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Dave97

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  1. VESPA 2 - 85a Squadriglia Storia dell'asso dell'Aviazione da caccia Italiana Luigi Gorrini Medaglia d'oro al V.M. Presentazione Una notizia riporta quanto avvenne nel convegno dei piloti da caccia della 2a Guerra Mondiale. Erano riuniti alcuni tra i massimi protagonisti delle aviazioni americana, inglese, francese, tedesca ed italiana. Tutti piloti carichi di esperienza vissuta e di vittorie aeree. Furono scambiate notizie e precisazioni. Al termine un pilota inglese, riassumendo le dichiarazioni di tutti, pose in risalto quanto era stato detto con molta modestia dal rappresentante pilota italiano, un noto cacciatore il cui arto mancante aveva costituito simbolo per un valoroso Gruppo da Caccia. Questo pilota aveva esposto con, cruda realtà, la forza di volontà di tutta l'aviazione italiana nell'operare con quanto disponeva utilizzando tutto al meglio anche se in condizioni spesso di estrema inferiorità. Certo, espose il pilota inglese, la caccia italiana operante sui fronti era in numero molto inferiore a quello, spesso imponente, della caccia di altre nazioni, quali ad esempio, l'americana e l'inglese, quindi le vittorie aeree conseguite dai piloti di queste nazioni potevano essere paragonate con quelle dell'aviazione italiana solo in relazione al numero dei partecipanti. Tuttavia le vittorie dell'aviazione da caccia italiana erano state davvero denunciate con modestia poichè erano inferiori alle perdite reali subite dall'aviazione contrapposta!! Ancora Rommel scrisse « ... .I piloti italiani fanno miracoli ... » e nella disparità di mezzi « ... le uniche cose vive sono il valore ed il coraggio dei piloti...». Dalla Francia alla Manica, dalla Grecia all'Egitto, dalla Tunisia alla difesa di Roma e delle città del Nord, viene presentata una vita vissuta intensamente nell'operosità di una piccola organzzazione di guerra, la 85a Squadriglia Caccia, inserita in un più grande organismo, il 3° Stormo Caccia, di cui poco si è parlato e si potrà parlare se non si apriranno le casse dei ricordi ora gelosamente custodite dai protagonisti. La storia della M.O. Gorrini è completa anche della parte vissuta al Nord. Infatti chi operò con onesta d'intenti non deve sentirsi umiliato e quasi colpevole per aver deciso di seguire una via. Venne nel1943 il tempo della scelta. Fu « ... una responsabilità che ognuno deve portare intera solo sulle sue spalle.» E la porto nell'attimo della decisione andando al Sud « ... anche se a Nord c'era la casa, c'era la Patria, c'era il passato.» o andando al Nord anche se consapevole che altri « .. .l'avrebbero biasimato, disprezzato: perchè li abbandonava, perchè tradiva un passato» Generale di Divisione Aerea Giulio Cesare Giuntella
  2. Dave97

    Pilot Reports

    Un Fuori Programma Aeroporto di Brindisi, estate 1955. Il nostro Gruppo è qui distaccato per ilperiodico turno di esercitazioni sul poligono del Golfo di Taranto ed i Thunderjet coi colori della 6a Aerobrigata si crogiolano al sole quasi a voler sottolineare il tempaccio lasciato solo poche ore fa a Ghedi. Alle 08,00 iniziano le operazioni pre-volo ed alle 08,20 decolliamo in perfetto orario sul programma con le armi ed i serbatoi pieni; sembra un giorno come gli altri, un carosello ed un ritorno senza storia, ma questa volta il destino ha deciso diversamente ed il monotono addestramento lascerà il posta ad una frenetica attività di soccorso di un pilota e ..... quello, sarà proprio il sottoscritto. L'incontro col Mustang addetto al traino bersaglio avviene regolarmente sulla verticale dell'aeroporto di Manduria e l'esercitazione inizia alla quota di 4.000 metri. I nostri quattro caccia si susseguono sul bersaglio mentre le raffiche vanno a caccia della manica; la tecnica è sempre la stessa e seguo con occhio critico le manovre dei gregari di cui due sono da poco giunti in reparto e sono alle prime esperienze di tiro. Sono proprio questi che mi danno alcune preoccupazioni, insistono nella virata iniziale e nella successiva picchiata fin sul traino bersaglio ed oltre a non ottenere un tiro efficace rischiano di portarsi a casa come ricordo il telaio della manica. Dopo dodici passaggi lungo la rotta del poligono (190 gradi da Manduria) mi impegno nel 5° passaggio a fuoco. Tutto regolare ... disimpegno ... ed ecco improvvisamente un rumore simile ad una raffica di mitragliatrice seguito da vibrazioni. Lanciando maledizioni a quel. ... che mi ha impallinato, rompo ancor più decisamente riducendo con temporaneamente manetta dall'87 al 70%;.; il rumore continua e mi preoccupa, non è stato un gregario, ma è il mio motore che raschia e geme in un susseguirsi di rumori lancinanti. Ogni pensiero è ora rivolto alla quota e mentre viro di 180° verso la costa avverto un forte colpo seguito dal silenzio assoluto e dall'accensione della spia "incendio"; porto subito la manetta su "STOP" ed il selettore benzina su "OFF" ed in pochi secondi l'odiosa spia si spegne mentre la temperatura alla scarico scende rapidamente a 600°. I gregari che seguono il mio aereo danneggiato comunicano che il fumo bianco che prima usciva copioso dal vano degli aerofreni è ora cessato quasi completamente; e già qualcosa e non dispero di riaccendere il motore: invertitore su "Alternate", un veloce drenaggio del carburante, manetta e serbatoi chiusi, e via con l’ “Air Start”….nulla! Riprovo perdendo la calma e azionando con temporaneamente "Air Start" e "Ground Start";mi risponde solo il rumore tagliente dell'aria e mi rendo conto che senza motore non potrò mai raggiungere la costa. Di ammarare nemmeno a pensarci; sapevamo già in partenza che il mare era forza 3 e