordinamento dell'azione riuscì bene, i piloti si comportarono magnificamente, la precisione del tiro risultò soddisfacente. Ero fiero del successo, ma rimaneva da dissipare una nube d'incertezza: non avevamo ancora scoperto il modo di superare la considerevole difficoltà creata ai siluri da quei miseri dodici metri del fondale di Pearl Harbor. Il caposquadriglia Murata, con la testa fra le mani, gemeva: « Niente, niente, non si può fare affidamento che sui bombardieri». E intanto il giorno dell'attacco si avvicinava inesorabilmente. Lo Stato Maggiore generale lo aveva fissato in modo irrevocabile per il 7 dicembre 1941, tempo delle isole Hawaii: 8 dicembre per il Giappone, tenuto. conto della linea di cambiamento di data che attraversa il Pacifico. Per essere pronti l'8 dicembre era indispensabile mettersi in rotta per le isole Hawaii entro l'ultima decade di novembre. Nel programmare l'esecuzione dei piani, decidemmo di contare a rovescio i giorni a partire dall'8 dicembre. La prima squadra di portaerei raggiunse il porto di Sasebo, la seconda quello di Tokuyama, la terza quello di Kure e si fecero gli ultimi preparativi. Superato l’ostacolo dei dodici metri E verso la metà di novembre ero a bordo della Akagi ancorata davanti a Sasebo , mi giunse finalmente un telegramma da Kagoshima, dove i piloti degli aerosiluranti continuavano i loro esercizi. Diceva semplicemente: « Abbiamo superato l’ostacolo dei dodici metri ». A quella notizia non potei fare a meno di urlare: «Banzai!». Potevo facilmente immaginare la gioia dei miei ufficiali a cominciare dal caposquadriglia Murata: usando siluri modificati erano riusciti a metterne a segno 83 su 100, in una zona dove l'acqua era alta dodici metri, precisamente come a Pearl Harbor. Da quel momento ebbi la certezza che tutto sarebbe stato perfettamente pronto al momento dell'attacco e respirai più liberamente. Ma subito dopo mi venne da piangere: era la prima volta che mi capitava da quando lavoravo al progetto. Quel piano era una specie di atto di ringraziamento a tutti coloro che avevano compiuto sforzi sovrumani per giungere al grande risultato. Il 17 novembre, comandanti ed ufficiali del nostro gruppo operativo si riunirono a bordo della Nagato alla fonda nella baia di Saheki. Parlò l'ammiraglio Yamamoto: «lo penso» disse, « che molti di voi siano contrari a questa operazione. Ma senza attaccare Pearl Harbor non potremmo fare la guerra, né aspirare ad un ruolo di grande nazione. La Marina americana è l'avversario più potente che la nostra flotta abbia mai dovuto affrontare nel corso della sua storia. Dal successo di questa impresa dipende l'esito di tutta la guerra. Signori: gli americani sono avversari degni di voi ». Il 23 novembre, mentre le trentadue navi che complessivamente formavano il gruppo operativo erano ormai riunite nella baia di Nossapu, ci fu un'altra riunione di comandanti ed ufficiali a bordo della portaerei Kaga. Fu distribuito il piano d'attacco elaborato da me. Poi parlò il vice-ammiraglio Nagumo. Successivamente i piloti posero allo Stato Maggiore una domanda difficile: «Per impedire che la flotta possa essere localizzata dalle stazioni di ascolto americane, è stato deciso di non usare la radio durante l'attacco. Che cosa dovranno fare gli equipaggi degli aeroplani, in caso di ammaraggio forzato, per invocare soccorso?». Fu il capitano Takehiko Chihaya a troncare gagliardamente la questione: «In quel caso non invocheremo soccorso: moriremo in silenzio». Nel pomeriggio del giorno 25 novembre, tre sottomarini di pattuglia lasciarono il porto di Nossapu. Il cielo prometteva neve. Il 26 uscì la squadra di incrociatori destinata a sorvegliare i mari durante l'operazione. Infine, tutto il grosso delle nostre forze mise la prua in direzione delle Hawaii. Navigammo dritti verso est mantenendo la nostra rotta sui quaranta gradi di latitudine nord. Durante i primi giorni di traversata mi colse una profonda crisi di smarrimento e di dubbio: pensavo alle tremende difficoltà dell'impresa, ero atterrito dalle responsabilità e il mio stato d'animo divenne pietoso. Allora decisi di dedicarmi con accanimento a lavori senza importanza, tanto per riempire le lunghe giornate e le notti insonni che logoravano i nervi. Il giorno 2 dicembre il vice-ammiraglio Nagumo ricevette dall'ammiraglio Yamamoto il messaggio cifrato che confermava l'ordine di attacco: « Niitaka Yama Nobore », che significava: «Scalate il monte Niitaka ». Il dado era tratto. Il Giappone scatenava la guerra. Minoru Genda L’attacco a Pearl Harbor , Mondatori 1973
  10. OK!!! : Io ho pubblicato la recensione in modo da invogliare qualcun altro a leggerlo..
  11. Dave97

    World War II Aces

    Capt. STANFORD TUCK - RAF - L'uomo che forse fu il miglior tiratore dell'aeronautica britannica nella seconda guerra mondiale era un bello ed elegante esemplare di pilota da caccia: Roland Robert Stanford Tuck. Frequentò le scuole di St. Dunstan e, finiti gli studi, entrò come cadetto nella Marina mercantile, spintovi dal suo spirito avventuroso. Non era stato molto brillante nello studio, anche se aveva dimostrato una particolare tendenza per le lingue straniere. Due anni e mezzo di mare lo rafforzarono e l'indurirono permettendogli di migliorare sempre più la sua abilità nel l'uso delle armi da fuoco; aveva imparato a uccidere i pescecani con un unico colpo di fucile, il che era molto difficile. L'interesse di vedere il mondo da bordo di una nave cominciò però a dileguarsi; i bastimenti impiegavano troppo tempo per andare da un punto all'altro. Un giorno del 1935, mentre stava godendosi alcuni giorni di licenza in casa di suo padre, a Catford, gli cadde lo sguardo su un manifesto che eccitò la sua immaginazione: Vola nella RAF! Dovette sottoporsi a una prova scritta, a un'accurata visita medica e finalmente a un esame orale tenuto da cinque ufficiali effettivi. Dopo due settimane di ansiosa attesa ricevette dal ministero dell'Aeronautica una lettera che lo informava che era stato ammesso! Tuck ricevette l'ordine di presentarsi, all'aeroporto militare di Uxbridge, a mezzogiorno del 16 settembre; quell'ordine riguardava trentatré giovanotti, che dovevano permanervi due settimane durante le quali dovettero sorbirsi esercitazioni, conferenze ed esami attitudinali: sei o otto di quelli sono ancora in vita. Da quell'aeroporto Tuck venne poi trasferito alla Scuola di addestramento al volo di Grantham, nella contea di Lincoln, dove, per la prima volta in vita sua, ebbe modo di avvicinare un aeroplano; ne rimase colpito: pareva così fragile a confronto dei bastimenti sui quali era stato da marinaio Ma nonostante questa delusione iniziale, si abituò ben presto alla leggerezza degli aeroplani del 1935. A questo punto il suo eccessivo impeto e la sua premura lo portarono quasi al fallimento. Per sua fortuna, aveva avuto come istruttore il tenente A.P.S. Wills, persona dotata di sensibilità e di comprensione, che si accorse subito che Tuck, così pieno com'era di entusiasmo, non poteva non riuscire nonostante tentasse disperatamente di venire a capo delle difficoltà del pilotaggio. Mentre altri allievi avevano già effettuato il decollo, lui continuava nei suoi voli a doppio comando senza acquisire niente, incapace di rilassarsi. Il suo errore consisteva nell' eccesso delle correzioni sui comandi e nell'incapacità di muoverli con leggerezza, dolcemente. Il tempo di volo con l'istruttore considerato normale era ormai superato e già altri due allievi erano stati esonerati; questo non fece che aggiungere alle difficoltà di Tuck, e alla sua rigidezza di pilotaggio, una grande preoccupazione e una forte tensione nervosa. Wills tentò in tutti i modi di metterlo a suo agio e di tirarlo fuori da quel suo stato di nervosismo; quando doveva correggerlo stava bene attento a farlo come se si trattasse di cosa casuale o lo faceva in tono amichevole, parlandogli tranquillamente dello spettacolo offerto dal terreno sottostante, appunto per distrarlo dalla sua rigidezza. Anche i suoi compagni lo trattavano con simpatia e scherzavano per dargli tono e aiutarlo a rilassarsi, ma ormai aveva già al suo attivo tredici ore di doppio comando e non avrebbe potuto continuare così senza un volo di prova col vice comandante della scuola, il capitano Tatnall. Se non avesse dimostrato qualche miglioramento in questo volo, avrebbe dovuto essere esonerato dal pilotaggio. Tuck sapeva perfettamente, nel suo intimo, di non poter nutrire speranze e divenne perciò più o meno rassegnato al suo destino. La mattina in cui avrebbe dovuto fare il suo ultimo volo la stanchezza e il senso di resa uniti insieme riuscirono a allentargli la morsa delle mani e la pressione dei piedi sui comandi al punto che era quasi ,incapace di muoverli. Quando Tatnall gli ordinò di decollare, rispose come se fosse stato mezzo intorpidito ma, nonostante questo, la partenza fu buona; salì diritto, poi la virata gli riuscì dolcemente; stava volando come se ormai la cosa non lo interessasse più affatto e, di colpo, imparò la lezione fondamentale, quella che non era mai riuscito a capirle fino a quel momento: tutto era facile se non si cercava di farlo troppo alla svelta e brutalmente ! Quanto poco sforzo costava ! Continuò a volare con tranquillità e la speranza si affacciò di nuovo; dopo una quindicina di minuti di volo in sempre deciso miglioramento, Tatnall gli disse di atterrare; quando ebbe toccato dolcemente il prato e il velivolo si fu arrestato, il vice comandante scese dall'abitacolo e gli disse, come per caso: « Decolli ». Fu uno dei momenti più drammatici di tutta la vita di Tuck: invece di essere esonerato, gli era stato dato l'ordine di decollare! Tatnall si allontanò dal velivolo senza tradire il minimo dubbio, l'allievo dette motore e cominciò il suo primo volo da solo. Si sollevò dolcemente e girò intorno al campo, dirigendosi poi all'atterraggio; concentrandosi nell'appena imparato sistema di muovere i comandi con leggerezza si mise tranquillamente in volo planato, toccò terra e rullò ben diritto. Wills, Tatnall e altri istruttori stavano seguendolo ansiosamente stando su un lato dell'aeroporto; qualcuno che stava arrivando allee loro spalle disse: « Ecco davvero una futura promessa ! " Si girarono a guardare e salutarono il capo-istruttore W.A.B. « Jimmy » Savile nei cui occhi brillava un sorriso; anch'esso era perfettamente al corrente della lotta che Tuck aveva dovuto sostenere. Superata questa fase critica iniziale, Tuck non fece che progredire e ben presto giustificò pienamente lo sforzo supplementare che gli istruttori avevano fatto per aiutarlo. Un corso dopo l'altro arrivò alla fine e venne qualificato « eccezionale », il che lo riempì di fiducia; divenne tanto sicuro di se stesso che i superiori presero a considerarlo in diverse occasioni come troppo negligente o anche impudente e, nei due anni successivi, doveva spesso giustificare quei giudizi. Rapido di riflessi com'era, qualche volta azzardava troppo; più di una volta rischiò la pelle finché, nel 1938, venne di colpo rimesso in carreggiata, forse appena in tempo. Era in volo, in pattuglia strettissima, quando all'improvviso incontrarono aria agitata; il pilota che gli era subito davanti ebbe un brusco movimento verso l’alto e Tuck non riusci a evitare in tempo la collisione. La sua elica colpi e uccise sul colpo il collega mentre lui, dati i danni notevoli riportati dal suo velivolo che aveva cominciato a precipitare fuori controllo, dovette lanciarsi. Il tettuccio, però, non si apriva perché anche la fusoliera era stata malridotta e Tuck stava andando incontro a morte sicura, quando l'ala mezzo accartocciata si ruppe, liberando così il tettuccio e permettendogli di saltar fuori dall' abitacolo appena in tempo e con le mani insanguinate per lo sforzo disperato di aprirlo. Mentre stava spingendo a tutta forza per uscire, un pezzo di metallo troncato lo colpì in faccia, lasciandovi una cicatrice permanente e procurandogli una considerevole perdita di sangue. Anche se nove giorni dopo era di nuovo in volo, quell' esperienza era stata tremenda. Nell' aprile successivo si trovò coinvolto in un' altra collisione aerea e riuscì a mala pena a effettuare un atterraggio di emergenza mentre le ali si stavano quasi staccando dalla fusoliera; ma anche in questo incidente non era da biasimare e i superiori dicevano: «È la solita fortuna di Tuck!» Dopo aver portato a termine con pieno successo il suo addestramento, Tuck era stato trasferito al 65° Gruppo East India di Hornchurch nel quale, dopo due anni di permanenza, venne promosso tenente; fu proprio a Hornchurch che gli accaddero quei due, quasi fatali, incidenti di volo. Poco tempo dopo un Tuck alquanto più maturo venne prescelto dal 65° Gruppo per effettuare il passaggio sul nuovo Supermarine Spitfire. Tuck si presentò verso la fine dell'anno all'aeroporto di Duxford, dove Jeffrey Quill, già pilota della RAF e allora capo-pilota collaudatore della Vickers Supermarine Works, lo provò sullo Spitfire. Come tutti quelli che non avevano mai visto prima di allora il nuovo caccia, così tirato a lucido, ne rimase come oppresso; passò un'ora nell'abitacolo con Quill, imparandone le installazioni, i vari comandi e le procedure da seguire prima del decollo. Quando poi fu in volo e si mise a piroettare per il cielo ne rimase conquistato ed entusiasta più di tutti gli altri tipi sui quali aveva fino allora volato. Nel gennaio di quel fatale 1939 se ne tornò a Hornchurch con parole piene di lodi che venivano ascoltate a bocca aperta dai suoi colleghi, i piloti del 65° Gruppo. In quell'epoca, appena sette mesi e tre settimane prima dell'inizio della guerra, Tuck. era uno dei pochissimi che avessero volato su quell'aeroplano; non era certo troppo presto, dato che l'anno successivo ne avrebbe portato uno nel suo primo combattimento sulle spiagge di Dunkerque, quando il Comando caccia vi lanciò, per la prima volta, una massa di Spitfire.
  12. Dave97

    Oltre le Nubi

    OLTRE LE NUBI Fernando Giancotti Ed. Rivista Aeronautica - Roma, giugno 2000 Un'opera prima, che ci auguriamo non rimanga unica, di Fernando Giancotti, pubblicata dalle Edizioni Rivista Aeronautica. Opera inedita e autore sconosciuto per l'intraprendente esordio in campo editoriale della Rivista, da sempre leader nell'informazione e nella diffusione della cultura aeronautica. L'imprimatur è toccato al libro di Giancotti, "Oltre le nubi", una breve raccolta di racconti incentrati sulla figura di Alex, pilota militare, visto in tre circostanze particolari della sua vita professionale. E il racconto, il romanzo breve, rappresenta forse la forma letteraria più efficace per trasmettere sentimenti, sensazioni, emozioni personali, o raccontare fatti ed esperienze circoscritti, in modo che il lettore, anche a distanza di tempo, possa riviverli e farli propri. Alex è dunque l'autore, che è un pilota militare, ma rappresenta tutti coloro che quotidianamente salgono su un caccia ed affrontano lo spazio aperto, lontani dal mondo, in solitudine. Certo, non tutti i piloti militari hanno la sensibilità di Giancotti, né la sua capacità di tradurre in frasi efficacemente compiute, che si compongono poi in pagine fluide ed emozionanti, le sensazioni propriocettive del corpo e le divagazioni della mente impegnati nel volo: ci vogliono doti particolari per riuscire in questo, forse più che per volare. Alex ci avvicina dunque senza enfasi e retorica al suo mondo, ci porta con sé nell'abitacolo del suo aereo, ci confida le sue riflessioni sulla guerra a cui deve prendere parte, ci fa volare di notte tra la luna che sorge «e il ciel gremito di brillanti stelle».
  13. Dave97

    Acrobazia Unlimited

    Jim Leroy Molto bello questo memorial tribute!! Memorial
  14. Dave97

    Acrobazia Unlimited

    Jon Melby Jon Melby first learned to fly at age 8, when he created a pile of leaves in his Duluth, Minnesota lawn, climbed onto the roof of his 2 story home, and jumped like a bird into the leaves. At the age of 12, he had the opportunity to meet the legendary airshow pilot Bob Hoover at a local airshow. Bob Hoover’s sincerity and great personality gave Jon the inspiration to pursue his dream of flying. When he was financially able, Jon made it a goal to achieve his solo in a glider before his 16th birthday. In only 8 flights, he achieved his goal by riding his bicycle 45 miles each hot Arizona July weekend to the nearest glider airport. It was this type of determination that inspired Jon to purchase an airplane at age 19, and then hired an instructor to learn to fly it! He received his pilot’s license by flying every day for a period of 3 weeks, yet eventually yearned to do more in an airplane. In 1996, he purchased a Pitts S2B Bi-plane and spent 3 months training to compete in aerobatic contests. During his first competition against 23 pilots, Jon achieved 3rd place, and in the next two contests he won first and second place, awarding him enough points to become the Arizona State Sportsman champion his first year of competition aerobatics. It was then that Jon knew that aerobatics was his love. Now, flying “extreme” freestyle aerobatics, Jon enjoys flying Airshows, so he can encourage both adults and children to pursue their dreams, much like Bob Hoover did for him.
  15. Dave97

    Aquile Grigie

    Aquile Grigie Alcuni piloti tedeschi, scampati a un combattimento aereo durante la seconda guerra mondiale, si ritrovano trent’anni dopo, negli Stati Uniti. Lo scopo è ricreare lo spirito e le gesta di un tempo, recuperando anche otto velivoli dell’epoca con i quali vendicare la sconfitta subita dagli americani. La squadriglia esordisce provocando il governo U.S.A.e due piloti “Nemici”, stuzzicati, raccolgolo la sfida. Inizia così uno spettacolare, ardito scontro nei cieli, un duello all’ultimo sangue ma condotto secondo un codice cavalleresco.. NB: Sebbene si tratti di un’opera di fantasia, tutti i particolari storici e tecnici sono reali e documentati.
  16. Dave97

