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Dave97

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  1. Lo HAWKER TEMPEST V, col suo formidabile motore Napier-Sabre di 24 cilindri ad H, era il caccia più moderno non solo della RAF, ma di tutte le forze alleate. Ne risultò una magnifica macchina per la guerra aerea. Elegante, nonostante il grosso radiatore che gli dava un aspetto prepotente e protervo, il Tempest era d'una finezza incredibile. Molto pesante, disponeva, nonostante le sue sette tonnellate di peso al decollo, d'un considerevole eccesso di potenza, grazie ai 2850 cavalli del suo motore, e aveva un'accelerazione fenomenale. Evidentemente, pilotarlo era duro, ma le sue caratteristiche di volo compensavano il rischio. In superpotenza si poteva spingere il motore fino a 3000 cavalli e 4000 giri, e la velocità saliva a oltre 800 chilometri l'ora. In supervelocità, il Tempest era l'unico apparecchio alleato che raggiungesse normalmente, senza inconvenienti sensibili nel pilotaggio, velocità d'ordine sonico, cioè perfino i 1200 chilometri l'ora. . Col suo raggio d'azione operativo di ottocento chilometri, coi suoi quattro cannoncini da 20 millimetri e ottocento colpi disposti nei quattro serbatoi di alimentazione (vale a dire quasi venti secondi di fuoco) e 1800 litri nei serbatoi, il Tempest era il corsaro ideale del giorno, degno di stare alla pari del Mosquito, corsaro della notte. I primi due gruppi di Tempest (3° e 56° della RAF) erano stati equipaggiati e spediti, nel giugno 1944, contro le bombe volanti, le V-1, che minacciavano Londra. Quasi novecento V-1 esplosero in alto mare sotto i loro colpi. I Mustang e i P. 47 Thunderbolt americani, come pure gli Spitfire della RAF, non potevano raggiungere quei diabolici congegni se non in picchiata, il che diminuiva le loro possibilità di vittoria. I Tempest invece potevano incrociare calmi a mezza potenza, poi, appena appariva una V-1, prendere posizione e sparare senza fretta, grazie alla loro fulminea velocità. Tuttavia, questa entrata in servizio frettolosa non era stata senza inconvenienti. Il motore Sabre assorbiva solo protestando la benzina a 150 ottani. Tratto da La Grande Giostra PS: il libro è facilmente reperibile in biblioteca!!!!!
  2. Dave97

    S.79 Sparviero

    20 ottobre 1934 Sull'aeroporto militare di Mildenhall nel Suffolk sono schierati, alla presenza del re, della regina e di più di 60.000 spettatori entusiasti, 20 aerei di sette Paesi, pronti a partire per una gara di distanza delle più impegnative. È la coppa Mac Robertson, ricco industriale del cioccolato che per festeggiare il 100° anniversario della fondazione di Melbourne ha messo in palio 60.000 dollari di premio per l'aereo che arriverà primo sul percorso Inghilterra-Australia. È proprio per questa prestigiosa gara che Alessandro Marchetti, già ingegnere responsabile della SIAI dal 1922, progetta l'S.79 che purtroppo non riesce a essere messo a punto per la partecipazione alla coppa. Se ciò fosse avvenuto sarebbe stato l'unico incontro diretto tra l'industria aeronautica italiana e quella americana nel campo dei grossi aerei da trasporto civile: erano schierati, infatti, a Mildenhall un Douglas DC 2 (con i colori della KLM) e un Boeing 247, ciò che di meglio e più moderno potesse esserci nel campo del trasporto. Quel che rese più scottante la mancata partecipazione dell' S.79 alla gara fu il fatto che già dal primo volo, effettuato dal prototipo l-MAGO, a Cameri il 2 ottobre 1934 con ai comandi Adriano Bacula, l'aereo si dimostrò assai più veloce dei concorrenti americani piazzatisi rispettivamente al secondo e terzo.posto. L'S.79 nasce come velivolo civile veloce per il trasporto di 8 passeggeri ottenendo infatti il certificato di navigabilità del Registro Aeronautico Italiano per la classe NTM, cioè turismo, e se non potè esordire, come abbiamo visto, nella coppa Mac Robertson che doveva costituire il suo «lancio» propagandistico, incominciò ben presto ad accumulare primati e successi uno dopo l'altro. Nel settembre 1935 vengono battuti 6 record mondiali di velocità, rispettivamente sui 1.000 e 2.000 chilometri con carichi utili di 500, 1.000 e 2.000 kg. Tra il 20 e il 21 agosto 1937, cinque S.79 C (dove C sta per corsa) partecipano al raid Istres-Damasco-Parigi su un percorso totale di 6.190 km. La gara, che nella fase di ritorno si presentò piena di imprevisti e di difficoltà, ha un successo strepitoso: si piazzano ai primi tre posti tre S.79. Il primo, l'l-CUPA (Cupini-Paradisi) volteggiò addirittura per un'ora sull'aeroporto di Le Bourget per aspettare l'aereo di Biseo-Mussolini, portando a termine la gara alla velocità media superiore ai 350 km/h; secondo atterrò l'I-FILU (Fiori-Lucchini) e terzo l'I-BIMU (Biseo-Mussolini). Gli S.79 della prestigiosa gara portavano sulla fusoliera i tre famosi «Sorci verdi» che erano lo stemma del 12° Stormo. È curioso notare che i tre sorci verdi sono disegnati senza baffi il che si prestava alla battuta di spirito dei piloti che dicevano «i baffi li abbiamo noi», con chiara allusione al fatto di essere, senza falsa modestia, piloti di notevolissime capacità. Il 24 gennaio 1938 vede un'altra spettacolare impresa dei «Sorci verdi»: tre S.79 T (dove T sta per transatlantico) portano a termine un eccezionale volo di distanza da Guidonia a Rio de Janeiro via Dakar. La lunghezza totale del percorso è di 9.150 km e viene percorsa alla media di 404 km/h. Siamo all'apice del prestigio e delle conquiste del trimotore di Marchetti. Un'ultima curiosità per restare ancora nell'ambito dell'impiego civile e agonistico. Ricordiamo un volantino pubblicitario dell'S.79 che definiva l'aereo quale «trimotore civile per servizi rapidi di passeggeri e posta, fabbricato anche come aereo militare»; più avanti però il dépliant lo definisce, a causa di un banale refuso tipografico come «aeroplano bimotore»: refuso che si dimostrò, però, veritiero in quanto in una versione, la SM 79/B, il «trimotore» fu equipaggiato da soli due motori. Questa versione si scostava molto dalla normale oltre che, ovviamente, per l'adozione di due soli motori al posto di tre, per la sistemazione dei posti di pilotaggio non più affiancati, ma in tandem, conseguentemente per la gobba dorsale estremamente allungata, per il muso completamente sfinestrato per accogliere il puntatore e per la gondola ventrale di nuovo disegno. Il bimotore fu destinato soltanto all'esportazione e gli unici clienti furono la Romania (48 esemplari) e l'lraq (4 esemplari). Visti i risultati dell' aereo, nel 1936 il Ministero dell'Aeronautica ordina un primo lotto di 24 S.79 per uso militare dopo avere fatto approntare alcune sostanziali modifiche tra cui: maggiore superficie della deriva per attenuare una certa tendenza a imbardare, portello di fusoliera con scaletta incorporata, inserimento all'interno della fusoliera del vano porta bombe sul lato destro all'altezza del bordo di uscita dell'ala (a sinistra restava un corridoio di passaggio) con due cestelli per bombe da 500 kg o 5 bombe da 250 kg o dodici per bombe da 100 kg, gondola di puntamento per il bombardiere sistemata sotto la fusoliera con due carenature retrattili (gambali) ove lo specialista poteva infilare le gambe affinché non penzolassero nel vuoto, una protuberanza sul dorso (di qui il famoso soprannome di «Gobbo») in cui era sistemata una mitragliatrice in caccia anteriormente (SAF A T 12,7 mm) e una uguale, ma brandeggiabile, posteriormente; sulle fiancate furono aperte due finestrelle da dove si poteva sparare con una mitragliatrice Lewis da 7,7 mm. Nella sua nuova divisa militare l'S.79 ha il battesimo del fuoco nella Guerra di Spagna, dove arriva nella primavera del 1937, inquadrato nel 111° Stormo Bombardamento Veloce «Sparvieri» e nell'8°Stormo BV «Falchi delle Baleari». Sul fronte furono in tutto inviati 99 aeroplani di cui 80 sopravvissero al conflitto; basta questa cifra per vedere quanto superiore fosse l'S.79 anche rispetto ai caccia nemici. (poteva sfuggire facilmente ai Rata russi grazie alla sola maggiore velocità!). Ma la superiorità vantata in terra spagnola si rivelò subito effimera all'inizio del secondo conflitto mondiale dove l'aereo venne usato in tutte le configurazioni: bombardamento, trasporto truppe e materiali, scorta convogli e infine aerosilurante. In questa specialità, che si pensava fino a quel momento appannaggio dei soli monomotori, diede forse il meglio di sé non tanto per le sue peculiari qualità, quanto per la tenacia e la caparbietà dei propri equipaggi. La scelta cadde sull'S.79 poiché in quel momento era tra gli aeroplani efficienti il meno peggio per essere impiegato come aerosilurante grazie alla sua buona velocità, all'ottima manovrabilità (si ricordi a titolo di curiosità che l'S. 79 riusciva a fare il looping), alla sua discreta possibilità di carico e alle sue innegabili doti di incassatore. Certo è incredibile che l'Italia, che per prima studiò la possibilità e l'efficacia dell'uso del siluro aereo, giungesse alle soglie del secondo conflitto mondiale senza non solo un aereo adeguato per la specialità, ma senza neppure una scuola. A testimonianza della priorità italiana negli esperimenti di aerosiluranti, gioverà ricordare che il primo lancio in assoluto avvenne a Venezia il 26 febbraio 1914 sotto la direzione tecnica di Alessandro Guidoni e la prima iniziativa di costituire un corpo specializzato risale al 1933 grazie alla convinzione di Italo Balbo sull'efficacia di una tale arma. Ma al di là della situazione obiettiva della Regia Aeronautica che all'inizio del conflitto, come abbiamo detto, mancava di aerosiluranti, la memorialistica ha dimostrato che il 10 ottobre 1939 il generale Giuseppe Valle (allora Capo di Stato Maggiore della AM) si era preoccupato di invitare, attraverso la Direzione Generale delle Costruzioni e degli Approvvigionamenti del Ministero, la Savoia Marchetti a predisporre le strutture per installare dei siluri sugli S. 79. Quando il generale Francesco Pricolo, esattamente il mese dopo, subentrò a Valle, si affrettò a intensificare la preparazione degli aerosiluranti e alla fine di quell'anno, in effetti, alcuni S.79 erano pronti ad accogliere i siluri; quelli che tuttavia continuavano a mancare erano i siluri! Dei due silurifici esistenti in Italia (quello di Baia presso Napoli e quello della Whitehead di Fiume) il primo era completamente assorbito dalla fornitura di siluri per la Marina italiana, il secondo aveva in corso una commessa per la Marina tedesca. Il generale Pricolo dovette a fatica convincere i dirigenti fiumani a stornare dalla commessa tedesca 50 siluri e a prepararne altri 30 per l'aviazione italiana. Solo a queste condizioni il nucleo sperimentale degli S.79 poté essere pronto all'azione agli inizi dell'agosto 1940. Il primo Nucleo Addestramento Aerosiluranti sarebbe stato ufficialmente costituito solo il 28 ottobre 1940 sotto il comando del tenente colonnello Carlo Unia. Gli S.79 da siluramento vennero forniti di un impianto ventrale porta siluro che permetteva il trasporto di due ordigni affiancati; in realtà ne venne usato sempre solo uno (quello in posizione sinistra) per non penalizzare l'aereo nelle sue caratteristiche di velocità, ma soprattutto di manovrabilità. Due siluri furono in qualche rarissimo caso agganciati o per effettuarne il trasporto dal silurificio a una base o solo per essere fotografati. Un altro fatto poco conosciuto che andicappò eccezionalmente i nostri equipaggi fu la necessità di regolare a terra, prima della missione, le capsule barometriche del siluro che avevano il compito di tenerlo alla profondità prestabilita; ne consegue chiaramente che se un siluro era tarato per colpire una nave di una determinata classe con un certo pescaggio, doveva compiere il suo attacco solo contro quel tipo di nave, pena il fallimento dell'attacco in quanto il siluro, se la nave aveva un pescaggio inferiore, sarebbe passato sotto lo scafo. Lo sgancio del siluro di norma avveniva a una quota inferiore ai 100 m, alla velocità di 300 km/h e a una distanza di circa 700 m. La prima azione di siluramento avviene il 15 agosto 1940 con un attacco ad Alessandria senza riportare però risultati positivi, ma da qui in avanti inizia l'epopea di quello che fù soprannominato dagli inglesi il «Gobbo maledetto» per quella sua caratteristica gobba dorsale che compariva all'improvviso nei furiosi attacchi a pelo d'acqua condotti con fredda risolutezza e determinazione. Quanto la sia pur tardiva decisione dell'Aeronautica Militare di mettere in campo aerosiluranti fosse stata comunque logica e provvidenziale, appare evidente dal raid dei Fairey Swordjish decollati dalla portaerei britannica Illustrious l'11 novembre 1940 quando i due gruppi di aerosiluranti dei capitani di corvetta Kenneth Williamson e J. W. Hale nel giro di neppure due ore misero in ginocchio la flotta italiana. Gli S.79, che rimasero comunque gli unici aerosiluranti della Regia Aeronautica nella Seconda Guerra Mondiale, dopo l'8 settembre furono usati in questo ruolo solo nella Repubblica Sociale Italiana dove continuarono le loro epiche gesta, mentre i pochi rimasti al sud furono concentrati in due gruppi di trasporto e usati per i collegamenti. Finita la guerra i superstiti S.79 vennero usati dai Corrieri Aerei Militari che furono il seme del futuro trasporto commerciale in Italia; così il cerchio si chiude. L'S.79 plasmato da Alessandro Marchetti per il «trasporto passeggeri veloce», dopo innumerevoli usi per i quali non era specificatamente nato, riprese i suoi pacifici voli nel suo naturale ruolo. La Storia Illustrata , Maggio 1984
  3. Dave97

    SM.93

    Uno degli ultimi progetti della Savoia Marchetti, nati durante la seconda guerra mondiale fu l'interessantissimo SM.93. Velivolo che, purtroppo a seguito delle vicende armistiziali non superò lo stadio di prototipo. Classificato dalla ditta quale "mono-motore biposto per combattimento a tuffo o siluramento" fu generato dalla necessità di disporre finalmente di un efficace bombardiere a tuffo di produzione nazionale e di un aerosilurante progettato per il compito specifico che non fosse venuto fuori dall'adattamento di un velivolo ideato, in via primaria, per altri compiti. Notoriamente, i velivoli utilizzati per il bombardamento a tuffo furono principalmente, se non esclusivamente, gli JU87 Stuka forniti alla Regia Aeronautica in due versioni e in svariati esemplari. Il numero di Stuka ceduti dai tedeschi, alla nostra aeronautica, però, non fu mai sufficiente a soddisfare le esigenze operative sui vari scacchieri. La soluzione nazionale al problema, rappresentata dal SM.85, originaria proposta della Savoia Marchetti, fu un vero e proprio fallimento. Il velivolo, conosciuto tra i piloti con il nomignolo di "banana volante", dopo pochi e inutili tentativi di utilizzo bellico finì ai bordi dei campi di volo a far da aereo civetta per il bombardamento nemico. Per quanto riguarda, invece i velivoli destinati all'aerosiluramento, basterà ricordare che tutto il peso del conflitto fu sostenuto dal SM.79 "Sparviero", essendosi rivelato il SM.84, l'aereo destinato a sostituirlo, un vero fallimento avendo caratteristiche di volo e di manovrabilità chiaramente inferiori allo Sparviero. Il SM.93 fu un monoplano biposto a struttura lignea con rivestimento in compensato e tela, avente fusoliera ellittica con struttura a guscio. Aveva un carrello retrattile, a scomparsa totale, con chiusura verso l'interno e un ruotino di coda non retrattile ma orientabile. Il castello motore, costituito da un traliccio in tubi d'acciaio, ospitava un motore Daimler Benz 605 che muoveva un'elica tripala metallica Alfa Romeo. I serbatoi per il carburante erano alloggiati nel piano centrale dell'ala. Era dotato di apparecchiatura radio ricetrasmittente B30 T Bis, interfonico, goniometro e apparecchiatura fotografica. L’armamento era costituito da due mitragliatrici fisse calibro 12,7 alari, con tiro fuori dal disco dell'elica con 600 colpi, una mitraglia brandeggiabile da 12,7 con 300 colpi, per la difesa posteriore, utilizzata dal radiotelegrafista armiere e, infine, da un cannone Mauser cal. 20 con 150 colpi, sparante attraverso il mozzo dell'elica. L’armamento di caduta prevedeva la possibilità di trasportare agganciata sotto la fusoliera una bomba da 820 kg oppure da 480 o, infine, una da 420 kg. Agganciate alle ali era possibile trasportare quattro bombe da 100 kg. Infine sotto la fusoliera vi era possibilità di scelta, nel trasporto, tra la seguente tema di siluri: CNA da 530 kg, SB da 580 kg e W da 650 kg. L'aereo con un'apertura d'ali di mq 13,90 ed una superficie alare di 31,1. aveva un peso a vuoto di 3.450 kg e un carico utile di 2.050 kg. La velocità massima a 7.000 m, prevista dalla ditta, era di 560 km/h, mentre i tempi di salita erano di 7'30" a 4.000 m e di 12'2" a 6.000 m. Il velivolo raggiungeva in affondata la velocità di 950 km/h. Autonomia prevista, infine, a quota 7.000, con 695 kg di benzina era di 1.400 km. Il SM. 93 prevedeva un equipaggio di due persone: un radio telegrafista armiere deputato all'uso della mitragliatrice dorsale, seduto posteriormente, e un pilota in posizione prona (praticamente sdraiato a pancia sotto) su di un lettino posto sopra il castello motore. Il pilota veniva fissato per le gambe al lettino di pilotaggio per evitare che in affondata scivolasse contro il parabrezza. La posizione anomala, o quanto meno inusuale del pilota era particolarmente scomoda in quanto costringeva ad un continua tensione dei muscoli facciali e del collo, cosa alla quale fu tentato di porre rimedio predisponendo delle imbottiture al lettino di pilotaggio ed un particolare poggiamento che consentiva al pilota di guardare in avanti senza tenere i muscoli del collo in continua tensione. La Regia Aeronautica ordinò alla SIAI la realizzazione di due prototipi, il cui costo sarebbe stato di circa 2.800.000 lire ciascuno. Nessuno dei due fu però completato prima dell'8 settembre 1943. La commissione tedesca di vigilanza permise la realizzazione del primo prototipo, in avanzato stato di costruzione alla data dell'armistizio. Il velivolo, terminato a fine gennaio 1944, fu provato dal collaudatore Rosei che, accompagnato dal motorista della SIAI Giuseppe Ceratti, effettuò 16 voli per un totale di 6 ore e 40 minuti fino al 29 marzo. In tale data i tedeschi decretarono che il velivolo non aveva interesse per loro e pertanto ne sospesero definitivamente le prove. In volo l'aereo dimostrò un buon comportamento evidenziando stabilità e doti di manovrabilità. La grossa novità del velivolo consistette sicuramente nel posizionamento del pilota. Nato principalmente per compiti di aero-siluramento, era pilotato da un pilota che nella conduzione del mezzo e dell'azione aveva l'asse del proprio corpo parallelo a quello del velivolo e del siluro. Una posizione che integrava perfettamente il "manico" con il sistema d'arma accorpandolo integralmente ad esso. Posizione preferenziale per chi, nell'esecuzione di un attacco siluro, veniva ad essere contemporaneamente pilota e puntatore. Se è vero, però, che la sistemazione del pilota era uno dei punti di forza nell'attività di aero-siluramento, è facile pensare che la stessa posizione avrebbe di gran lunga inficiato le possibilità di reazione nel volo manovrato in caso di attacco da parte della caccia avversaria. Problema che avrebbe trovato facile soluzione con una forte scorta di caccia all'aero-silurante durante le missioni. Purtroppo la storia e i tedeschi non consentirono all'Aeronautica Nazionale Repubblicana di avvalersi di un velivolo che sicuramente avrebbe sostituito degnamente i vecchi e stanchi Sparvieri che furono in servizio fino al'ultimo giorno del conlitto. AERONAUTICA , Giugno 1998
  4. Dave97