sinceramente non ho intenzione di sperimentare per primo in Italia la pericolosa manovra in condizioni ben lontane da quelle ottimali. Ma anche la soluzione del lancio mi atterrisce: mi sgancerò dal paracadute, non affogherò come un topo qui a Quaranta chilometri dalla costa? Riprendo il. controllo dei miei nervi e decido di lanciarmi a 5.000 piedi; ripasso quindi tutta la procedura di lancio e avverto i gregari delle mie intenzioni passando quindi sulla frequenza del soccorso. Ed eccomi completamente solo con me stesso in un aereo ridotto ad un rottame e con la prospettiva di un bagno indesiderato. Sgancio le connessioni della radio, dell' ossigeno e della tuta anti-G e a 5.500 piedi e 200 miglia aziono lo sgancio del tettuccio che vola via immediatamente lasciandomi in un turbinio violento; è il primo duro contatto col nuovo ambiente in cui sto per buttarmi a capofitto. Porto i piedi sugli appositi ripiani al disotto del sedile, tiro la maniglia di bloccaggio delle cinghie azionando il poggia-gomiti; quello di destra non esce e devo azionarlo col bottone a molla; eccomi pronto! 5.000 piedi, cabro per ridurre ulteriormente la velocità che scende a 170-180 miglia, mi irrigidisco ed aziono il comando di espulsione. Mi soprende la sonorita della carica mentre non avverto alcun colpo fisico e posso così rendermi conto di compiere una capriola in avanti; quindi aziono lo sgancio dal seggiolia no da cui mi separo senza difficoltà e tiro la maniglia del paracadute. Questa volta si che la botta è forte e mi lascia per alcuni istanti senza sensi. Quando mi riprendo sto dondolando sul mare con forti oscillazioni; con la paura che il paracadute si ripieghi, cerco di smorzare il movimento ondulatorio ma desisto per non combinare guai peggiori; recupero invece il battellino che penzola sotto di me, lo libero dalla custodia e dopo aver controllato la bombola lo lascio ricadere... mi avvertirà del contatto con l'acqua. Proprio mentre mi predispongo a sganciare la calotta scopro di essere arrivato ed ho solo il tempo di riunire i piedi prima di infilarmi in mare; lancio i più coloriti improperi per essermi lasciato prendere di sorpresa e mentre il paracadute spinto dal vento mi trascina col viso in avanti, cerco a disperatamente di togliermi dalla pericolosa posizione. Dopo incredibili sforzi e abbondanti bevute mi rendo conto di non poter afflosciare la calotta, riesco allora a girarmi sui dorso e ad azionare le bombole del salvagente; solo cos! mi è possibile sganciare finalmente il paracadute divenuto da strumento di salvezza, trappola mortale. Ancora una breve lotta coi tiranti che si sono impigliati nel braccio e nella gamba destra e finalmente posso raggiungere il battellino (può sembrare incredibile ma lo raggiungo a nuoto scordandomi completamente che lo posso tirare a me grazie alla corda. ... ) la cui "scalata" assorbe le mie ultime energie. Giaccio sul fondo del battellino completamente esaurito e quindi getto in acqua l'ancora e la fluorescina; gli aerei che orbitano sul misero galleggiante mi infondono una grande fiducia anche se il freddo comincia a penetrare nelle ossa. Esattamente sulla verticale c'e il Mustang che ha subito scanciato la manica e che sta volando ora a circa 300 metri di altezza; più su, a 500 metri, c'e uno dei miei gregari; gli altri sano a 3.000 metri e fungono da ponte radio per i soccorsi. I messaggi si susseguono e l'allarme è ormai scattato al Soccorso di Taranto, a quello di Gallipoli e all'Ufficio Operazioni di Brindisi. Altri due F-84G danno il cambio ai primi ormai agli sgoccioli col carburante ed ecco che alle 09,25 arrivano sulla mia verticale due Cant.Z506 di Taranto che non possono tuttavia ammarare per le condizioni proibitive del mare. La vista di tutti quegli aerei mi rincuora, ma •la loro impotenza è tremenda; meno male che ho molte ore di luce davanti a me, se fosse sera potrei già pensare nel modo più pessimistico. Ed ecco finalmente un motoscafo da soccorso partito da Gallipoli che, facilmente guidato da quello schieramento di aerei, mi ripesca dal mare ostile; sono le 10,05 ed è passata un'ora e 25 minuti dal momento del lancio, un lasso di tempo interminabile per me ma ben speso da tutti coloro che mi hanno soccorso. JP4, Settembre 1976
  3. Dave97

    RE 2005 - Sagittario

    CENTRO SPERIMENTALE AEROMOBILI - GUIDONIA - PROVE DI VOLO EFFETTUATE COL VELIVOLO Re.2005 RELAZIONE 1a prova: A carico ridotto (peso totale kg. 3.395) quota raggiunta m. 5.000.- 2a prova: A carico completo (peso totale kg. 3.573) quota raggiunta m. 9.000.- Praticamente non si apprezza un diverso comportamento del velivolo nelle due condizioni di carico. MANOVRA DI DISTACCO: regolare lieve tendenza ad imbardare a sinistra, facilmente correggibite. Non sono stati misurati i tempi e lo spazio impiegato per il distacco. Durante questa manovra il flettner del timone di profondità si mantiene regolare a zero. MANOVRA DI ATTERRAGGIO: facile. Con l'uscita del carrello e l'abbassamento degli ipersostentatori il velivolo tende a picchiare ed è necessario compensare tale azione manovrando il flettner del timone di profondità. Velocità di discesa per l'entrata in campo: 180/200 km/h. Velocità di atterraggio circa 150 km/h. Nella discesa per l'entrata in campo il velivolo mantiene un assetto piuttosto seduto. E’ sufficientemente agevole far sedere l'apparecchio sui tre punti. Durante il rullaggio che segue tale manovra, l'apparecchio non ha tendenza ad imbardare. La frenata è efficace. Il ruotino di coda funziona regolarmente. Terminata la manovra di atterraggio è opportuno far rientrare subito gli ipersostentatori, ad evitare che gli stessi, limitando l'afflusso dell'aria del radiatore, provochino un eccessivo riscaldamento