    Caduta Libera

    E’ il 23 luglio del 1983. Il capitano Bob Pearson viene destinato al volo 143 dell’ Air Canada sulla rotta Montreal-Ottawa-Edmonton. Prima del decollo Pearson effettua tutti i controlli di routine e non rileva nessun problema tecnico: L’aereo è pronto per il volo. Dopo un breve scalo a ottawa, la destinazione successiva del Boeing 767 è Edmonton, ma mentre l’aereo sorvola il Red lake, nell’Ontario, a 12.000 metri di quota, il motore di babordo si arresta, seguito, dopo una manciata di secondi, da quello di tribordo. E’ una questione di attimi . Il pilota, il suo equipaggio e i passeggeri dispongono di 29 minuti per prepararsi all’inevitabile atterraggio di fortuna. Caduta Libera è la ricostruzione perfetta di quanto accadde in quel breve e allo stesso tempo eterno lasso di tempo che trascorse dall’istante in cui pilota e co-pilota appurarono di essere rimasti senza carburante fino al rischioso atterraggio…… Armenia - Editrice
  17. Dave97

    World War II Aces

    Abbattuto Il giorno dopo, tutto andò storto, sin dall'inizio. Per prima cosa, il decollo si compi in disordine. Lo Squadron che doveva assicurare la copertura dall'alto si disperse, e Douglas. non osò rompere il silenzio radio per richiamarlo. Poi, quando erano a mezza strada sulla Manica, si ruppe l'indicatore di velocità e la lancetta retrocesse sino allo zero, lasciando Douglas, che doveva raggiungere il grosso della formazione sopra Lille, nei guai. Tuttavia decise di preoccuparsi della cosa più tardi e fece salire gli Squadron a ottomilacinquecento/novemila metri, in modo da avere il vantaggio dell'altezza e del sole a favore. Quel giorno dovevano attaccare i caccia tedeschi dovunque li avessero incontrati. Li avvistarono appena superata la costa francese, un poco a sud di Le Touquet, dritti davanti a loro e circa seicento metri piu in basso. Pareva che nessuno di quegli aerei si preoccupasse di guardarsi alle spalle, sicché costituivano dei bersagli ideali. Douglas si tuffò alla testa dei primi quattro aerei, seguito da tutta la muta degli altri, mentre i tedeschi continuavano placidamente a salire davanti a loro. Scelto il secondo aereo da sinistra, Bader serrò le distanze con rapidità sorprendente: pareva che il 109 puntasse obliquamente su di lui, e Douglas capi improvvisamente di aver sbagliato. La velocità era eccessiva, il tempo troppo breve! Stava per entrare in collisione con l'aereo tedesco, e all'ultimo istante agi sulla barra di comando e sul timone, virando brutalmente, sfrecciando avanti senza vedere la carneficina in atto fra gli aerei nemici, mentre gli Spitfires che lo seguivano attaccavano e si ritiravano. Irritato, Douglas riportò in linea il suo aereo a circa settemilatrecento metri, poi guardò dietro di sé solo per scoprire che nessuno lo seguiva. Meglio riguadagnare quota in fretta e raggiungere gli altri, perché era troppo pericoloso trovarsi soli in quel cielo nemico. Poi avvistò altri sei nemici davanti a sé, disposti su tre colonne di due aerei ciascuna, coi musi puntati nella sua stessa direzione. Bersagli facili anche quelli! Douglas sapeva di dover guadagnare quota e lasciarli andare; più volte aveva ripetuto ai suoi piloti di non tentar nulla quand'erano soli. Ma la tentazione era troppo grande. Un'altra occhiata dietro: tutto sgombro. L'ingordigia ebbe ragione della prudenza, e Douglas si lanciò all'inseguimento della coppia al centro della formazione. Nessuno si accorse della sua presenza. Sparò da cento metri, al secondo della colonna, che subito lasciò dietro di sé una lunga scia di fiamme e precipitò bruscamente, scivolando d'ala. Gli altri aerei tedeschi continuarono a volare placidamente: i piloti dovevano essere ciechi. Douglas mirò al capo squadriglia, e da centocinquanta metri gli sparò addosso per tre secondi. Dalla fusoliera si staccarono alcuni rottami, prima che l'aereo lasciasse un pennacchio di fumo denso e bianco dietro di sé e precipitasse. Ma i due caccia a sinistra viravano puntando su Douglas, che a sua volta virò a destra per rompere il contatto, accorgendosi che i due aerei di quel lato continuavano a volare come prima, come se nulla fosse accaduto. Il desiderio di fare una bravata lo spinse a proseguire su quella rotta per passare in mezzo ai due caccia tedeschi. Qualcosa colpi il suo apparecchio. Douglas avverti l'urto, ma la sua mente era stranamente intorpidita e non riusciva a rendersi conto di quel che stava accadendo. Non udiva alcun rumore, ma qualcosa tratteneva il suo aereo per la coda togliendogliene il controllo, e facendolo avvitare. L'aereo sbandò improvvisamente e puntò il muso verso terra; Douglas tirò a sé la barra di comando, che cedette senza resistenza alcuna e andò a sbattergli contro lo stomaco. L'aereo precipitava in vite, e Bader, confuso, guardò dietro per vedere se qualcosa lo seguisse. Dapprima fu stupito, poi terribilmente spaventato nel vedere che il suo aereo era stato troncato di netto dietro l'abitacolo. Il secondo 109 doveva averlo investito, tagliando con l'elica una porzione dello Spitfire. Douglas vide vagamente che l'altimetro scendeva in fretta, che la quota diminuiva rapidamente. "Buttati! Buttati!" Dapprima si tolse il casco e la maschera, poi tirò la pallina di gomma sopra la sua testa; il tettuccio schizzò via e un sibilo frastornante riempi l'abitacolo. Lo spinotto della cintura di sicurezza si staccò, e Douglas si afferrò ai bordi dell'abitacolo per sollevarsi, domandandosi se ce l'avrebbe fatta a uscire, dato che non poteva spingersi con le gambe. Lottando disperatamente, riusci a sollevare la testa oltre il parabrezza, e subito si senti risucchiare fuori dalla corrente d'aria che lo sferzava. La parte superiore del corpo era già fuori. Era uscito dall'abitacolo... No! Qualcosa lo tratteneva per una gamba. Il piede inerte della gamba destra era rimasto impigliato nell'abitacolo, l'aereo precipitava, trascinandolo in un incubo fatto di frastuono, di vento, in un'agonia che pareva non dovesse aver fine, e lui era li, impotente. La caduta continuò... sino a quando i lacci che tenevano la protesi finalmente si ruppero. Douglas fluttuava, tranquillo. Il sibilare e lo sferzare del vento erano cessati. Sulla sua testa il cielo era sempre azzurro, sotto si stendeva uno strato di nubi; Douglas vi sprofondò, lo attraversò in pochi secondi e sotto di sé scorse la campagna verde, chiazzata di macchie dorate là dove il sole filtrava fra le nubi. Qualcosa sbatacchiava, sferzandogli il volto: la gamba destra dei calzoni, vuota, squarciata lungo la cucitura. Dalla fenditura spuntava, indecente, la pelle bianca del moncone. La protesi della gamba destra se n'era andata. "Che fortuna" pensò, "aver perso le gambe e averne di artificiali, sostituibili!" Altrimenti sarebbe morto precipitando con l'aereo. E un altro colpo di fortuna era di non dover atterrare su quella rigida gamba metallica, altrimenti si sarebbe rotto la spina dorsale. Douglas non rifletté che, per prendere terra, gli restava soltanto mezza gamba. La terra, che pochi secondi prima pareva tanto remota, si avvicinava con una rapidità impressionante. "Accidenti! Sto per cadere su un cancello!" Douglas tirò alcune corde per far sfuggire l'aria dal paracadute, per spostarsi lateralmente, e toccò terra goffamente, senza provare altro che un lieve dolore alle costole, quando il ginocchio gli urtò contro il petto. Tre soldati tedeschi, vestiti di uniformi grigie, si chinarono su di lui e lo liberarono dalle cinghie del paracadute e dal giubbotto di salvataggio "Mae West"; poi lo sollevarono e lo portarono di peso fino a un'auto parcheggiata in un viale. Douglas non provava alcun dolore, ma solo una specie di sonnolenza tranquilla. L'auto parti, e dopo un tragitto che parve interminabile, passò rombando sotto un'arcata e si fermò davanti a un edificio di pietra grigia. ******** I tedeschi lo sollevarono ancora, varcarono una porta, salirono alcuni gradini e percorsero un corridoio... Douglas fiutò l'odore ben noto dell'ospedale. Giunti in una sala spoglia, asettica, lo depositarono su un lettino di medicazione del pronto soccorso. Un uomo in camice bianco s'avvicinò.. Nel vedere che la gamba destra dei calzoni era vuota, il medico corrugò la fronte, poi, sollevata la stoffa lacerata, rimase sbalordito. Guardò Douglas, vide i gradi e i nastrini delle decorazioni. Confuso più che mai, mormorò: «Lei ha perso la gamba». Douglas pronunciò le prime parole da quando era precipitato. «Si! Si è staccata mentre uscivo dall'aereo che precipitava. » Il medico tornò a guardare il moncone, cercando di capire come un uomo con una gamba sola potesse essere un pilota di aereo da caccia. «Ach so!» esclamò alla fine. «È una vecchia amputazione. Adesso dovremo toglierle i calzoni. » "E io voglio ridere" pensò Douglas, sollevandosi per quanto poteva, mentre il medico, sbottonati i calzoni, glieli sfilava e restava ancora più esterrefatto a fissare l'apparecchiatura di ferro e di cuoio che serrava il moncone della gamba sinistra. Alla fine, con un sibilo disse: « Ach! Abbiamo sentito parlare di lei ». Due infermieri in uniforme grigia sollevarono Douglas e, fatte due rampe di scale, lo portarono in una stanzetta, posandolo su un letto; poi lo spogliarono, gli tolsero la protesi sinistra, lo avvolsero in una specie di camicia da notte corta e bianca, e dopo averlo coperto, appoggiarono la protesi al muro e se ne andarono. Douglas giacque immobile. Era tutto indolenzito come se fosse stato passato al torchio, la testa gli ronzava come un alveare; appena si muoveva, un dolore acuto alle costole, sotto il cuore, lo faceva soffrire: sembrava che gli frugassero in petto con un coltello. ********* L'alba trovò Douglas in condizioni migliori. Con la nuova luce, cominciò a rendersi conto più chiaramente della propria situazione. Capi dov'era, ricordò cos'era accaduto e fini per rassegnarsi. Bisognava procedere con ordine, e al diavolo tutto il resto: doveva procurarsi altre gambe e far sapere a Thelma che era vivo. La porta si apri e due giovani piloti della Luftwaffe entrarono nella stanza. «Salve!» esclamò in ottimo inglese quello che pareva il più elevato in grado, ed era un conte di qualcosa che Douglas non afferrò bene. «Come sta? » «Benone, grazie.» Douglas rispondeva a monosillabi, ma i due tedeschi chiacchieravano amabilmente; erano venuti da Saint Omer per conversare con lui come fra amici, fra colleghi. «Gli Spitfires sono ottimi aerei. » « Si» rispose Douglas, «ma sono ottimi anche i vostri. » « Mi hanno detto che lei è senza gambe » disse il conte. «È vero» I due tedeschi gli domandarono cosa si provava a volare senza le gambe. Entrò un anziano ufficiale di commissariato, che rimase ad ascoltare, poi, guardando la protesi appoggiata alla parete, osservò causticamente: «Ecco una cosa che in Germania non permetterebbero mai! » Il visitatore che entrò poco dopo era un calvo ufficiale meccanico, e anche lui si imbarcò in una serie di noiose domande sulle sue mutilazioni. Douglas tagliò corto, domandandogli se potevano mettersi in comunicazione via radio con l'Inghilterra. «Senta, non potete chiedere via radio che mi mandino un'altra gamba?» Se lo avessero fatto, Thelma avrebbe saputo che era vivo. L'ufficiale tedesco rispose che quella gli pareva una buona idea. Più tardi entrò un ufficiale della Luftwaffe, alto, sulla quarantina; dopo aver salutato Douglas battendo i tacchi, disse: «Signor comandante, abbiamo trovato vostra gamba ». Entrò un soldato instivalato che, dopo essere scattato superbamente sull'attenti, protese il braccio che sosteneva l'arto artificiale coperto ancora di fango, con la cinghia rotta penzoloni. Contentissimo, Douglas esclamò: «lo vi ringrazio, signori! » Ma poi, vedendo che il piede stava quasi parallelo alla caviglia, brontolò: «Accidenti, è fracassata ». « Molto meno del suo aereo» rispose l'ufficiale. « L'abbiamo trovata fra i rottami. » « Senta» disse Douglas, rifattosi gentile. «Crede che i suoi ragazzi all'aeroporto possano ripararla? » L'ufficiale rifletté, poi rispose: «Forse! Gliela porteremo e sentiremo cosa dicono ». E, dopo uno scambio di complimenti reciproci, l'ufficiale tedesco salutò battendo i tacchi e se ne andò. La mattina dopo l'ufficiale tedesco tornò, camminando sempre impettito come se fosse a una parata, salutò Dpuglas, e mentre stava dicendo: «Signor comandante; noi abbiamo portato vostra gamba » il militare instivalato fece un altro ingresso drammatico, e dopo essersi fragorosamente fermato sull'attenti, porse la gamba. Era molto diversa dalla protesi infangata del giorno prima: pulita e lucidata, col piede fissato solidamente nella posizione giusta. Douglas la prese; la cintura era stata riparata a dovere, con l'aggiunta di un tratto in cuoio di ottima qualità, le ammaccature erano state eliminate, e persino i cuscinetti di gomma della caviglia erano stati sostituiti, ridando elasticità al piede. « Va bene, cosi?» domandò ansiosamente l'ufficiale tedesco. Stupito e commosso, Douglas esclamò: «È un lavoro magnifico! siete stati veramente gentili a ripararla. La prego di ringraziare infinitamente, a nome mio, i ragazzi che hanno fatto questo ottimo lavoro! » Douglas infilò le protesi, scese dal letto, e si mise a zoppicare avanti e indietro per la stanza, sotto lo sguardo degli altri, che lo fissavano incantati. Felici e raggianti, i due tedeschi alla fine se ne andarono. ******** L’incontro con Galland Mezz'ora dopo, l'infermiera tedesca gli portò gli abiti. Douglas cominciò subito a pensare al modo per uscire dall'ospedale. Era ancora li a rimuginare pensieri di fuga, quando tornò il giovane conte, inappuntabile come sempre. Il conte, decorato con la croce di cavaliere, disse subito a Douglas che l'Herr Oberstleutnant Galland, che comandava l'aeroporto di Wissant, vicino a Saint Omer, lo aveva incaricato di porgere i suoi ossequi all'Herr Oberstleutnant Bader, e di dirgli che si sarebbe sentito onorato se avesse accettato di essere suo ospite per il tè. «Non cercheremo di ottenere informazioni da lei» aggiunse sinceramente. «Il comandante desidera soltanto conoscerla. Come dite voi Inglesi, siamo camerati, anche se combattiamo da parti opposte. » Douglas era imbarazzato. Rifiutare sarebbe stata una scortesia; e poi, anche lui desiderava conoscere Galland, col quale, forse, si era già incontrato in combattimento. Quel gesto riportava nei rapporti fra nemici un soffio dell'antica cavalleria, cancellata definitivamente dal concetto moderno della guerra. E, oltre tutto, gli offriva anche l'occasione buona per spiare un po' in giro, per studiare l'organizzazione di un aeroporto nemico. "Chissà ch'io non possa tornare a casa con un Messerschmitt" pensò. « Ne sarò veramente lusingato» rispose. « Gut!» esclamò il conte, raggiante. «Un'auto verrà a prenderla. » L’ auto si fermò accanto a una bella casa colonica di mattoni rossi, davanti alla quale attendevano diversi ufficiali tedeschi. Quella casa era la mensa degli ufficiali dell'aeroporto. Appena Douglas scese, un uomo di bell'aspetto, che aveva circa la sua età, capelli scuri e due baffetti sottili, si fece avanti; dal collo gli pendeva la croce di ferro con fronde di quercia e spade, quasi la massima onorificenza tedesca. « Galland» disse l'ufficiale, porgendogli la mano. Douglas gliela strinse. Gli altri ufficiali si fecero avanti a turno, scattando sull'attenti a mano a mano che gli venivano presentati. Poi Galland gli fece strada. Seguiti da tutti gli altri ufficiali, percorsero il vialetto del giardino e giunsero a uno spiazzo ombreggiato da un pergolato basso e lungo, dove, con grande stupore di Douglas, era sistemata una ferrovia in miniatura, molto elaborata, che occupava la maggior parte dello spiazzo. Galland premette un pulsante, e trenini minuscoli presero a sfrecciare passando davanti alle stazioni in miniatura, superando scambi e segnali, gallerie e trincee. L'ufficiale tedesco si volse a fissare Douglas con occhi sfavillanti, quasi fosse un ragazzino che si diverte un mondo con un bel giocattolo, e l'interprete spiegò: «Questo è il luogo dove l'Herr Oberstleutnant ama trascorrere il suo tempo, quando non vola». Dopo, attraversarono un boschetto e si recarono in un capannone, dove..si trovava un Messerschmitt 109. Douglas rimase come affascinato a guardare l'aereo, e Galland lo invitò gentilmente a salire. Douglas fece stupire tutti per la facilità con la quale prima salì sull'ala, e poi, senza aiuto, afferrata la gamba artificiale, la fece roteare e s'infilò nell'abitacolo. Mentre guardava con occhio esperto gli strumenti sul cruscotto, nella sua mente ribollivano pazzeschi pensieri di fuga con quell'aereo. Douglas si rivolse all'interprete: «Può chiedere all'Herr Oberstleutnant se posso decollare e fare un giro di prova con questo aereo? » Galland rispose ridendo,... e l'interprete tradusse con un sorriso. «Ha detto che, se decollerà, anche lui decollerà subito dietro di lei. » «Sta bene» ribatté Douglas, fissando Galland con il cuore pieno di speranza. «Proviamo, dunque. » Galland rise ancora, e rispose che in quel momento non era di servizio. Quando scese dall'aereo, Douglas si guardò in giro, e scorse il mare, oltre il quale gli parve di intravedere le bianche scogliere di Dover. Per un momento si senti soffocare dalla nostalgia, pensando che l'Inghilterra non doveva distare più di quaranta miglia. Presero il tè nella mensa della casa colonica, e camerieri in giacca bianca servirono panini e vero tè inglese, probabilmente bottino di guerra. Pareva di essere nella mensa di un aeroporto della R.A.F., solo che le uniformi erano diverse, ed era diversa anche l'atmosfera, cosa del resto comprensibile. Tutti sorridevano, si sforzavano di apparire cordiali, ma ci riuscivano soltanto a fatica e la discussione continuava su un tono freddamente convenzionale. Galland regalò a Douglas un barattolo di tabacco inglese, e quando lo accompagnò all'auto, gli disse: «Mi ha fatto molto piacere conoscerla.Temo che lei si troverà meno bene in un campo di prigionia, ma se potrò fare qualcosa per esserle utile, la prego di farmelo sapere ». Poi gli sorrise amichevolmente, gli strinse la mano e lo salutò battendo i tacchi e inchinandosi. Douglas sali in macchina e tornò all'ospedale. Quella sera stessa, un soldato tedesco entrò nella sua camera, e in un inglese semplicemente atroce gli disse: «Herr Kommandant, siete pregato di tenerfi pronto per domattina alle otto, perché dofete essere trasferito in Germania ». Il tedesco batté i tacchi, salutò e, fatto dietrofront, uscì. Douglas rimase seduto sul letto, come stordito Tratto da Reach for the sky
  18. Dave97