    World War II Aces

    Prime vittorie Anche oggi in aria c'è odor di polvere. La colazione è sbrigata alla svelta. Briefing alle 14.30. Questo pomeriggio, il nostro obiettivo è l'aeroporto di Triqueville. Dovremo bombardarlo in grande stile con due ondate di settantadue Marauder. Triqueville, nei pressi di Le Havre, è il nido di uno dei migliori stormi da caccia tedeschi: il famoso « Richtoffen dai musi gialli ». Secondo nostre informazioni sono stati riequipaggiati recentemente con l'ultimo tipo di Focke Wulf, il 190 A-6, munito di un motore più potente e, si dice, di flap speciali che gli permettono di far virate molto secche. I « Richtoffen » sono tutti piloti selezionati. Comandati da uno dei grandi assi della Luftwaffe, il maggiore von Graff, si sono specializzati con i loro nuovi apparecchi, e con molto successo, nell'attacco ai nostri bombardieri diurni. Si è tentato in precedenza di distruggerli al suolo, di far piazza pulita del loro campo. Ma ogni volta hanno decollato prima del bombardamento e sono andati tranquillamente ad atterrare in una delle loro tre basi di riserva: Evreux-Fauville, Beaumont-le Roger o Saint-André. La commedia è durata quattro mesi e la RAF vuol farla finita oggi, tanto più che il quartier generale americano dei Marauder ha dichiarato che rifiuterà di ordinare nuove missioni in quel settore, se prima non sarà fatta piazza pulita dei « Richtoffen ». Oggi dunque Triqueville e le altre tre basi saranno bombardate simultaneamente. Quanto a noi, qualora fossero già per aria, dobbiamo agganciadi a tutti i costi e dar loro una buona lezione. Si vedrà. Senza dubbio vi sarà una bella baraonda. Al dispersal mi attende una delusione: non sono sul quadro della sweep. Faccio una scenata, grido che è un'ingiustizia, pesto i piedi. Buono com'è, e anche per essere lasciato in pace, Martell si lascia commuovere e mi porta con sé come numero 2. Non ho fortuna al gioco. Appena lasciata la costa inglese il serbatoio supplementare s'inceppa, forse per qualche accidente nelle tubazioni. Maledizione! So bene che questa impresa può condurci molto lontano a sud di Le Havre, fino a Rouen o a Evreux. Dopo il combattimento, se combattimento vi sarà, rischio di restare molto a corto di carburante. «Tanto peggio: al diavolo il buon senso, io resto! » La Manica è coperta di nebbia, ma, sopra i mille metri, il tempo è splendido. Nemmeno l'ombra d'una nuvola. Già a metà fra Le Havre e Rouen, si può distinguere sotto lo strato di nebbia la Senna che si snoda come un serpente d'argento. Rompendo il silenzio, la voce del controllore suona molto eccitata alla radio. « Attenzione, Turban! Donald Duck e i suoi ragazzi hanno già decollato e salgono a rotta di collo, non posso darvi ancora informazioni precise. » Donald Duck è il nome convenzionale affibbiato a von Graff. Un umorista del servizio y deve averlo chiamato così perché, a quanto pare, parla col naso come l'omonimo papero di Walt Disney! La vecchia volpe conosce le astuzie e sa che il miglior modo di parare il colpo è quello d'attaccare. Se li lasciamo passare fra le nostre maglie, i Marauder rischiano di lasciarci qualche penna. Mouchotte, che oggi conduce lo stormo, è, come sempre, padrone di sé. Ma, con un po' d'ansia, m'accorgo che Martell, il quale guida la nostra sezione, si stacca insensibilmente dal resto del gruppo e comincia a salire. Ben presto gli altri Turban ci appaiono come una serie di punti lucenti sperduti nell'azzurro del cielo. « Sezione gialla, avvicinatevi un po'. » Mentre Mouchotte ci rilancia l'ordine, è interrotto da un grido dei Gimlet che volano mille metri sopra di noi, sulla destra. « Per amor di Dio, disimpegnatevi, Gimlet! » Il vecchio Donald Duck ha atteso il nostro passaggio, annidato nel sole col suo branco di pirati. Stava sul punto di far finir male il 611° e soltanto per caso uno dei neozelandesi li ha visti arrivare. Ci ha messo in guardia e tutti lo fronteggiano mentre piomba giù a settecento all'ora. Tutto accade in un batter d'occhio. All' sos del 611°, Mouchotte vira in cabrata con le sue sezioni blu e rossa per accorrere in aiuto. Noi ci troviamo così isolati, a 1500 metri sotto la zona dello scontro. Martell ci fa virare a sinistra e prendiamo quota per partecipare alla battaglia. D'un tratto, m'accorgo che una dozzina di Focke Wulf ci piomba addosso contro sole. « Focke Wulf a ore undici, Giallo. » Guidati da un magnifico FW-190 A-6, tutto dipinto di giallo,pulito e luccicante come un gioiello, i primi filano già sulla nostra sinistra e, a meno di cento metri, virano su di noi. Distinguo nettamente sotto i lunghi tettucci trasparenti la sagoma dei piloti tedeschi. « Avanti, Turban. All'attacco. » Martell s'è già tuffato, deciso, in piena formazione nemica. I numeri 3 e 4 perdono contatto immediatamente e ci lasciano nel turbine dei musi gialli e delle croci nere. Stavolta non ho nemmeno il tempo d'aver paura. Sento un crampo allo stomaco, ma mi esalta un'eccitazione violenta. È la gran mischia e perdo un po' la testa. Senza rendermene conto, lancio urli forsennati da pellerossa, manovrando bruscamente il mio Spitfire. Già un Focke Wulf si stacca, lasciandosi dietro una spirale di fumo nero, e Martell, che non perde tempo, ne insegue un altro per farlo fuori. Mi sforzo da buon compagno di sezione di tenergli dietro per proteggerlo alle spalle, ma mi sopravanza di molto e stento a seguirlo nei suoi rovesciamenti e avvitamenti . Due Boche si infiltrano a forbice sulla sua scia. Faccio fuoco su di loro, benché siano fuori tiro; non li piglio, ma li obbligo a deviare verso di me. È la mia fortuna. Faccio una rapida cabrata e, prima che loro possano completare i 180 gradi della loro virata, mi trovo dietro al secondo e stavolta a portata utile. Una leggera pressione sulla pedaliera e l'inquadro nel collimatore. Credo a stento ai miei occhi: c'è solo una piccola correzione, facile da fare a meno di duecento metri di distanza. Svelto, premo il pulsante di sparo. La sua fusoliera s'illumina d'esplosioni. La mia prima raffica è arrivata a segno. Il Focke Wulf s'incendia immediatamente. Lunghe fiamme intermittenti si sprigionano dai serbatoi squarciati, lambiscono lafusoliera. Qua e là bagliori incandescenti soffocati dal pesante fumo nero che avvolge l'apparecchio. Il pilota tedesco si lancia in una virata disperata. Nell'aria sconvolta dall'estremità delle sue ali, si formano due sottili scie bianche di condensazione. Improvvisamente il Focke Wulf scoppia come una melagrana. Un gran bagliore, una nuvola nera, rottami che volteggiano intorno al mio velivolo. Il motore cade come una palla di fuoco. Una delle ali, strappata dalla deflagrazione, va giù lenta in giravolte che mostrano, alternativamente, il ventre giallo tenue e il dorso verde oliva. Urlo la mia gioia via radio, come un ragazzo. « Giallo 1, Turban Giallo 2 vi chiama. Ne ho preso uno! Ne ho abbattuto uno! » Ma il cielo è ora pieno di Focke Wulf che mi sfiorano, m'assalgono da ogni parte, in un fuoco d'artificio di traccianti. Non mi mollano. È un succedersi di attacchi frontali, in coda,a destra, a sinistra. Comincia a girarmi la testa e mi fanno male le braccia. Ansimo; pilotare uno Spitfire a settecento all'ora è sfibrante, poiché la velocità irrigidisce i comandi. Soprattutto a ottomila metri d'altezza. Ho l'impressione di soffocare nella maschera e metto l' ossigeno su emergenza. Il cuore mi galoppa e ne sento il battito alle tempie, ai polsi, alle caviglie. Il mio Spitfire tiene testa gagliardamente; fa corpo con me come un cavallo da battaglia ben addestrato, e il motore rende al massimo. Benedico il Rolls Royce, tutti gli ingegneri e gli operai che hanno disegnato, costruito, montato con amore questo poderoso congegno d'orologeria meccanica. Pur battendomi alla meglio, economizzando munizioni, sparo ogni tanto sui Focke Wulf che mi passano a tiro. Con la coda dell'occhio, vedo Martell che fa fuori un secondo Boche. Nelle mie manovre un po' pazze, capito sulla verticale di un Focke Wulf, sul quale mi precipito in picchiata, senza curarmi d'altro. . Lo vedo ingrandire nel collimatore, di piatto, con le ali corte, il motore colorato di giallo e la fusoliera che s'affina verso la coda. Attraverso il tettuccio trasparente intravedo la macchia chiara della faccia del pilota alzata verso di me Due brevi raffiche mi bastano per correggere il tiro. Il tettuccio vola in frantumi e i miei colpi devastano la fusoliera dietro il pilota. Trascinato dalla velocità sto per andargli addosso. Istintivamente, spingo in avanti la cloche, sbatto la testa contro il parabrezza blindato, ma evito per un pelo la collisione. Esco dalla picchiata e vedo il Boche planare sul dorso, con una scia di fumo nero che esce dal motore. Una sagoma scura si stacca dalla carlinga, volteggia nell'aria, segue per un attimo il velivolo come appesa a un filo invisibile... all'improvviso il gran fiore ocra d'un paracadute si apre come inchiodato sul posto, mentre il Focke Wulf prosegue nella sua ultima traiettoria. Sono stordito. Ho abbattuto due Boche! Due Boche! L'orgoglio m'esalta e in pari tempo tremo di contenuta paura, coi nervi rilassati. Dov'è Martell? Penserà forse che l'ho lasciato solo. Il cielo è vuoto. Benché cominci ad abituarmici, il fenomeno della scomparsa istantanea di tutti i velivoli mi sorprende anche adesso. Forse i Focke Wulf sono già in picchiata verso la loro base a 3000 metri sotto di noi e si dileguano ormai nel paesaggio. Tutti meno uno! Alzando il capo, vedo, alto sopra di me, uno Spitfire, quello di Martell probabilmente, e il famoso Focke Wulf giallo. Fanno sfoggio di acrobazia d'alta scuola. E’ affascinante! Virate Immelmann, tonneau veloci, ma senza che uno guadagni un centimetro sull'altro. Improvvisamente, insieme, come di comune accordo, una virata e s'attaccano frontalmente. È una pazzia. Lo Spitfire e il 190 si precipitano l'uno contro l'altro, facendo fuoco con tutte le loro armi. Il primo che smetterà sarà perduto, perché esporrà senza scampo il suo apparecchio ai proiettili dell'avversario. Col fiato mozzo, nell'attimo in cui sembra imminente la collisione, vedo il Focke Wulf fremere, sconquassato dallo scoppio dei proiettili, poi d'un sol colpo disintegrarsi. Lo Spitfire, miracolosamente illeso, passa attraverso un fascio di rottami in fiamme, che ricadono a pioggia. Martell e io rientriamo insieme, ma sono molto a corto di carburante e devo atterrare a Shoreham per rifornimento. Sono ancora così scosso di nervi ed eccitato che per poco l'atterraggio non finisce in una catastrofe. Il campo è troppo corto per uno Spitfire IX e sono costretto a frenare bruscamente, rischiando di tranciare il carrello. Rullo fino all'autobotte presso il controllo, tolgo i contatti e salto a terra con un'aria di superiorità, come se mi si potesse leggere in viso che ho abbattuto ,due apparecchi nemici. Dalla torre di controllo dell'aeroporto non posso resistere al piacere di telefonare a Biggin Hill; un po' per avvisarli che sono sano e salvo, e più ancora per avere la soddisfazione di buttar là, con negligenza (dando un'occhiata discreta ai presenti): « Oh!, a proposito, ho abbattuto due Focke Wulf! » Quasi con raccoglimento eseguo il mio primo tonneau della vittoria sui nostri alloggiamenti. Martell conferma la mia prima vittoria: ha visto il Focke Wulf incendiarsi. Il mio secondo sarà senza dubbio omologato, dopo conferma della cinefotomitragliatrice. Non chiudo occhio tutta la notte, e alla mensa sottufficiali annoio i presenti con la storia del mio combattimento ripetuta centinaia di volte. Questa azione è stato un successo per il gruppo « Alsazia ». Boudier ha abbattuto un Boche e Mouchotte e Bruno hanno sparato insieme su un altro. Mouchotte, con un bel gesto, lo attribuisce al suo numero 2. Dal canto suo, il 611° ne ha abbattuti tre. Miracolosamente, se si contano i sette apparecchi danneggiati, non abbiamo avuto perdite. La sera del 27 luglio ci perviene un telegramma: AI RAGAZZI DELL'« ALSAZIA» E DEL 611° STOP NOVE VITTORIE SENZA PERDITE È UN GRAN BEL RISULTATO STOP CONTINUATE COSI' STOP WINSTON CHURCHILL A completare il quadro, tre giorni dopo la radio tedesca an¬nuncia che il maggiore von Graff, decorato della croce di ferro con spade, foglie di quercia e diamanti, è stato ferito nel corso di un eroico combattimento contro una soverchiante formazione nemica. Tratto da La Grande Giostra
  5. Dave97