dell'acqua e quindi del motore durante il rullaggio. MANOVRABILITA' IN VOLO: L'apparecchio è stabile e nello stesso tempo maneggevole, circa quanto il Re. 2001, mentre i comandi non risultano perfettamente a punto per quanto si riferisce alle relative reazioni. Il comando di direzione è a punto e gli alettoni ugualmente, questi appaiono sufficientemente ben compensati per le varie velocità. Il timone di profondità invece risulta poco compensato perchè durante le affondate quando l'apparecchio raggiunge velocità elevate sulla traiettoria, si indurisce eccessivamente, con tendenza del velivolo a cabrare notevolmente. In complesso si nota su questo prototipo una durezza di comandi un po' eccessiva. Nelle virate l'apparecchio non ha tendenza a stringere ne ad assumere assetti scorretti. Si può stringere notevolmente la virata fino a velocità indicate di 250/270 km/h. A tali velocità, che variano a seconda del modo come viene condotta la virata, il velivolo inizia i caratteristici scuotimenti e, insistendo ancora a tirare la barra, esso entra in autorotazione, dalla quale però, si può facilmente ritornare in assetto corretto. Anche a quote elevate: 8.000/9.000 m. e a pieno carico, il Re. 2005 manovra molto bene e risulta esuberante. A 9.000 m. con velocità indicata di 250 km/h, e con motore a piena potenza si possono mantenere ancora 10 m/ sec. di velocità di salita. COMPORTAMENTO DEL VELIVOLO IN VITE: Entrata in avvitamento a sinistra: anche con velocità indicata di 190/200 km/h. e manovra decisa il velivolo stenta ad entrare in avvitamento e poi compie una vite simile ad una spirale stretta, con muso basso. Da tale assetto il velivolo esce immediatamente (dopo uno o due giri) non appena la pedaliera è riportata al centro. Entrata in avvitamento a destra: nelle stesse condizioni di velocità anche manovrando energicamente per l'entrata in avvitamento a destra, il velivolo inizia la manovra giusta e poi tende ad avvitarsi rapidamente a sinistra. Insistendo nella manovra il velivolo inizia una vite a destra molto più stretta e rapida che non a sinistra. Esce abbastanza facilmente sia dopo uno,come dopo due giri di vite. La stabilità è buona su tutti e tre gli assi. MANOVRABILITA' IN PICCHIATA: Il velivolo ha raggiunto 650 km/h indicati alla quota di 6.000 m, senza accennare a vibrazioni, in atmosfera calma, mentre in atmosfera agitata si avvertono scuotimenti nella fusoliera, dovuti probabilmente ad elasticità della stessa. La manovrabilità del velivolo in tale assetto si mantiene buona, pur rilevandosi un eccessivo aumento delle reazioni di barra e tendenza a cabrare. Le vibrazioni non si notano in nessuna fase del volo ad eccezione che in atmosfera agitata. CONTROLLO TEMPERATURA: Anche nel volo in salita i radiatori dell'acqua e dell'olio risultano sufficientemente efficaci. In volo orizzontale il radiatore dell'acqua va mantenuto chiuso per circa meta superficie e nel volo in picchiata quasi completamente chiuso. Il parzializzatore non è facilmente manovrabile con la voluta dosatura, data la rapidità con la quale esso viene azionato. VISIBILITA': E'sufficientemente buona in tutte le fasi del volo e nelle varie direzioni. ISTALLAZIONI: La disposizione degli strumenti indicatori e dei comandi e manette a disposizione del pilota è buona. L 'abitacolo del pilota è comodo e sufficientemente spazioso. Buono il funzionamento del carrello; la manovra di uscita e di rientro dello stesso è rapida. Guidonia, 29.9.1942 F.to IL CAPITANO PILOTA (Aldo Gaspari) Le Macchine e la Storia, 1994
  4. Dave97

    World War II Aces

    «Mi sceglierò un equipaggio di ferro ». Al primo sottufficiale che mi si presenta con alcuni nastrini sul petto e oltre cento ore di voli di guerra propopgo di venire con me. «Mi dispiace, sono gia in equipaggio con il tenente Faggioni. » Tento la proposta con alcuni altri, ma ne ricavo risposte analoghe: tutti già a posto. Mi toccano cinque pivelli come me, freschi di corsi teorici e senza un'ora di volo di guerra. Sono cinque ragazzi, svegli, intelligenti e pieni di entusiasmo, ma mi preoccupa il fatto che non abbiano alcuna esperienza anche se ciò mi mette, da questo punto di vista,sul loro piano. Dopo qualche giorno cominciano ad arrivare i velivoli: non mi azzardo a chiedere nulla, finche Graziani mi annnuncia: « Il velivolo che e arrivato poco fa da Reggio Emilia è per te. » Finalmente avevo il mio S 79: il numero 6 della 281°. Sono fortunato perchè c' erano in lista ancora due tenenti anziani prima di me: soltanto qualche giorno dopo saprò che non si è trattato di fortuna, ma di rinuncia da parte dei due tenenti, perchè la somma delle cifre scritte sulla fusoliera fa 17 e in aviazione regna la superstizione. Scendo di corsa sui campo per vederlo: è nuovissimo; i tre motori Alfa Romeo compatti e possenti come musi di boxer, le eliche tripala con le belle ogive, le marmitte rastremate e a sega, le due mitragliatrici e la gobba sul dorso gli danno un fiero aspetto guerresco. Per gli inglesi è « il gobbo maledetto ». Non c'e nessuno sul campo perchè è già suonata l'ora del rancio: gli giro attorno alcune volte per rimirarlo, ne tocco le ali come per una carezza. E’ il mio aeroplano, non più da spartire con altri piloti, non più con la preoccupazione delle altrui intemperanze. Tento di aprire il portello, ma è chiuso. Sulla fusoliera in coda c'e la matricola: «SIAI-Marchetti SM 79 Off. Reggiane n. 23883 ». A tavola sono più allegro del solito e Faggioni lo nota. «Hai la fregola?» «E’ arrivato il mio aeroplano. » « Allora paghi da bere e dopo pranzo andiamo a provarlo.» « Come no! » Con l'ultimo boccone in gola corro a cercare gli specialisti, più felici di me, se è possibile, per la gradita notizia. Faggioni ci raggiunge