    World War II Aces

    L’ incidente Il Mattino del 14 dicembre 1931, un lunedì, era limpido e pieno di sole; l'aria era pungente, e solo a milleduecento metri di quota si notava un leggero strato di cumuli sparsi. Verso le dieci, Douglas Bader stava effettuando acrobazie non lontano dall'aeroporto quando, vedendo due caccia Bristol Bulldog levarsi in volo, rammentò che i due piloti Phillips e Richardson si sarebbero recati all'aeroporto di Woodley, vicino a Reading, per far visita al fratello di Phillips, che aiutava a dirigere il locale aeroclub. Subito decise di unirsi a loro. Mezz'ora dopo, i tre aerei si posavano sulla pista dell'aeroporto di Woodley. Poco dopo, nei locali del club, alcuni giovani piloti tempestarono Douglas di domande sull'acrobazia aerea, e qualcuno lo invitò a esibirsi in qualche figura acrobatica. Douglas rifiutò, adducendo a motivo che l'esibizione aerea di Hendon l'avevano affettuata sui Gamecocks, mentre il Bristol Bulldog era diverso. Mentre si schermiva, rammentava la lavata di testa di Day e le osservazioni sulla sua tendenza a "mettersi troppo in mostra". L'argomento fu abbandonato sino a quando tutti si alzarono per andarsene. In quel momento, un giovanotto tornò alla carica, ma Douglas, ancora una volta, rifiutò. Qualcuno sorrise e buttò là una battuta sui "fifoni". Per Bader, quella fu una sfida. Richardson decollò per primo, seguito da Douglas, collerico e con le labbra serrate. Mentre Phillips si staccava dal suolo, l'aereo di Douglas scivolava fieramente d'ala in una stretta virata, tornava indietro e picchiava per effettuare un passaggio sul campo d'aviazione, mentre un gruppo di uomini stava a guardare dalla soglia del club. Sfiorando la pista, ed esibendosi in un roll a bassa quota, il Bulldog superò la rete che recingeva il campo, sollevò appena il muso e cominciò a scivolare d'ala sulla destra. Douglas stringeva saldamente la barra... timone leggermente alzato per mantenere il muso sollevato... barra leggermente a sé per tenersi in quota... dare gas al momento del rollio per evitare lo stallo. Douglas senti che l'aereo cominciava a perdere quota. Barra completamente in avanti, adesso. Le ali erano verticali e scintillavano al sole, l'aereo scendeva veloce. Douglas stava richiamandolo per iniziare la virata, quando l'estremità dell'ala sinistra toccò la pista e attirò il muso dell'aereo verso il basso. Mentre l'elica e la cappottatura del motore si frantumavano nella collisione col terreno, il motore veniva strappato e rimbalzava sollevando una nuvola di terriccio. Il Bulldog si accartocciò, rotolando su sé stesso; legato al posto di pilotaggio, Douglas non provò alcuna sensazione, udì solo un rumore assordante. Per un istante nulla si mosse nell'aeroporto. Solo al centro ribolliva una densa nube di polvere e terriccio, nella quale s'intravedeva l'aereo distrutto, simile a un ammasso di carta spiegazzata. Mentre la polvere cominciava a diradarsi, gli uomini del club accorrevano verso il luogo del disastro. Al frastuono subentrò un silenzio assoluto. Douglas pensò vagamente che doveva essere precipitato, ma quell'idea gli sfiorò appena la mente; il dolore che provava alla schiena ottenebrava tutto. A poco a poco il dolore diminuì, ma fu sostituito da una fitta lancinante alle ginocchia, simile a quella che si prova quando si urta con un gomito. Douglas abbassò la testa e notò che la sua gamba destra era piegata in modo innaturale; non vide la gamba sinistra, ma non se ne preoccupò. La gamba sinistra era finita sotto il seggiolino, e Douglas vi sedeva sopra. Il piede destro poggiava, ripiegato, contro l'angolo estremo dell'abitacolo; la tuta bianca era lacerata all'altezza del ginocchio e rossa di sangue che fiottava in piccoli zampilli regolari. Fra il sangue e la tela, Douglas intravedeva il ginocchio e un qualcosa che spuntava su tutto. Sembrava la barra di un timone. Molto strano... Il giovane la fissò distrattamente, addirittura con distacco, sino a quando un pensiero improvviso non venne ad assillarlo "Maledizione! sabato non potrò giocare". Ma anche quella preoccupazione dileguò in fretta, sommersa da una calma beata. *************** Nuovamente in Volo Era un venerdi. Douglas rispose subito comunicando che si sarebbe presentato la domenica, poi telefonò al suo sarto per ordinargli una divisa nuova, che doveva essere pronta in una settimana. In quel momento, senti di essere tornato a far parte della R.A.F. Per i voli di aggiornamento si presentò ancora a Rupert Leigh. Dopo aver pranzato ritrovò un altro vecchio amico: Christopher Clarkson, che lo fece volare su un Avro Tutor. Clarkson pilotò l'aereo per primo, poi lo affidò a Douglas, che effettuò un ottimo atterraggio la prima volta, e la seconda ne esegui uno perfetto, toccando terra con tutte e tre le ruote contemporaneamente. Mentre si accingeva a rullare sulla pista per ripartire, Clarkson scese, dicendogli: «L'aereo è tutto tuo, amico». Era venuto il grande momento, e finalmente mi ritrovavo solo alle prese con un aereo. Era il 27 novembre 1939: erano trascorsi quasi otto anni esatti dal giorno in cui ero precipitato. Girai il Tutor K3242 controvento e decollai. Quel pomeriggio lo ricordo chiaramente come se fosse adesso: il cielo era grigio, con nubi a circa cinquecento metri di quota e vento da sud-ovest. Sopra il campo d'aviazione gironzolava un certo numero di aerei, e io mi allontanai da quel traffico……. Poco dopo squillò il telefono nell'ufficio di Rupert Leigh. Afferrato il ricevitore, Leigh udi la voce fredda del tenente colonnello Pringle, capo degli istruttori: «Leigh, sono sceso proprio ora. Mentre atterravo, sono passato vicino a un Tutor che volava capovolto a meno di duecento metri di quota! » Leigh senti il sangue gelarglisi nelle vene. Pringle continuò, sempre col medesimo tono: «So chi è quel pilota. Mi faccia la cortesia di dirgli di non infrangere tutti i regolamenti di volo sin dal primo giorno ». Quando Douglas, dopo l'atterraggio, parcheggiò l'aereo davanti al capannone, trovò il maggiore Leigh ad aspettario. «Non lo faccia più. Per favore, non lo faccia più! » «Che cosa?» domandò Douglas. Leigh gli disse che cosa era accaduto. Douglas non sapeva come spiegargli che, durante il suo primo volo senza istruttore, qualcosa l'aveva costretto a girare l'apparecchio sottosopra a una quota proibita. Del resto, in quel momento, nemmeno lui si rendeva conto che quell'impulso aveva qualcosa a che vedere col suo ultimo volo, quello dell'incidente. II tempo trascorse in continui allenamenti al volo durante il giorno, e in compagnia dei colleghi durante la sera. All'inizio dell'anno nuovo, Douglas ebbe l'occasione di volare con un Hurricane, un aereo adatto a un individualista quale egli era. Il giovane diede gas piano piano, corresse una lieve tendenza a slittare verso sinistra mentre la coda si sollevava, e l'aereo si staccò dal suolo. Sin dall'inizio, si senti un tutto unico con l'aereo, la macchina più maneggevole che avesse mai pilotato prima d'allora, tanto che, dopo appena venti minuti di prove, cominciò a eseguire acrobazie. L'aereo rispose a tutti i suoi comandi, e Douglas se ne innamorò subito. Verso la fine di gennaio, Geoffrey Stephenson, che aveva manovrato abilmente per lasciare l'incarico presso il Ministero, assunse il comando dello Squadron 19, e subito si diede da fare per avere Douglas con sé. Lo Squadron 19 era di base a Duxford, proprio l'aeroporto in cui Douglas credeva di aver detto addio per sempre alla R.A.F., ed era dotato di apparecchi Spitfìre. Douglas non aveva mai volato su quel tipo di aereo, ma per lui la cosa non aveva alcuna importanza, poiché desiderava solo essere assegnato a un reparto il cui comandante non tenesse conto della sua menomazione. Tratto da Reach for the sky
  19. Della trasmissione in questione, posso solo dirti che sono stato un fesso a non registrarla!!!! Link 1
  20. Qualche settimana Fa ,hanno dedicato una buona parte della trasmissione Voyager (Rai 2) ai due fratelli torinesi...
  21. Dave97