    World War II Aces

    Lieutenent Pierre Clostermann Scuola di caccia nel Galles 1942 Le alte montagne del Galles, sepolte nella nebbia, sfilano a destra e a sinistra della linea ferroviaria. Immersi nella densa fuliggine, abbiamo passato Birmingham, Wolverhampton e Shrewsbury. Senza dir parola, Jacques e io guardiamo con indifferenza il paesaggio deprimente, lavato da una eterna pioggia sottile, le sporche città minerarie che si inerpicano su per le valli, schiacciate sotto una nuvola di fumo grigio, così ancorata alle case che nemmeno il vento riesce a disperderla con le sue raffiche gelate. I passeggeri dello scompartimento osservano con curiosità le nostre uniformi francesi, bleu marine con bottoni d'oro. Brillano fieramente, sul nostro petto, il distintivo pilota dell'Armée de l' Air e, sopra la tasca sinistra, le ali della RAF. Appena quindici giorni fa eravamo ancora allievi piloti del Royal Air Force College di Cranwell, alle prese con manuali di navigazione, teorie di tiro e grossi quaderni d'appunti. Tutto ciò è ormai un ricordo. Fra qualche ora, forse, piloteremo uno Spitfire, superando così l'ultimo gradino che ci separa dalla grande arena. Pochi minuti ancora e saremo a Rednal, 61° OTU, per un corso d'abilitazione al pilotaggio degli Spitfire prima di essere assegnati alla squadriglia. Improvvisamente Jacques preme il viso contro il vetro: « Guarda, Pierre, i nostri Spitfire! » Il treno sta costeggiando un aeroporto e un raggio di sole umido, riuscendo a forare la nebbia, fa emergere una ventina di velivoli allineati lungo il margine di una pista asfaltata. Il gran giorno è arrivato! È nevicato per tutta la notte, e l'aeroporto abbaglia sotto il cielo azzurro. Mio Dio, com'è bella la vita! Aspiro a pieni polmoni l'aria gelida e sento scricchiolare sotto i piedi la neve, liscia e cedevole come un tappeto; quanti ricordi risveglia in me. La prima neve che vedo dopo tanto tempo... Nel dispersal, l'istruttore mi attende sulla soglia, con un sorriso sulle labbra. « Come vi sentite? » «Bene, signore », dico, cercando di nascondere la mia emozione. Mi ricorderò per tutta la vita il mio primo contatto con lo Spit. Quello che dovevo pilotare era segnato con la matricola TO-S. Mi soffermo un momento a contemplarlo, prima d'infilarmi le cinghie del paracadute: linea rastremata della fusoliera, motore Rolls Royce finemente carenato. Un vero purosangue. « È vostro per un'ora. Buona fortuna! » Padrone di quel bolide per un'ora, sessanta minuti d'ebbrezza! Cerco di richiamare alla mente i consigli del mio istruttore. Tutto mi pare così confuso. Mi allaccio la cinghia, tremando; m'assesto il casco e, ancora stordito per la massa di strumenti, quadranti, contatti, manette serrati l'uno contro l'altro, tutti vitali, e che il dito deve toccare al momento esatto, mi preparo alla prova decisiva. Ripasso accuratamente- il cockpit drill monnorando: « BTFCPPUR: Brakes (freni), Trim (alette di compensazione dei comandi), Flaps (freni aerodinamici), Contacts (contatti), Pression (pressione nel sistema pneumatico), Petrol (carburante), Undercarriage (leva del carrello bloccata), Radiator ». Tutto è pronto. Il motorista chiude lo sportellino laterale ed eccomi imprigionato in quel mostro di metallo che devo padroneggiare. « Tutto sgombro davanti? Contatto! » Manovro le pompe a mano e i contatti della messa in moto. L'elica comincia a girare lentamente, poi, di colpo, con un fragore di tuono, il motore parte. I tubi di scarico sputano lunghe fiamme azzurre avvolte di fumo nero, mentre l'aeroplano comincia a vibrare come una caldaia sotto pressione. Tolti i tacchi d'arresto, apro completamente il radiatore, perché questi motori raffreddati a glicole si surriscaldano molto rapidamente, e con prudenza rullo fino alla pista di decollo sgombrata dallo spazzaneve, nera, diritta nel biancore del paesaggio. « Tutor 26, potete decollare, ripeto potete decollare! » Via radio la torre di controllo mi autorizza a partire. Il cuore mi batte fino quasi a scoppiare. Ingoio saliva. Abbasso il seggiolino e, con la mano bagnata di sudore, do motore lentamente. Mi sento immediatamente travolto in un ciclone. Frammenti di consigli mi tornano in mente. « Non abbassare troppo il muso! » Davanti a me l'enorme elica, che deve assorbire tutta la potenza del motore, ha solo un lieve margine di spazio fra il diametro d'aria che spazza e il suolo. Lentamente spingo la manetta del gas in avanti e, con un balzo che mi inchioda allo schienale del seggiolino, lo Spitfire si slancia, accelera, accelera, mentre l'aeroporto sbanda a destra e a sinistra con velocità crescente. Freneticamente, con violenti colpi sulla pedaliera, controllo le imbardate. D'un tratto, come per miracolo, mi trovo in aria, col fiato mozzo. La ferrovia passa sotto di me in un lampo. Ho una vaga visione d'alberi, di case che svaniscono. Faccio rientrare il carrello, chiudo il tettuccio e il radiatore,riduco il gas e metto l'elica a passo di crociera. Gocce di sudore mi colano sulle tempie. Ma immediatamente le mie membra reagiscono come le leve ben regolate d'un automa. I lunghi mesi d'addestramento hanno preparato i miei muscoli e i miei riflessi per questo istante. Che magnifica docilità di comandi! La minima pressione del piede o della mano basta per lanciare l'apparecchio in cielo. La velocità è tale che pochi secondi mi hanno portato a una decina di chilometri dall'aeroporto. La pista nera è soltanto un tratto a carbone all'orizzonte. Inizio timidamente una virata, ripasso sulla base e giro a destra e a sinistra; con una lieve tirata di cloche salgo a tremila metri in un batter d'occhio. A poco a poco la velocità m'inebria e mi fa ardito; uno spostamento di qualche millimetro della manetta del gas basta a scatenare il motore. Decido di provare una picchiata. Spingo leggermente la cloche: 550, 600, 650 chilometri l'ora. La terra pare mi s'avventi contro in modo terrificante. Spaventato dalla velocità, tiro istintivamente la cloche, che varia l'angolo del timone di quota, e subito la testa affonda nelle spalle, una massa di piombo s'abbatte sulla colonna vertebrale e mi schiaccia sul seggiolino. Gli occhi si velano. Come una sfera d'acciaio che cada su un blocco di marmo, lo Spitfire è rimbalzato sull'aria elastica e, dritto come un cero, è salito nel cielo. Ripresomi a malapena dagli effetti della forza centrifuga, m' affretto a ridurre il gas perché non ho ossigeno e l'apparecchio prosegue la sua volata. Sento il controllo che mi chiama per radio. Un'occhiata all'orologio. Già un'ora! Sembra che tutto si sia svolto in un secondo. È ora di atterrare. Apro tutto il radiatore, tolgo il gas, metto l'elica a passo minimo, apro il tettuccio, alzo il seggiolino e mi preparo a toccar terra. Sono ripreso dall'ansia: l'enorme motore davanti a me, con i suoi poderosi tubi di scarico, mi nasconde tutta la pista. Come un cieco, la testa costretta all'interno dalla formidabile pressione dell'aria, sono prigioniero nell'abitacolo. Faccio uscire il carrello e abbasso i flap. La pista s'avvicina a una velocità spaventosa. Mai più riuscirò a mettere le ruote per terra. L'aeroporto sembra restringersi e saltarmi addosso. Tiro la cloche, disperatamente, l'apparecchio sprofonda con un gran colpo metallico che rimbomba nella fusoliera e... sento che rulla goffamente sull'asfalto. Un colpo di freni a destra, uno a sini¬tra, e lo Spit si arresta al limite della pista. I sussulti del motore che gira al minimo ricordano i fianchi palpitanti di un cavallo da corsa ansimante. L'istruttore salta sull'ala, m'aiuta a togliermi il paracadute, sorridendo nel vedere la mia faccia pallida e tirata. Faccio due passi, poi, stordito, devo appoggiarmi alla fusoliera. « Molto bene. Nulla di preoccupante! » Se sapesse, però, come mi sento orgoglioso. Ho finalmente pilotato uno Spitfire. Mi sembra bello, vivo. Un capolavoro d'armonia e di potenza, ora che lo vedo immobile. Dolcemente, come si può accarezzare la guancia d'una donna, passo la mano sull'alluminio delle ali, freddo e liscio come uno specchio, di quelle ali che m'hanno sostenuto. Tornando al dispersal col paracadute sulle spalle, mi volto ancora e sogno il giorno in cui in squadriglia avrò uno Spitfire tutto per me, che porterò in combattimento, che racchiuderà la mia vita nella sua angusta cabina, e che amerò come un fedele amico. ************** Furono due mesi invernali penosi, quelli passati al,reparto d'addestramento operativo. Le lezioni si succedevano alle lezioni, le ore di volo aumentavano, le missioni di tiro sulle montagne del Galles coperte di neve si sommavano rapidamente sul libretto. E non senza fatica e senza lutti. Lo Spitfire di uno dei nostri compagni belgi esplose in volo durante una prova d'acrobazia. Due dei nostri amici della RAF s'uccisero sotto i nostri occhi, in una collisione. Poi, Pierrot Degail, uno dei sei francesi del corso, andò a schiantarsi, in una sera di nebbia fitta, contro la cima di una collina coperta di ghiaccio. Occorsero due giorni per arrivare ai rottami nella neve. Fu trovato inginocchiato, la testa fra le braccia come un bimbo che dorme, accanto al suo Spitfire. Non potendo muoversi perché aveva le gambe spezzate, era morto di freddo nella notte. La cerimonia della sepoltura, con gli onori militari, fu commovente nella sua semplicità Jacques, Menuge, Commailles e io portavamo la bara avvolta nel tricolore. Dio, come era pesante e triste sotto la pioggia fine e fredda. E la sfilata lenta e silenziosa, di noi a uno a uno, davanti alla fossa che risuonava delle paiate di terra inglese sparse sulla bara. Dopo cinque settimane a Rednal, passammo le ultime tre settimane di addestramento a Montford Bridge, piccola base satellite sperduta fra le montagne. Senza interruzione, appena il tempo schiariva un poco, decollavamo. Voli in formazione a tre, a quattro, a dodici apparecchi; manovre d'allarme, di combattimento aereo, di tiro, lezioni di tattica, d'identificazione d'apparecchi, di comunicazione radio. Il freddo era atroce. Vivevamo in baracche semicilindriche di lamiera ondulata, senza intercapedini isolanti, e il problema del calore era difficile da risolvere. Con Jean Scott, il beniamino della nostra banda, che divideva con me una camera, andavamo a prendere « in prestito » il carbone in un vicino deposito della ferrovia. Era buffo vedere Jean così ricercato nei modi, in equilibrio tra i fili spinati, passarmi con aria disgustata certi blocchi untuosi d'antracite, tenendoli fra il pollice e l'indice della mano guantata. Seguiva poi l'impresa d'accendere la stufetta, che avrebbe dovuto riscaldare la nostra baracca. Ci volevano litri di benzina, sottratti all' autocisterna, per eccitare l'entusiamo vacillante del carbone umido e della legna bagnata. Mi ricordo che una sera la stufa, satura di vapori di benzina, esplose, trasformando Jean, Jacques e me in guerrieri zulù di un bellissimo nero. La notte dell'ultimo dell'anno trascorse calma e molto malinconica in quell'angolo sperduto. Poi venne il giorno delle assegnazioni. Commailles, Menuge e io dovevamo partire per Tumhouse in Scozia, raggiungere il 341° gruppo da caccia « Alsazia », delle Forze Aeree Francesi Libere, allora in fase di formazione. Jacques, Jean e Aubertin partivano per il 602° gruppo di stanza a Perranporth. Cominciava la guerra vera. Finalmente!
  6. La Grande Giostra è la storia di un pilota da caccia francese durante la seconda guerra mondiale. L'autore, Pierre Clostermann, descrive gli estenuanti turni d'allarme, le azioni belliche contro obiettivi in volo e al suolo, i pattugliamenti di scorta ai bombardieri che lo hanno visto protagonista, dal 1943 al 1945, insieme con piloti francesi, inglesi, canadesi, neozelandesi e alleati inquadrati negli stessi reparti in cui ha prestato servizio, tutti impegnati a fronteggiare, respingere e inseguire i temibili avversari tedeschi della Luftwaffe. Usando uno stile semplice, sintetico ma preciso dal punto di vista aeronautico, senza indugiare su particolari troppo tecnici, Clostermann ci offre un documento di primaria importanza sulla guerra aerea e nello stesso tempo una testimonianza umana di grande valore ed efficacia. Leggendo questo libro il lettore rivivrà - nello stretto abitacolo del più celebre caccia inglese, lo Spitfire, o dei poderosi monomotori Typhoon e Tempest - le angosce, i timori, i pericoli, lo sconforto, gli entusiasmi di un soldato impegnato in difficili missioni d'attacco di giorno e di notte, con il sole o la nebbia, la pioggia o le nuvole. Con l'avvento dei missili , l'epoca dei duelli aerei ravvicinati, combattuti a raffiche di mitragliatrice o di cannoncino, sembra molto lontana dalla realtà odierna e più vicina a quella dei cavalieri del cielo della prima guerra mondiale. Ma è proprio per questo che il libro di Clostermann, assume un significato particolare sul piano storico. Con le oltre 600.000 copie vendute dal 1948, anno della sua prima pubblicazione in Francia, La Grande Giostra è uno dei testi d'aviazione di maggior successo. Pierre Clostermann, nato nel 1921 in Brasile, alla vigilia della seconda guerra mondiale si trova negli Stati Uniti per seguire corsi di ingegneria aeronautica. Dopo la sconfitta della Francia nel giugno 1940, raggiunge Londra e diventa pilota dell'aviazione della Francia libera, inquadrata nei reparti della RAF. In circa due anni, conquista nei cieli europei il titolo di asso della caccia francese con 33 vittorie omologate. Pluridecorato, a soli trent'anni grande ufficiale della Legion d'Onore, è eletto per otto legislature all' Assemblea nazionale. In seguito ottiene importanti incarichi in industrie aeronautiche americane e francesi. Tra i suoi libri sono stati tradotti in Italia - Fuoco dal cielo - e -- La guerra nell' aria -.
  7. Dave97

    World War II - Kamikaze

    Caratteristiche del Mistel Anno : 1944; Apertura alare : 20 m; Peso al decollo : 14815 Kg; Velocità massima : 482 Km/h; Autonomia : 770 Km; Armamento : carica cava di esplosivo da 3800 Kg; Equipaggio : 1 persona Pieno di esplosivo, è semplicemente un modo di dire, vista la quantità di esplosivo a bordo
  8. Dave97

    World War II - Kamikaze

    Mistel Un progetto che, se non proprio suicida, offriva comunque ben poche possibilità di scampo fu quello denominato Mistel (vischio). L'idea era stata dell'ingegner Holzbauer, capo collaudatore della Junkers; un caccia Messerschmitt Bf 109 o Focke-Wulf FW 190 veniva montato sul dorso di un bombardiere Junkers Ju 88 pieno di esplosivo; il caccia fungeva da modulo di comando e il pilota radiocomandava il bombardiere che lo sosteneva fino sulla verticale dell'obiettivo; qui avveniva la separazione per mezzo di un comando elettrico. Lo Ju 88 precipitava sul bersaglio, mentre il caccia tentava di mettersi in salvo. In realtà, il volo accoppiato era lento e poco manovrabile, quindi vulnerabilissimo alla caccia e all'antiaerea. Vennero prodotti soltanto una quindicina di Mistel, che furono impiegati durante lo sbarco in Normandia, e furono tutti distrutti, a fronte dell'affondamento di un paio di mercantili e del Courbet, un vecchio incrociatore francese. Altri Mistel avrebbero dovuto essere utilizzati per la distruzione dei ponti sul Reno e sull'Oder, nella speranza di bloccare l'avanzata degli Alleati. Ma non se ne fece nulla, anche a causa del definitivo sbandamento dell'industria aeronautica tedesca.
  9. Dave97

    World War II - Kamikaze

    BA 349A Natter Il NATTER Ba.349 venne progettato dall'Ing. Erich Bachem e realizzato a Waldsee presso il lago di Costanza. Si trattava di un velivolo completamente ligneo con ala e timoni a pianta perfettamente rettangolare caratterizzato dalla mancanza di alettoni propriamente detti; infatti le ali non avevano superfici mobili Ie cui funzioni erano svolte dall'uso differenziato dei timoni di profondità. Le ali avevano profilo simmetrico e struttura monolongherone. La fusoliera era divisa in tre sezioni che si distaccavano al termine della missione; una anteriore che comprendeva l'armamento di razzi (24 Fohn da 73 mm o 33 R4M da 55 mm) e la cabina di pilotaggio, una centrale con due serbatoi di carburante sovrapposti (quello superiore di T-Stoff formato da perossido di idrogeno ed uno stabilizante; quello inferiore di C-Stoff di una miscela di idrato di idrazina con metanolo e acqua ed il nucleo principale del motore razzo Walter HWK 509-1 da 2.000 Kg. di spinta), infine la sezione di coda con gli impennaggi e la camera di combustione del razzo. La cabina era fortemente protetta e praticamente racchiusa in una pesante serie di corazzature. Eccezionale era la semplicità ed economicità della costruzione che poteva essere eseguita anche da personale non specializzato. La tecnica di impiego prevedeva un decollo verticale dalla rampa di 24,50 m. scorrendo sulle estremità delle ali e della pinna ventrale e con l'assistenza di quattro razzi ausiliari sganciabili da 500 Kg. di spinta ciascuno. Nelle prime fasi del volo l'aereo era sotto il controllo di un primitivo pilota automatico Patin PDS su tre assi che veniva disinserito solo in prossimità dell'obiettivo quando il pilota sganciava la cupoletta dell'estremita del muso e sparava i razzi in una sola letale raffica. Quindi il Natter doveva cercarsi un "angolino tranquillo" per dare il via alla complessa operazione di rientro; il muso, fino al sedile escluso si distaccava ed il pilota era così libero di lanciarsi col paracadute. Anche i pezzi del caccia discendevano a terra affidati a grossi paracadute ed una volta recuperati potevano essere nuovamente impiegati. L'idea dell'lng. Bachem non era cattiva ed in effetti il NA TTER si dimostrò il migliore dei cosiddetti caccia della disperazione rivelandosi tecnicamente privo di gravi difetti. I grossi ostacoli sorsero invece a causa del motore di modesta potenza e breve autonomia e del pilota automatico praticamente inefficente. Il momento più critico del volo risultava il decollo quando il NATTER lasciava la sua rampa affidato ai quattro razzi ausiliari tutt'altro che sicuri e che davano solo 10 secondi di spinta lasciando l'aerorazzo ad una velocità estremamente critica; in quella fase infatti le superfici aerodinamiche non avevano ancora piena efficacia ed anche il loro successivo ingrandimento migliorò solo di poco la situazione. Unica soluzione rimaneva quella di un sistema di orientamento del getto difficilmente attuabile per le elevate temperature allo scarico. Dopo numerosi lanci senza pilota a bordo la Luftwaffe volle, contro il parere dello stesso Ing. Bachem, che fosse tentato un primo volo con equipaggio. L 'esperimento avvenne il 28/2/1945 ed il NATTER dopo un ottimo decollo perse il tettuccio della cabina e al termine di un mezzo looping si fracassò uccidendo il coraggioso volontario Lothar Siebert. L'incidente non fermò il programma e nei successivi collaudi furono eseguiti altri sei voli pilotati tutti coronati da successo. La Luftwaffe decise quindi che il velivolo era pronto per l'impiego operativo e ordinò la realizzazione di una prima batteria di Ba.349A a Kirchleim vicino a Stuttgart; questi esemplari non vennero mai impiegati in combattimento e caddero nelle mani delle forze terre stri alteate. Una versione migliorata col motore munito di camere di combustione per il volo in crociera, ricevette la designazione Ba.349B ma ne furono realizzati solo tre esemplari utilizzando altrettanti Ba.349A. Complessivamente furono costruiti solo 36 NATTER, ed ecco le dimensioni e caratteristiche principali: apertura alare m. 4; lunghezza m. 6,02; altezza m. 2,25; superficie alare m. 4,70; peso a vuoto Kg. 880; peso totale al decollo Kg. 2.232; velocita mas a 5.000 m. Km/ h 998; rateo iniziale di salita 190 m/sec.; autonomia 4'36". JP4 , Novembre 1974
  10. Dave97