subito. «Prima lo assaggio io, solo con il motorista, poi saliamo assieme. » E’ chiaro: vuole togliersi la voglia da solo e sappiamo già che assisteremo ad uno spettacolo. Decolla subito, tiene il velivolo basso sulla pista, in fondo lo solleva un poco e rientra con un impeccabile schneider. Riabbassa il muso e punta su di noi che siamo già stesi per terra. Ci sorvola a non più di due metri e poi su, con una forte cabrata, contro il sole e, quando il velivolo sembra fermo appeso al cielo, uno splendido looping d'ala e giù ancora sulla nostra emozione. Volare con lui è come prendere lezioni di pianoforte da Benedetti Michelangeli. Tornò di li a poco sul campo a tutta birra, a una quota di circa trecento metri, tira su il muso e poi gira lentamente in un magistrale tonneau; seguiamo la manovra senza respirare tanto e incredibile quel che vediamo: «un tonneau con un bestione da diecimila chilogrammi e tre motori. » E’ un' esibizione da giornata dell' ala e noi l'abbiamo li casalinga e senza biglietto. Faggioni atterra. E’ il mio momento. « Fammi vedere che cosa hai imparato a Gorizia. » Decollo veloce e come lui mi tengo basso per acquistare velocità. In fondo al campo cerco di virare stretto, ma la terra così vicina mi consiglia di restituire i comandi: eppure era così facile vederlo fare a lui! Gli cedo la guida, arrendevole. «Forza, maestro! » Ripete il looping d'ala partendo da rasoterra: una manovra elegante, scorrevole, emozionante. Quando il velivolo, tirato in verticale, arriva in cima alla parabola e si sente che i motori non ce la fanno più a tenerlo su, Faggioni con un tocco leggero come quello di un pianista toglie la manetta al sinistro, affonda lo stesso pedale, e il velivolo fa perno sull' ala puntando poi il muso verso terra. Subito toglie tutti e tre i motori: la velocità aumenta rapidamente; egli aziona il trim a cabrare e tira contemporaneamente il volantino. Con naturale dolcezza il velivolo assume a poco a poco l'assetto orizzontale e passiamo sui limite del campo sfiorando le cime degli eucalipti. «E chiaro? » « Mi pare di si » « Allora vieni al mio posto e rifallo tu. Non preoccuparti del trim, te lo regolero io. » Inizio con leggera emozione: la puntata, sino a quattrocento chilometri l'ora, il richiamo (Faggioni interviene per indicarmi di tirare con maggior forza all'inizio e poi cedere a poco a poco), la salita in verticale: adesso e il momento delicato; perchè la figura riesca perfetta, bisogna intervenire quando il velivolo raggiunge il punto critico di salita e sta per scadere di coda. Sbircio Faggioni con sguardo interrogativo: mi fa segno di insistere. Ho già la mano sulla manetta sinistra, ma Faggioni me la copre con la sua, trattenendomi. A me sembra già tardi, mi sento appeso come un salame e ho la bocca asciutta. Finalmente, Faggioni mi accompagna a togliere il motore e io affondo il piede. Dolcemente l'S 79 fa perno sull' ala e punta il muso possente in candela. Faggioni comanda il trim, mentre io tolgo i motori. Ora so tutto e con l' allergia dei vent' anni a riconoscere le difficoltà dei problemi, chiudo la manovra e entro in campo con una trionfale scivolata d' ala. « Ora lo fai da solo, ma iniziando da cento metri e chiudendo alla stessa quota. » Provvidenziale accorgimento! Prima di ripartire ripeto a memoria le operazioni. Tutto bene: questa volta ho in più il trim. Via! La prima fase e facile e ho avuto il tempo di ripassarla a memoria. Ora sono in verticale con i motori che « sbregano » e le ghiandole impaurite che non spremono più saliva. Guardo l' anemometro che scende: centocinquanta, centoquaranta, centotrenta ... Ma non l’ho osservato prima, quindi a che serve ora? Mi sento appeso e sbircio a lato, ma al posto di Faggioni c'e Fantuzzi, il mio motorista, che fiducioso osserva la mia apparente sicurezza. Tolgo il motore, affondo il piede sinistro. Forse avrei potuto insistere ancora qualche secondo ma il velivolo gira perfettamente. Ecco, ora il trim. Dov'e? Annaspo tra i comandi, mi sbuccio le nocche ma non lo trovo. Il velivolo col muso verso terra aumenta di velocità precipitevolissimevolmente. Mi aggrappo al volantino e tiro con tutte le forze, ma il comando e duro e resiste allo sforzo come il collo di un bue che si voglia torcere prendendolo per le corna. L' assetto dell'S 79 varia impercettibilmente mentre la terra « precipita » verso di noi. Urlo «Tira », e Fantuzzi, scosso dal fidente torpore, si aggrappa al suo volantino giusto in tempo. L'S 79, a velocità rabbiosa, sfiora l' erba del prato e poichè, per qualche attimo, insistiamo a tirare, inizia una veloce cabrata, come a voler ripetere la figura; me ne accorgo quando siamo gia a trecento metri. Restituisco il volantino e meccanicamente porto la mano alle manette: quella di sinistra è al minimo, le altre due al massimo. Sento la fronte imperlarsi e le palme delle mani bagnarsi di sudore. Atterro quatto e mogio come un allievo al decollo. Faggioni mi attende rosso in viso. «Che bisogno c'era di fare il bullo? Volevi incantarmi?» Cerco di chiarire, ma è troppo in collera. «Visto che ti senti già professore, da oggi evita di chiedermi consigli, te ne do soltanto uno ancora: ricordati che con te c' e l'equipaggio che non vuol crepare per le tue fesserie. » Si allontana infuriato ed io non fiato, pensando che è meglio attendere che gli sbollisca l'ira: andrò da lui la sera e gli spiegherò come sono andate le cose. Ma nel pomeriggio Faggioni parte per Reggio Emilia per ritirare un altro S 79 e lo rivedrò solo dieci giorni più tardi in Sicilia. La sera Graziani mi prende sotto braccio: «Faggioni mi ha raccontato tutto; premetto che non ti faccio rapporto perché è la prima volta ho l' occasione di parlare con te di problemi di lavoro e perchè Buscaglia se la prenderebbe anche con Faggioni che ha avuto la debolezza di volerti insegnare cose che non servono a fare la guerra. » Posso spiegargli tutto con calma e incontro la sua piena fiducia. «Meglio così, pero ricordati che questi "esperimenti" non servono a fare la guerra. Nei prossimi giorni allenati con il tuo equipaggio, vedi di amalgamarlo e di conquistarne la fiducia: soltanto allora potrai prender parte ad azioni di guerra con la probabilità di successo e anche di riportare a casa la pelle. » Come una confessione dopo un periodo scioperato, questo colloquio umano e semplice con il mio comandante, mi rasserena. Mi dispiace soltanto che Faggioni sia partito con la convinzione che abbia voluto fare una bravata. Il gruppo Buscaglia