    World War II Aces

    L' intercettazione ad Est di Londra Il 29 agosto di quell'eccezionalmente bella estate del 1940 era piovuto, ma il 30 era spuntato col bel tempo sulla Manica, sulle zone meridionali e sul Norfolk. L'aeroporto di Coltishall era situato a nord di Norwich e su quella base di caccia stavano in attesa gli Hurricane del 242° Gruppo, sparpagliati sul prato; gli specialisti ne stavano scaldando i motori mentre il cielo si illuminava verso oriente. Stokoe, l'attendente di Bader, imboccò il corridoio della palazzina ufficiali, una costruzione di mattoni a due piani, apri la porta di una camera e vide che il maggiore era già sveglio. Bader aveva il sonno ,leggero e Stokoe lo trovava raramente addormentato; gli dette il buongiorno, rispettosamente, posò una tazza di tè sul comodino, mise accanto al letto un paio di gambe artificiali e se ne andò; erano le sei della mattina. Bader si alzò in un istante, se ne andò nel bagno che era accanto alla camera servendosi delle mani, s'immerse nella vasca per lavarsi e si fece la barba con un rasoio di sicurezza. In quindici minuti era già uscito dal bagno e di ritorno in camera dove s'infilò le gambe con la stessa rapidità con la quale un qualsiasi altro pilota si sarebbe infilato gli stivali da volo. Indossò l'uniforme d'ordinanza, mise la cravatta nera e si cinse il collo con una sciarpa blu a pallini bianchi; alle 06.25 era al circolo dove sedette a un tavolo molto lungo mettendosi a pallare con il maggiore Rupert Leigh che comandava il 66° Gruppo, anch'esso dislocato a Coltishall, e con altri piloti. Fece una colazione leggera, a base di fette di pane arrostito, burro e marmellata; ma i suoi pensieri erano sempre rivolti ai voli previsti per quel giorno. Aveva un gran desiderio di muoversi dalla baracca del decentramento e le sue speranze erano, ovviamente, sempre quelle di potersene andare al sud per prender parte alle intercettazioni contro la Luftwaffe; lui e i suoi piloti stavano aspettando questa possibilità da parecchie settimane. Perciò, dopo appena pochi minuti passati al tavolo della colazione, stava già uscendosene dal circolo con quell'andatura tutta sua particolare, l'unica cosa che lasciasse sospettare l'uso delle gambe artificiali. Zampettò fino a una macchina a quattro posti che stava aspettando all' esterno e se ne andò al suo decentramento dove, come altri piloti del 242°, indossò la «Mae West » si mise a controllare gli indumenti e il materiale da portare in volo, bevendo tè e aspettando. Per tutte le settimane precedenti, nonostante i duri combattimenti, i piloti del 242° erano sempre rimasti seduti nella baracca e anche questa mattina cominciava come tutte le altre. Pochi minuti dopo, però, il telefono prese a squillare. Bader rispose di persona. Era l'ufficio operazioni e quello che gli dicevano lo stava, evidentemente entusiasmando; subito anche altri piloti presero interesse alla chiamata. Bader riabbassò il microfono e urlò trionfante: «Forza, ragazzi! Si parte! » Una ventata di eccitazione scosse la baracca mentre i piloti si precipitavano verso i velivoli; quello di Bader era proprio davanti alla porta; appena pochi passi e già era accanto all'ala verde-bruna dello Hurricane mentre gli altri s'imbarcavano sul camioncino che li avrebbe deposti presso i loro velivoli. Il motorista aveva già messo in moto il motore e io vento dell'elica faceva ondeggiare l'erba del prato; il suo,paracadute rimaneva sempre nell'abitacolo, contrariamente alla norma. Dopo aver salutato motorista e avieri appoggiò la mano sulla spalla sinistra del più vicino e saltò sull'ala sinistra; infilò poi per prima la gamba destra nell’abitacolo, aiutandosi con le mani, poi agguantandosi a quella fiancata, v'infilò anche l'altra e si mise seduto sul seggiolino. Un aviere che stava in piedi sull'ala destra lo aiutò ad allacciarsi le cinghie, quelle ventrali e quelle delle spalle, e a sistemare la maschera dell' ossigeno. Bader si mise subito a controllare gli strumenti e i comandi; nei pressi, anche le altre eliche presero a girare e poco dopo dodici Hurricane stavano rullando per prepararsi al decollo. Bader, il cui nome in codice era «Laycock comandante rosso» frenò, arrestando il velivolo, controllò i caccia dietro di lui, il cielo davanti e, col tettuccio aperto, spinse a fondo la nera manetta del gas; la sua pattuglia cominciò a muoversi mentre gli altri tre, dopo aver atteso qualche istante, dettero anch'essi inizio alla corsa di decollo, seguendolo. Poco dopo tutte e quattro le sezioni stavano rincorrendosi, una dietro l'altra, ciascuna di fianco a quella che la precedeva, sul prato dell'aeroporto. Bader fu il primo a staccarsi; fece rientrare il carrello, chiuse il tettuccio e ridusse il motore dirigendosi a sud a bassa velocità in modo che gli altri potessero raggiungerlo. Quando il gruppo fu tutto riunito in formazione conmnuò il volo a bassa quota per dieci o quindici minuti; poi, di colpo, una voce ruppe il silenzio radio: era il controllore che ordinava a Bader, e al 242° di rientrare alla base di partenza. Bader, esasperato, montò su tutte le furie, ma ubbidì. Fece una larga virata e riatterrò a Coltishall dove subito si precipitò al telefono per chiedere, arrabbiato, che cosa stesse succedendo: gli venne detto, con calma e decisione, di attendere ordini. I piloti, delusi, si sedettero e si misero a bere tè o caffè, domandandosi se sarebbero stati ancora chiamati all'azione. Un'ora dopo il telefono suonò: decollare (di nuovo!) per Duxford! Si ripeté la scena precedente; Bader si sistemò nell'abitacolo, si legò, mise in moto il motore e rullò fino alla posizione di decollo; i dodici Hurricane lasciarono l'aeroporto di Collishall dirigendosi a sud verso il limpido cielo meridionale; le nove erano passate da poco, ma già quella giornata pareva lunghissima a Bader e ai piloti del 242°. Ridotto il motore, la formazione si strinse in linea di fila e si mise in rotta per Duxford; questa volta non vi fu nessun richiamo e, dopo venticinque minuti di volo, il 242° stava circuitando sull'aeroporto di destinazione chiedendo l'atterraggio. Un decentramento simle a quello di Coltishall attendeva e, appena Bader vi fu arrivato ed ebbe fermato il velivolo, si precipitò nella baracca e telefonò all'ufficio operazioni .chiedendo: «Woody, che novità? » li tenente colonnello «Woody Woodall », un amico di Bader, gli rispose: «Nulla, per ora ». Poi gli disse che il 242° era di riserva, e che sarebbe stato impiegato soltanto se necessario. In quel momento una massa di velivoli tedeschi, circa un centinaio, attraversava la Manica, ma i gruppi dell’undicesimo Raggruppamento erano già stati mandati in volo per intercettarli. Cosi, il 242° rimase in attesa. Gli incursori tedeschi attaccarono diversi aeroporti della RAF, ivi compreso Biggin Hill, sul quale un gruppo del 12° Raggruppamento era in crociera per proteggerlo, ma il 242° non venne mandato in volo. Poi vi fu un periodo di quiete: tuttavia Bader non volle lasciare la baracca e i suoi piloti si buttarono per terra intorno ai loro velivoli fermi al sole, mangiando panini per colazione... e aspettando. Bader rimase quasi sempre accanto al telefono, ma non giunse nessuna chiamata. Alle 13.30 tre formazioni della Luftwaffe vennero avvistate dai radar verso sud, in direzione di Dover. Il nemico stava attaccando i campi della caccia dell'undicesimo Raggruppamento: Biggin HHl, Tangmere, Shoreham e Kenley; otto gruppi vennero mandati in volo per intercettarli, ma per il 242° non giunse alcuna chiamata. Il sole cominciò a calare verso occidente; l'aver atteso così a lungo di entrare in azione e l'essere stati fatti rientrare una volta a Coltishall fece sentire a Bader molto deludenti l'attesa e l'inazione di Duxford. Erano ormai le 16.00 e qualcuno aveva già concluso che la giornata sarebbe stata del tutto inattiva per il 242° Gruppo. I minuti passano: 16.15... 16.30... 16.45; i velivoli tedeschi che hanno effettuato l'ultimo attacco sono armai di ritorno alle loro basi in Francia. Tuttavia, senza che Bader lo sappia, altre formazioni sono in arrivo: attraversano la Manica e, dagli schermi dei radar, appare evidente che si preparano a attaccare obiettivi di vario genere. L'ufficio operazioni, indaffarato a studiare le rotte e a preparare ,le intercettazioni, sta scegliendo quali gruppi debbano esser mandati in volo e, quando una formazione nemica prende la direzione di North Weald, un aeroporto della caccia situato nella zona nord-orientale di Londra, a sud di Duxford, ordina la partenza del 242°. Il telefono suona; Bader prende il ricevitore e sente la voce di Woodall: «In volo! C'è del lavoro in arrivo ! » Bader sbatte giù il microfono e urla: «Decollo!» Tutti si mettono in movimento. Gli specialisti hanno già messo in moto mentre lui si avvicina di corsa: monta a bordo, si lega, dà motore e comincia a rullare; per tutto il decentramento i velivoli del 242° stanno già muovendosi; i piloti sono saltati a bordo in un lampo e sono già pronti. Bader percorre una breve distanza, poi spinge la manetta e accelera velocemente, saltellando sull'erba; le sezioni gialla, verde e blu lo seguono nell'ordine, ciascuna con tre velivoli, Eric Ball in testa alla prima, George Christie alla seconda e Georgie Powell-Shedden all'ultima. Gli Hurricane rombano a pieno motore e Bader tira lentamente la leva mentre il velivolo si solleva dolcemente sul prato; la rotta è verso sud. I caccia fanno quota rapidamente (salgono meglio dello Spitfire) e, quando ha fatto rientrare il carrello e i fap, ha chiuso le alette di raffreddamento e il tettuccio, Bader chiama Woodall per radio: «Laycock comandante rosso chiama Steersman. In volo; che quota? » «Quota quarantacinque », è la risposta; poi Woody aggiunge: «La merce si dirige su North Weald. Rotta uno-nove-zero. Motore! » Il comandante esegue e dà tutto motore; dai tre scarichi laterali del Rolls-Merlin escono adesso getti di fiamma; il sole è ormai a occidente e la tattica del nemico, nelle sue ultime incursioni, è stata quella di avvantaggiarsi di questo fatto per giungere con il sole alle spalle. Bader decide perciò di tenersi alquanto più a destra; punta verso occidente in modo da rendergli la pariglia; sta ripetendo lo stesso gioco della prima guerra mondiale. I suoi comandanti di sezione danno la posizione; «Comandante giallo, a posto »;. «Comandante verde, a posto ».. «Comandante blu, a posto ». Bader accende il collimatore e toglie la sicura alle armi mettendo l'interruttore su «fuoco». Dà un'occhiata al vetro del collimatore sul quale vede un cerchietto giallo luminoso con delle righe laterali; sposta col pulsante apposito la loro distanza fino a portarla a quella corrispondentea un'apertura alare di dodici metri; quella dei 109 è circa di nove, ma la « merce» probabilmente comprende anche dei bombardieri, che hanno un'ala più lunga. Le quattro pattuglie, che procedono serrate, dirigono per duecentoventi gradi e salgono a centoquaranta miglia orarie verso il sole pomeridiano; sono su Hertford, a una decina di minuti da North Weald. In distanza si vedono l'estuario del Tamigi e la grande macchia di Londra quando a un tratto una voce si fa sentire negli auricolari: « Comandante blu a comandante Laycock, tre aeroplani più bassi, ore tre ». Bader dà un'occhiata e vede tre puntini, sulla destra, in basso; allora ordina a Powel-Shedden di andare, con la sua sezione, a vedere di che si tratta. La sezione blu se ne va con i suoi tre velivoli tuffandosi sulla destra e il 242° rimane con nove caccia solamente. Bader allunga una mano sulla, sinistra e apre l'ossigeno; cento per cento. La quota aumenta... tremilaseicento... quattromila... quattromilacinquecento; L’ elica, mantenendo fisso il numero di giri, tira disperatamente col motore a tutta manetta e i musi appuntiti degli Hurricane, pitturati di color bruno-verdastro, salgono sfrecciando verso il cielo chiaro. Steersman continua a dare indicazioni: l'ultima rotta ordinata è stata « due-quattro-zero », che mette il gruppo in rotta di intercettazione; Bader guarda da tutte le parti davanti a sé, più in alto, ma non vede niente. Il rombare dei motori rintrona negli abitacoli, ma all'infuori di questo tutto è silenzio. I piloti girano la testa da un lato all'altro, si guardano alle spalle: sono le 17.00. La quota si avvicina ai cinquemila metri; nonostante la leggera foschia che copre il terreno fino a duemila metri il grande serbatoio di Enfield è chiaramente visibile. Chiama Steersman e Woody risponde: «North Weald è sotto attacco ». Li può vedere? L'eccitazione lo fa trasalire mentre scuta il cielo verso la direzione indicata, davanti sulla sinistra, ma non scorge niente;…vede l'aeroporto... ma non vi sono nemici ! Dove mai possono essere? Davanti a lui dei batuffoli coprono il cielo del campo... la flak! Ma allora il nemico deve essere li. La radio risuona: «Qui Due Rosso: nemici di fronte a sinistra». È Willie McKnight, il suo gregario, che ha avvistato la formazione. Bader scruta davanti a sé, sulla sinistra... adesso li vede... sono dei puntini: tanti puntini che stanno avanzando. Preme il bottone della radio: « Li ho visti ». I nove piloti sentono ,la tensione dell'attesa mentre una massa di velivoli tedeschi è in arrivo verso di loro; tutti possono vederne la quantità; sono due grosse pattuglie di almeno una trentina di velivoli ciascuna che diventano sempre più grandi e più neri. Poi, sopra i bombardieri, Bader avvista altri puntini, più piccoli... caccia! Sono un poco più alti del 242°: bisognerà avere a che fare con loro, anche se ha soltanto nove velivoli. Tre possono attaccare la formazione più alta dei bombardieri; preme il bottone della radio: «Sezione verde, attaccare quelli alti…» Christie conferma e i suoi tre velivoli si allontanano sulla destra, facendo quota; il 242° dispone adesso di sei aeroplani ! Bader continua la sua rotta, sempre facendo quota; i bombardieri sono, per b maggior parte, dei bimotori grigiastri, i Dornier 17; le «matite volanti» Sono in pattuglie di quattro o anche di più e i Me 110 si sono messi in mezzo a loro, che procedono con rotta nord-est. I sei Mark I di Bader vanno loro incontro con prua sud-sud-est, tenendosi più alti; poiché i bombardieri sono già su North Weald non ha tempo per seguire l'azione della sezione verde che, al di sopra, piega, con tutti i suoi velivoli, sulla sinistra, virando secondo un arco che dovrebbe portarli, col sole alle spalle, sulle formazioni nemiche. Eccoli! Bader ordina per radio di disporsi in fila indiana e di attaccare per sezioni; da mille metri al di sopra degli incursori si mette a picchiare e gli Hurricane prendono velocità lasciandosi il sole in coda; non distoglie gli occhi dai bombardieri, dei quali vuole rompere la formazione prima di attaccarli individualmente. L'indicatore di velocità sale deciso mentre il rombare dei motori si fa più forte e il vento di corsa fischia nel lambirere le fusoliere; le sagome nemiche si fanno sempre più grandi attraverso il vetro del collimatore. Bader sta arrivando velocissimo, adesso; non gli riuscirà di passare attraverso la prima o la seconda linea, ma attaccherà la terza. Alla testa dei suoi tre Hurricane brunastri apre il fuoco precipitandosi in mezzo ai bombardieri, poi sfreccia in giù, dopo esser passato tra due pattuglie; nel frattempo i velivoli nemici si buttano in tutte le direzioni. La seconda sezione passa anch' essa, sparando, in mezzo ai Dornier 17 che si sono allargati, mentre Bader sta ricominciando a far quota per scagliarsi contro qualche aeroplano isolato; la sua prima raffica era andata dispersa in mezzo a loro. Mentre risale, con McKnight dietro a lui sulla sinistra e Crowley-Milling sulla destra, dà un'occhiata in alto e vede davanti a sé, più in alto, tre Me 110 che stanno virando a destra. Fissa gli occhi sul terzo della pattuglia e dirige il muso del caccia verso quest'ultimo gregario bimotore. Dopo un migliaio di metri di picchiata a tutto motore ha preso una bella velocità; vede i sedici metri di apertura alare del 110 ingrandirsi rapidamente nel collimatore. I piloti nemici fanno quota e virano sulla destra mentre Bader vira all'interno e le ali s'ingrandiscono sempre più nella linea di mira. Si avvicina rapidamente... sempre più vicino... ancora più vicino. Ormai è arrivato... a tiro. Preme il pollice scatenando le otto Browning con un tremendo rombo che fa vibrare lo Hurricane. Bader è giunto cosi vicino che una fiumana di pallottole penetra subito nel 110 e pezzi metallici ne volano via mentre all'attacco dell'ala destra si sviluppa un incendio; sta quasi per mangiargli la coda con l'elica quando smette di sparare. Il bimotore precipita in basso sulla destra, fuori controllo, con una grande fumata che lo segue nella caduta. Ma Bader non ha tempo per stare a vedere perché si guarda intorno, a destra, a sinistra, alle spalle... altri Dornier e altri 110 si stanno sparpagliando; durante l'azione ha perduto i suoi due gregari, che si sono buttati su altre vittime. Tutto a posto: è rimasto solo e si rende conto che ha ottenuto la sua prima vittoria nella battaglia d'Inghilterra. Non ha, tuttavia, molto tempo da dedicare a questo pensiero: sotto di lui, sulla destra... un altro 110. In picchiata, Bader avverte qualcosa allo stomaco perché il corpo ha seguito in ritardo il movimento del velivolo; il Messerschmitt è appena uscito da una brusca virata o da uno stallo, allora manovra di pedaliera e di leva per far combaciare l'apertura alare del nemico con le sbarrette gialle che vede sul vetro del collimatore. Adesso però il nemico tira sù... si mette a cabrare e Bader lo segue; quello picchia, e Bader gli è sempre dietro, sempre più vicino. È una strana manovra e non riesce a immaginare quello che il pilota nemico possa pensare di fare. Il 110 tira su di nuovo bruscamente... e lo Hurricane lo segue, guadagnando sempre terreno man mano che l'avversario continua ad andare su e giù. Adesso sta ancora picchiando e Bader è abbastanza vicino da potergli sparare addosso! Ma ora tira su e Bader cabra: le ali del nemico riempiono la distanza tra le sbarrette gialle e lui può distinguere le croci nere sulle ali. È a tiro! Gli è vicinissimo quando preme il pollice e le otto Browning sputano una valanga di pallottole nell'ala destra: le loro traiettorie, rese visibili nell'aria dalle scie di fumo che si lasciano dietro, vanno a concentrarsi tutte li. La massa di fuoco, a così breve distanza, ha effetti tremendi: l'ala si copre di buchi e pezzi di lamiera volano da tutte le parti; Bader è troppo vicino per poter sbagliare e una vampa di luce serpeggia sul bersaglio; fiamme ! Il caccia bimotore picchia di muso mentre alza l'ala sinistra, poi precipita. Ormai Bader non spara più e sta a guardare; il nemico cade a picco fumando, con le ali che turbinano; si dà un'occhiata alle spalle, ma può rimettersi a guardare il Me 110 che diviene sempre più piccolo. Nessun paracadute ne salta fuori e soltanto allora gli viene in mente di non essersi accorto dei mitraglieri posteriori in nessuno dei due che ha abbattuto! Gli hanno forse sparato? Non lo saprà mai! Si guarda di nuovo alle spalle: appena in tempo. Una sagoma nera è dietro di lui... un caccia bimotore, un Me 11O! Immediatamente Bader dà una pedata a destra accompagnandola con un violento colpo di leva dalla stessa parte e mettendo cosi lo Hurricane nella più stretta virata che possa fare. Il nemico era quasi a portata di tiro... un altro secondo o due e sarebbe stato troppo tardi. Il 110 non può virare stretto come l’ Hurricane e Bader sta guadagnando terreno; il pilota nemico si rende conto di quello che sta accadendo e decide di non aspettare che l'inglese gli arrivi in coda... picchia quasi in candela. Bader lo segue buttandosi all'inseguimento, quasi in verticale, dietro di lui; ma la velocità iniziale del tedesco ha aumentato le distanze e il 110 deve aver dato i motori in pieno. L'incursore e il difensore, gradatamente perdendo quota, picchiano ancora e Bader lo sta fissando da dietro il vetro: non riesce a riprender terreno perché il Me ha guadagnato troppo spazio con la picchiata improvvisa che lo ha preso di sorpresa prima che potesse capire la manovra e seguirlo. L’ Hurricane è in volo orizzontale e sempre