    World War II - Kamikaze

    I Kamikaze Tedeschi Germania, 7 aprile 1945. L'esercito tedesco tenta l'ultima resistenza mentre l'Armata Rossa è a pochi chilometri da Berlino, e da ovest avanza quella americana del generale Patton. Sono passati più' di due mesi da quando si è consumata la tragedia del bombardamento di Dresda, che la Luftwaffe, ridotta ai minimi termini, non ha potuto impedire. La guerra è praticamente finita. Ogni mattina, formazioni di bombardieri americani Boeing B 17 e Consolidated B 24 si alternano sugli ultimi focolai di resistenza. Berlino è letteralmente martellata, ed è là che è diretta per l'ennesima volta una grande formazione dell' 8a Air Force schierata nel Sud dell'Inghilterra. I mitraglieri delle postazioni dorsali, caudali e ventrali sono in massima allerta. Sanno che qualche caccia Messerschmitt Bf 109 o Focke-Wulf FW 190 superstite può sempre spuntare da qualche parte. È vero, ci sono i caccia di scorta, i North American P 51D Mustang che, con i loro serbatoi ausiliari sotto le ali, possono tenere compagnia fino su Berlino. Ma l'esperienza insegna che "a chi si fa pollo tirano il collo", e prima che quelli comincino il loro carosello difensivo, qualche quadrimotore va sempre giù. Le dita tormentano il grilletto delle Browning da 12,7; i nervi sono tesi allo spasimo; gli occhi frugano il cielo lattiginoso. La formazione sta sorvolando la città di Magdeburgo, alla confluenza tra l'Elba e il Mittelkanal che lo congiunge al Reno, quand'ecco, d'improvviso, si vedono spuntare dalle nubi alcune decine di Bf 109. Per la precisione sono 78. Piccoli, velocissimi. Non sparano: perché? "Crucchi a ore 6", annuncia un mitragliere di coda, il primo a vederli. E subito dai quadri motori, come obbedendo alla bacchetta di un direttore d'orchestra, si scatena una reazione terrificante. Gli americani non hanno problemi di munizioni: i mitraglieri sparano a saturazione. I caccia tedeschi virano, si sparpagliano, cambiano quota e direzione, poi attaccano in massa. Si infilano coraggiosamente nell'uragano di fuoco - i primi vengono frantumati - e si avvicinano a tutta velocità al proprio bersaglio, ma - incredibilmente - non sparano. Gli equipaggi dei B 17 non ci capiscono un gran che: possibile che decine di mitragliatrici e di cannoncini Mauser si siano inceppati tutti insieme? Oppure che i tedeschi non abbiano più munizioni e attacchino così, soltanto per consumare preziosa benzina? Che cosa significa quello strano comportamento? Pochi istanti e arriva la spiegazione. Un Bf 109 centra in pieno un B 17 e i due aerei , il grande e il piccolo, precipitano assieme in un groviglio di lamiere e di corpi umani. Un secondo caccia si abbatte sulla coda di un altro bombarardiere, gliela stacca di netto, e il quadrimotore precipita , girando su se stesso come una trottola, mentre l'attaccante va in pezzi. Un terzo caccia si schianta sull'ala sinistra piena di benzina, l'esplosione del B17 è immediata e terribile. Il comportamento dei piloti tedeschi non lascia dubbi: si tratta di un attacco suicida simile , anche se diversissimo nella tattica, a quelli messi in atto dai kamikaze giapponesi. Per quelli, infatti, l'azione suicida obbediva a un calcolo di tipo "ragionieristico": un solo aereo e un solo pilota perduti infliggono a una grande nave da battaglia nemica danni gravissimi: danni per i quali un'azione non suicida avrebbe richiesto l'impiego e la perdita di decine di piloti e di aerei; quindi un'operazione conveniente. In questo caso invece l'immensa capacità produttiva dell'industria americana poteva sopportare senza problemi la perdita di qualche aereo (se ne producevano quasi 6.000 al mese!) mentre per la stremata Luftwaffe ogni caccia perduto rappresentava un disastro. La mossa tedesca è pertanto priva di ogni contenuto utilitaristico: è il bel gesto che illustra l'onore militare e suscita l'ammirazione del nemico, come la carica della cavalleria polacca contro i panzer della Wehrmacht. Una sola missione L'azione era stata realizzata dal Raubvoegel Gruppe del Sonderkommando Elbe comandato dal colonnello Hermann. Essa nasceva come unità non propriamente suicida, ma comunque finalizzata ad azioni con scarsissime probabilità di salvezza. Fra il 1943 e il 1944 un gruppo di FW 190 aveva attaccato con buon successo le formazioni alleate, infiltrandosi coraggiosamente nel loro fuoco difensivo e ponendosi poi in rotta di scampo (quelli che ce l'avevano fatta...) solo pochi istanti prima della collisione. Da questo modo di combattere per così dire "ardito", caratterizzato dall'80 per cento e oltre di perdite, al vero e proprio attacco suicida il passo era stato breve e conseguente. Con l'autorizzazione di Heinrich Himmler, capo delle SS (Adolf Hitler non ne sapeva niente), si diede inizio al reclutamento di piloti volontari che si sarebbero addestrati per missioni "speciali e particolarmente pericolose". Si presentarono in trecento; gli si spiegò di che cosa si trattava; nessuno si tirò indietro. A Praga si svolse l'addestramento per i "volo senza ritorno". Primo e unico esempio fu la missione del 7 aprile sopra descritta. Appena ne fu informato, Hitler pose il suo veto, dichiarando che al pilota tedesco doveva comunque essere concessa la possibilità di salvezza. L'iniziativa del colonnello Hermann ,con spreco di preziosi aerei e piloti , era già stata fortemente criticata dalle alte gerarchie della Luftwaffe. Il generale Baumbach, comandante dei bombardieri, per i quali i caccia servivano come l'aria, la definì vollig idiotisch (estremamente idiota). Venti giorni più tardi, l'Armata Rossa entrava in Berlino. Volare, Agosto 1998
  11. Dave97

    Il più bello

    Bello il BF109 E Richiama il - GIALLO 14 - di HANS-JOACHIM MARSEILLE anche se la livrea somiglia più allo squadron di ADOLF GALLAND
  12. Dave97

    Il più bello

    Categoria War Birds Categoria Divertimento Scontatissima la categoria Jet Questo è il più bello in assoluto (ovviamente , opinione persolale)
  13. Dave97

    Problema del vento..

    Mi risulta che sia un pilota collaudatore a stabilire la massima componente al traverso che può essere corretta dal timone di direzione. Per i dubbi sul quarto punto, non ho esperienze dirette ma con una buona approssimazione possiamo senz'altro ipotizzare che in entrambi i casi il rischio di farsi male è serio...
  14. Dave97

    World War II - Kamikaze

    Alcune delle ultime lettere dei volontari Sottufficiale Isao Matsuo 701° Gruppo Aereo Cari genitori,mi è stata offerta una splendida opportunità per morire. Questo è il mio ultimo giorno di vita. La sorte della nostra patria è affidata tutta alla battaglia decisiva che ci attende sui mari del sud, in cui io cadrò come cade un fiore da uno smagliante ciliegio. Sarò uno scudo per Sua Maestà e così morirò, semplicemente, assieme al capo della squadriglia e agli altri amici. Vorrei essere nato sette volte, ogni volta per sconfiggere il nemico. Con quale gratitudine accetto questa possibilità che mi è data di morire da uomo! Vi sono profondamente riconoscente per avermi allevato con tanto amore e con tanta cura. E non solo a voi sono grato, ma anche al mio caposquadra e ai miei ufficiali superiori, che mi hanno trattato come un figlio e mi hanno addestrato con la massima cura. Grazie, cari genitori, per i 23 anni durante i quali mi avete seguito con il vostro amore e i vostri consigli. Spero che l'azione che sto per compiere vi ripaghi almeno in piccola parte di tutto quanto avete fatto per me. Il mio ultimo e unico desiderio è che voi pensiate di me tutto il bene possibile e sappiate che il vostro Isao è morto per la patria. Tornerò in spirito ad assistervi durante le vostre visite al Tempio di Yasukuni. Abbiate cura di voi. Isao ******************************** Cadetto Jun Nomato Gruppo Aereo Himeji Genitori carissimi, vogliate scusarmi se detto queste mie ultime parole a un amico. Non c'è più tempo per scrivere. Non ho niente di particolare da dirvi; soltanto voglio che sappiate che, in questi ultimi momenti che mi restano, sto benissimo. Considero un grande onore essere stato scelto per questa missione. I primi aerei del mio gruppo sono già in volo, mentre un amico sta scrivendo queste parole appoggiandosi alla fusoliera del mio aereo. Non provo rimpianti, né tristezza. Fermo nel mio proposito, adempirò con animo sereno al mio dovere. Che la mia ultima azione sia all'altezza dell'eredità lasciataci dai nostri antenati! Addio! Jun ********************************** Sottotenente Nohuo Ishibashi dei Corpi Speciali Padre amato, la primavera si fa sentire presto nel Kyushu meridionale: la natura in fiore offre uno spettacolo meraviglioso. Eppure, questi luoghi in cui sembrerebbero regnare la pace e la tranquillità sono un vero e proprio campo di battaglia. L'ultima notte ho dormito bene, senza sogni. Oggi la mia mente è serena e la salute eccellente. Mi fa bene pensare che in questo momento siamo sulla stessa isola. Ricordati di me, quando andrai al Tempio, e salutami tutti gli amici. Nohuo
  15. Dave97

    World War II - Kamikaze

    L’ultimo volo dell’ ammiraglio Ugaki A mezzogiorno del 15 agosto 1945, ai microfoni di Radio Tokyo, l'imperatore del Giappone in persona annuncia a tutto il mondo che l'Impero del Sol Levante accetta di arrendersi senza condizioni agli Alleati. E' la prima volta nella sua storia millenaria che il Giappone conosce la sconfitta in una guerra. Anche se, in un certo senso, l'aver dovuto subire il diktat del commodoro Perry nel 1853 in merito alla cessazione dell'isolazionismo è equivalso a una sconfitta. Per la maggior parte dei giapponesi l'idea di avere perduto è insopportabile, ma con il tempo il popolo vi si adeguerà. Per gli aristocratici e i militari, l'onta è troppo grande. A migliaia si suicidano con il rito dell' harakiri, taluni davanti ai Palazzi Imperiali in segno di umile, rispettosa sottomissione. Anche molti civili, uomini e donne, si sopprimono nelle ore che seguono la resa incondizionata. E' il momento più funesto e drammatico che il Giappone abbia mai conosciuto. Nella palazzina del Comando dell'aeroporto di Oita, a Kyushu, l'ammiraglio Matome Ugaki, capo di tutte le Forze Aeree di Marina dell'isola, ordina ai suoi ufficiali di preparare d'urgenza i piani per un attacco kamikaze, l'ultimo, alle navi americane alla fonda a Okinawa. Un piccolo attacco, da effettuarsi con tre soli bombardieri in picchiata Suisei. Gli ufficiali sono perplessi. L’imperatore ha chiesto la resa, la guerra è finita, non si può continuare a combattere. Informano il sottocapo di Stato Maggiore, Takashi Miyazaki, delle intenzioni di Ugaki, e Miyazaki, allarmatissimo, si precipita dall'ammiraglio per convincerlo a ritirare l’ordine relativo a quella missione. « Voglio parteciparvi di persona » replica Ugaki sorridendo. «Intendo quindi che il mio ordine sia eseguito senza indugio ». «E io le chiedo di pesare attentamente una simile decisione» insiste Miyazaki, «perché non credo che quest'ordine si possa eseguire ». Ugaki si spazientisce: « Le ripeto per l'ultima volta che si tratta di un ordine dell'ammiraglio. Lo trasmetta immediatamente! ». Ma nemmeno di fronte a una determinazione così ferma Miyazaki capitola. Corre in¬ece a confidarsi con il suo diretto superiore, contrammiraglio Toshiyuki Yokoi, che è a letto febbricitante. Yokoi balza dal suo giaciglio e si fa condurre alla presenza di Ugaki. «La scongiuro» gli grida, «rinunci a partire! ». Ugaki è sereno e disteso, adesso. Chiede soltanto: «Perché non volete danni l'occasione di morire? » Aggiunge: «Devo morire da Samurai. Nessuno m'induca più a non compiere il mio dovere. Il mio successore è già stato scelto e sa cosa dovrà fare ». Non si può più insistere. Il tenente di vascello Tatsuo Nakazuru organizza in breve il piano di volo Oita-Okinawa di tre bombardieri biposti Suisei. Nello stesso tempo Ugaki riunisce tutti i membri dello Stato Maggiore per una semplice cerimonia d'addio. Così parla loro: «Sono molto avvilito di avere constatato che gli attacchi suicidi, da me ordinati, non hanno dato quei risultati concreti che ci aspettavamo. Tuttavia vi domando di continuare a fare il vostro dovere, obbedendo scrupolosamente a colui che prenderà il mio posto ». Nel primo pomeriggio, in un'uniforme senza gradi, Ugaki si presenta sulla pista principale dell'aeroporto di Oita. E ha motivo di stupirsi. Non tre, ma undici Suisei sono pronti a decollare. Il tenente Nakazuru presenta gli equipaggi, ventidue uomini sull'attenti. Ugaki, con lo sguardo velato di lacrime, osserva uno ad uno quegli uomini dagli occhi di sfinge. In tono paterno, domanda: «Dunque, voi volete davvero morire con me? tutti? ». Si ode un coro di « Sì! ». Nakazuru sale sul primo Suisei, al posto di pilotaggio. Ugaki si pone dietro a lui, sul seggiolino dell'osservatore. Ma all'ultimo momento, quando già l'apparecchio comincia a muoversi, l'osservatore titolare di quell'aereo, Akiyoshi Endo, balza su un'ala, s'insinua nell'abitacolo fra i due uomini ed esclama allegramente: «Lei mi ha rubato il mestiere, Ammiraglio! Ma eccomi qui !» Uno dopo l'altro i Suisei rullano sulla pista. Non tutti potranno seguire Ugaki fino in fondo. Sono apparecchi in cattivo stato. Quattro di essi accusano dei guasti meccanici e, con immenso rincrescimento, otto uomini devono rinunciare alla missione volontaria. Vanno ad atterrare nei primi isolotti che incontrano sulla loro strada. Gli altri sette Suisei proseguono. Verso le 18,30, a Oita, giunge un messaggio radio di Ugaki: «lo rivendico tutta intera la mia responsabilità se i Corpi Speciali kamikaze non sono riusciti ad annientare il nemico. Non sono stato capace di salvare la Patria, malgrado il coraggio e l'eroismo dei miei uomini in questi mesi di lotta all'ultimo sangue. Tra pochi minuti io stesso andrò a sfracellarmi su una nave nemica. Vado a cercare, a Okinawa, una degna tomba. E' là che tanti aviatori si giapponesi si sono sacrificati, puri come fiori di ciliegio. Formulo il voto che tutti coloro che mi ascoltano ,comprendano il mio gesto e dedichino il loro cuore affinché la Patria rinasca e viva eternamente. Banzai! » Alle 19,24 un secondo messaggio, brevissimo, giunge alle orecchie del personale della base di Ota. Per l'ultima volta si ode la voce dell'ammiraglio Ugaki: «Noi picchiamo! » Poi, il silenzio. Nessuno saprà mai in quale angolo di mare sono caduti gli ultimi Samurai del XX Secolo. Non nelle acque prossime a Okinawa, certamente. Nessuna nave americana è colpita, in quel giorno di festa per gli Alleati vittoriosi, né alcun apparecchio giapponese, kamikaze o no, è stato avvistato nella zona. E' lecita una supposizione, che forse è anche la sola possibile. Negli ultimi istanti della sua vita terrena, Ugaki deve avere capito che non avrebbe reso un buon servizio al Giappone colpendo ancora il nemico. Non solo avrebbe disobbedito all'imperatore - una mancanza assolutamente imperdonabile, anzi, inconcepibile per un alto ufficiale giapponese - ma, compiendo una estrema azione di guerra dopo che l'imperatore stesso aveva offerto la resa, avrebbe solo ottenuto di causare indirettamente altre sciagure al Giappone. I Kamikaze , Mondadori 1973
  16. Dave97