  5. Dave97

    World War II Aces

    Capitano Martino Aichner Il primo approccio La Casa dell' Aviatore, è istallata nell'imponente palazzone sulla grande S in fondo a via Nazionale. Ci metto piede per la prima volta, fresco della nomina a sottotenente pilota, dopo trenta mesi, complessivi di corsi in cui ho imparato più ad esercitare la pazienza che a volare. Il nostro corso e chiamato dei « fregati »; è formato da allievi che hanno conseguito il brevetto da civili (con una spesa di quattromila lire) per l' attrazione dell' avventura aviatoria e per il vantaggio di essere nominati subito sottotenenti, evitando la lunga naja del corso allievi ufficiali. Questa, infatti, era la legge in vigore sino ad alcuni mesi prima. Ma, mentre noi stavamo conquistando il brevetto di pilota civile, la legge venne modificata e invece del grado di sottotenente ci fu elargito quello di primo aviere (caporalmaggiore) che trascineremo con noi per oltre due anni. E’ come un lungo, tardivo collegio per giovani tra i 20 e 25 anni quasi tutti già laureati, appassionati del volo e col desiderio di fare il servizio militare come ufficiali piloti di complemento; piuttosto scettici, scevri da fanatismi, orgogliosi, rispettosi della dignità propria ed altrui, divisi in due camerate, nord e sud, ma senza rancori, salvo gli sfottò di pari valenza. Ci ritroviamo presto coinvolti nella più grande guerra mondiale che accettiamo senza entusiasmo, ma anche senza viltà. Il mio arrivo all' aeroporto di Pescara, dove aveva sede una delle cinque scuole per allievi ufficiali piloti di complemento (le altre quattro erano a Perugia, a Foligno, a Grottaglie e Puntisella) era stato alquanto complicato. Ero stato arruolato sull' aeroporto di Bolzano dove, dopo la rituale rapatura a zero, mi avevano consegnato il corredo di aviere che comprendeva le pezze per i piedi, la pancera mollettiera e le fasce. Non avevo avuto l' accortezza di fare la prova a casa e così partii per Pescara in borghese all' alba di un giorno piovoso ed arrivai a destinazione nel tardo pomeriggio: dovevo presentarmi in aeroporto in divisa e così mi recai alla toeletta della stazione per cambiarmi. Fu un'impresa non facile in particolare per le fasce: le mie gambe muscolose con i polpacci ben sviluppati creavano una difficoltà alla fasciatura perchè se le fasce erano strette il muscolo faceva male a camminare, se erano lente dopo poco cadevano. Arrivai alla scuola dopo il « silenzio ». Il sergente di guardia, dopo una ramanzina per le fasce allentate, mi accompagnò nelle camerate dove una fioca luce azzurrognola stemperava le ombre notturne: «cercati una branda e non fare rumore »; mi lasciò così all'ingresso di uno stanzone di cento metri quadrati dove intravedevo due file di brande e, sopra ognuna, su supporti di ferro, una cassa nera di legno. «Chi sei? » mi chiese qualcuno; mi girai da quella parte e vidi la sagoma di un giovane seduto sul letto. «Sono Martino Aichner. » «Da dove vieni? » «Da Trento. » Mi resi subito conto che il giovane che mi aveva rivolto la parola era autorevole perchè ordinò al suo vicino di branda di aiutarmi a cercarne una per me nella camerata accanto e spostare la sua per farmi posto; «Perchè questo è di Trento, deve restare con noi.» Dopo questo traffico che ci attiro un certo numero di imprecazioni, i due colleghi si presentarono: «Io sono Carlo Bovati di Milano ». «Ed io Eugenio Lecchi della Cagnola.» «Dov'e la Cagnola?» chiesi. «E la zona più importante di Milano» mi rispose sorridendo il collega. Questo incontro casuale determino un'amicizia perenne. Non è facile ammazzare il tempo, nelle lunghe attese tra i rari voli, sul prato dell' aeroporto e con le noiose lezioni teoriche. Abbiamo la risorsa di essere piuttosto allegri e goliardicamente scanzonati, e i nostri scherzi non sono quasi mai «da prete »: memorabile quello giocato ad un allievo del Canton Ticino, dove allora esisteva l'irredentismo per l'ltalia. Svizzero, ricco, raccomandato, l'allievo Ghioldi arriva con qualche settimana di ritardo quando noi avevamo già creato la struttura e la gerarchia del corso; ne rompe l' armonia e viene guardato a vista per studiame le debolezze: una e subito individuata: la mania della pulizia. Tutti i pomeriggi, con un permesso speciale, si reca a Pescara, dove ha affittato una stanza con bagno nel migliore albergo e rientra la sera, dopo il silenzio, quando noi siamo nel delicato momento del dormiveglia, con un occhio chiuso e l' altro aperto a seguire le manovre della sua preparazione notturna: apertura della cassa-baule, svestizione, profumazione all' acqua di colonia 4711 con vaporizzatore sul flacone di cristallo. Non so a chi sia balenata l'idea, ma quella sera siamo incredibilmente silenziosi e con tutti e due gli occhi aperti: e quando il profumo, nero d'inchiostro, trasforma il nostro compagno in un moro di Venezia, qualcuno gli punta addosso una torcia elettrica per consentire a tutti di godere lo spettacolo. Questo