a distanza: il nemico riuscirà a sfuggirgli; ma per lo meno, non sarà riuscito ad abbattere il comandante del gruppo che lo ha attaccato in difesa degli obiettivi. Bader vira e torna indietro verso la zona della battaglia; fa quota velocemente e scruta il cielo intorno a sé. Non ci sono velivoli da nessuna parte! Ma dove sono andati a finire tutti quelli che, qualche minuto prima, gli sfrecciavano vicino? Può godersi la soddisfazione di avere abbattuto due bimotori nemici; vira a destra e a sinistra, poi schiaccia il bottone della radio: «Qui Laycock comandante rosso... vado al campo». Mette la prua a nord, sempre scrutando il cielo per vedere se vi sono amici o nemici, di dietro o sui fianchi. Scorge un caccia isolato, in distanza, che si avvicina e va verso di lui. Gli va incontro senza distogliere gli occhi dalla sagoma, che piano piano si rivela... ala bassa, monomotore. Uno Spit, uno Hurricane o un 109 ? Lo guarda mentre arriva: vicino, più vicino... è uno Hurricane! Il caccia amico vira dietrò a lui e va a mettersi in pattuglia: è McKnight! È il suo gregario nella formazione e Bader alza due dita con un sorriso: due vittorie. Willie sorride anche lui... e ne alza tre ! Questo significa cinque, tra tutti e due. Bader si domanda che cosa sia successo al rimanente del gruppo e intanto continua a dirigersi a nord; quanti ne saranno andati perduti? E North Weald è stato bombardato? Un altro Hurricane viene a mettersi in pattuglia: ancora uno del 242°; cosi sono già tre che tornano al campo. Poi un quarto pilota del 242° si aggiunge alla formazione e Bader chiama Woody: «Sono in rientro ». Pochi minuti dopo Duxford è in vista, insieme a un quinto pilota che si unisce a loro: sono cinque Hurricane che rombano sull'aeroporto e vi compiono sopra un giro prima di atterrare. Duxford non è stato attaccato e ben presto i velivoli sono in atterraggio. Bader è il primo; chiude alquanto la manetta per perdere velocità, abbassa il carrello, abbassa la levetta rossa del comando idraulico dei flap alla sua destra e vira in finale. La corsa si frena; novanta, ottantacinque, ottanta... sta sfiorando il prato... è a terra. Appena ha rallentato sufficientemente si dirige verso il decentramento, dà un colpo di motore e toglie i contatti urlando le buone notizie con una smorfia. Ben presto un gruppo di gente circonda il velivolo del quale sono visibili i copricanna delle mitragliatrici aperti e, appena Bader è a terra, lo assediano di domande; man mano che atterrano, anche gli altri piloti corrono dal loro comandante di gruppo, accanto al suo aeroplano. In breve quasi tutto il gruppo, compreso l'ufficiale addetto alle informazioni, si raduna sul prato e l'azione viene discussa in tutti i suoi particolari. Bader interroga i piloti, tutti felici, e fa il totale delle vittorie: i suoi dodici uomini hanno abbattuto dodici nemici senza subire perdite; tutti sono rientrati; la ,loro prima intercettazione nella battaglia d'Inghilterra è stata una vittoria completa. Bader è ai sette cieli; i suoi due abbattimenti sono il quarto e il quinto. Scrive rapidamente un resoconto dell'azione per l'ufficiale delle informazioni descrivendone ogni particolare e buttando giù tutto quanto possa ricordare; poi viene il momento di tornarsene a Coltishall; è tardi, ma le lunghe giornate estive lasciano luce in cielo fino alle nove di sera. Bader e il suo 242° Gruppo, per la quarta volta nella giornata, mettono in moto i Rolls-Merlin e lasciano il campo; ma questa volta sono diretti a nord. Il successo del 242° Gruppo nella sua prima intercettazione contro gli attaccanti tedeschi, il 30 agosto, convinse Bader che le maggiori speranze per ottenere il massimo delle vittorie contro il nemico consistevano nel disporre di una massa di caccia più numerosa nel momento dell'attacco. Poco dopo il suo successo del 30 agosto Bader portò in volo una formazione di caccia più grande e ancora una volta ebbe successo: il 7 settembre, con un solo gruppo i suoi piloti dichiararono undici vittorie; il 9 settembre, questa volta con tre gruppi (242°, 310° e 19°) lo stormo dichiarò venti abbattimenti. Con cinque gruppi (242°, 310°, 19°, 302° e 611°) le vittorie dichiarate furono cinquantadue! Rader era orgoglioso di questi,risultati e riteneva che le sue scarse perdite dipendessero dalla solidità delle tattiche impiegate; in riconoscimento del suo lavoro ricevette la prima decorazione, l'Ordine della Distinzione in Servizio (DSO). Continuò a combattere alla testa dello stormo di Duxford fino alla fine della battaglia d'Inghiherra; in quel momento aveva conseguito dodici vittorie. Quando la RAF passò poi all'offensiva nel 1941, Bader ebbe il comando dello stormo di Tangmere, formato da tre gruppi di Spitfire (145°, 610° e 616°); vi si dedicò con un'aggressività che non ebbe mai uguali nella RAF e ben presto aveva effettuato sulla Francia un numero di crociere superiore a quello di ogni altro pilota. Gli venne consigliato di prendersi un poco di riposo, dato che era quasi quotidianamente in volo profittando del buon tempo della piena estate del 1941, ma non volle accettarlo; in quel momento era al quinto posto tra i piloti della RAF che avevano delle vittorie al loro attivo. ********* Il 9 agosto fece l'ultimo volo portando il suo stormo ad attaccare una formazione di 109 nel cielo di Le Touquet; ne abbatté due prima che un altro lo abbattesse a sua volta, avendogli tagliato in due la coda e facendolo cosi precipitare in candela. Bader dovette lottare come un disperato per uscire dall'aeroplano, il che avvenne solamente quando gli si ruppe la stringa di cuoio che gli allacciava la gamba destra, rimasta intrappolata nell'abitacolo. Il paracadute si apri regolarmente, ma prese terra male e, inevitabilmente, venne subito catturato. I tedeschi seppero ben presto chi era e lo trattarono con rispetto. Il colonnello Adolf Galland mandò una macchina all'ospedale, dov'era stato ricoverato, per prelevarlo e fargli fare una visita ai piloti del 26° Stormo da caccia. Il « prodigio senza gambe» era ancora pieno di spirito e, qualche sera dopo, con l'aiuto di un'infermiera francese che prestava servizio nell'ospedale, riuscì a scappare ! Legò insieme delle lenzuola prese in diversi letti e si calò dalla finestra riuscendo a uscire dal cortile e a raggiungere, nella notte, la casa di un contadino, in una fattoria. Venne ripreso un giorno prima che i partigiani riuscissero a farlo partire, tradito da un'altra infermiera dell'ospedale e catturato proprio mentre stava per essere dato in consegna a un patriota francese. Nel frattempo la Luftwaffe aveva fatto pervenire alla RAF un messaggio per comunicare che le gambe di Bader si erano fratturate e offrendo a un velivolo inglese un salvacondotto per lanciargliene un altro paio. La RAF rifiutò il salvacondotto, ma subito effettuò il lancio del pacco, che la Luftwaffe consegnò regolarmente a Bader Questi tentò altre volte di scappare, ma ormai la sua natura e il suo spirito erano ben conosciuti per cui fu trasferito al campo speciale di sicurezza, Kolditz, ove rimase prigioniero fino all'aprile del 1945; dopo essere stato liberato e aver goduto di due mesi di licenza venne nominato colonnello della RAF; ma rifiutò l'incarico che gli era stato proposto per il tempo di pace e, nel 1946, tornò ad impiegarsi presso la ditta con la quale già lavorava prima della guerra, quella che adesso è conosciuta come la Shell, dove tuttora si trova. Bader fu decorato della DSO con una barra, della DFC con una barra, della Legion d'Onore e della Croce di guerra francese. Era indubbiamente un esperto di tattica, era eccezionale come pilota da caccia, un capo dalle doti naturali e possedeva un coraggio quasi illimitato. Aveva riportato ventidue vittorie e mezzo quando, abbattuto, dovette lanciarsi sulla Francia. Se questo non fosse successo è difficile valutare quanti aeroplani nemici avrebbe distrutto, come è difficiole stimare quanto abbia giovato, al suo paese e alla RAF, quell'uomo che non volle accettare lo svantaggio e la sconfitta fisica e che possedeva una cosi potente forza di decisione. Il suo esempio, e la sua leggenda, furono di continua ispirazione per i piloti della caccia del tempo di guerra, per quelli che lo seguirono e per altri milioni di persone di tutto il mondo che si trovano nei vari stadi della loro vita. The Fighter Pilots
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    SIR DOUGLAS BADER – RAF - Tra tutte le storie riguardanti i piloti della caccia alleata nella seconda guerra mondiale la più istruttiva è, forse, quella del colonnello Douglas Bader. Molti saranno certo già al corrente della sua vita, che è stata narrata nel libro La scalata al cielo (Reach for the sky ) di Paul Brickhill e nel fìlm che porta lo stesso titolo. Ciò nonostante appare necessario farne un breve riassunto. Douglas Robert Steuart Bader era il figlio più giovane di Frederick e Jessie Bader ed era nato a Londra nel 1910. Nel 1914 suo padre andò in guerra e mori in Francia, dopo l'armistizio, in seguito ai postumi di una ferita dovuta allo scoppio di una granata. Douglas lo aveva appena conosciuto. Nonostante che sua madre si fosse risposata, in seguito, con un pastore protestante dello Yorkshire, il fatto di essere orfano obbligò il ragazzo a vincere una borsa di studio se voleva frequentare le scuole pubbliche; i problemi finanziari avevano un'importanza essenziale in famiglia. Resosi conto delle circostanze, Bader studiò coscienziosamente e riuscì a guadagnarsi l'ambito premio; a tredici anni e mezzo si licenziava da St Edward, a Oxford, dove aveva primeggiato negli studi e nello sport. Quale suo prossimo obiettivo scelse di sostenere l'esame di ammissione a Cranwell, l'Accademia aeronautica, con l'intenzione di vincere una delle borse di studio per i cadetti. Studiò, per mesi, ore e ore al giorno riuscendo cosi a piazzarsi al quinto posto quando passò il difficile esame che gli permise di essere ammesso, alla scuola della RAF, per merito dei propri sforzi. A Cranwell eccelleva in tutte le gare (a St Edward era stato il capitano della squadra di rugby) dedicandosi in particolare al pugilato, nel quale sport divenne un esperto del knock-out. Nel frattempo però aveva cominciato a prendere gli studi un po' alla leggera e questa leggerezza, unita a frequenti, anche se leggere, infrazioni alla disciplina, ebbe per risultato di fargli infliggere un severo rimprovero con la comunicazione che non sarebbero state tollerate ulteriori mancanze. Minacciato rosi dell'espulsione Bader si rimise immediatamente a studiare, tornando di nuovo ad essere uno studente sul serio. Nel 1930 ricevette la nomina a ufficiale. La sua prima destinazione fu al 23° Gruppo di Kenley, dove volava allora sui caccia Gloster Gamecock rendendosi ben presto famoso in tutta l'aeronautica sia nell'atletica sia nel volo acrobatico. Era cosi bravo nel rugby che entrò a far parte della squadra della RAF e casi abile nei suoi voli da essere prescelto per un'esibizione durante la mostra aeronautica di Hendon, davanti a centasettantacinquemila spettatori. Il Times descrisse le sue acrobazie e quelle del suo comandante di squadriglia, Harry Day, qualificandole come le più impressionanti dimostrazioni acrobatiche che fossero mai state viste in Inghilterra. Bader si sentiva il padrone del mondo, era membro del XV Combined Services, gli erano conosciute capacità di comandante, era stato accolto con favore dal gran pubblico. In quell'epoca il 23° Gruppo cambiò velivolo ed ebbe il caccia Bulldog più pesante, più veloce, ma meno maneggevole del Gamecock; fu proprio questo velivolo che lo fece passare per un'esperienza che, a tempo debito, avrebbe fatto di lui un essere leggendario. Nel dicembre del 1931, mentre stava eseguendo un volo di normale addestramento con altri due piloti, i tre ufficiali atterrarono su un campetto di fortuna e, dopo esserne ripartiti, Bader vi fece sopra un tonneau lento, a bassa quota. Forse giudicò male la propria altezza rispetto al suolo, la velocità del velivolo o le caratteristiche diverse del Bulldog; comunque la sua ala toccò il prato e il velivolo vi si sfasciò contro. Portato all'ospedale in condizioni molto gravi, la sua vita risultò addirittura appesa a un filo molto sottile; era cosi debole che il chirurgo non poté nemmeno amputargli subito la gamba destra, benché fosse necessario fare immediatamente l'operazione, rimanendo invece in attesa che si riprendesse alquanto dallo choc, un' ora o due dopo. Sopravvisse a mala pena agli effetti dell'operazione e, qualche giorno dopo, fu necessario amputargli anche la gamba sinistra; fu un'altra dura prova per la sua costituzione fisica, ma sopravvisse. Il famoso pilota e famoso atleta, una cosi nuova e brillante promessa nel campo del volo e in quello sportivo, era ormai ridotto a un essere senza gambe. Qui comincia la storia che doveva appassionare l'immaginazione della nazione e, in seguito, del mondo. Bader era deciso a non permettere che la perdita delle gambe dovesse fermare la sua carriera di aviatore; non esistono casi precedenti circa ciò che un uomo cosi stroncato abbia saputo fare dopo l'incidente. Nonostante che amici e infermieri cercassero di prendere per valide le sue pretese, erano ben pochi coloro i quali credevano che avrebbe mai potuto volare ancora o anche soltanto continuare a rimanere in servizio; più volte parve che la maggioranza dovesse aver ragione e Bader sofferse molte delusioni. La peggiore di tutte gli occorse quando, dopo esser riuscito con molti sforzi a servirsi agevolmente di due gambe artificiali, dopo aver imparato a camminare e a guidare un'automobille, venne provato in volo dagli istruttori della Scuola centrale di pilotaggio. L'esame gli andò bene e chi aveva volato con lui dichiarò che non aveva perduto nulla delle sue doti di pilota. Pensando di aver finalmente vinto la sua battaglia, che era stata lunga e difficile, si presentò alla commissione medica, l'unica che avrebbe potuto dargli l'autorizzazione definitiva a volare di nuovo da solo; poiché questa commissione lo aveva già fatto provare dalla scuola di volo (forse con la probabile convinzione che ne sarebbe stato scartato), Bader riteneva che avrebbe potuto senz'altro essere dichiarato idoneo. Invece l'ufficiale medico più elevato in grado, pur con qualche imbarazzo, gli disse che il suo ufficio non avrebbe potuto concedergli l'autorizzazione perché «non c'era nulla di simile nei regolamenti» che riguardasse il suo caso. Dopo che aveva dimostrato, nei vari voli di prova ai quali era stato sottoposto, di essere in condizioni di riprendere il servizio attivo, questa fu una delusione tremenda. Bader venne assegnato alla sezione auto trasporti dell'aeroporto da caccia di Duxford, ma qui doveva ricevere il colpo di grazia; fu infatti chiamato una mattina dal comandante della base, un suo vecchio amico, il quale dovette confessargli che stava per fare la cosa più difficile che mai gli fosse stata richiesta durante il suo servizio nella RAF; porse a Bader una lettera del ministero dell' Aeronautica, una comunicazione molto breve e precisa, nella quale gli veniva detto che, primo, dato l'esito delle decisioni prese dall'ufficio sanitario lui non poteva più rimanere in servizio, nemmeno nella branca dei servizi della Royal Air Force; secondo, gli proponeva di andare in pensione «per causa di cattiva salute»; terzo, che gli sarebbe stata inviata, in seguito, una comunicazione con la proposta della data del suo ritiro dal servizio, della pensione di invalidità e della paga che avrebbe ricevuto da pensionato. All'epoca della crisi di Monaco, nel settembre del 1938, Bader si rese conto che la guerra sarebbe stata inevitabile e scrisse allora al ministero dell'Aeronautica, chiedendo di essere ammesso a un corso di riambientamento al volo. La risposta fu negativa con la scusa che, nelle sue condizioni, sarebbe stato in continuo pericolo di un incidente; gli veniva però richiesto se avrebbe accettato un incarico a terra. Rispose di no: aveva ancora il volo nel cuore e, sei mesi dopo, rinnovò la domanda. Nella primavera del 1939 scrisse al nuovo capo del personale del ministero dell' Aeronautica, al quale già un suo buon amico si era rivolto per patrocinare il caso. Il Maresciallo dell' Aria Sir Charles Portal rispose con quello che, a prima vista, poteva sembrare un nuovo rifiuto; ma un più attento esame della lettera dimostrò che vi era stato un cambiamento di tono. Portal scriveva infatti che in tempo di pace non gli sarebbe stato consentito di arruolarsi nella riserva di volo, ma che, in caso di guerra, poteva ritenersi sicuro che il ministero dell'Aeronautica avrebbe « quasi certamente» gradito i suoi servizi anche in qualità di pilota, qualora i medici avessero dato parere favorevole. In settembre Hitler invase la Polonia e, per la seconda volta ,in venticinque anni, la guerra scese sull'Europa. Bader cominciò a bombardare di richieste di richiamo tutti i suoi amici e le varie autorità; finalmente, in ottobre, gli venne ordinato di presentarsi a visita medica; erano già trascorsi sei anni da quando le sue possibilità di continuare a volare erano state annullate proprio da una commissione sanitaria. Quando entrò nella sala e si presentò per essere esaminato, si rese conto che tutti ritenevano che volesse soltanto avere un incarico a terra; perciò quando un ufficiale gli chiese in qual genere di servizio avrebbe preferito essere destinato rimase un po' scosso e rispose decisamente che l'unico incarico che potesse interessarlo era quello del volo. L'ufficiale (Vice Maresciallo dell'Aria Halahan) era stato suo comandante a Cranwell e gli spiegò che lui trattava soltanto gli incarichi a terra; dopo una pausa, tuttavia, Halahan scrisse un appunto e gli disse di consegnarlo ai medici; quindi gli augurò buona fortuna. Il personale sanitario, non certo molto incoraggiante, gli fece notare, quasi incidentalmente, che non avrebbe mai potuto essere classificato come idoneo a volare da solo; Bader però rispose con ottimismo. Finita la visita medica dovette presentarsi al colloquio finale, dall'altra parte della stessa tavolata di medici che lo aveva tanto deluso sei anni prima. L'ufficiale che aveva di fronte cominciò col dirgli che, gambe a parte, il suo fisico era perfettamente sano; poi gli fece leggere l'appunto di Halahan, una fortissima raccomandazione; poi tacque. Bader, che ricordava il tremendo momento di tanti anni prima, ebbe l'impressione che l'ufficiale non avesse la forza di affrontarlo: continuava a tacere pur seguitando a fissarlo diritto negli occhi. Finalmente disse che era d'accordo con Halahan e che lo classificava abile al pilotaggio, anche da solo! Fu un momento indimenticabile. Era rientrato nella RAF, perfettamente idoneo a qualunque servizio di volo, dopo sei anni di lontananza e di lotte. Ricevette l'ordine di presentarsi alla Scuola centrale di pilotaggio a Upavon il 18 ottobre 1939, per la sua prima prova; fortunatamente fu il maggiore Rupert Leigh, un compagno di corso dell'Accademia, che ebbe l'incarico di portarlo in volo e questo calmò la sua tensione; infatti superò facilmente l'esame. Era la prima volta che volava, dopo sette anni e, successivamente, venne accettato per un corso completo di familiarizzazione; il 27 novembre 1939 venne finalmente il momento in cui l'istruttore scese dal suo abitacolo e gli disse di decollare da solo. Fece rullare il Tudor fino al punto di partenza e, levatosi in volo, vi rimase per venticinque minuti prima di venire all'atterraggio; la strada per il rientro era stata lunga. Completò il corso nel febbraio del 1940 e venne poi inviato al 19° Gruppo con il grado di tenente ma, nell'aprile, si era meritata la promozione a capitano, comandante di squadriglia, nel 222° Gruppo. Fu con questo reparto che ebbe il suo primo combattimento aereo, verso la fine di maggio; il gruppo era uno di quelli montati sugli Spitfire che erano stati trattenuti in Inghilterra per far fronte a qualunque emergenza; era dislocato nel nord, a Kirton-in-Lindsay, quando una mattina all'alba ricevette l'ordine di trasferirsi a Martlesham, presso la costa del Suffolk. Bader e gli altri piloti sapevano ben poco di quello che stava accadendo sull'altra sponda della Manica