    World War II - Kamikaze

    L’avventura del pilota che non riuscì a morire Nel suo libro L'eclisse del Sol Levante (Le Scienze Mondadori 1971), lo storico John Toland racconta la straordinaria avventura di un kamikaze miracolosamente sopravvissuto al tuffo suicida: « Il guardiamarina Yasunori Aoki, nato a Tokyo ventidue anni prima, credeva nel motto dei kamikaze: "Un aereo, una nave da guerra". L'amore per la natura lo aveva spinto a iscriversi alla scuola di agraria di Formosa e quando venne richiamato alle armi s'arruolò nella Marina Imperiale "per il suo fascino", imparò a volare e, agli inizi del 1945, divenne istruttore a Koichi, nell'isola di Shikoku. Lì venivano richiesti volontari per i corpi di attacco speciale. Ogni pilota, istruttore come allievo, venne invitato a scrivere il proprio nome su una striscia di carta; quelli che si offrivano volontari dovevano segnare un cerchietto sopra al proprio nome, gli altri un triangolo. Non essendoci ancora coercizione, parecchi, senza esitare, disegnarono il loro triangolo, ma ad Aoki parve una vigliaccheria. Inoltre, visto che nessuno sarebbe sopravvissuto alla guerra, preferiva morire da pilota, magari affondando una corazzata nemica. I volontari vennero addestrati al volo radente, fino all'altezza di dieci metri, e poi a cabrare e ad aprire il fuoco contro una torre di controllo. Pilotavano uno Shiragiku (crisantemo bianco), un apparecchio da addestramento lento, grosso, con due piloti. Come comandante del proprio apparecchio, Aoki ne divenne anche l'ufficiale di rotta, sebbene, secondo lui, un solo uomo fosse più che sufficiente; ma senza un superiore nel sedile posteriore forse il pilota sarebbe stato tentato a tornare indietro. Le settimane passarono rapidamente. L'addestramento lo teneva occupato quasi tutto il giorno e la missione in sé era così lontana nel futuro da sembrare quasi irreale. Ma una volta terminato l'addestramento, Aoki cominciò a sentirsi condannato a morte; il senso della condanna, poi, aumentò quando gli apparecchi vennero adattati alla loro speciale missione. Sotto la carlinga venne aggiunto un serbatoio di carburante supplementare e sotto le ali vennero fissate due bombe da 250 chilogrammi. Mentre seguiva i lavori di adattamento al proprio apparecchio, Aoki non poté fare a meno di pensare: con questo apparecchio partirò per un viaggio di sola andata. Il 25 maggio il suo gruppo venne trasferito da Knoya a Kyushu, una base da cui sarebbe partito per l'ultimo volo fino a Okinawa. A questo punto, Aoki fu travolto dalla definitività del proprio destino. L’ apparente calma dei suoi compagni gli comunicava un senso di inferiorità. Al tramonto, vide decollare, diretta verso Okinawa, una squadriglia di kamikaze; la prossima volta sarebbe toccato al suo gruppo. Rientrò sconsolato negli alloggii, una scuola elementare, dove con sua meraviglia trovò una dozzina di piloti che lui credeva appena pertiti. Il loro rifiuto di partire calmò il suo senso di vergogna: lui non sarebbe mai stato tanto vigliacco. Il giorno dopo, a mezzogiorno, stava steso sull'erba e guardava gli apparecchi del suo gruppo che venivano tirati fuori dagli hangar e approntati per la missione. Improvvisamente, tutt'intorno a lui ci furono furono delle esplosioni. Gli americani stavano bombardando la base. Non si mosse. Non importa morire, si disse; sperava infatti di tornare a vivere e di conoscere, nella sua reincarnazione, un'epoca più tranquilla e piena di pace. Ma mentre ritornava verso gli alloggi di corsa, la vita, che fino a qualche attimo prima gli era sembrata priva di vero valore, gli divenne più preziosa che mai: un giorno in più di vita non aveva prezzo, anche un'ora di più, un minuto, un secondo. Si fermò a osservare il volo di una mosca. "Come sei fortunata a essere viva", disse ad alta voce. Dopo cena il gruppo si radunò per il rapporto sulla missione del giorno seguente. Ogni equipaggio doveva scegliere la sua quota e la sua rotta. La maggioranza scelse una rotta indiretta da est a ovest. Aoki propose di puntare direttamente su Okinawa. Il suo pilota, un diciassettenne di nome Y okoyama, si disse d'accordo. Andarono a letto presto e Aoki si svegliò calmissimo, poco prima dell'alba. Mi sento bene, pensò. Il 27 maggio, il suo ultimo giorno su questa terra, era limpido e sereno e lui si sentiva eccezionalmente riposato e pieno di energia. Aveva già messo da parte una ciocca di capelli per la sua famiglia; ora scrisse una cartolina a ognuno dei genitori, alle quattro sorelle minori e al fratello più piccolo. "Il nostro divino paese non sarà distrutto" scrisse, quindi pregò perché il Giappone sopravvivesse alla sconfitta completa. Nel tardo pomeriggio di quel giorno al suo gruppo venne offerta una cena cerimoniale. Un ufficiale dell'amministrazione propose un brindisi. Aoki buttò giù il suo saké d'un sorso solo, notando che invece i suoi compagni lo sorseggiavano. Un operatore del cinegiornale chiese ai giovani di posare per lui. Infilarono le cuffie di pelle con l’ emblema del Sol Levante e sopra di essi alcuni cinsero l' hacimaki. Tenendosi sottobraccio, cantarono allegramente Dokino Sakura All'ultima ispezione, un capitano si fermò davanti ad Aoki e gli chiese perché fosse rosso in viso. "Non ti senti bene?" Era per via del saké, spiegò Aoki. "Se non ti senti bene", disse il capitano, sollecito, "puoi restare e aggregarti in seguito a un altro gruppo". "Mi sento benissimo, signor capitano". I quindici equipaggi montarono su un auto carro e furono seguiti dai compagni che volevano vederli partire., Giunti al campo infilarono le cinture di salvataggio che recavano grossi emblemi del Sol Levante. In tasca Aoki aveva soltanto una foto della sua famiglia e due piccoli omamori di legno,portafortuna, che sperava lo avrebbero aiutato a portare a termine la sua missione. Poco prima dell’imbrunire vi fu una cerimonia d'addio presieduta da un contrammiraglio. Durante il discorso di quest'ultimo Aoki udì un gruppo di ufficiali dello Stato Maggiore seduti lì accanto chiacchierare e ridere e ne fu amareggiato Come potevano comportarsi con tanta disinvoltura in un momento simile? L'istruttore capo augurò loro, solennemente, il successo nell'impresa. "A Okinawa c'è un posto di osservazione che confermerà i risultati della vostra missione" disse. "Stanotte c'è la luna piena. Essa vi guarderà, dunque non sarete soli. lo vi raggiungerò più tardi ; vi prego di aspettarmi". I trenta uomini piansero senza vergona Sapevano che desiderava sinceramente di andare con loro e gli furono grati per aver spogliato di ogni banalità i loro ultimi momenti di vita. Mentre i quindici apparecchi raggiungevano la loro posizione di decollo ci fu un agitar di fazzoletti, berretti e bandierine tra la piccola folla al lato della pista. Al di sopra del rombo dei motori a un certo punto Aoki udì qualcuno chiamare: "Aoki! Aoki!". Si voltò a guardare e lì, dietro all'apparecchio, correndo e gesticolando e piangendo, vide uno dei piloti che si era rifiutato di decollare con il gruppo precedente. Provò imbarazzo e insieme risentimento. Tuttavia sorrise e gridò: "Seguici!", proprio mentre il vecchio apparecchio acquistava velocità e si staccava da terra. La sua ascesa nel cielo prolungò l'ormai fievole tramonto. Com'è bello! pensò Aoki. Cacciatorpediniere in vista: « Pronti al tuffo» A 1000 metri d'altezza il giovane pilota puntò quasi direttamente a sud, verso Tori Shima , situata a 60 miglia marine a ovest di Okinawa. Lì avrebbero virato a sinistra puntando sulla zona dov'erano raccolti i trasporti americani. Davanti a loro un solo apparecchio stava allontanandosi nella sua rotta indiretta. Giù di sotto, una luce verde segnava Sada Point: era l'ultima luce della loro patria, e Aoki la guardò fisso e intento, finché non svanì. Poi si sporse a guardare una piccola isola sotto di loro. Se ne levavano strisce di fumo bianco. Fili arricciati. Uno strato di nubi costrinse Yokoyama a scendere a quasi 700 metri, ma giù di sotto l'aria era così turbolenta che dovette abbassarsi fino a 300 metri circa di quota. Per ore e ore volarono rombando monotonamente. L'ora prevista per l'arrivo a Tori Shima era passata. Aoki fece segno a Yokoyama di continuare e controllò l'ora al suo orologio: le 23,30. L'attacco sarebbe dovuto cominciare a mezzanotte; non ce l'avrebbero fatta in tempo. Dopo cinque minuti ordinò a Yokoyama di virare a est e di cominciare a scendere; poi sparpagliò nell'aria pezzetti di stagnola per ingannare il radar nemico, quindi tirò il pulsante che innestava la spoletta delle due bombe, che erano ora armate e sarebbero esplose al contatto. La cortina di nubi sopra di loro s'era dispersa e Aoki vide i riflessi della luna sull'acqua. Ci fu un lampo. Poi un altro. No, era una nave nemica che stava sparando contro di loro. Yokoyama portò l'apparecchio a 100 metri di quota e Aoki si sforzò di vedere la nave, ma era accecato dai lampi abbaglianti del fuoco della contraerea forse a neppure due chilometri di distanza. Ci sarebbe voluto un minuto per raggiungere la nave e il fuoco della contraerea stava diventando sempre più preciso. "Piega a destra!" ordinò. Vivide strisce di fuoco schizzavano verso di loro. Traccianti! Ci fu un rombo e quel che sembrava un Grumman gli passò accanto vicinissimo. Shimatta, pensò Aoki: maledizione! A bordo non avevano neppure una pistola per sparargli contro e se Yokoyama avesse virato avrebbero presentato un bersaglio più facile all'apparecchio nemico. Spinse indietro la calotta, s'alzò in piedi e si guardò intorno. Il Grumman era scomparso. Disse al pilota di puntare di nuovo verso Okinawa. Quasi immediatamente avvistarono un cacciatorpediniere che navigava tranquillamente davanti a loro, diretto verso sud. "Affonda!" gridò Aoki. Yokoyama era stato addestrato ad affondare in senso antiorario per evitare di andare a sbattere contro qualche apparecchio amico, ora invece doveva andare in senso orario, cioè qualcosa che lui non aveva mai fatto prima. Mentre gli si avvicinavano, da poppa dal cacciatorpediniere non partì neppure un colpo. Aoki stava ancora in piedi li sul suo sedile, con le braccia poggiate sulla le calotta e il mento sulle mani, fissando dritto il cacciatorpediniere. Era sereno mentre aspettava l'esplosione . Erano ora così vicini che anche se gli e americani avessero aperto il fuoco sarebbe stato troppo tardi. Si e sentì felice: la sua morte avrebbe avuto un senso. Né lui né Yokoyama pronunciarono una sola parola mentre il lento e vecchio apparecchio rombava verso il cacciatorpediniere. Ci fu uno schianto quando colpirono l'acqua, e Aoki si ritrovò ancora nell'apparecchio: per una duplice coincidenza, ancora vivo. Non avendo mai puntato prima contro un bersaglio mobile, Yokoyama se l'era lasciato sfuggire. Ma perché le bombe non erano esplose al contatto ? “Buntaicho (comandante)! Vieni qui!" Yokoyama stava in piedi sopra la carlinga dello apparecchio che stava affondando. Aoki se ne tirò fuori appena qualche attimo prima che l'apparecchio s'inabissasse a muso in avanti sotto le onde e gonfiò la cintura di salvataggio che gli era sembrata cosi inutile. Erano soli, nel buio: niente navi, niente aerei. "Cosa facciamo?" chiese Yokoyama. Ora che la vita era salva, Aoki non seppe cosa rispondere. Non provava nessuna gioia a essere vivo. All'alba, scorsero lontano una striscia di terra: doveva essere Okinawa. Aoki propose di raggiungerla a nuoto, ma si trovarono improvvisamente davanti un cacciatorpediniere nemico. Si stesero immobili sulla schiena, come se fossero morti, tenendosi sottobraccio. Quando il cacciatorpediniere accostò, chiusero gli occhi e spalancarono la bocca. Una gaffa afferrò la gamba del pantalone di Yokoyama. "Liberati!" Gli gridò Aoki, ma il pilota non riuscì a svincolarsi e fu tirato su come un pesce, tirandosi dietro il compagno ancora aggrappato al braccio. Aoki s'arrampicò su per il cavo che pendeva dal fianco della nave: va bene, era stato preso ma sarebbe fuggito o si sarebbe ucciso. "Stai salendo a bordo!" esclamò Yokoyama, incredulo. In seguito furono trasferiti su una nave più grande e quando fu chiaro che la fuga era impossibile, Aoki cercò di strangolarsi con un pezzo di corda. Una sentinella si precipitò dentro proprio mentre stava venendo meno. Alla fine concluse che era suo destino vivere e divenne un prigioniero modello». I Kamikaze , Mondadori 1973
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    LA PRIMA MISSIONE DELLE "BOMBE VOLANTI" Il 21 marzo, per la prima volta, entra in azione un nuovo mezzo kamikaze, la bomba volante Ohka, il cui nome gentile significa Fiore di Ciliegio. E' un razzo pilotato, a forma di piccolo aereo, che dev'essere trasportato fino in prossimità dello obiettivo da un bombardiere-madre bimotore, il Mitsubishi G4M (chiamato Betty dagli Alleati). L'Ohka è un mezzo disperato, affidato a uomini disperati. La sua prima missione ha un esito ancora più catastrofico di quello dei Ginga inviati su Ulithi. Partono dunque da Kanoya, alle 11,35 del 21 marzo 1945, un paio di Betty battistrada (senza Ohka a bordo), 16 Betty con le rispettive bombe volanti e 30 Zero di scorta. Una possente formazione navale americana è stata segnalata a 590 miglia da Kyushu, in direzione sud-est. Ad assistere al decollo c'è, di persona, l'ammiraglio Matome Ugaki, da poco nominato Comandante in Capo di tutte le Forze Aeree di Marina di Kyushu, che inglobano anche la Quinta Flotta. Ugaki è tenacemente convinto che l'Ohka sia l'arma risolutiva, in mano ai kamikaze. Grazie alle sue dimensioni ridotte e alla altissima velocità di caduta, prossima se non superiore agli 800 chilometri orari, difficilmente sarà arrestata dal tiro contraereo. La sua potente carica d'esplosivo - 800 chilogrammi -, sommata alla velocità di impatto, basterà finalmente ad affondare una grande portaerei anche senza bisogno che salti il deposito delle munizioni. Magnifica teoria, ma solo teoria. L'attacco del 21 marzo, organizzato dal capitano di vascello Motoharo Okamura, è guidato dal capitano di corvetta Goro Nonaka. L'imponente formazione giapponese è in volo, sui grossi bombardieri Betty volteggiano gli agili Zero. Fino alle due del pomeriggio, tutto procede nel migliore dei modi. I kamikaze, prima di calarsi negli angusti abitacoli degli Ohka, fraternizzano con gli equipaggi, per niente rattristati dalla sorte che li attende. Ignorano che un tragico destino attende tutti, kamikaze e non kamikaze. Quando i giapponesi sono a meno di 100 chilometri dall'obiettivo, ecco profilarsi nel cielo una formazione di 50 Hellcats. I Betty, impacciati nelle manovre dal peso degli Ohka, sono letteralmente falciati in meno di un minuto, senza che gli Zero riescano a far nulla per difenderli. Anzi, gli stessi Zero sono schiacciati dalla massa degli Hellcats che li tormentano da ogni lato. Cadono 15 Zero, tra i quali quello pilotato da Goro Nonaka, e nessun Hellcat. La strage è pressoché totale. Rientrando a Kanoya danneggiati, altri Zero si fracassano nell'atterraggio. La missione-incubo è compiuta. Ugaki scoppia a piangere come un bambino. I Kamikaze , Mondadori 1973 Lo Yokosuka MXY7 o "Ohka" era un velivolo per attacchi suicidi che venne sviluppato presso l'arsenale di Yokosuka in collaborazione con l'istituto di ricerche aeronautiche dell'università di Tokyo. Si trattava di una macchina di piccole dimensioni capace di trasportare 1.200 Kg. di esplosivo e destinata ad essere portata a circa trenta chilometri dall'obiettivo agganciata al ventre di un bombardiere G4M2, una volta sganciata alla quota ottimale di 5.000 metri essa accelerava grazie alla spinta di tre razzi tipo 4 Mk. 1 Model 20 utilizzabili sia insieme che separatamente nel caso fosse desiderato il massimo raggio d'azione. Il primo volo coi motori in funzione avvenne nel novembre 1944 e complessivamente furono prodotte 155 "Ohka" Model 11 ad opera dell'arsenale di Yokosuka ed altre 600 da quello di Kasumigaura. Per fungere da velivoli-madre furono inizialmente adattati alcuni "Betty" G4M2 ribattezzati G4M2e mentre in seguito alcuni velivoli furono trasformati direttamente sulla linea di produzione con modifiche che riguardavano soprattutto la stiva bombe privata dei portelloni e munita di attacchi per l’aggancio dell’ordigno. Per l’impiego operativo furono appositamente costituiti due reparti della marina imperiale, i Kokutai 721 e 722, ma sin dall'inizio il programma subì pesanti contrattempi, il più grave si ebbe il 29/11/44 con l'affondamento ad opera di un sommergibile americano della grande portaerei "Shinano" che stava trasportando un gran numero di "Ohka" sulle basi avanzate. Anche alla prova dei fatti l'idea si rivelò deludente ed i pesanti G4M2 caddero facilmente preda dei caccia statunitensi assai prima di giungere a distanza utile dalle navi alleate, cosi quando il 21/3/45 diciotto G4M2e del 721° Kokutai decollarono per la loro prima azione bellica, furono intercettati a ben 90 chilometri dalle portaerei venendo abbattuti tutti. Il primo successo delle "Ohka" ebbe luogo ad Okinawa 1//4/45 quando fu danneggiata la nave da battaglia "West Virginia", seguì il 12 aprile il cacciatorpediniere "Mannert L. Abele" che però fu affondato. Poichè i bombardieri erano costretti a sganciare i loro ordigni anticipatamente, le uniche vittime che furono registrate fino alla fine del conflitto furono solo le unità minori che costituivano la rete di picchetti radar assai all' esterno del grosso della flotta. Dell' "Ohka" furono sviluppate numerose varianti sperimentali: K 1 da addestramento, senza razzi, con pattino retrattile e zavorra per bilanciare la mancanza della testata esplosiva; ne vennero costruiti 45 esemplari. Modello 21, progetto non realizzato; versione ridotta del Model 11 con carico bellico di 600 Kg e trasportabile da velivoli Yokosuka "Ginga". Modello 22 derivato dal Model 21 ma propulso da un primitivo motore a getto Tsu-11; ne furono costruiti 50 esemplari Modello 33, progetto non realizzato spinto da un turbogetto Ne-20 con carico bellico di 800 Kg. e destinato ad essere trasportato dal quadrimotore Nakajima "Renzan". Modello 43A progetto non realizzato simile al Model 33 ma ingrandito e destinato ad essere lanciato da sommergibili in emersione. Le principali dimensioni e caratteristiche del Model 11: apertura alare m. 5,11; lunghezza m. 6,06; altezza m. 1,15; superficie alare mq. 6,34; peso a vuoto Kg. 440; peso totale Kg. 2.140; velocità max Km/h 648 a 3.500m; velocità finale Km/h 926; raggio Km. 37.
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    World War II - Kamikaze