bravo ragazzo che non da fastidio a nessuno, ma che non lega con noi, dopo poco tempo, chiederà di essere esonerato dal suo generoso volontariato irredentista. il primo incidente di volo Alla scuola di Pescara mi accadde il primo incidente di volo, abbastanza straordinario: da poche settimane avevamo fatto il « passaggio» dal Breda 25, vecchio velivolo base della scuola, al RO 41, velivolo moderno e quasi bellico, tanto sensibile ai comandi da indurre i nostri istruttori a raccomandarci di non mettere i piedi sulla pedaliera e tenere la cloche tanto leggera quasi da non toccarla: era una prudenza dettata dalla non conoscenza del velivolo che era nuovo anche per loro. Ma i piu svegli di noi avevano capito subito la macchina e, senza aver fatto l'acrobazia a doppio comando con l'istruttore, nei voli da solista si appartavano sui fianchi della Maiella, dove si sfogavano in catene di giri della morte che la sera si ingigantivano in altre catene di guasconesche confidenze tra noi. A me le confidenze le fece Lionello Baldi di Lucca, appena laureato in chimica a Pisa con 110 e lode e da tutti stimato per la serietà e la correttezza; a lui potevo credere: mi feci descrivere alcune volte la manovra per provarla alla prima occasione. Il giorno dopo non ero in turno di volo, ma un collega era a letto con la febbre. Comandante della linea di volo del RO 41 era il tenente Filippo Dasara che aveva voluto provarmi nell' ultimo doppio comando su quel velivolo e, mi era sembrato, con giudizio positivo: sardo, di poche parole, severo ma giusto, non era facile impietosirlo, ma la mia domanda chiara e decisa di poter prendere il posto del febbricitante non gli lascio alcuna perplessita. «Va bene, vai su per 20 minuti, ma non fare fesserie! » Decollo liscio come una piuma e comincio a far quota quando sono lontano dal campo. Il RO 41 con poco carico di benzina ed un solo pilota, sale come un vero caccia: in pochi minuti sono a livello della cima della Maiella. Mi avvicino per avere più preciso il suo riferimento e mentalmente ripercorro le fasi della manovra cui mi ha istruito l' amico Baldi: affondata con 3/4 della manetta sino a 250 km/h, cloche bene in centro, tirata forte all'inizio, piedi leggeri, tutto gas sino al culmine del giro, poi togliere gas gradualmente, seguire lo stabilizzarsi del velivolo e riportarlo in linea di volo. Ecco, finita l' affondata, comincio a tirare la cloche e a dare manetta. Il RO 41 obbedisce docile e comincia la salita inebriante; ora sono rovesciato: sopra di me la volta del cielo azzurro, senza riferimenti, incantevole. Riduco il gas ed il velivolo punta il muso verso la terra dandomi l'ebbrezza di una conquista importante, chiara, autonoma, tutta mia: e il mio primo giro della morte, ebbrezza anche nel nome. Riempio di aria i polmoni, ma non ho finito l'inspirazione che sento un colpo secco e vedo volare via un pezzo di lamiera e subito dopo un' esplosione sorda, come fa una mina ricoperta di terra; è stato tutto così improvviso ed imprevisto che non ho avuto il tempo di provare paura, ma comincio ad averne adesso: il colpo secco era dovuto al distacco della naca, il rivestimento di lamiera ad anello che copriva il perimetro del motore stellare e lo0 raccordava alla fusoliera (che era, a sua volta, in traliccio metallico ricoperto di tela) e che, evidentemente, lo specialista non aveva fermato bene: l'esplosione era dovuta allo scoppio della tela di rivestimento della fusoliera che si era gonfiata come un pallone perchè l' aria, senza la naca, entrava con forza dal perimetro del motore stellare; la tela ora si staccava a brandelli che si rovesciavano sui piani di coda, indurendo i comandi. Tolgo istintivamente il gas e, anche a causa del freno aerodinamico esercitato dalla fusoliera senza il rivestimento e per i brandelli che svolazzavano a mo' di paracadute di coda, la velocità diminuisce celermente e restituisce efficienza ai comandi. Do i flaps e scendo in direzione dell' aeroporto sorvolandolo a bassa quota per farmi vedere dal capitano Craus comandante della linea di volo che nota subito l'inconveniente e ferma l'attività. Faccio il giro campo un po' più corto del solito e vengo in planata con assetto normale: con un piccolo «bum» atterro davanti al comandante, accolto festosamente dai miei colleghi con gli sfottò d' allegra partecipazione. «Sembravi un merlo in gabbia» è il commento più azzeccato e che mi resterà appiccicato per qualche tempo. Il capitano Craus ha capito che c' e sotto qualche irregolarità del volo e, secondo la regola militare che nel dubbio e meglio punire, mi affibbia cinque giorni di prigione; non mi pesano molto perchè il giorno dopo è sabato e sarei dovuto andare a Roccaraso con altri tre colleghi «delle Alpi» ad allenarmi per i prossimi campionati universitari di sci. Ma la presunzione di indisciplina giocherà nel prossimo futuro per punirmi con l' esclusione dall' elenco dei•destinati alla specialita della caccia che è per tutti la più ambita. Andrò pertanto alla scuola bombardamento di Aviano. Alla Casa dell'Aviatore troverò il comandante del reparto al quale sono stato assegnato: il capitano pilota Carlo Emanuele Buscaglia, nome già famoso in Italia perchè più volte citato nei bollettini di guerra, combattente molto valoroso, ma, si dice, altrettanto esigente. Ho un grande desiderio di conoscerlo e nello stesso tempo una maledetta paura: le mie carte non sono proprio in regola: alla scuola aerosiluranti di Gorizia mi è capitata una «disgrazia» e ora mi presento al reparto con quindici giorni di arresti di rigore più trenta di semplice: la massima punizione per un ufficiale. il secondo incidente di volo E’ successo che, verso la fine del corso di specializzazione, al rientro da