dove l'esercito britannico, battuto e frammisto ai resti di altri eserciti, stava convergendo su Dunkerque. Per diversi giorni il 222° pattugliò il cielo su quelle spiagge rendendosi ,conto, direttamente, di come stessero le cose; poi, una mattina, mentre gli Spit stavano dando la caccia a una formazione di Me 110, vennero attaccati da una massa di 109. In un duro combattimento Bader abbatté freddamente un caccia tedesco e, trovatosi isolato dal resto della sua pattuglia, se ne tornò al campo da solo. Nel pomeriggio ,era impegnato in un'altra crociera e abbatté in fiamme un He 111 mentre un altro Spit si univa a lui dopo che aveva già eliminato il mitragliere di coda e incendiato il bombardiere. Il « prodigio senza gambe», come E.C.R. Baker ha definito Bader e come doveva poi essere dovunque conosciuto, aveva superato l'esame di combattimento contro il miglior caccia del nemico. Era ormai definitivamente idoneo a qualunque servizio! Nel giugno del 1940 Bader fu promosso al grado di maggiore, il che significava che aveva raggiunto gran parte dei suoi compagni del corso di Cranwell, e gli venne dato il comando del 242° Gruppo, montato su Hurricane. Il comandare un gruppo fu quasi una rivendicazione e il comandante del 12° Raggruppamento, il Vice Maresciallo dell'Aria Trafford Leigh-Mallory che lo conosceva molto bene, lo scelse apposta per quell'incarico. Il reparto era composto soprattutto di canadesi e aveva già prestato servizio in Francia, in mezzo alla confusione e alla demoralizzazione della rotta alleata e dell'evacuazione; senza mezzi adeguati, senza coordinamento né controllo, aveva sofferto perdite del cinquanta per cento. I piloti erano amareggiati o disgustati, l'azione di comando era venuta a mancare e si sentiva la necessità di un comandante dinamico, capace di rimettere in piedi il morale del personale. Fu in questa situazione, mentre il gruppo era a Coltishall presso Norwich, che arrivò Bader con l'incarico di nuovo, e senza gambe, comandante; quando qualcuno dei piloti canadesi venne a sapere della sua condizione ne dedusse che avrebbe volato ben poco e che sarebbe stato una persona poco attiva. Fu la supposizione più sbagliata che fosse stato possibile fare durante la guerra! Bader fece presto a rimettere a posto il 242°. Sostitui immediatamente i due comandanti di squadriglia, pretese cura della persona e della disciplina dando per primo un energico esempio di precisione di volo; cosi facendo infuse nel gruppo un nuovo spirito. Quando riscontrava deficienze nella manutenzione o mancanza di parti di ricambio o di utensili sollevava un tal putiferio di proteste che l'eco giungeva fino al comandante in capo del Comando caccia, che una volta invitò Bader a presentarsi da lui. Il risultato fu che un ufficiale addetto ai rifornimenti a Coltishall e un altro di grado molto elevato del Comando caccia vennero rimossi dal loro incarico in ventiquattr'ore; le parti di ricambio e le attrezzature per gli Hurricane di Bader arrivarono immediatamente. All'atto pratico, era un uomo che sapeva il fatto suo; voleva che quello che era necessario fare fosse fatto e ben presto tutto il suo personale fu dominato dal suo spirito. Mentre la battaglia d'Inghilterra aveva il suo inizio in luglio, e continuava in agosto, il 242° non veniva mai chiamato a menar le mani e Bader ne stava facendo una malattia; era cosi impaziente di buttarsi sul nemico, cosi pronto a slanciarsi, che quando finalmente venne permesso al 242° di partecipare alla lotta ogni pilota del gruppo era psicologicamente preparato. Tuttavia, fino al 30 agosto non entrarono in lizza nonostante che fossero passate delle settimane da quando la Luftwaffe aveva cominciato i suoi pesanti attacchi. Poiché il 242° faceva parte del 12° Raggruppamento ed era dislocato presso Norwich, molto a nord rispetto alla zona della battaglia, non era possibile impiegarlo senza farlo prima spostare su un aeroporto più meridionale fin dalle prime ore della mattina; da quello avrebbero potuto partire su all’arme dopo che le incursioni nemiche fossero state avvistate dai radar. Bader chiedeva continuamente, e anche impazientemente, che il suo gruppo venisse impiegato in quel modo e, finalmente, gli venne fornita l'occasione.
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    L'offensiva era cominciata il 5 luglio. Il generale Heinz Guderian ricorda, nel suo Panzer Leader (aveva allora il grado di ispettore generale delle truppe corazzate), che la Germania aveva accumulato per quell'attacco tutte le forze che avesse, comunque, disponibili. Si trattava di una manovra a tenaglia che avrebbe dovuto agganciare e intrappolare le masse russe che si trovavano nel saliente che queste si erano costituite a Kursk, contro il quale furono impegnate dieci divisioni corazzate, una di granatieri corazzati e sette di fanteria di linea nella branca che doveva attaccare da sud (cioè dalla zona di Bielgorod) e sette corazzate, due di granatieri corazzati e nove di fanteria di linea nel nord (la zona di Orel). I tedeschi vi impiegarono i nuovi carri Tigre e Pantera, nei quali riponevano le più grandi speranze, ma che erano invece destinati a finire molto male sotto i tremendi attacchi dei cacciabombardieri russi, gli Il II che erano stati muniti di due cannoncini da trentasette millimetri a lunga canna, i P 11/37. La Luftwaffe doveva cooperare spezzando la resistenza russa nei primi giorni dell' offensiva e, nel tardo pomeriggio del 4 luglio, molti dei suoi gruppi erano stati segretamente trasferiti su quel fronte; il carburante e i rifornimenti di materiale furono trasportati nel corso della notte dai velivoli da trasporto JU 52 I gruppi avrebbero dovuto attaccare all'alba della mattina successiva. La 7a Squadriglia del 52° Stormo, della quale faceva parte anche il sottotenente Hartmann, era stata dislocata a Ugrim verso la fine del pomeriggio del giorno 4, trovandosi così a quattordici chilometri dietro lo schieramento di partenza della tenaglia meridionale; nel corsa della notte i carri armati, che avrebbero dovuta effettuare lo sfondamento, si misero in posizione da tutte le parti mentre i velivoli da trasporto atterravano recando i rifornimenti necessari ai gruppi operanti. Alle prime luci del 5 luglio cominciò l'offensiva e i panzer tedeschi penetrarono diritti dentro le linee russe; ma i piloti di Ugrim ebbero un brutto colpo; i primi quattro caccia, ivi compreso quello del comandante di squadriglia, non fecero ritorno nonostante che non vi fosse un'apprezzabile reazione aerea nemica. Si dovettero poi accorgere che nel terreno si trovavano depositi di minerali di ferro in misura fuori del comune e questo faceva si che gli aghi delle bussole deviassero notevolmente; venivano constatate delle oscillazioni persino di 60° o 70° e ben presto i piloti si trovavano perduti. Dopo il mancato ritorno della prima pattuglia di 109, e del comandante della squadriglia, il comando di questa venne affidata a Hartmann. Il giorno dopo, l'offensiva tedesca continuò, ma il guaio era che i carri corazzati incantravano una nuova linea difensiva ogni chilometro o due di avanzata; era ovvio che i russi si fossero preparati accuratamente predisponendo le opportune difese contro l'avanzata tedesca, le cui linee generali erano state previste. I caccia di Ugrim si resero conta delle strane deviazioni delle bussole e impararono a correggere la rotta. Nel frattempo l'apposizione aerea nemica continuava a essere quasi nulla quando, la sera del 6 luglio i piloti della 7a Squadriglia se ne andarono a letto, sotto le piccole tende frettolosamente preparate per loro nell'alta erba estiva dei prati della Russia meridionale, non potevano certo supporre che, all'indomani, le cose sarebbero state del tutto differenti. Mancava poco alle tre del mattino quando i primi raggi di luce presero a illuminare i prati leggermente ondulati che si stendono nella zona dell'Ucraina a duecento cinquanta miglia a settentrione della penisola di Crimea, dove, a nord-ovest di Harkov, era stato preparato l'aeroporto di Ugrim. I Me 109 G della 7a Squadriglia, pitturati di blu-verdastro, erano dispersi nell'erba, alta circa mezzo metro, senza alcun mascheramento protettivo; sulla fusoliera di uno di quegli aeroplani bassi di carrello e dal muso dipinto di bianco, era stato disegnato un cuore nel quale era scritto il nome di Usch; in distanza si stendeva il paesaggio leggermente collinoso rivestito di betulle, di querce o di pini tutti verdi e il cielo era, ancora una volta, completamente limpido; da due giorni l'offensiva tedesca continuava sotto l'insegna del buon tempo che l'estate aveva portato. I Ai margini del prato erano state erette sei o sette tende mimetizzate e un gran numero di piccole tende per dormire; queste erano delle dimensioni di un metro e ottanta per novanta, appena sufficienti per contenere un materassino di gomma. Un aviere mise il capo dentro una di queste e chiamò: «Leutnant, aufstehen ». Erich Hartmann si svegliò, rispose e prese a vestirsi; infilò i pantaloni grigio-azzurri, una camicia grigia e le scarpe, pure grigie, del tipo sportivo e con le suole di gomma. Dopo essersi cosi abbigliato usci all'aperto e si diresse verso un ruscelletto che scorreva nei pressi, dove cominciò a lavarsi e a farsi la barba nell'acqua fresca. Poi se ne andò al «bar», una delle tende più grandi nella quale i piloti mangiavano e passavano il tempo; in un angolo c'era la sezione operazioni del gruppo e nell'altro una stufa sulla quale due ragazze russe stavano preparando la colazione. « Was gibt’s »,. domandò, ma gli risposero che non c'erano novità: tutto era tranquillo. Mancavano pochi minuti alle tre e Hartmann era uno dei quattro piloti che già si trovavano nella ,tenda; poco più tardi, avrebbero dovuto fare la scorta al velivolo che avrebbe eseguito la prima ricognizione della giornata e che doveva decollare subito dopo le tre. Tutte le mattine quell' aeroplano staccava le ruote alle prime luci per andare a esaminare il fronte e, .tutte le mattine, quattro piloti gli volavano intorno in missione di scorta, molto poco popolare tra i cacciatori. Quella mattina era il turno di Hartmann; mangiò un'abbondante colazione, due uova fritte, pane col burro e due o tre tazze di caffè. Era ormai quasi l'ora che il FW 89 decollasse per fare la sua ricognizione: Hartmann dette un ordine e tutti e quattro si diressero verso i rispettivi aeroplani. Il velivolo di Hartmann è in attesa non molto lontano dal «bar », sotto le cure del suo capospecialista « Bimel» Merten. «Ist der Bock klar?» (È pronto?) chiede in tono scherzoso; Merten risponde di sì e lo aiuta a legarsi. Poco dopo tutto è in ordine, l'orologio di bordo indica le 3,04 e il cielo comincia a sbiancarsi verso oriente: è l'ora di partire e anche l’ FW si è già mosso. Hartmann regola dapprima i Flap, facendoli abbassare di un terzo per mezzo di uno dei due volantini grigi posti un po' indietro sulla sua sinistra poi, con l'altro, il compensatore di coda per il decollo; apre le alette del parzializzatore, controlla il livello del carburante, dà qualche pompata con il pistoncino dalla manopola dipinta di giallo che si trova sulla sinistra della piantana e apre un po' la manetta del gas, facendo cenno col capo a Merten. Questi, in piedi sull'ala destra, si mette a far ruotare la manovella e ben presto un sibilo comincia a farsi sentire, sempre più acuto: adesso, è tempo, Hartmann gli fa cenno di allontanarsi e Merten urla:« Frei!» «Frei», risponde il pilota e tira il piccolo comando dipinto di nero che si trova proprio al di sotto della scatola degli interruttori sul cruscotto. Il Daimler-Benz da millequattrocentocinquanta cavalli starnutisce e brontola diverse volte emettendo sbuffate di fumo dai sei tubi di scarico; poi si mette in moto e il fumo svanisce nel nulla mentre l'elica comincia a girare al minimo. Non lontano da Hartmann altri tre 109 fanno sentire la loro voce e la pattuglia è pronta per muoversi. Nella scarsa luce si vede l'ufficiale agitare più volte la mano destra per segnalare ai compagni e molla i freni cominciando a rullare per portarsi in posizione di decollo, mentre Merten gli manda un saluto e un augurio. I 109 blu-verdastri sono adesso tutti e quattro in fila e le eliche, mentre i velivoli rullano, piegano l'erba alta dietro di loro; giunti al limite del campo, a pochi metri dalla croce che indica l'inizio della zona di atterraggio, Hartmann controlla gli strumenti del motore poi dà un'occhiata agli altri piloti: i velivoli sono fermi, nei suoi pressi, ed eliche e motori urlano rompendo la calma delle prime ore della mattina e facendosi sentire per miglia nei dintorni. Segnala l’ ordine di partenza, allenta i freni e spinge la manetta gialla alla sua sinistra, mandandola a fondo corsa; il 109 si slancia in avanti con un balzo e anche gli altri fanno altrettanto dando cosi inizio alla corsa di decollo, tenendosi a una decina di metri, o poco più, l'uno dall'altro dietro a Hartmann, che comincia a muoversi sempre più velocemente. Dopo trecento metri l'elica sta trascinando il leggero caccia a centosessanta chilometri l'ora; tira leggermente la leva mentre l'indicatore continua a salire, tenendo il velivolo esattamente diritto con l'uso della pedaliera, poi le ruote si sollevano e Hartmann è in volo, alle 3.06. Anche gli altri piloti decollano, uno dopo l'altro, e ben presto i quattro Messerschmitt virano sulla sinistra, allontanandosi dall'aeroporto mentre i carrelli rientrano lentamente. Il capopattuglia riduce alquanto la manetta, chiude le alette del radiatore e controlla ancora gli strumenti del motore; gli altri tre caccia si avvicinano all’ FW 89 che è proprio davanti a loro e Sta facendo lentamente quota verso nord-est, verso un cielo che, piano piano, va facendosi sempre più luminoso. Hartmann controlla le armi e il collimatore: il cerchietto luminoso e le sbarrette che definiscono le distanze da un bersaglio, se attaccato dalla coda; tutto è in regola; le armi dispongono di munizionamento di vario genere: Panzer, Panzerspreng, Panzerbrand e Panzermine (perforanti normali, perforanti pesanti,incendiarie e esplosive). La quota aumenta lentamente: seicento, mille, milleduecento metri; i velivoli tedeschi debbono tenersi a una discreta altezza sul terreno altrimenti il fuoco delle armi leggere potrebbe inseguirli, da ambedue le parti combattenti. I caccia continuano a dirigersi verso nord-est e Hartmann sbircia ogni tanto verso il basso dove riesce a scorgere molti veicoli, tra i quali dei carri armati. Scruta l'orizzonte verso oriente, sempre tenendo d'occhio il vicino velivolo da ricognizione; nei giorni precedenti vi è stata ben poca attività aerea da parte del nemico e i piloti, nel loro subconscio, non si aspettano novità. Hartmann fa una chiamata di controllo al centro operativo, ma la radio gli risponde che nella zona non vi è nulla di nuovo e il volo continua tranquillamente. Il velivolo da ricognizione fa un'ampia virata e i suoi angeli custodi, dall'ogiva dipinta di bianco, lo seguono fedelmente nel cielo che ormai si illumina rapidamente; la luce mette bene in mostra il numero uno, dell'altezza di quasi un metro, che è stato dipinto sul fianco della fusoliera di Hartmann dietro l'abitacolo; sotto di questo, invece, è scritto il nome della fidanzata, Usch, dentro un cuore rosso trafitto da una freccia. Il pilota scrive quotidianamente a Usch Paetch e, dopo la guerra, tutta quella corrispondenza dovrà divenire una notevole fonte di informazioni giornaliere, tanto più importante in quanto i suoi documenti personali e di volo relativi all'ultimo anno di guerra sono andati perduti. Il volo continua senza che, per qualche tempo, vi siano novità da segnalare; finalmente l’ FW 89 mette la prua su Ugrim e inizia il ritorno al campo di partenza. Proprio in quel momento, su quell'aeroporto, l'ufficio operazioni riceve una comunicazione da un centro « Adler»! I posti «Adler» sono disseminati per tutta la zona e consistono in un osservatore che se ne sta su una macchina munito di un poderoso binocolo e di un radiotelefono. La linea del fronte è tracciata su una mappa che porta una suddivisione in numeri lungo un lato e una in lettere sulla base; ogni centro operativo e i vari «Adler» ne hanno una copia e quando un osservatore vede, o sente, dei velivoli nemici subito comunica per radio l'osservazione fatta e la posizione. L'ufficio operazioni chiama immediatamente Hartmann e gli riferisce: velivoli nemici in volo verso ovest, posizione «Berta neun» (B 9). Da dieci a venti russi in volo a bassa quota. Hartmann sente un certo fremito mentre dà un' occhiata alla carta; la pattuglia è molto vicina a B 9; scruta il cielo verso est, non vede nulla e allora vira verso la direzione dalla quale dovrebbero arrivare i nemici. Si mette a cabrare tenendosi sulla rotta di intercettazione dopo aver aumentato la potenza del motore; tutto appare tranquillo, ma la tensione cresce. I quattro piloti scrutano attentamente il cielo davanti a loro, guardano, cercano, sperano di vedere dei puntini nella lontananza; i minuti però passano e non si scorge nulla mentre i Messerschmitt continuano nel loro volo. Gli auricolari di Hartmann entrano in vibrazione: «Achtung! Sehen Sie links, vor uns, dicke Mobelwagen! » (Attenzione! A sinistra, avanti, cacciabombardieri!); è uno dei suoi piloti che li ha visti. Hartmann guarda sulla sinistra e subito vede una massa di puntini verso est. «Vittoria», risponde allora. Dà tutto motore e tira leggermente la leva facendo quota per prepararsi all'attacco; nel frattempo l’ FW 89 è sparito verso sud-ovest, diretto a Ugrim, ed egli studia le piccole sagome della formazione che sta arrivando ... troppo grandi per essere dei caccia, sono dei bombardieri Il II che si preparano ad attaccare obiettivi tedeschi al suolo. Questo Il II è pesantemente corazzato e difficile da abbattere tranne quando venga colpito dal basso, nel grande radiatore dell'olio: se colpito li s'incendia rapidamente. La stella rossa sui piani verticali di coda dei nemici comincia ad apparire ben chiara, come anche le loro armi difensive posteriori; i velivoli russi procedono diritti e Hartmann, più alto, si mette in virata per effettuare un attacco; gli avversari, cosi potentemente difesi, sono dipinti di verde scuro e si trovano a poco più di mille metri di quota mentre i 109 ne hanno quasi duemila e si trovano esattamente di fronte alla formazione che si avvicina. I piloti sanno che cosa debbono fare: ognuno può attaccare a volontà e Hartmann, con gli occhi fissi sui nemici, preme il bottone del microfono: «Wir greifen an!» (Attacchiamo!) La sua ala balena un attimo, per un riflesso di luce, mentre si butta in picchiata contro i cacciabombardieri avversari. Il motore romba in pieno mentre la velocità aumenta e ben presto è a millecinquecento metri, ma si abbassa ancora, poi tira leggermente la leva e si mette in virata per attaccare dal basso e dai dietro uno degli Il II. La formazione nemica continua a volare diritta e Hartmann si sceglie il bersaglio mirandolo attraverso il vetro del collimatore sul quale si riflettono il cerchietto e le sbarre; ha scelto la vittima mimetizzata di verde, e lavora sui comandi per giungerle addosso dal basso, alle spalle. Il 109 sta volando a seicento chilometri l’ ora dopo la picchiata e volteggia veloce ma Hartmann aspetta mentre la sagoma scura del velivolo ormai segnato s'ingrandisce rapidamente nel cerchio luminoso: il pilota nemico prosegue diritto in volo livellato, ignaro di quanto stia accadendo alle sue spalle e il mitragliere posteriore non può vedere nel settore cieco sotto di lui. L'apertura alare ha adesso toccato le sbarrette verticali, ma Hartmann aspetta ancora; il veloce caccia è a duecento metri, poi a centocinquanta e le armi sono puntate verso il grande radiatore che sporge sotto il muso, cento metri - fuoco - Preme con l’indice il grilletto nichelato mentre il pollice preme l'altro; subito, le due mitragliatrici da dodici millimetri e il cannoncino da venti cominciano a sputare metallo da breve distanza, e le pallottole s'infilano nel radiatore dell'olio. Hartmann si sta avvicinando con tanta velocità che la raffica può durare appena un secondo o due, poi supera la sua vittima e tira