    ECCO IL BERSAGLIO: MA I BOMBARDIERI "GINGA" NON HANNO PIU' BENZINA Con effettivi della Quinta Flotta Aerea si forma il Gruppo Speciale Azusa, comprendente 9 ricognitori e 24 kamikaze, al quale è affidata una missione particolarissima che prende il nome di Piano Tan: colpire la lontanissima base di Ulithi, dove sono in riparazione alcune delle più grandi portaerei americane. Il progetto è allettante, ma, data la distanza da percorrere - oltre 3.000 chilometri da Kyushu -, non si possono certo utilizzare gli Zero. Il generale Teraoka mette perciò a disposizione del Gruppo Azusa i modernissimi e veloci bimotori Ginga, armati finalmente con le bombe da 800 chilogrammi. Se parecchi di essi andranno a bersaglio, il colpo per la Marina americana sarà veramente duro, stavolta. Il Gruppo Azusa decolla da Kanoya l'11 marzo, di buon mattino, e subito punta a sud. Il cielo è limpido, l'oceano è increspato solo da una leggera brezza. Ma presto si verificano i primi contrattempi. I piloti di alcuni apparecchi segnalano agli altri equipaggi che il funzionamento dei loro motori è imperfetto. Maledicendo la sorte che, almeno per il momento, toglie loro la possibilità di immolarsi, diversi kamikaze devono interrompere la missione. Atterrano a Okinawa e a Miyakojima. Intanto le condizioni atmosferiche subiscono un brusco mutamento. Sulla verticale della piccola isola di Okinotori Shima i Ginga sono investiti da rabbiose raffiche di vento, mentre all'orizzonte si formano banchi di nuvole dense, gravide di pioggia. I piloti si consultano l'un l'altro via ra¬dio. Affrontare la depressione ciclonica o aggirarla con il rischio di spendere anzitempo il carburante necessario per arrivare a Ulithi? Si decide di allungare il percorso, ma serve a poco. Il maltempo sembra estendersi a tutto il Pacifico occidentale. I Ginga finiscono nel bel mezzo del fortunale e, per ore, sono in balia degli elementi. Si disperdono, si disuniscono, ognuno è costretto a pensare a se stesso. Alle 14,30 i ricognitori gettano la spugna e prendono la via del ritorno Completamente smarriti, prigionieri dell'impenetrabile massa di nuvole, i Ginga errano alla cieca nel ciclo di pece mentre il tempo scorre e il livello del carburante diminuisce. Qualche pilota, ritenendo ormai impossibile raggiungere Ulithi, chiede al navigatore se c'è ancora un fazzoletto di terra, nell'Oceano, dove scendere prima che sia troppo tardi. Così gli altri Ginga atterrano a Minami Daitojima e a Yap, ma due si inabissano. Restano in lizza 11 Ginga che, ostinati, continuano il loro viaggio a regime ridotto, per risparmiare carburante. Sono in volo ormai da dodici ore, i serbatoi sono quasi vuoti. Ed ecco, improvviso, uno squarcio di sereno davanti alle loro prue. Si intravedono delle luci che brillano nella notte. E' Ulithi. Gli americani, matematicamente certi di essere al riparo dal pericolo di qualsiasi incursione nemica, hanno rinunciato ad ogni cautela, cominciando con l'ignorare le norme dell'oscuramento. Gli equipaggi giapponesi, ora che la meta è vicina, sono più che mai angosciati. Il carburante è agli sgoccioli, i motori cominciano a tossire, qualche apparecchio ha esaurito le ultime riserve e procede veleggiando, mantenuto in aria dal pilota a prezzo di uno sforzo tremendo. Ulithi è là, dritta a prua, a pochissime miglia. E i Ginga, dopo un volo che i numerosi dirottamenti hanno allungato a più di 4.000 km, precipitano uno ad uno nella laguna! Un solo apparecchio regge all’ultimo strappo. Come un aliante, con le eliche presumibilmente ferme, scivola silenzioso sulle navi americane all'ancora nella baia. L'equipaggio della portaerei Randolph ha già cenato ed è ora riunito nell' hangar principale, dove si pro¬ietta un film poliziesco. Improvvisamente la nave è scossa da una violentissima deflagrazione. Tutti balzano in piedi, esterrefatti, si urtano , si calpestano nell'oscurità, gridando. Nessuno immagina cos'è accaduto. Le squadre di soccorso impiegano almeno dieci minuti per organizzarsi: quando intervengono, sul ponte della Randolph divampa già un incendio di prima grandezza. Solo all'alba del giorno dopo, fra i rottami, si trova qualche minutissimo resto del Ginga. La rivelazione che un kamikaze - ma non è stato solo uno! - è arrivato fin lì, paralizza gli americani. Ma Ulithi non ha più nulla da temere. L'esito disastroso e beffardo del Piano Tan induce Teraoka a non ritentare l'impresa. I Kamikaze , Mondadori 1973
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    World War II - Kamikaze

    25 Ottobre 1944 Gli Zero Affrontano la Flotta Americana Fin dalle prime battute della battaglia i giapponesi si rendono conto, con disperazione, che il Piano Sho non funziona. I bombardieri in picchiata, gli aerosiluranti e i caccia della Prima Flotta Aerea sono immediatamente sopraffatti dagli Hellcats e dalla cortina di fuoco delle navi nemiche, mentre gli apparecchi americani compiono autentiche stragi sulle unità giapponesi. Per il Sol Levante la battaglia di Leyte non è una semplice sconfitta: è un disastro di proporzioni inaudite, nel quale la Flotta Oceanica Imperiale cessa quasi di esistere. La prima azione dei kamikaze, prevista per il 23 ottobre, è rinviata al 25 poiché i piloti, decollati dopo essersi cinti il capo con l' hacimaki (la fascia di panno bianco, simbolo dello spirito di sacrificio per la Patria), sono rientrati alla base di Cebu, avvilitissimi per non essere riusciti a trovare il nemico. Si può morire una volta - e la certezza della morte imminente è più terribile, forse, della morte stessa, - ma non la seconda! Questo dovrebbe oltrepassare i limiti della più fanatica (o mistica) spiritualità giapponese. Non è così, invece. I medesimi uomini, all'alba del 25 ottobre, bevono saké nell'assistere al rito simbolico del loro funerale, cantano inni guerreschi, si riannodano l’ hacimaki e ripartono. Alle 7,30 del mattino, in un punto dell'Oceano situato allargo della costa settentrionale di Mindanao, a una quarantina di miglia dall'isola Siargao, i 6 Zero della Sezione Yamato scoprono il Taffy Group 1 del contrammiraglio Thomas L. Sprague, forte di quattro portaerei di scorta e di sette cacciatorpediniere. Il primo Zero si tuffa alle 7,40 sulla portaerei Santee. La sua traiettoria è tesa. Quand'è a cinquecento metri dalla nave lo Zero spazza il ponte con una breve, secca raffica di mitragliatrice. Questione di tre, quattro secondi. L'esplosione sulla parte anteriore del ponte di volo apre un cratere di 9 metri per 5. L'aereo si è completamente disintegrato, del pilota non è rimasto nulla. Sulla Santee divampa un violento incendio. La nave si salverà, ma dovrà abbandonare la zona delle operazioni. Un altro Zero, il secondo, spunta da una nuvola come un'apparizione diabolica. Il suo pilota ha scelto per bersaglio la Sangamon, ma un proiettile sparato dalla Suwannee lo centra a mille metri di quota e l'apparecchio precipita in vite. Il kamikaze fa appello a tutte le sue forze per raddrizzarlo e non cadere in mare inutilmente, ma è colpito di nuovo da una granata da 127 millimetri. I brandelli dello Zero cadono fiammeggiando a 150 metri dalla Suwannee. Il terzo Zero picchia deciso sulla Petrof Bay, accolto da una fittissima ragnatela di proiettili traccianti. Si dissolve in una rosa di lapilli incandescenti. Il quarto Zero è abbattuto dal tiro della Suwannee. La stessa unità è presa di mira dal quinto Zero, e anche questo viene colpito. Ma il kamikaze riesce a controllarlo fino all'ultimo. Un boato: la Suwannee è centrata e le sovrastrutture cominciano a bruciare. Si ritirerà dalla scena, come la Santee. Del sesto Zero della Sezione Yamato non si sa nulla. Scomparso, certamente abbattuto. Yukiho Seki guida personalmente la Sezione Shikishima e localizza il Taffy Group 3 del contrammiraglio Clifton A.F. Sprague a circa 170 chilometri da Leyte. Questo Gruppo ha subito qualche perdita nel corso della recentissima battaglia di Samar, ma consta ancora di quattro portaerei di scorta e di sei cacciatorpediniere. I suoi radar segnalano la squadriglia di Seki, e il giovane capitano di vascello è costretto a una fuga momentanea per evitare la sicura distruzione dei suoi aerei da parte di una quarantina di Hellcats, prontamente levatisi in volo. Ma alle 10,40 le navi americane sono nuovamente individuate e Seki comunica ai ragazzi nell'interfono: «Portaerei a 90 miglia est di Samar. Si va all'attacco. Banzai! ». Trascorrono dieci minuti. Gli Zero, per celarsi ai radar del nemico, volano a pelo d'acqua. Quando le portaerei sono in vista, cabrano simultaneamente fino a 1.600 metri, da dove cominciano la picchiata mortale, il Jibaku. Il primo Zero fila sulla Kitkun Bay, mitraglia perdutamente e sembra vicino al successo, quando una granata gli esplode sotto il ventre a un centinaio di metri dall'obiettivo. La bomba si stacca e scoppia vicinissima alla nave, recando qualche danno. L'aereo, sfasciato, finisce tra i flutti. Contemporaneamente due Zero sono distrutti dal fuoco rabbioso della Fanshaw Bay. Uno di essi, probabilmente, è quello di Yukiho Seki. Si lanciano altri due Zero, entrambi contro la White Plains. Uno, benché ridotto al puro scheletro dai proiettili incendiari delle batterie nemiche, si porta così vicino alla nave che, nel momento in cui esplode in volo, la ferisce malamente in più punti. L'altro, scoraggiato dal troppo denso sbarramento della White Plains, compie una deviazione in piena picchiata e va a schiantarsi sulla St. Lo. Lo scoppio è terrificante. Le squadre di soccorso non riescono a circoscrivere le fiamme ed esse raggiungono un deposito di sette siluri, che esplodono a loro volta. E' un inferno. Frammenti d'acciaio e pezzi di carne umana volano per ogni dove, assieme a carcasse di aeroplani. La St. Lo è condannata senza scampo. Il suo comandante, capitano di vascello MacKenna, ordina all'equipaggio di abbandonare l'unità, che s'inabissa alle 11,25. Le Sezioni Asahi e Yamazakura cercano e inseguono le navi statunitensi in quella e in altre zone di mare. Alcuni Zero attaccano di fronte la Kitkun Bay, già leggermente danneggiata, ma sono dispersi dal concentratissimo tiro antiaereo. Uno di essi, colpito, manca lo scafo per un soffio. Altri quattro Zero picchiano insieme sulla Kalinin Bay. Tre cadono, sbranati dalle schegge delle granate. Il quarto coglie nel segno, giusto a metà del ponte di volo. I danni sono gravi. Alle 11,30 il cielo è sgombro di kamikaze. Anche molti Zero di scorta, privi perciò di bombe, hanno compiuto il Jibaku per accompagnare gli amici destinati al sacrificio. Pochi si sono salvati. Tre Zero di scorta rientrano a Cebu alle 12,20 e i tre piloti, esaltati da quello che hanno visto, si precipitano a rapporto. Non solo i comandanti, ma tutti i piloti, tutti gli uomini del personale di terra vogliono conoscere in ogni particolare l'andamento della prima missione kamikaze della storia. I piloti, in gran parte volontari suicidi, fanno ovviamente centinaia di domande. Ma sono domande tecniche. Non si preoccupano della vita - in pratica, l'hanno già immolata -, vogliono invece sapere tutto sul Jibaku per poterlo compiere efficacente quando verrà il loro turno. A sera Radio Tokyo nasconde al popolo giapponese la funesta verità sulla battaglia di Leyte, nella quale la Flotta Imperiale (un tempo la terza del mondo) ha perso 26 navi tra cui la corazzata gigante Musashi, le corazzate Yamashiro e Fuso, la portaerei pesante Zuikaku, le portnerei leggere Chiyoda, Zuiho e Chitose, 6 incrociatori pesanti, 4 incrociatori leggeri e 9 cacciatorpediniere, oltre a 391 aeroplani, senza contare le unità danneggiate più o meno gravemente. Radio Tokyo diffonde poi un comunicato del Gran Quartiere Generale Imperiale in cui si fa cenno alla « grande vendetta» compiuta dal Corpo Speciale dei kamikaze e si esaltano le gesta dei piloti suicidi. L'entusiasmo si propaga in tutto il Giappone, ignaro del fallimento integrale del Piano Sho. Il numero già elevato dei volontari della morte si decuplica, e il vice-ammiraglio Onishi si convince a costituire altri Corpi Speciali e a prolungame l'attività operativa ,originariamente prevista solo in appoggio al Piano Sho. D'altra parte la strategia kamikaze sembra davvero l'unica, per il momento, che possa fruttare qualche vantaggio al Giappone. Nella battaglia di Leyte le navi di Kurita, e gli apparecchi impiegati negli attacchi convenzionali, sono stati in grado di affondare solo 5 unità americane: la portaerei leggera Princeton, la portaerei di scorta Gambier Bay, i cacciatorpediniere Johnston, Heel e Samuel B. Roberts. Mentre i pochi Zero della prima missione kamikaze hanno affondato la portaerei di scorta St. Lo e ne hanno danneggiate diverse altre. In proporzione, i kamikaze hanno fatto assai più degli altri. Il 26 ottobre l'ammiraglio Fukudome, comandante della Seconda Flotta Aerea, avvilito per gli insuccessi dei suoi bombardieri e dei suoi caccia, segue l'esempio di Onishi e decide di formare a sua volta dei Corpi Speciali suicidi. Per unificare i Comandi, gli Stati Maggiori della Prima e della Seconda Flotta si fondono in un solo organismo chiamato «Flotta Combinata del Teatro Sud-Ovest ». Fukudome, più anziano di Onishi, è nominato comandante in capo, mentre Onishi stesso diventa Capo di Stato Maggiore. Il giorno successivo. vengono battezzate quattro nuove squadriglie di kamikaze, costituite da effettivi della 701a Squadra. Le comanda Tatsuhiko Kida. Si chiamano Chuyu, Seichu, Junchu, Giretsu. E' l'inizio del principio kamikaze generalizzato, appena otto giorni dopo la fulminea improvvisazione di Onishi. Sarà impossibile, da questo momento in avanti, seguire passo passo tutte le vicende dell'epopea kamikaze. All'indomani della prima missione, passata l'eccitazione frenetica delle ore immediatamente successive alla battaglia, i commenti restano favorevoli. A mente serena si giudica infatti che i risultati ottenuti dai piloti suicidi della 201a Squadra sono stati, più che buoni, eccellenti. Ma il 27 ottobre Onishi - non soltanto perché stravolto a causa del rovescio di Leyte - ha una grave crisi di coscienza, che manifesta a Inoguchi nel momento in cui altri kamikaze decollano per andare ad attaccare le navi da trasporto dirette a rifornire di armi e materiali i marines già sbarcati. « Il fatto stesso che noi siamo stati costretti a usare questo nuovo metodo di guerra » dice Onishi « dimostra la nostra impotenza e mette a nudo tutti gli errori strategici che abbiamo commesso dopo Pearl Harbor. Gli attacchi suicidi sono mostruosi! » Lo stesso giorno operano per la prima volta le squadriglie della 701a Squadra di Fukudome, ma l'unica unità danneggiata è l'incrociatore leggero Denver. In serata c'è una riunione tecnica fra i principali responsabili dell'iniziativa kamikaze, con la consulenza dei piloti dei caccia di scorta che sono tornati vivi dalle missioni fin qui effettuate. Le esperienze del primo giorno hanno dimostrato che, a parte il colpo fortunato della St. Lo, sono necessari almeno due o tre impatti kamikaze ben centrati per danneggiare seriamente una portaerei di medio tonnellaggio, salvo usare apparecchi più grandi degli Zero e bombe più pesanti di quelle da 250 chilogrammi. Si è anche stimato che il gruppo ideale d'attacco dev'essere piccolo; tre aerei d'assalto e due di scorta. Quanto al modo migliore di attaccare, due tesi prevalgono. Secondo alcuni bisogna avvicinare le navi nemiche a bassissima quota per non essere localizzati dai radar ,come hanno fatto i kamikaze di Seki al largo di Samar -, poi impennarsi fino a 600-800 metri per iniziare una picchiata improvvisa. Questa tecnica offre il vantaggio di sorprendere l'avversario, sia pure non del tutto, e di ridurre al minimo gli interventi degli Hellcats eventualmente in volo, impossibilitati a manovrare a pelo d'acqua. Secondo altri è preferibile volare ad alta quota, sui 6.000-7.000 metri, dove il tiro contraereo è assai meno pericoloso, anche perché da lassù si può scegliere meglio il bersaglio. Anche questo sarebbe un sistema valido, ma ha il grave inconveniente di esigere che i kamikaze siano piloti esperti. E invece è già chiaro per tutti che bisogna economizzare al massimo i piloti esperti, e accettare come kamikaze solo i novellini. In pratica entrambe le tecniche saranno adottate nelle missioni successive, spesso congiuntamente, e così si otterrà , qualche volta , di disorientare le difese del nemico e di realizzare una più efficace penetrazione nello sbarramento. A tutti i livelli della gerarchia militare giapponese, prescindendo dal momentaneo sconforto di Onishi, si ripongono grandi speranze nei kamikaze. Alcuni ufficiali vagheggiano già in creazione di apparecchi e di altri mezzi appositamente studiati in funzione delle missioni suicide, più adatti degli aerei di tipo classico. Verranno, ma troppo tardi, e si dimostreranno perfettamente inutili. I Kamikaze , Mondadori 1973
  20. Dave97