un volo di addestramento con sgancio di siluro a salva contro la nave bersaglio Cattaro nella rada di Pola, volevo sorvolare la spiaggia di Sistiana per un saluto agli amici che si stavano crogiolando al primo sole di marzo. Cinque o sei chilometri prima della spiaggia mi ero abbassato a pelo d'acqua per poter arrivare di sorpresa: era la tattica delle azioni di siluramento: bisognava arrivare fino a circa due chilometri dalla nave sfiorando le onde a pochi metri dall' acqua per giungere di sorpresa sul bersaglio. Volando così bassi vi era modo di sfruttare la rotondita della terra e di non essere avvistati a grande distanza dalle vedette: inoltre, a nostra insaputa, sfuggivamo ai rilevamenti radar. Ma era in agguato sotto di me un avversario invisibile: «lo specchio d' acqua» che inganna la valutazione dell' altezza anche di alcune decine di metri. Ci fu uno schianto come di una cannonata contro una campana e le eliche di duralluminio dei due motori laterali si accartocciarono in avanti come fiori di rafia; diedi uno strattone al volantino e il velivolo riprese quota. Ma con un solo motore quel povero bestione pesante oltre diecimila chilogrammi non poteva sostenersi; lo sentivo cedere a poco a poco, inesorabilmente. Il secondo pilota e il resto dell' equipaggio mi guardavano preoccupati, sentivo su di me tutta la loro disapprovazione. Ottantacinque metri, ottanta, settantacinque, settanta ... Che cosa succede quando un velivolo terrestre va in acqua? Nessuno ce l' aveva detto; evidentemente non era previsto, ma io ci stavo andando. Cercai le reminiscenze delle leggi d'aerodinamica; ricordai soltanto una conclusione semplicistica, ma efficace, a una lezione di fisica al liceo: l'acqua, mille volte più densa dell'aria, è dura come un sasso, quando un corpo vi batte in velocità. Intanto la quota cala: sessantacinque metri, sessanta, cinquantacinque, cinquanta ... sento il respiro degli specialisti sulla nuca: sono tutti lì, dietro di me per seguire la mia manovra. Non posso sbagliare, tutta la responsabilità della fesseria è mia e loro non devono entrarci. Ricordai quel gioco di ragazzi di tirar scaglie di sassi piatti sul pelo dell' acqua: essi « piastrellano» [rimbalzano] cinque, sei, dieci volte secondo la velocità iniziale; alla fine si fermano un attimo prima di inabissarsi. Avrebbe fatto così anche il nostro stupendo S 79? Eravamo a venti metri: ordinai agli specialisti di andare al loro posto e tenersi saldamente ai montanti, al secondo pilota di togliere il contatto e tenni il velivolo leggermente cabrato, ma con carrello e flaps dentro, a velocità ridotta per «piastrellare» sull'acqua. Quindici metri, dieci, cinque ... Non avevo perso la calma, gli specialisti erano tutti alloro posto, ma a me non veniva più saliva e la bocca sembrava impastata di colla. « Bang!» La previsione non era esatta, il velivolo non «piastrellava» perchè non c' era il rapporto peso-velocità e perchè non aveva il movimento rotatorio della «piastrella ». Si era come invischiato nell'acqua con un contraccolpo che ci aveva sbattuti violentemente in avanti, e ora sprofondava. L'acqua passò spumeggiando sul parabrezza; eravamo sommersi, come in un sommergibile; soltanto che non c' era tenuta stagna e tra qualche secondo l'acqua avrebbe invaso tutto. In quegli attimi il pensiero va a Dio e alla mamma. E’ un pensiero velocissimo, di passata, non so se varrebbe per la salvezza dell'anima. Ma ecco ad un tratto l'acqua rifluire dal parabrezza e torniamo fuori nel sole caldo e amico; il velivolo «delfina» dolcemente alcune volte sulla superficie e poi si ferma come un ,gabbiano stanco per il lungo volo. Attorno a noi regna un momento di silenzio, rotto dall'esclamazione del secondo pilota: «Ce la siamo cavata, tenente ». Sembra un ringraziamento; mi ha già perdonato e mi e grato perchè ho tirato fuori lui e gli altri dalle conseguenze temute. Sono così gli aviatori, senza rancori, generosi e subito sereni. Dietro di me, in sezione, c' era un altro S 79 che aveva la funzione di filmare lo sgancio da me effettuato nella rada di Pola. Da bordo l'operatore stava filmando la mia puntata e riprese anche lo schianto nell'acqua. Quando riemergemmo ci sorvola alcune volte e poi diresse la prua per Gorizia, con la prova filmata della mia fesseria. Ci eravamo appena rimessi dalla grande paura che ci colse un'altra emozione; l'acqua entrava gorgogliando dalle mille fessure della fusoliera di tela e perciò tra poco il velivolo sarebbe colato a picco. Non ricordo d'aver dato alcun ordine, ma d'improvviso tutto l'equipaggio era indaffarato a smontare tutto ciò che era smontabile, mentre il più svelto aveva già messo a mare il battellino di gomma che, in pochi secondi, gonfiato con la bombola, si dondolava vicino all' ala. Dopo alcuni minuti eravamo tutti dentro e con noi un arsenale di oggetti recuperati, come se inconsciamente avessimo voluto rimediare alla perdita del velivolo. Una barca si stacca dalla riva. Poco dopo, verso Monfalcone, si vide una scia bianca, forse un motoscafo, che sembrava venire verso di noi. Non era un motoscafo, ma un idrovolante che presto decolla, punta su di noi e ci sorvola con una bella virata. Il pilota ci saluta, poi l'aereo si allontana qualche chilometro, ammara e venne flottando sino a pochi metri mentre noi guardavamo stupiti e. ammirati. Era uno dei famosi Cant Z 506 costruiti nei cantieri di Monfalcone: si apri il portello e un uomo gioviale ci chiese se ci fosse qualche ferito. Rispondemmo di no e il suo sorriso si allarga: « Vi è andata bene, potevate infilarvi e andare in mille pezzi ». Poi ci invita a salire senza preoccuparci per l'S 79 che avrebbe galleggiato benissimo finchè un pontone, già partito da Monfalcone, lo avrebbe