su, al di sopra della formazione; nello stesso istante una breve fiamma bluastra fa la sua comparsa dietro il radiatore dell’ Il II. Gli altri 109 si sono buttati anch'essi sulle pattuglie nemiche, scegliendosi le vittime e sparano loro addosso; molti velivoli russi, come spesso fanno, continuano il volo serrando le distanze mentre altri cercano di reagire all'attacco dei 109. Hartmann dà un'occhiata in basso verso la formazione nemica; quello che ha attaccato sta fumando fortemente ed esce dal gruppo, buttandosi in picchiata: la distanza. dal terreno è poca e un getto di fiamme nasconde tutto il motore mentre picchia, cade in candela e s'infrange al suolo, esplodendovi contro. È la prima vittima del 7 luglio e la ventiduesima di Hartmann! Virando in cabrata per tornare indietro, si prepara a un secondo attacco. La formazione russa sta intanto separandosi in tante coppie o in velivoli isolati. Il cacciatore livella il suo volo, poi si butta in picchiata e ricomincia di nuovo a prendere velocità; si porta più basso della quota dei russi per poi cabrare sotto di loro, ha munizioni a volontà e, dopo essersi regolarmente controllato alle spalle, si dirige contro un altro Il II lavorando sui comandi .per stabilizzare il velivolo, perché qualunque movimento distorce il tiro e impedirebbe la mira accurata. Piovendogli addosso a tutta velocità dalle spalle e guardandone la sagoma ingrandirsi nel vetro del collimatore, Hartmann si prepara a sparare sulla seconda vittima. Adesso però il pilota vede ,il. caccia della Luftwaffe alle sue spalle e di colpo cabra il velivolo, virando: è una tattica, non certo delle migliori, di molti piloti russi; ma il cacciatore è un esperto della correzione di deflessione e un maestro nel giudicare l'esattezza della mira quando è in coda a un nemico in virata. Di colpo gli è alle spalle e gli arriva addosso calcolando il tiro: distanza duecentocinquanta metri, duecento,centocinquanta, preme i grilletti. È molto vicino all'avversario e la mira è precisa; le pallottole piovono sul bombardiere color verde scuro dal quale si staccano pezzi di lamiera che si sperdono nella scia. Poi... il fuoco bluastro e il fumo rivelatori! Ancora una volta è stato colpito il radiatore dell'olio. Hartmann tira su violentemente al di sopra della formazione, adesso completamente dispersa e guarda in basso e intorno a sé. La sua seconda vittima sta cadendo e altri Il II sono in fiamme; l'attacco dei quattro caccia ha avuto successo. I russi sono stati dispersi e rientrano verso est; Hartmann si accorge a un tratto che ormai il cielo è quasi sgombro e allora cerca di riunire la sua pattuglia; preme il pulsante della radio e comunica che si sta dirigendo verso Ugrim. Il suo gregario lo ha tenuto d'occhio e ben presto sono tutti e quattro di nuovo insieme, diretti a sud-ovest; Hartmann riferisce l’azione al centro operativo: sono appena le 3.50! Ha già conseguito due vittorie prima ancora che il giorno abbia avuto inizio per la maggior parte degli altri piloti. Ugrim è a un quarto d'ora di distanza e i Messerschmitt sono a millecinquecento metri di quota; mentre sorvolano delle formazioni tedesche, vedono dei razzi color arancio salire dal basso: è il segnale che fanno i reparti nazionali per indicar loro dove sia arrivata la linea del fronte. Dopo una quindicina di minuti il campo compare davanti a loro e Hartmann batterà le ali, inclinando il velivolo alternativamente sui due lati, gesto tradizionale per annunciare vittoria; picchia, prendendo velocità man mano che vi arriva, poi si raddrizza e attraversa il prato a bassa quota abbassando prima un'ala e poi l'altra; quindi torna indietro e ripete il battere delle ali dando così con questo saluto la notizia: vittorie ventidue e ventitré. Ben presto la pattuglia entra in circuito d'atterraggio e i caccia dalle ali lunghe e dall'ogiva bianca, abbassati i carrelli, vengono a terra: si raddrizzano proprio sull'erba... toccano il suolo. Hartmann tiene la leva al ventre, rulla normalmente e poi si dirige verso il parcheggio dove lo aspetta Merten che, ovviamente, ha visto i due segnali di vittoria. Altra gente lo attende quando arresta il motore dopo aver fatto fare dietro-front al velivolo, chiuso la manetta e tolto tutti i contatti. Merten sorride mentre salta sull'ala e gli grida: « Gratulieren!» Hartmann deve risponde a molte domande circa il combattimento del mattino, quello che ha visto, quanti Il II erano in volo e così via. Lascia il paracadute sul velivolo e, dopo tante domande e tante risposte, raccolte molte congratulazioni, si dirige verso la tenda grande. Quanto a Merten, le due vittorie rappresentano un lavoro di pittura da fare; già ci sono ventuno distintivi sul timone di coda e adesso ve ne aggiunge un'altra coppia: due sbarrette gialle di sette centimetri l'una. Hartmann spera che un giorno potrà dipingervi sopra la parola hundert che vuol significare cento sbarrette. (Alla fine della guerra si sarà meritato ben tre hundert sul timone di coda oltre a una cinquantina di sbarrette.) ********* Hartmann si arrese in Cecoslovacchia agli americani, sperando così di evitare di essere catturato dai russi; a causa però dell'ingenuità politica statunitense e dei precedenti accordi con i comunisti, gli americani lo consegnarono ai reparti russi, che avanzavano da est. Una volta in mano loro venne trattato come un criminale; giudicato da un tribunale sovietico e condannato alla prigione, vi rimase dieci anni; come aveva, però, superato le prove impostegli dalla guerra così riuscì a sopravvivere anche a quelle del dopoguerra. Rilasciato dalle prigioni russe, e restituito alla sua terra natale, si riunì a Usch, con la quale si era sposato otto mesi prima della fine del conflitto; poi si arruolò nuovamente nell' Aeronautica tedesca e, quando la nuova Luftwaffe ebbe in dotazione gli aviogetti americani Hartmann li provò in volo. Inviato successivamente in America per seguirvi un corso, divenne istruttore di pilotaggio su aviogetti. Adesso, mentre questo libro è in corso di stampa, Hartmann presta servizio, col grado di Oberstleutnant (tenente colonnello) nell'Aeronautica militare tedesca. Ha quarantatré anni e, tra tutti i grandi piloti da caccia che sono sopravvissuti alla guerra, Hartmann rimane un individuo dalla personalità enigmatica; è sempre gioviale e sereno a terra, ma freddo in volo anche se è nervoso non lo lascia assolutamente intravedere. Era troppo giovane per avere un comando durante la seconda guerra mondiale, ma il combattere intensamente per due anni e mezzo sul fronte russo in un grado che ne faceva «carne da cannone» e i dieci anni di prigionia passati in Russia non hanno lasciato alcuna impronta visibile sulla sua personalità. All'atto pratico, oggi è più rilassato e ha l'aria del buon ragazzo di una volta più di quanto non l'abbiano invece i piloti di recente formazione; una tale rigida indistruttibilità che ha resistito agli ultimi venticinque anni di vita è una notevole testimonianza delle sue doti di autodisciplina. The Fighter Pilots
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    ERICH HARTMANN – LUFTWAFFE - Il più grande «Experten» della seconda guerra mondiale, oltre che quello che ha riportato il massimo numero di vittorie tra i piloti da caccia della storia, è Erich Hartmann che nel 1939 era ancora uno scolaro e che arrivò sul fronte di combattimento soltanto nel terzo anno di guerra. Gli venne attribuito il sorprendente numero di 352 vittorie; praticamente tutte, però ottenute sul fronte orientale e, anche se gli abbattimenti conseguiti in oriente non erano completamente paragonabili a quelli ottenuti sul fronte occidentale, quel numero fa ugualmente di lui il più grande cacciatore tra i piloti da caccia. Hartmann era un cacciatore sicuro e metodico quando era in volo, oltre che di temperamento gentile e allegro quando era a terra. Molto spesso faceva più di un volo al giorno, per settimane e per mesi interi, battendosi contro grandi formazioni di bombardieri e di cacciatori russi che volavano a bassa quota. Le occasioni che aveva di incontrarli erano quasi continue e, normalmente, aveva la possibilità di scegliere i suoi bersagli tra grandi masse di velivoli nemici. Non era però il tipo che cercasse di abbatterli a tutti i costi ogni volta che volava; il 24 agosto 1944 ne abbatté sei, ma normalmente si contentava di meno. Fece 1425 voli di guerra e s'impegnò contro il nemico 800 volte; la sua riputazione di «Diavolo Nero dell'Ucraina», era pienamente meritata. Erich Hartmann era nato a Weissach, nel Wurttemberg, nel 1922, quattro anni dopo la fine della prima guerra mondiale; quando ebbe inizio la seconda, era diciassettenne e andava ancora a scuola. Si arruolò nella Luftwaffe nel 1940 e, dopo aver effettuato con successo tutto l'addestramento, fu destinato verso la fine del 1942, sul fronte orientale: aveva appena vent'anni. I suoi primi voli non dettero alcun segno che egli dovesse poi divenire il pilota che avrebbe riportato il maggior numero di vittorie nel corso di tutto il conflitto; infatti, fino all'estate del 1943 le ore di volo che aveva fatto e le vittorie conseguite, anche se degne di considerazione, non erano per niente fuori della norma, se messe a confronto con quelle di qualcuno dei suoi compagni. Durante tutto quel periodo stava elaborando le tecniche di attacco che gli avrebbero poi dato la superiorità su tanti dei suoi avversari; una di queste consisteva, quando attaccava di coda, di mandare il proprio gregario più in basso, davanti al nemico, in modo da adescarlo e farlo venire a tiro delle proprie mitragliatrici; se invece il suo compagno di volo era molto giovane lo faceva rimanere più in alto, per coprirgli le spalle, mentre lui picchiava fin sotto l'avversario per poi cabrare e sparargli una raffica ben precisa e accurata mentre saettava attraverso la formazione, mettendosi subito fuori di tiro (qualcosa di simile alla tattica impiegata da Marseille). Hartmann di solito si avvicinava «fintanto che il velivolo non gli riempiva tutto il parabrezza» prima di aprire il fuoco. Le sue raffiche erano di solito molto brevi e ben centrate e, evidentemente, non era il tipo da commettere l'errore di esagerare nel giocare le sue carte, cercando di abbattere troppi velivoli in una sola missione; quasi sempre si contentava di una vittoria, rimandando la successiva a un altro giorno e questa era probabilmente la ragione per la quale, in quest'altro giorno, era ancora in volo. Come molti piloti da caccia non era molto grosso e muscoloso; possedeva tuttavia i requisiti fondamentali per il successo: prontezza di riflessi e di coordinamento, ottima vista, spirito aggressivo e freddezza in azione; li possedeva in un grado cosi elevato da consentirgli di raggiungere le trecentocinquantadue vittorie in due anni e mezzo. Considerazioni Dato il gran numero delle sue vittorie si può esser portati a valutare con un apprezzamento diverso i risultati che ha ottenuto, attribuendo a quelle relative al fronte russo una difficoltà inferiore e presumendo che vi fossero facilmente ottenibili. Per giungere a un'accurata valutazione bisogna però tener presenti diverse considerazioni per poter poi tirare le somme. Prima di tutto i piloti tedeschi avevano molte possibilità di abbattere nemici e uno dei fattori di questo vantaggio era il gran numero di velivoli russi; secondo, il modo di volare su quel fronte era il più adatto per gli intercettori che volavano a coppie o in quattro, in caccia libera, cioè alla sola ricerca delle formazioni russe, che si tenevano sempre molto basse. I cacciatori tedeschi erano, pertanto, padroni di stabilire come e quando attaccare e quale massa ritenevano più conveniente scegliere, il che rappresenta il più grande vantaggio tattico che possa esser dato a dei caccia, specialmente quando dispongono di una velocità superiore. Per di più, i piloti tedeschi del fronte orientale non erano impegnati in una campagna offensiva strategica, contro la Russia, che richiedesse lunghi voli effettuati ad alta quota; al contrario, erano unicamente ridotti al ruolo di intercettori delle pattuglie di bombardieri e di cacciatori che venivano ad attaccare obiettivi situati in territorio occupato dai tedeschi stessi. In queste condizioni i piloti potevano volare senza troppa difficoltà per tre o quattro volte al giorno, effettuando partenze su allarme e intercettazioni molto veloci a bassa quota, senza quindi la necessità di salire a grandi altezze e senza allontanarsi eccessivamente dalle loro basi. Questo sistema forniva molte, oltre che continue, opportunità per riportare delle vittorie, il che può essere facilmente constatato controllando le documentazioni personali di volo dei cacciatori tedeschi del fronte orientale. Quelle di Hartmann sono più che esaurienti, su questo punto, perché abbatté una media di un velivolo ogni quattro voli, cioè uno ogni due o tre combattimenti; se esaminito tenendo presenti tutte queste considerazioni, il totale delle sue vittorie può essere facilmente compreso. Tra le aviazioni alleate i piloti che avessero al loro attivo cinquecento missioni di guerra erano eccezionali; il più grande asso britannico, Johnnie Johnson (che, come Hartmann, cominciò ad abbattere aeroplani qualche anno dopo l'inizio della guerra) effettuò in tutto 515 missioni di guerra pur essendo passato attraverso periodi nei quali non era in operazioni, ma nelle retrovie o in riposo. Il totale delle vittorie di Hartmann può essere visto in una prospettiva migliore quando ci si renda conto che oltre cento piloti tedeschi abbatterono più di cento velivoli nemici ciascuno; più del novanta percento di questi prestarono servizio sul fronte orientale e due di essi raggiunsero i trecento abbattimenti. Le vittorie di Hartmann sul fronte russo non furono ottenute nel corso del primo anno di guerra, l'epoca durante la quale i piloti tedeschi trovarono più facile l'abbattere i loro avversari; ottenne il suo primo successo nell'ottobre del 1942 e nell'estate del 1943 non aveva ancora raggiunto le venti vittorie. Fu abbattuto diverse volte e anzi, dopo una di queste avventure, rimase anche prigioniero, sia pure per breve tempo: mentre si trovava sul camion che lo trasportava insieme ai suoi catturatori , dette un gran colpo a quello che aveva più vicino e si buttò fuori della macchina correndo verso i boschi. Sfuggi agli inseguitori e poté rientrare nelle sue linee. I piloti tedeschi non erano molto contenti di essere abbattuti in territorio tenuto dai russi perché non piaceva loro molto di sentirsi tagliare la gola; perciò la maggior parte dei cacciatori stava attenta a tenersi esattamente sul fronte o, se possibile, appena aldiquà in modo da poter essere subito recuperati dai loro connazionali se fossero stati abbattuti o se avessero dovuto lanciarsi col paracadute; così riuscivano a tornare in poche ore al proprio reparto, dove riprendevano a volare e a distruggere nemici. Nonostante che fosse abbattuto diverse volte, Hartmann prestò servizio fino all'ultimo giorno di guerra e fu appunto in questa giornata che ottenne il suo 352° successo: la sua ultima vittima russa stava eseguendo un tonneau lento, per festeggiare la vittoria. Il numero dei velivoli da lui distrutto è impressionante sotto qualunque punto di vista venga considerato; si può attribuire, in parte, alla maggior massa di velivoli e cioè di bersagli, al genere di guerra che veniva combattuta sul fronte orientale, al numero dei voli e quindi di combattimenti impegnati, oltre che alle superiori caratteristiche del suo Me 109. Bisogna però attribuirlo anche allo stesso Hartmann e rimane sempre un risultato prodigioso e senza precedenti. Come si sarebbero comportati i piloti del fronte orientale contro le forze aeree delle democrazie occidentali? Questa è una delle domande che più frequentemente vengono rivolte quando si parla dei cacciatori; ma lo studio della relativa documentazione dimostra che non si sarebbero certo comportati male. Non avendo però la possibilità di far tanti voli quanti, effettivamente, ne fecero sul fronte russo non avrebbero probabilmente ottenuto le tante vittorie registrate. Hartmann ebbe un'opportunità del genere quando fu, per breve tempo, trasferito in Romania nell'estate del 1944; volando sempre sullo stesso 109, al quale è rimasto fedele durante tutto il conflitto, in quel periodo abbatté cinque P 51 (probabilmente i migliori caccia di tutta la guerra). L'esperienza fatta da altri piloti del fronte orientale, oltre che da interi stormi, dimostra che non sarebbe saggio giungere a superficiali conclusioni circa la facilità di conquistare vittorie in quella zona. Un esempio ci è fornito dal maggiore Joachim Muencheberg, uno dei soli otto piloti tedeschi che ottennero più di cento abbattimenti in occidente; questi venne infatti trasferito sul fronte orientale nel 1942 e vi rimase per poche settimane: in questo breve periodo fu abbattuto tre volte. Un altro esempio ci è dato dalle avventure del 1° Stormo, che riportò tanti successi sul fronte alleato prima di essere inviato su quello russo; in tre settimane venne praticamente distrutto ed eliminato come reparto combattente, tanto che fu di nuovo rimandato in occidente. Le condizioni di combattimento sui due fronti erano decisamente differenti e il pilota abituato al fronte orientale, quando veniva di colpo trasferito su quello occidentale aveva paura degli attacchi che doveva fare ad altissima quota contro le strette formazioni, molto ben difese, dei bombardieri americani e, nei primi tempi, non rendeva molto in queste missioni. Similmente, i piloti abituati a questo fronte dovevano acclimatarsi, quando trasferitivi, alle condizioni di combattimento delle linee russe, sulle quali il tiro contraereo abbatteva più velivoli che i piloti nemici e dove lo stile di volo, a bassa quota, era del tutto differente. Lo stormo di Hartmann fu quello che riportò i migliori successi di tutta la Luftwaffe perché ebbe centosettantasette vittorie sul fronte occidentale prima di essere trasferito all'est, dove ne ottenne quasi altre undicimila; il gran numero di abbatimenti registrati da questo stormo rappresenta un altro dato statistico relativo alle occasioni che vi avevano i piloti del Reich. A tal proposito è interessante notare che gli «Experten» (i tedeschi non impiegavano la parola «asso») operarono, essi soli, più della metà del totale delle distruzioni registrate sul fronte russo. Hans Ring ritiene che delle quarantaquattromila vittorie ivi riportate, trentamila siano dovute a soli trecento piloti . Cosi, il veterano della guerra aerea orientale era spesso un professionista decisamente redditizio che, molto spesso, raggiungeva dei livelli di abbattimenti assai elevati; per il novizio, invece, le cose non erano affatto facili: uno stormo che, in un certo periodo di tempo, vi aveva perso ottanta piloti dovette accorgesi che ben sessanta di essi non avevano abbattuto nessun velivolo. La guerra sul fronte orientale era, dunque, un duello tra una gran massa di velivoli che agiva su una zona molto estesa; ma non sarebbe possibile, tuttavia, fare un confronto con quella che si svolgeva sul fronte occidentale e non vi è nemmeno la necessità di farlo. Si può discutere circa l'influenza che ebbe, sul gran numero delle vittorie aeree germaniche contro i russi, il maggior numero di nemici che i cacciatori tedeschi vi incontravano, la superiorità del materiale e il vantaggio tattico del quale potevano avvalersi nel combattimento; era ovvio che la situazione offrisse maggiori opportunità e che qualche volta fosse anche più facile l'abbattere avversari, ma d'altro canto sembra giusto che le vittorie conquistate dalla caccia della Luftwaffe nell'est meritino un rispetto maggiore di quello che qualcuno ha loro accordato nei primi anni del dopoguerra The Fighter Pilots