    World War II - Kamikaze

    Le origini Già nei primi mesi della guerra del pacifico numerosi aviatori giapponesi ricorrono al sacrificio estremo,per essere ben certi di colpire il nemico. In molte occasioni i marinai americani hanno visto abbattersi sulle loro navi, come bolidi, gli aeroplani con le insegne del Sol Levante. Ma sono state, improvvisazioni individuali, eroiche secondo alcuni e soltanto fanatiche secondo altri; non esclusive del resto, come metodo-limite di lotta, dei giapponesi. Alla fine del 1943 un pensiero insinuante ha cominciato a farsi strada nelle menti degli aviatori di Marina del Tenno, a serpeggiare lentamente fino a diventare una fissazione. Da diverso tempo essi hanno constatato di combattere contro gli americani in condizioni di avvilente inferiorità. Il famoso caccia Zero è stato surclassato dall'Hellcat, più veloce, più robusto, miglior incassatore e capace di un assai maggiore volume di fuoco. Gli aviatori americani non venivano inviati in missione senza prima aver completato tutti i turni di un severo addestramento, mentre per loro, i giapponesi, mancava quasi il tempo di andare a scuola, poiché non si poteva sciupare una goccia di carburante in più dello stretto necessario. Il nemico era dunque superiore in modo schiacciante, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo. Le sue risorse industriali sembravano senza fondo. La somma di queste avversità confluiva in un crudo schema statistico, nelle battaglie aeree andava perduto il 40, il 60, talora addirittura l'80 per cento degli apparecchi giapponesi impiegati, mentre nelle incursioni agli obiettivi navali, ferma restando una così insostenibile percentuale di abbattimenti, non si riusciva quasi più a centrare un bersaglio, tanto fitto, preciso e concentrato era lo sbarramento difensivo delle unità della U. S. Navy. Ed ecco nascere il pensiero insinuante, la fissazione. Se la morte in combattimento era ormai diventata un'eventualità fatale senza che neppure servisse a rallentare l'avanzata del nemico di isola in isola , quasi nessuno sopravviveva a più di due o tre missioni a fuoco , perché non estendere deliberatamente a tutti il principio, fino ad allora casuale e improvvisato, del suicidio volontario per la Patria? Non avevano forse lo spirito e il cuore degli antichi Samurai, gli aviatori del Giappone moderno? E allora, se gli attacchi aerei convenzionali alle navi alleate non offrivano alcun risultato positivo, e per di più si moriva ugualmente, cosa aspettava l'Alto Comando Imperiale a chiedere ai nuovi Samurai, se non ad imporre, di spingere fino alle estreme conseguenze il Jibaku, il tuffo in picchiata sulle navi del nemico? Non c'era che un modo per fermare quei mostri d'acciaio: speronarli dal cielo, con una bomba innesenta sotto il ventre degli aerei. Le bombe che piovevano senza guida dall'alto finivano tutte in mare. Già una volta nella storia del Giappone un evento straordinario aveva capovolto all'ultimo minuto una situazione che appariva disperata. Nell'anno 1281 , verso la metà di agosto, un uragano di eccezionale violenza aveva disperso la flotta cino-mongola di Kublai Khan, forte di 3.500 giunche e di centomila guerrieri, che si apprestava a invadere il Giappone. I giapponesi, grati al Dio del Vento, Ise, per il suo, provvidenziale aiuto, chiamarono Vento Divino (Kamikaze) quella tempesta, e da allora il culto di Ise assunse un significato particolare nel cosmo della mitologia shintoista. Quasi sette secoli più tardi, nel 1944, non c'è giapponese che non invochi da Ise un nuovo Vento Divino. L'Impero è in gravissimo pericolo, e stavolta a minacciarlo non sono delle fragili giunche, ma immense navi d'acciaio che nessuna bufera può affondare. Se ci sarà salvezza, sarà dovuta alla superiorità spirituale dei giapponesi, che credono con fervore mistico nei valori e nelle virtù della loro tradizione millenaria. Per mesi e mesi, nel 1944, i piloti della Marina confabulano e perfezionano il loro disegno. Essi sognano ormai di raggiungere gli antenati gloriosi nel tempio venerato di Yasukuni e di cantare con loro l'inno eroico Umi Yakaba. Ma l'Alto Comando fa orecchie da mercante. Per quanto disperatamente compromessa sia la situazione strategica del Giappone, nemmeno gli ufficiali più fanatici, fra coloro che occupano i posti di più alta responsabilità, si sentono ancora di avallare una concezione bellica fondata all' origine sulla morte necessaria dei combattenti: sarebbe un fatto senza precedenti, e di portata incalcolabile, anche per un Paese tradizionalmente guerriero e dalla cultura originalissima com'è il Giappone. Ma, fra il 18 e il 20 giugno, la Marina Imperiale subisce una catastrofica disfatta nella battaglia aeronavale delle Marianne. Il capitano di vascello Eiichiro Jo, comandante della portaerei Chiyoda, si fa portavoce dei sentimenti dei suoi aviatori e, ai primi di luglio, indirizza all' Alto Comando un drammatico messaggio: «Non c'è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori. Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere io il comando ». L'appello di Eiichiro Jo, uomo che gode di un prestigio senza macchia, ha un'eco impressionante a Tokyo. Egli non sarà nominato comandante dei primissimi kamikaze della storia - gli uomini del nuovo Vento Divino - solo perché la burocrazia non gliene darà il tempo. Ma, sulla Chiyoda colpita a morte dai suoi implacabili nemici, colerà a picco proprio il giorno in cui si immoleranno i kamikaze dei primi Corpi Speciali: il 25 ottobre 1944, nella. tragedia di Leyte. Prima che venga quel giorno, il Giappone continua a collezionare sconfitte negli stessi luoghi dove due anni prima aveva trionfato. Le squadriglie di apparecchi, sia della Marina che dell'Esercito, sono puntualmente decimate al suolo, negli aeroporti delle Filippine, da massicce formazioni di bombardieri in picchiata, decollati dalle portaerei americane che infestano il Pacifico. Il 9 e il 10 settembre la grande base di Davao è sconvolta. Il 12, il 13 e il 14 sono devastate le basi di Cebu, Legaspi e Tacloban. Attorno a Manila le attrezzature aeroportuali sono addirittura annientate nel corso di due terribili incursioni, il 21 e il 22. Nella seconda, centinaia di velivoli giapponesi vengono distrutti in meno di un' ora. Bisogna difendere le filippine a tutti i costi Questo accanimento contro le Filippine fa supporre all' Alto Comando Imperiale che proprio quel vasto arcipelago sarà il prossimo obiettivo del generale MacArthur e dell'ammiraglio Nimitz. Ma la conservazione delle Filippine è assolutamente vitale per l'Impero. Le Filippine non costituiscono soltanto, per la loro collocazione geografica, uno scacchiere strategico di straordinaria importanza. Esse sono il polmone stesso del Giappone, la fonte delle materie prime indispensabili alle industrie e dei rifornimenti essenziali all'economia del Paese. Le Filippine vanno dunque salvate a qualunque costo, e i comandanti militari ammoniscono soldati, marinai e aviatori senza un'ombra di retorica: per le Filippine si deve morire fino all'ultimo uomo, prima che gli americani vi mettano piede. Negli animi dei combattenti si accende la scintilla di un'esaltazione delirante, ai limiti del fanatismo, del tutto inconsueta perfino per gli spiriti giapponesi. Ma essa non si dimostra sufficiente ad arginare la montante marea alleata. Il 15 settembre 1944 i marines sbarcano a Peleliu, nelle Palau, a metà strada fra le Marianne e le Filippine. Il 6 ottobre Vyacheslav Mikhailovic Molotov, ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, confida sibillinamente all'ambasciatore giapponese a Mosca che l'inizio dell'invasione delle Filippine è previsto per il 20 dello stesso mese. (E' un perfido tiro di Stalin ai suoi alleati occidentali. La volpe del Cremlino intende, sì, attaccare a sua volta il Giappone, ma da sciacallo, quando del Giappone non resterà che il cadavere. E che gli americani si dissanguino il più possibile!). L'Alto Comando Imperiale, a questo punto, decide di intraprendere uno sforzo gigantesco per difendere le Filippine. In fretta e furia - anzi, forse con troppa fretta e con poco cervello: ma il tempo stringe, non c'é scelta - viene varato lo Sho-go (Piano della Vittoria), che consiste nel lanciare nella mischia, coordinatamente, l'intera flotta giapponese, con l'appoggio di tutti gli aeroplani imbarcati e di quelli che ancora si trovano negli aeroporti delle Filippine, di Formosa e delle isole oceaniche non ancora riconquistate dagli Alleati. Praticamente tutto il potenziale giapponese disponibile per la metà di ottobre sarà scagliato contro le forze degli invasori. l combattenti sentono profondamente che il Piano Sho non fallirà lo scopo: fanatismo, disperione e illusione sono sempre stati compagni. Tutti si arrovellano per cercare, studiare, proporre nuovi metodi di lotta, i più bizzarri, che facciano da panacea contro la strapotenza convenzionale del nemico. Per gli aviatori il metodo non può essere che uno, gettarsi a capofitto sulle navi americane. Non c'è altra possibilità per arrestare le flotte d'invasione. Gli aviatori sono ossessionati soprattutto dalla necessità di distruggere le portaerei, perché è da questi giganti del mare che viene ogni giorno la morte. Le più grandi portaerei americane portano quasi cento aerei ciascuna. Se sono caccia, le forze di una portaerei sola bastano a liberare il cielo da almeno trecento Zero, poiché è ormai assodato che un Hellcat vale per tre Zero. Se sono bombardieri, in una missione possono cancellare dalla faccia della Terra tutto quanto esiste in un grandissimo aeroporto. Obiettivo primario, dunque, le portaerei. Ma gli ufficiali dei gradi più alti ordinano di impegnarsi a fondo anche contro le navi da trasporto e le petroliere, altrettanto necessarie agli invasori. Essi non suggeriscono però come impegnarsi a fondo: la strategia suicida, auspicata con triste ma ferma consapevolezza da Eiichiro Jo, non è stata ancora ufficialmente approvata dall' Alto Comando. Perciò, le direttive del Piano Sho sottintendono che le forze aeree continuino a essere impiegate in modo tradizionale. E' a questo punto che il contrammiraglio Arima rompe ogni indugio e offre il sacrificio della propria vita per convincere con l'esempio l'Alto Comando Imperiale a costituire i Corpi Speciali suicidi. ********** Forze anfibie americane si attestano nelle piccole isole Suluan, presso il Golfo di Leyte, il 17 ottobre 1944. Contemporaneamente, da direzioni diverse, le squadre navali giapponesi convergono sull'arcipelago delle Filippine per dare vita al Piano Sho. Lo stesso giorno giunge a Manila il vice-ammiraglio Takijiro Onishi, nominato da poco comandante della Prima Flotta Aerea di Marina. E' uno dei più valorosi e capaci ufficiali del Tenno. In gioventù è stato il primo militare giapponese a praticare il paracadutismo, nel 1941 ha dato più di un consiglio allo scomparso Isoroku Yamamoto nell' elaborazione dell' attacco-sorpresa a Pearl Harbor. Ora i tempi sono cambiati in peggio. Il 18 ottobre l'ex-comandante della Prima Flotta, l'ammiraglio Kimpei Teraoka, gli passa le consegne. Onishi non perde tempo. Nel tardo pomeriggio del 19 si fa condurre in auto sul campo d’aviazione di Mabalacat, centodieci chilometri a nord di Manila, e chiede di recarsi dal comandante della 201a Squadra. La flotta d'invasione alleata è alle porte. Nella palazzina del comando di base, convocati all'improvviso da Onishi, sono presenti, oltre a lui, il suo ufficiale d'ordinanza Chikanori Moji, il capitano di fregata Asaichi Tamai - comandante in seconda della 201a - il sottocapo di Stato Maggiore della Prima Flotta Aerea Rikihei Inoguchi, l'ufficiale di Stato Maggiore della 26a Flottiglia Yoshioka e due comandanti di squadriglia, Yokoyama e Ibusuki. L'atmosfera è tesa, nervosa. Nessuno si spiega il perché della visita del vice-ammiraglio a quell'ora insolita. Gira fra gli ufficiali una bottiglia di saké, ma nessuno beve. Onishi passeggia su e giù per la stanza, in silenzio, per qualche minuto, poi si passa stancamente una mano sulla fronte, sembra raccogliersi un'ultima volta e comincia: «Signori, non c'è bisogno che io vi dica che, se il Piano Sho dovesse sventuratamente fallire, la nostra situazione militare precipiterebbe di colpo. E' indispensabile che tutte le forze della Prima Flotta Aerea assicurino il successo alla missione dell'ammiraglio Kurita, sul quale grava il peso principale del Piano Sho. La Prima Flotta Aerea farà da copertura, dunque, alle navi di Kurita in avvicinamento ». Un istante di sospensione. Onishi è affranto. Ma presto si riprende: «Purtroppo noi non siamo più abbastanza forti per poterci misurare con il nemico nei combattimenti aerei. Ci resta tuttavia una grossa carta da giocare. Dovremmo impedire agli apparecchi americani di decollare dalle loro portaerei almeno per la prossima settimana ». Gli astanti hanno i nervi a fior di pelle. Onishi conclude: « Sono persuaso che il solo mezzo attuabile per conseguire questo scopo consista nel caricare delle bombe da 250 chilogrammi sotto ai nostri aerei da caccia, e di mandarli a fracassarsi direttamente sugli obiettivi. Cosa ne pensate, signori? » Tutti sono paralizzati dallo stupore. Un comandante non ha mai chiesto il suicidio certo ai suoi uomini; se mai sono stati gli aviatori a spargere la voce che sono pronti a sacrificarsi spontaneamente per il bene della Patria. Lo stesso contrammiraglio Arima ha scelto di morire, ma non ha indotto nessuno, a parole,a comportarsi come lui. E' Asaichi Tamai a rompere il silenzio di ghiaccio che è calato sulla riunione. Rivolto a Yoshioka, gli domanda: « Quali effetti pratici possono avere su una portaerei di 20 o 30.000 tonnellate l'impatto di un piccolo caccia e l'esplosione di una bomba da 250 chilogrammi? » La risposta di Yoshioka è pronta: «La portaerei non affonderà, questo è quasi certo. Ma la si può mettere fuori combattimento per più giorni, forse per più settimane. E comunque, se la si colpisce prima che i suoi apparecchi siano riusciti a decollare, essi non decolleranno più. Se la si colpisce dopo, decolleranno solo una volta, poiché al ritorno non troveranno un ponte di volo intatto sul quale posarsi, cioè finiranno in mare ». Tamai chiede rispettosamente a Onishi di consultarsi in privato con Ibusuki. Poco più tardi, con voce alterata dall'emozione, riferisce: «lo sono soltanto il comandante in seconda della 201a Squadra, ma credo di poter parlare a nome del capitano di vascello Sakae Yamamoto, assente questa sera. Assumo interamente la responsabilità dei miei atti. lo e Ibusuki siamo dell'avviso che il viceammiraglio Onishi sia nel giusto, e lo preghiamo di attribuire alla 201 a Squadra l'onore di organizzare la prima unità destinata agli attacchi speciali ». Onishi è commosso fino alle lacrime. Tutti sono profondamente scossi. In verità, è accaduto un fatto di eccezionale gravità durante quella riunione. Fino a oggi i suicidi hanno avuto una motivazione individuale, un carattere individuale. D'ora in poi saranno pianificati nell'ambito di una esatta strategia d'offesa. Gli uomini che si sacrificheranno, lo sapranno con giorni e settimane di anticipo. Saranno dei volontari, è vero, ma quale soldato giapponese rifiuterebbe di offrirsi, in un mometo storico di suprema emergenza come questo? Onishi ha detto: «Abbiamo bisogno che gli apparecchi delle portaerei nemiche non decollino per una settimana» In altri termini, le unità speciali suicide dovrebbero operare solo quella volta, a titolo straordinario e provvisorio, in connessione con il Piano Sho. Vero anche questo. Ma, una volta instaurato il principio, come si può ragionevolmente pensare che esso non sarà generalizzato? Sia come sia, la decisione è stata presa. Una decisione tutta giapponese, inconcepibile per qualsiasi occidentale. Domani sarà un giorno nuovo della storia. Prima che scenda la notte, ventitré giovani piloti della 201 a Squadra sono convocati da Tamai. Nessuno di loro sa cosa abbia da dire il vicecomandante, ma forse qualcuno ne ha il presentimento. Tamai parla a lungo, illustrando la disastrosa situazione strategica e non nascondendo che il Piano Sho, quand'anche riuscisse, non risolverebbe una volta per tutte gli angosciosi problemi del Giappone. Ma il Piano Sho deve riuscire a qualunque prezzo. Dopo, se ogni giapponese saprà continuare a lottare fino allo stremo delle forze, l'Impero potrà forse essere salvato. I ragazzi, il capo chino come innanzi a una predicazione religiosa, ascoltano muti e assorti. E qui accade una cosa straordinaria, più che mai al di fuori della portata mentale di ogni uomo dell'Occidente. Tamai non riesce neppure a finire il discorso perché, tutti e ventitré, i ragazzi della 201 esplodono in un formidabile Tenno Banzai Isteria collettiva? No. E' il frutto di duemila anni di shintoismo, di dedizione totale e assoluta alla tradizione gloriosa degli antenati, della convinzione radicata di essere i depositari della più alta - anzi, dell'unica vera - civiltà mondiale, e della certezza che morire per il Giappone significa rivivere in un mondo epico popolato di Eroi, venerati e osannati dai mortali che resteranno. Sono uomini in carne e ossa. Anch'essi hanno dei sensi, sanno cos'è la felicità e l'infelicità terrena. Non sono indifferenti alla vita corporea. Hanno tutti, più o meno, dei problemi quotidiani che non riguardano lo shintoismo né l'Imperatore né gli antenati né il Giappone. Però, da sempre, posseggono una carica emotiva e passionale che supera e cancella i valori dell'esistenza comune e lo stesso spirito di conservazione. Un europeo di oggi e di ieri non può capire, o almeno non può accettare l’ entusiasmo. Nemmeno un filosofo storico dell'antichità classica, ignaro del cristianesimo, pagano e scettico fino all'osso, potrebbe capire. Anzi, non capirebbe proprio perché pagano e scettico. Tamai stringe la mano a tutti e ventitré, uno per uno. Piange e li ringrazia. Poi li prega di mantenere il segreto più assoluto su quanto è stato detto. I Kamikaze , Mondadori 1973
  21. Dave97

    World War II - Kamikaze

    Contrammiraglio Masabumi Arima Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un'animazione insolita regna all'aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai giapponesi. Gli animi sono eccitatissimi perché la ricognizione ha avvistato una squadra navale americana al largo dell'isola di Luzon, la maggiore dell'arcipelago. Senza nemmeno attendere gli ordini specifici, il personale di terra lavora senza sosta attorno agli apparecchi dispersi lungo le piste e nei capannoni per oliare e verificare i motori, per fare il pieno del carburante a tutti i velivoli disponibili, per caricare le bombe e i nastri delle mitragliatrici. Il contrammiraglio Masabumi Arima, comandante della 26a Flottiglia della Prima Flotta Aerea di Marina, riunisce in seduta straordinaria i suoi subalterni e chiede formalmente allo Esercito - è un fatto senza precedenti - di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere affinché, per la prima volta, le squadriglie delle due Armi possano operare insieme in un'unica missione. L'autorizzazione è senz'altro concessa e Arima decide che l'attacco alla squadra navale americana, il Task Group 38/4 del contrammiraglio Ralph E. Davison, si svolgerà in due ondate. La seconda ondata sarà costituita da 13 bombardieri in picchiata Suisei, da 16 caccia Zero e da 70 caccia di tipo eterogeneo dell'Esercito. Quando la prima ondata è già in volo, e mentre si allineano sulle piste di cemento gli apparecchi della seconda ondata, Arima in persona scende, sul terreno insieme agli aviatori. Indossa una tuta qualsiasi e non reca le insegne del suo grado. Una luce strana brilla nei suoi occhi. Dice pacatamente: «Comanderò io la seconda ondata ». E' contrario alle regole che un contrammiraglio rischi la vita per guidare personalmente i suoi uomini in una battaglia. Inoltre Masabumi Arima è amato da tutti per la sua bontà, la sua modestia e il suo carattere paterno. Gli aviatori si ribellano, non vogliono che un uomo come lui partecipi a un combattimento nel quale, come avviene ormai da più di un anno, le forze giapponesi saranno decapitate. Ma Arima è inflessibile: «Non si discute. Vengo con voi ». Sebbene costernati, gli uomini non possono che inchinarsi alla volontà del comandante. Negli ultimi tempi lo si è visto pregare e meditare a lungo, in raccoglimento quasi estatico. Da settimane ha lasciato la sua lussuosa residenza per vivere come i soldati più umili, nutrirsi frugalmente e talvolta anche digiunare. Come se una fede al calor bianco, più che una febbre, lo divorasse. Ma nessuno sospetta - od osa sospettare - qual è il vero proposito di Arima. Si preferisce pensare che egli voglia partecipare di persona alla missione, in se stessa rischiosissima, solo per rendersi conto con i propri occhi dei dispositivi di difesa degli americani e delle possibilità offensive che ancora restano ai giapponesi in attacchi di quella specie. Arima sale a bordo di un bombardiere Suisei e ordina al suo compagno di volo, un sottufficiale, di scendere. L'uomo è allibito. Obbedisce. Certo è il primo a intuire che Arima sta per compiere un gesto disperato. La seconda ondata è in volo verso mezzogiorno. Tutte le pupille sono puntate sull'aereo di Arima, che dall'esterno non si distingue in nulla dagli altri dodici Suisei. Gli Zero proteggono i bombardieri in picchiata volando a una quota più alta di un migliaio di metri, i caccia dell'Esercito seguono a gruppi di cinquesette apparecchi. Nel primo pomeriggio il Task Group 38/4, con anticipo più che sufficiente per far decollare i caccia imbarcati, localizza gli incursori. Immediatamente alcune squadriglie di Hellcats sfrecciano dai ponti di volo delle portaerei a muso in su, per correre a intercettare i nemici. I cannoni e le mitragliere contraeree delle navi sono puntati. Tutto è pronto per accogliere i giapponesi come, del resto, i giapponesi s'aspettano: lo sbarramento sarà infernale. Cosi è, infatti. Presto il cielo si riempie di scoppi ed è rigato dalle rotaie luminose dei proiettili traccianti. Gli Hellcats sono implacabili. Sparano all'impazzata da lontano con le loro sei mitragliere Colt-Browning da mezzo pollice e subito diversi apparecchi giapponesi, che non hanno i serbatoi corazzati, esplodono letteralmente in volo, dissolvendosi. Gli Zero, più leggeri e manovrabili, si esibiscono come sempre nelle più ardite evoluzioni, ma sono braccati, azzannati, assaliti da tutte le parti. I Suisei, meno veloci, non riescono neppure a raggiungere le posizioni dalle quali tentare le picchiate sulle portaerei americane. Cadono come mosche. Tutti, tranne uno. Il contrammiraglio Arima non è fuggito, s'è semplicemente nascosto in una nuvola per cogliere di sorpresa la grande nave di Davison, la portaerei Franklin. Eccolo gettarsi dritto in quella direzione e scendere come una meteora. Ecco la Franklin ingigantire davanti agli occhi di Arima. E' un attimo. Un vivido bagliore color rosso-arancio, una nuvola di fumo denso e di fuoco. Il Suisei, con il suo carico di tre quintali di bombe, si è polverizzato sul ponte della Franklin. Esterrefatti, angosciati, ma anche entusiasti, gli aviatori giapponesi scampati alla furia degli Hellcats hanno assistito al sacrificio supremo del loro comandante. Intanto, sotto ai loro sguardi, una serie di deflagrazioni si succede sulla portaerei ferita. L'incendio seguito allo scoppio delle bombe e dei serbatoi del Suisei ha raggiunto un deposito di munizioni. Fortunatamente per gli americani, non il principale. Le squadre di soccorso lottano freneticamente per salvare la nave, e alla fine ci riescono. Ma la Franklin, malconcia, inclinata su un fianco, per il momento inservibile, dovrà raggiungere una base di riparazione e resterà lontana per qualche tempo dai teatri di guerra. Arima ha dimostrato che l'attacco suicida «paga > assai più di quello convenzionale, purché sia sferrato in modo astuto e al momento giusto. Rientrando all'aeroporto Clark, i testimoni del gesto del contrammiraglio - non molti, più della metà sono caduti - riferiscono ai compagni, emozionatissimi, tutti i dettagli dello stupefacente episodio. Esso vola di bocca in bocca per tutte le Filippine, e da lì rimbalza a Formosa. Prima di sera è già conosciuto a Tokyo, e avrà un peso determinante nelle risoluzioni che saranno prese nei giorni immediatamente successivi. I Kamikaze , Mondatori 1973
  22. Dave97

    World War II - Kamikaze

    All’alto Comando Imperiale Non c’è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori. Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale, i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere io , il comando. Comandante della portaerei Chiyoda Eiichiro Jo (luglio 1944)
  23. Dave97

    Attacco a Pearl Harbor

    «Nel 1946 il Congresso americano ha pubblicato i risultati di un'inchiesta straordinaria. Vennero esposti, nei loro particolari, tutti gli avvenimenti che portarono alla guerra fra Stati Uniti e Giappone e appurate le ragioni della mancata diramazione da parte dei ministeri militari di moniti precisi a tenersi pronti alle squadre navali e ai presidi che si trovavano in posizioni avanzate. Ogni particolare, compresi i testi decifrati e in cifra di telegrammi giapponesi segreti,venne fatto conoscere al mondo in una serie di quaranta volumi. La forza degli Stati Uniti poteva permettere loro di sottoporsi a questa dura prova, ad essi imposto dallo spirito della Costituzione americana. In queste pagine non intendo cercar di pronunciare un giudizio su questo tremendo episodio della storia americana. Sappiamo di certo che tutti gli americani che circondavano il Presidente e godevano della sua fiducia, si rendevano conto, non meno chiaramente di me, del terribile pericolo che i giapponesi attaccassero i possedimenti britannici od olandesi nell'Estremo Oriente, evitando con cura di toccare gli Stati Uniti, e che proprio per ciò il Congresso non approvasse una dichiarazione di guerra americana. I dirigenti americani comprendevano che ciò avrebbe potuto consentire al Giappone di compiere vaste conquiste, le quali, se contemporanee ad una vittoria tedesca in Russia e ad una successiva Invasione della Gran Bretagna, avrebbero lasciato l'America sola di fronte o una coalizione soverchiante di aggressori trionfanti. Non solo i grandi principi morali che erano in gioco sarebbero stati sacrificati, ma avrebbe potuto essere compromessa l'esistenza stessa degli Stati Uniti e quella del suo popolo, ancora non pienamente consapevole dei pericoli che correva. Il Presidente e i suoi amici fidati avevano da lungo tempo compreso i gravi rischi di una neutralità americana nella guerra contro Hitler e contro tutto ciò per cui questi combatteva ed avevano assai sofferto delle limitazioni imposte da un Congresso, la cui Camera dei rappresentanti alcuni mesi prima aveva approvato con un solo voto di maggioranza l' indispensabile proroga della legge sul servizio militare obbligatorio; eppure senza tale legge il loro esercito sarebbe stato quasi completamente smobilitato proprio nel momento in cui la crisi mondiale era al culmine. Roosevelt, Hull, Stimson, Knox, il generale Marshall, l'ammiraglio Stark e, collegamento tra tutti loro, Harry Hopkins, sentivano tutti allo stesso modo. Le future generazioni di americani e di uomini liberi in ogni paese ringrazieranno Iddio per la loro chiaroveggenza. Un attacco giapponese contro gli Stati Uniti avrebbe enormemente semplificato i loro problemi e i loro doveri. Come possiamo noi meravigliarci che essi considerassero la forma effettiva dell'attacco, ed anche le sue dimensioni, cose incomparabilmente meno importanti del fatto che l'intero popolo americano si trovasse compatto come non mai a difendere la propria esistenza con la coscienza di battersi per una causa giusta? Ad essi, come a me, sembrava che un'aggressione contro gli Stati Uniti costituisse per il Giappone un gesto suicida". Winston Churchill La seconda guerra Mondiale - Mondadori 1948
  24. Dave97

    Attacco a Pearl Harbor

    Dal discorso radiofonico del presidente Roosevelt 10 dicembre 1941 L'improvviso e criminale attacco perpetrato dai giapponesi nel Pacifico apre le porte a un decennio di immoralità internazionale. Una banda di gangsters potenti e pieni di risorse si è organizzata per muover guerra all'Intera razza umana. Ora la loro sfida è stata rivolta agli Stati Uniti d'America. I giapponesi hanno proditoriamente violato la lunga pace che esisteva tra noi. Molti soldati e marinai americani sono stati uccisi dall'azione nemica; navi americane sono state affondate, aeroplani americani distrutti. Il Congresso e il popolo degli Stati Uniti hanno raccolto la sfida; al fianco di altri popoli liberi noi ora stiamo combattendo per difendere il nostro diritto di vivere tra gli altri popoli liberi e rispettati senza tema di aggressione. La linea seguita dal Giappone negli ultimi dieci anni è stata parallela a quella di Hitler e Mussolini in Europa e in Africa. Oggi è divenuta più che parallela; si tratta di una collaborazione cosi ben calcolata che tutti i continenti del mondo e tutti gli oceani sono ora considerati dagli strateghi dell' Asse come un unico gigantesco campo di battaglia. Ieri, nel mio discorso al Congresso, ho dichiarato che faremo di tutto perché questa forma di tradimento non ci colga più alla sprovvista. Per essere sicuri di raggiungere questo scopo dobbiamo por mano al grande compito che ci sta di fronte abbandonando una volta per tutte lillusione che possiamo ancora isolarci dal resto dell'umanità. In questi ultimi anni e, soprattutto, in questi ultimi giorni abbiamo imparato una terribile lezione. E’ per noi un sacrosanto dovere, contratto di fronte ai nostri morti e ai loro, ai nostri figli, non dimenticare mai ciò che abbiamo imparato e cioè in un mondo regolato dalle leggi del gangsterismo non c'è sicurezza nè per una nazione nè per un individuo, non c'è sicura difesa contro potenti aggressori che strisciano nel buio per colpire senza preavviso. Abbiamo imparato che il nostro emisfero non è immune da duri attacchi e che non possiamo misurare la nostra sicurezza in termini di miglia o di carta geografica. Dobbiamo riconoscere che il proditorio attacco dei nostri nemici è stato un'azione brillante, perfettamente organizzata e abilmente attuata. Un'azione disonorevole; ma dobbiamo affrontare il fatto che la guerra moderna, condotta alla maniera dei nazisti, è uno sporco affare. La cosa non ci piace, non l'abbiamo voluta noi; ma ora ci siamo dentro e la combatteremo con ogni mezzo. Penso che nessun americano possa avere qualche dubbio sul fatto che sapremo infliggere la giusta punizione agli autori di questi crimini .
  25. Impossibile soltanto immaginare che la teoria kamikaze del suicidio premeditato a livello di massa potesse essere accettata in qualsiasi altro Paese. che non fosse il Giappone. Tuttavia ogni Nazione ha avuto degli uomini che si sono sacrificati volontariamente per un ideale, soprattutto per l'ideale patriottico. Il gesto individuale e spontaneo di darsi la morte a favore della propria causa è stato compiuto in tempo di guerra anche da numerosi combattenti dei Paesi occidentali, sia nell'antichità che in epoca moderna. Solitamente questi uomini si sono venuti a trovare in situazioni senza via d'uscita, e hanno dovuto risolversi all'ultimissimo istante al suicidio perché con ogni probabilità sarebbero morti ugualmente, e senza poter infliggere al nemico il danno conseguibile solo con la loro determinazione al sacrificio. Prendiamo il caso di un aviatore il cui aereo sia stato colpito in pieno oceano e che sappia di non poter essere soccorso dai suoi; anzi, che sappia che il nemico non ama fare prigionieri o che, quando li fa, non li tratta secondo le convenzioni internazionali. (e i giapponesi si comportavano spesso così). Cosa resta da fare a quell'aviatore, mentre precipita, se non tentare di raddrizzare come può il suo apparecchio e dirigerlo sulla nave avversaria che si trova sotto di lui? Questo è probabilmente il caso più comune, che spiega il sacrificio volontario di molti combattenti dei Paesi occidentali. Nella seconda guerra mondiale sono stati numerosissimi i giapponesi , soprattutto aviatori , che si sono suicidati per decisione individuale prima che il Corpo dei kamikaze venisse istituito. Ma anche alcuni americani hanno scelto questo tipo di morte, qualche rara volta in circostanze tali da lasciar convinti gli spettatori che la situazione non era senza via di scampo. Uno di questi uomini di ghiaccio è stato senza dubbio il tenente Powers, imbarcato sulla portaerei Lexington. L'8 maggio 1942, durante la terribile battaglia del Mar dei Coralli, Powers ha tentato dunque una sinistra partita a scacchi con il destino. Non, s'è lanciato a capofitto addosso alla Shokaku, ma ha spinto la sua audacia a un punto tale che il suo gesto è equivalso al suicidio. Powers, infatti, anziché sganciare in picchiata la sua bomba da una quota di quattrocento metri, è sceso vertiginosamente fino a cinquanta. La bomba è scoppiata sul ponte di volo della Shokaku, e fatalmente lo, spostamento d'aria e la sventagliata di schegge hanno coinvolto anche l'apparecchio di Powers: che non era né un pazzo né un pilota mediocre, e perciò sapeva benissimo che a cinquanta metri non sarebbe sfuggito agli effetti dell'esplosione da lui stesso provocata. L'aereo è caduto in fiamme, immediatamente. La Shokaku non è affondata, ma, per i danni subiti, ha dovuto riprendere la via del Giappone e restare poi in cantiere più di un mese. Il 5 giugno 1942, al largo delle Isole Midway, il capitano dei marines Richard Fleming ha compiuto un gesto ancora più drastico di quello del tenente Powers. E' vero, il suo aereo era stato in precedenza un po' strapazzato dalla contraerea giapponese, ma i compagni di Squadron di Fleming assicurano ancora oggi che egli avrebbe potuto benissimo tentare un ammaraggio ed essere poi raccolto da una nave soccorso americana che operava nella zona e che aveva già ripescato diversi aviatori abbattuti. Ma Fleming non ha voluto essere salvato, ha invece preferito calarsi a precipizio sull'incrociatore pesante Mikuma e schiantarsi sulla seconda torretta corazzata di poppa, autodistruggendosi in una frazione di secondo. Il Mikuma, ferito a morte, è affondato poche ore più tardi. Gli esempi di Powers e di Fleming sono di gran lunga i più noti, fra altri di piloti suicidi americani. I Kamikaze , Mondatori 1973
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