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    Il Duello Il giorno cominciò nella massima calma, i piloti del 27° Stormo gironzolavano con indosso la camicia kaki estiva e Marseille aveva indossato le calze bianche e le scarpette da tennis con le quali era abituato a volare; cosi vestito si sentiva libero dal complesso di giubbe impellicciate, combinazioni da volo, e altri equipaggiamenti che tanto infastidivano i piloti in climi più freddi o in alta quota. Le forze del 27° Stormo erano inferiori, come numero, a quelle nemiche, ma il morale a Martuba era alto e Marseille era uno dei motivi di questo spirito aggressivo e della fiducia di tutti i piloti. Un centinaio di miglia più a oriente, a Gambut, una base della caccia della RAF, il 5° Gruppo sudafricano stava predisponendo le operazioni della giornata. I piloti dei P 40 Tomahawk ricevettero l'ordine di effettuare, nella tarda mattinata, una crociera sulla fortezza assediata di Bir Hacheim e, mentre gli specialisti controllavano i velivoli, i piloti si preparavano per il decollo. A Martuba, quella stessa mattina, giunsero ordini di volo soltanto per un limitato numero di caccia tedeschi. Una pattuglia di sei, condotta da Marseille, avrebbe scortato gli Stuka che dovevano bombardare Bir Hacheim; il decollo era stato fissato per le 11.30. I piloti della prima e della seconda squadriglia si misero a riposo mentre i sei prescelti, compreso Marseille e il suo gregario, il sergente Reiner Poettgen, cominciarono a prepararsi per il volo. Il sole era caldo e c'era poco vento ma, a parte questo, il tempo era ottimo; Marseille ebbe ben pochi ordini da dare ai propri uomini perché la missione era una delle solite: tutti avevano già scortato i bombardieri in picchiata. Poco dopo le undici i sei uomini s'incamminarono verso i decentramenti riparati dai fusti di benzina dove i Me 109 F, dai lunghi musi, erano stati approntati. Erste Wart Meyer, il capospecialista di Marseille, lo aiutò a legarsi nell'abitacolo e a chiudere il tettuccio; scambiando qualche parola ogni tanto, attendeva sull'ala destra con la manovella in mano, in attesa del segnale del pilota mentre un altro motorista stava sull'ala sinistra. Il numero 14, in cifre alte poco più di un metro, era dipinto con vernice gialla proprio dietro il posto di pilotaggio su ambedue le fiancate della fusoliera. Soddisfatto delle condizioni in cui era il velivolo, Marseille fece un segno con la mano destra accennando col capo e ordinando: « Los! » Lo specialista si mise a far girare la manovella e il sibilare della massa rotante cominciò a farsi sempre più acuto mentre il pilota aspettava che divenisse un fischio; allora schiacciò il pulsante della messa in moto e il motore Daimler-Benz da millecinquecento cavalli cominciò a borbottare, emettendo fumate nere dai sei tubi di scarico che si affacciavano dalle cappottature del muso, quindi si mise a rombare decisamente. L'elica a tre pale prese a girare sempre più velocemente, divenendo un'ombra appena percettibile, mentre il vento scuoteva le leggere uniformi degli specialisti. I due uomini saltarono giù dall'ala a un cenno di Marseille che, facendo sollevare un nuvolone di polvere e di sabbia alle sue spalle, si mosse per far uscire dal riparo il suo caccia dalle lunghe ali. Altri cinque velivoli prendono a muoversi dai loro ricoveri mimetizzati, segnalandosi per il polverone che sollevano; dato che la sabbia è di grana grossa e pesante i piloti evitano di rullare l'uno dietro l'altro e perciò la formazione avrebbe decollato in coppie, ciascuna spostata di fianco rispetto alla precedente, quasi in linea di fronte. Marseille, che in codice ha il nominativo di « Elbe 1 » si porta sulla testata settentrionale del campo e si mette in direzione sud-sud-est: due caccia sono sulla sua destra e altri tre sulla sinistra; un'occhiata agli strumenti, ai compensa tori, al parzializzatore del liquido di raffreddamento, poi comincia a spingere in avanti la manetta. Il Daimler-Benz emette un ruggito che si sente a miglia di distanza e il caccia comincia a muoversi; gli altri lo seguono e il rumore diviene ancor più forte. Gli aeroplani rombano sempre più veloci, nascosti dalla polvere che sollevano e decollano dal campo. Marseille inizia una leggera virata mentre fa rientrare il carrello e ben presto i sei 109 diventano piccole sagome che rimpiccoliscono fino a sparire a sud-est, nel cielo della mattinata. Sono le 11.32. Gli Stuka effettueranno il lancio da bassa altezza , perciò Marseille non fa molta quota; controlla le armi, il cannoncino da venti millimetri del muso e le due mitragliatrici da sette e nove (il Me 109 F ha un solo cannoncino mentre l’ E ne aveva due); un pallido cerchio giallastro compare nel vetro del collimatore e intanto il pilota si guarda intorno nel cielo per cercare gli Stuka che deve scortare su Bir Hacheim. Un centinaio di miglia più a oriente, dall'aeroporto di Gambut dove è dislocato il 5° Gruppo sudafricano, decollano i caccia britannici; sono quaottordici o sedici Tomahawk P 40, che si mettono in rotta verso sud-ovest per andare a proteggere Bir Hacheim. Invece delle croci, sulle loro ali sono dipinti dei cerchi rossi e blu, mentre sulla fusoliera sono blu bianco e rosso. Marseille avvista ben presto gli Stuka nella zona prevista per l’incontro e allora fa allargare la propria pattuglia per dar loro il massimo di protezione. I bombardieri, pesantemente caricati, sono poco veloci e i 109, con le manette ridotte, effettuano delle lente « S » sopra di loro per rimanere in posizione di scorta senza però perdere troppa velocità, il che li renderebbe molto vulnerabili in caso di attacco. Marseille e Poettgen sono più in avanti e più in alto rispetto ai grossi .Ju 87, che si tengono a bassa quota, milleduecento metri; tutti si guardano intorno, ma il cielo è perfettamente sgombro. Le colline della Cirenaica sono ormai scomparse alle spalle e davanti a loro si stende la pianura piatta e giallastra mentre Ain el-Gazala compare sulla sinistra. La squadriglia prosegue il suo volo, sempre diretta a sud-est; è già mezzogiorno e Bir Hacheim dista una ventina di minuti di volo. Gli Stuka, con la bomba a bordo, due uomini di equipaggio e i loro quasi quattordici metri di apertura alare, non fanno più di centosessanta miglia orarie, il che obbliga i caccia a zigzagare per mantenere una sufficiente velocità in caso di sorpresa; ma nessun nemico è in vista. Sono le 12.10; una cinquantina di migaia più a oriente, a circa una dozzina di minuti di volo da Bir Hacheim, vi sono i velivoli britannici che si recano anch'essi all'appuntamento sullo stesso obiettivo. Vanno più veloci della formazione tedesca, lenta e pesante; i Piloti non vedono niente in giro per il cielo, mentre scrutano verso sud-ovest nello splendore abbagliante della luce meridiana. Adesso gli Stuka e i caccia che li circondano cominciano a distinguere Bir Hacheim e i piloti dei bombardieri cominciano a mettersi in fila indiana per prepararsi alla picchiata mentre i mitraglieri si guardano intorno per cercar di vedere se vi sono in giro dei caccia britannici, che potrebbero trovarsi in attesa nel cielo dell' obiettivo. Ma forse quella sarà una missione semplice, anche se questa è la seconda incursione su Bir Hacheim e la pressione degli italiani e dei tedeschi si mantiene costante. Gli Stuka si avvicinano al bersaglio e si preparano alla virata d'inizio della picchiata... i piloti manovrano per mantenersi in fila per la manovra d'attacco mentre Marseille e i 109 si sono portati alquanto più a occidente di Bir Hacheim. Sono le 12.21. « Horridoh!» L'urlo arriva di colpo negli auricolari dei piloti tedeschi: "Nemici alle spalle », avverte qualcuno. Marseille si gira e scorge i Tomahawk più alti dietro di loro: quelli del 5° Gruppo sudafricano. I Ju 87 sono già in candela e le bombe cominciano a scoppiare su Bir Hacheim da dove soltanto la contraerea leggera reagisce. Marseille cabra un poco e, automaticamente, i Me 109 si separano a coppie; il capo formazione è il più alto di tutti. I Tomahawk, leggermente più scuri di colore, arrivano con una buona velocità come se volessero buttarsi sugli Stuka, ma di colpo si accorgono del 109 ! Qualcuno di essi cambia rotta e, da ambedue le parti, i piloti cominciano a sentire la tensione. Marseille si mette in rotta d'intercettazione e arriva adesso al loro livello continuando a far quota mentre gli Stuka, usciti dalla picchiata, si stanno rimettendo in pattuglia dirigendosi verso nord-ovest. Il comandante della formazione dei Tomahawk vira a destra e si mette a circolare per avvantaggiarsi della capacità che hanno i suoi velivoli di virare più stretto. La loro quota è di millecinquecento metri, Marseille è più alto e si avvicina, con Poettgen in posizione a un centinaio di metri sulla sua sinistra, esaminando gli avversari che continuano a circolare, nella loro formazione chiusa, in difensiva. Giallo 14 vuole attaccare la «Lufbery»: i Tomahawk non sono a più di una sessantina di metri l'uno dall'altro, con le ali molto inclinate nella virata stretta. Marseille spinge la leva in avanti e comincia a picchiare, seguito dal gregario. Il 109, picchiando, acquista velocità e si avvicina alla « Lufbery », ne raggiunge la quota, ma continua verso il basso; poi Marseille tira la leva e il muso giallo del 109 si alza verso il circolo mentre fissa gli occhi su un Tomahawk. L'ala del P 40 s'ingrandisce, si allarga sempre più... tocca adesso il bordo del cerchietto luminoso, ormai è a una quarantina di metri dalla sua vittima, col velivolo in cabrata a destra, dietro al nemico; allora preme ambedue i bottoni di sparo delle armi: cannone e mitragliatrici esplodono e vibrano. La breve raffica centra il motore e scorre velocemente verso la coda. Marseille adesso cabra ancora il velivolo portandosi di nuovo al di sopra della formazione, che continua a virare. Il P 40 si lascia dietro una scia di fumo, esce dal circolo e precipita in basso: la puntata ha avuto la durata di qualche secondo. Marseille si mette in volo orizzontale al vertice della virata: il Tomahawk, mortalmente ferito, sta ancora precipitando in candela lasciandosi alle spalle una scia verticale di fumo, poi si infrange al suolo esplodendo. Gli altri continuano nella manovra difensiva che terrebbe lontani molti attaccanti, ma non certo Marseille, che picchia di nuovo prendendo velocità mentre adocchia un nuovo bersaglio. Con una manovra calcolata fino all'attimo esce dalla candela, vira strettamente sulla destra piombando esattamente in coda di un'altra vittima predestinata di quel circolo; il suo velivolo è tanto veloce che il caccia che gli è alle spalle non fa nemmeno in tempo a prenderJo di mira. Dirige, per qualche secondo, diritto sul nemico poi preme i bottoni e le armi urlano ancora; un'altra valanga di metallo da una quarantina di metri o poco più va a concentrarsi nel motore che gli è davanti. (Marseille, aveva il sistema di sparare appena il nemico gli spariva sotto il muso; l'intera raffica, sparata nell'esatta direzione e molto da vicino, di solito andava a finire nel motore o nel posto di pilotaggio.) Anche il secondo nemico emette fumo e esce dalla formazione mentre Poettgen guarda ammirato. Marseille picchia, poi riprende a cabrare, ma questa volta, nel tornare indietro, si avvicina alla «Lufbery» molto più veloce di quanto non lo fosse dopo la prima raffica; nel frattempo la seconda vittima sta precipitando verso terra, da cui dista poco più di mille metri: i caccia, sempre circolanti, stanno perdendo quota continuamente e intanto Marseille ha le dita sui grilletti e lo sguardo puntato attraverso il vetro del collimatore mentre vira a destra, pronto a entrare nel circolo per il terzo attacco. Ha calcolato la virata in modo da penetrarvi proprio dietro la vittima prescelta, cabrando attraverso la «Lufbery », allenta un attimo la leva e, per uno o due secondi, è in posizione di sparo. In quel preciso istante le armi del 109 dal muso giallo sputano un'altra massa di pallottole che, per la terza volta, vanno ancora a segno perché anche questo velivolo comincia a fumare. Marseille è nuovamente più in alto della formazione nemica, dà un'occhiata alla scena che si offre ai suoi occhi sotto di lui e, nel riprendere la manovra, sta già scegliendo la quarta vittima. Questa picchiata è ancora più veloce delle altre; mentre l'ultimo nemico colpito e avvolto nel fumo scende verso terra, il 109 vira di nuovo verso i Tomahawk. Picchia, virando strettamente a destra, e intanto Marseille calcola tempo e distanza: l'apertura alare del velivolo riempie il cerchietto luminoso, poi scompare sotto il muso del 109. Pigia i bottoni ma il cannoncino non spara più, si è inceppato! Però le due mitragliatrici funzionano e le loro raffiche convergono nello stesso punto del muso del Tomahawk; pezzi di lamiera si staccano volandosene via, il motore emette fumate bianche e nerastre, il caccia dal lungo muso barcolla, poi un'ala si piega decisamente e anch'esso lascia la formazione. Marseille non ha dato nemmeno un'occhiata alla sua quarta vittima, non ha commesso, cioè, quello che è proprio il peccato fondamentale, anche se normale, nei combattimenti. È così sicuro della sua mira che, dopo un colpo d'occhio alla situazione, si concentra sulla prossima puntata. Poettgen, affascinato, guarda il terzo caccia abbattuto, che tocca terra ed esplode anch'esso, mentre il quarto ha appena iniziato la sua ultima picchiata. Marseille torna ancora, velocissimo, sulla «Lufbery » e, con un'altra stretta virata sulla destra, manovra brevemente timoni e alettoni per piazzarsi dietro al numero cinque. I piloti nemici, evidentemente sotto l'impressione che la massa dei caccia attaccanti sia notevole, non sembrano rendersi conto di quello che sta accadendo cosi velocemente e continuano a circolare. Sono le 12.28: sei minuti da quando il primo P 40 è stato abbattuto. In pochi secondi Marseille è di nuovo in posizione, virando leggermente dall'alto, come se fosse stato uno dei caccia della RAF; preme i bottoni, e soltanto le mitragliatrici sparano... Ma anche i loro colpi vanno a segno, sempre dal motore all'abitacolo del pilota... una raffica brevissima, ma mortale. Marseille solleva il dito, ancora manovrando fuori del circolo mentre anche la quinta vittima precipita avvolta nel fumo. Poettgen vede che il quarto caccia si sfascia a terra mentre i resti della formazione sono ormai molto bassi perché a ogni virata hanno perso un po' di quota. Marseille si mette a guardare, tenendosi adesso alquanto distante e facendo i suoi conti. Il cannoncino non spara più; ha abbattuto cinque velivoli nemici, che sono precipitati dalla formazione mentre lui non è stato colpito... un risultato velocissimo, fulminante, incredibile. Sopra di ,lui sta girando Poettgen. Marseille vede che i Tomahawk continuano a spiraleggiare perdendo sempre più quota, ha ancora delle munizioni e, poiché è in volo da un'ora, ha carburante a sufficienza. Spinge di nuovo a fondo la manetta del motore per andare a buttarsi un'altra volta in mezzo al circolo. Con lo sguardo fisso su quella che dovrà essere la sua sesta vittima Marseille manovra il velivolo in modo da fare un'ultima fulminea puntata in mezzovalla formazione. Saetta nello spazio esistente tra due Tomahawk ed entra nel circolo a tutta velocità; l'ala di quello che ha davanti è nel cerchietto e allora, virando con le ali quasi perpendicolari al terreno, tira ancora un poco la leva facendo abbassare sul muso del suo 109 ,il caccia che sta virando davanti a lui. La vittima gli sparisce dalla vista: fuoco ! Le mitragliatrici martellano, scuotendo l'assalitore per la sesta volta mentre ,le pallottole penetrano nell'aeroplano nemico e Marseille cabra per allontanarsi poi dalla formazione con una picchiata. Il velivolo colpito emette fumo dagli scarichi, esce dal circolo e comincia a perdere quota. Ne ha abbattuti sei! Esaltato ed eccitato preme il bottone della radio: «Elbe 1 a Elbe 2: Hast du den Aufschlag gesehen?» (Li hai visti cadere?) Poettgen risponde: «Elbe 2 a Elbe 1: Vittoria! Vittoria! » Allora batte le ali e sale, dirigendosi indisturbato verso di lui; poi, con sua gran sorpresa, Marseille sente negli auricolari delle congratulazioni : il Kommodore Eduard Neumann è arrivato sul posto giusto in tempo per assistere al combattimento. « Bravo, Joachim! » gli urla, mentre altre congratulazioni gli arrivano da altri piloti e lui ne è tutto contento. Il combattimento è finito di colpo; gli altri 109, pochi dei quali sono riusciti a scontrarsi col nemico, se ne tornano a Martuba mentre i Tomahawk rientrano alloro campo e la sesta vittima di Marseille perde quota sempre più. La squadriglia, trionfante, punta ormai i musi gialli dei suoi velivoli verso nord-ovest e il cuore del comandante batte forte: è la prima volta che è riuscito ad abbattere sei caccia in un sol volo. E non gli è costato che undici minuti! Il tempo scorre lentamente quando si torna alla base di partenza, ma alla fine Martuba appare alla vista davanti a loro; Marseille vi si abbasserà per fare un tonnenu lento che significa l'aver riportato delle vittorie. A terra il personale, tra cui qualcuno scommetteva sempre sugli abbattimenti del comandante, sta seduto e aspetta. Finalmente cominciano a sentire il rombare dei velivoli, ancora lontani, verso sud-est e poi la squadriglia compare ai loro occhi, con Marseille alla testa; man mano ,che si avvicinano Giallo 14 si abbassa e picchia, sempre più veloce: passa sulle tende, sulle baracche e sulle costruzioni sparse sulla sabbia rosso-brunastra e fa tre tonneaux lenti; poi si raddrizza e si allontana. Gli specialisti urlano di gioia, specialmente quelli suoi: tre abbattimenti! Ma Marseille vira oltre il limite del campo con l'ala perpendicolare al terreno, a bassa quota, e torna indietro per ricominciare la manovra: uno, due, tre tonneaux lenti... poi si allontana ed entra in circuito, virando per venire all'atterraggio. Tutti, specialisti e piloti sono eccitati da questa comunicazione aerea e sanno benissimo che sei vittorie in un sol volo è un nuovo primato anche per Marseille. Questi intanto ha chiuso il motore, ha aperto le alette del radiatore, ha abbassato il carrello; l'elica gira più piano, il motore borbotta in tono minore e il velivolo plana per atterrare. La velocità scende: duecento chilometri orari, centonovanta, centottanta, centosettanta; pochi metri di altezza, poi il contatto col suolo. Giallo 14 è a terra e sta rullando: Poettgen è di fianco, a una quarantina di metri di distanza. Quando ha smaltito la velocità Marseille gira a sinistra e rulla fino al decentramento dove una gran folla di specialisti lo sta aspettando in grande eccitazione. Poettgen rulla dietro di lui che penetra nel recinto difeso dai fusti pieni di sabbia, dà motore, fa dietro-front poi toglie i contatti. Diversi avieri lo circondano e , istintivamente urlano un evviva; il suo capo specialista sorride: «Gratulieren!» Poettgen si ferma a una cinquantina di metri, salta rapidamente dal velivolo e corre verso quello di Marseille intorno al quale si sta radunando il personale; il pilota è stanco, ma parla con quelli che lo circondano e che lo colmano di sorrisi e di congratulazioni. Quando arriva Poettgen gli chiede di nuovo se ha visto cadere le sue vittime e questi gli ripete, ancora, di averle viste tutte e sei: gli armieri che hanno cominciato a dare un'occhiata al cannoncino sono meravigliati quando hanno aperto l'arma: sono stati sparati soltanto dieci colpi da venti millimetri. Una cinghia messa di traverso ha provocato l'inceppamento; l'esame delle mitragliatrici dimostra che ha sparato soltanto poche centinaia di pallottole per ognuna. La folla cresce e Marseille rimane accanto al suo velivolo una decina di minuti per rispondere alle domande e raccogliere le congratulazioni; scherza con tutti quelli che vengono a dare un'occhiata al «Pilota dell'Africa», poi deve andare alla tenda del comando, che è nei pressi, a scrivere .il rapporto sul combattimento e parlare con Neumann. Il 30 settembre 1942 di ritorno da una missione al Cairo il suo caccia , per un problema di lubrificazione al motore, si incendiò riempiendo la cabina di pilotaggio di fumo ed iniziò a perdere rapidamente quota. Marseille cercò di riportare l'apparecchio entro le linee italo-tedesche e, riuscitovi, mise l'aereo in volo rovescio per aprire il tettuccio e lanciarsi: il suo corpo colpì violentemente il timone di coda del velivolo e, svenuto, non riuscì ad azionare l'apertura del paracadute. Il suo corpo cadde senza vita nella zona di Sidi Abdel Rahman.
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