agganciato. «Chi sarà quest'uomo sicuro come un padreterno?» Salii e mi presentai. «Io sono Testa» rispose; « collaudatore ai cantieri di Monfalcone. Abbiamo visto tutto e temevamo che ci fossero feriti. Siete stati molto fortunati; ora vi porto a Monfalcone dove vi attende il comandante Stoppani al quale ho già comunicato via radio che siete tutti salvi. » Gli feci presente che non potevo lasciare il velivolo; egli annuì e chiamo qualcuno dall'interno. Si presentò un sottufficiale che scese nel batteliino in attesa del pontone. Ero ancora incerto; il mio interlocutore se ne accorse e mi tranquillizzo: «Sono anche ufficiale dell'aeronautica e lei non può più fare nulla qui ». Salimmo e ci accomodammo all'interno senza parlare. A Monfalcone sul molo ci attendeva il comandante Stoppani, il famoso collaudatore. Ci accolse con paterna cordialità: «Telefonerò io al colonnelio Unia» (il comandante della scuola aerosiluranti), «e gli dirò che vi sono mancati i motori: non è vero, ma così la notizia gli farà meno male». Ci accompagnò alla mensa, poi ci diede una macchina per ritornare a Gorizia. All'ingresso dell'aeroporto trovai un messaggio: dovevo recarmi subito al circolo ufficiali. Pensai ad uno scherzo degli amici che volevano brindare al mio «successo ». Infatti per loro il mio era un successo, una vittoria assoluta. C'era una gara per chi riusciva a volare più basso sull' acqua e sulla terra e bisognava fornire le prove. Faggioni qualche tempo prima era rientrato con la coda bagnata; Pfister gli aveva risposto portando a casa delle spighe di frumento tra gli sportellini del ruotino posteriore. Era evidente che io li avevo battuti tutti e due!!!!! Entrai di corsa al circolo e mi trovai in mezzo al salone; di fronte a me dominava la figura del colonnello Grandinetti, il comandante dell'aeroporto, e attorno, schierati e silenziosi, gli ufficiali del campo. C'erano tutti: i cacciatori della scuola di Botto, Pezze, Morselli e Galbier, gli aerosiluranti della scuola di Unia, Erasi, Pernazza. «Questo è il cogl@@ne che ha distrutto un S 79 e messo a repentaglio la vita dell'equipaggio, oltre alla sua, per fare una puntata sulla spiaggia di Sistiana. » Poi, con sguardo impietoso, rivolto verso di me: « Si tenga agli arresti ». Si allontanò lasciandomi impietrito con gli occhi gonfi. «Ha ragione, ha ragione », mi dicevo; «ha detto la verità nuda e cruda. » Alzai il viso sul mare di occhi immobili. C' erano proprio tutti: superiori e compagni. Un nodo mi serrò la gola per la commozione di vedere e sentire la loro comprensione senza parole. Due giorni dopo il colonnelio Unia mi convocò nel suo ufficio: «Il suo addestramento è concluso» mi disse, «Lei è stato assegnato al 132° gruppo autonomo in formazione a Littoria. Sarà un reparto di punta della nostra specialità e vi troverà i piloti più esperti e coraggiosi; veda di imparare da loro. Le auguro buona fortuna ». Non un cenno alla mia « disgrazia ». Gliene fui grato e partii più leggero verso la nuova destinazione Il gruppo Buscaglia
  6. Dave97

    World War II Aces

    Dedicato ad un amico Ho avuto il piacere di conoscere uno dei piloti della famigerata A.N.R Il Pilota Angelo Vezzani, da grande appassionato di volo, frequentava spesso il nostro AeC di Reggio Emilia. PS: Per i Moderatori Se ritenete questo post OT, avvisatemi via MP che lo rimuovo.
  7. Dave97

    World War II Aces

    Comandante del 1° gruppo Il 2 maggio 1944, alle 11.00, trentanove Macchi C.205 del 1° Gruppo decollarono su allarme per intercettare la solita formazione di bombardieri in arrivo. Tutti i piloti erano in stato di allerta perchè nella mattinata era stato segnalato un ricognitore che si avvicinava ad alta quota nella direzione del campo. Visconti aveva inviato Fioroni (promosso capitano), il sottotenente Cucchi e il sergente maggiore Leone per intercettarlo. Il velivolo, che fu identificato come un P-51 Mustang, si avvide dei caccia che facevano quota nella sua direzione e si buttò in picchiata per sorprenderli nella delicata fase di cabrata. Ci fu un rapido scambio di colpi muso contro muso, senza esito. L'apparizione mattutina del poderoso caccia della North American mise tutti in allarme. Pertanto quando il comando guida caccia segnalo l' arrivo di una imponente formazione di B-17 nessuno fu colto di sorpresa. In effetti i bombardieri erano in quell'occasione scortati, oltre che dai soliti P-47, anche dai minacciosi P-51. L' attacco dei Macchi si svolse secondo lo schema consueto: acquisizione del vantaggio di quota e rapida affondata, evitando i settori di coda dei bombardieri, pesantemente difesi. Visconti e Cucchi danneggiarono un B-17, ma mentre Cucchi si avventava per finirlo fu a sua volta attaccato da un Mustang. Fu Fioroni questa volta, insieme a Visconti, a toglierlo d'impaccio riuscendo a cogliere di sorpresa il caccia americano ed abbatterlo: prima vittoria dei nostri piloti a spese di quello che fu spesso definito il miglior caccia della seconda guerra mondiale. Il B-17 di Cucchi fu visto precipitare nelle valli di Comacchio, ma gli altri bombardieri riuscirono a raggiungere Reggio e scaricare il loro carico bellico sul campo, lasciando fumanti due Macchi ed il Ca.309 di collegamento. Gli insediamenti logistici del gruppo in questa occasione non furono danneggiati. Il comando di Gruppo e la 13 Squadriglia erano dislocati a villa Prampolini a Mancasale, la 23 a Massenzatico e la 33 a Bagnolo; gli specialisti erano alloggiati nelle scuole di Pieve Modolena, appena fuori dalla citta. All'estremita dell'aeroporto si trovavano le Officine Meccaniche Reggiane, che, nonostante le disastrose distruzioni subite a seguito del bombardamento del 7/8 gennaio 1944, stavano ancora producendo su commessa tedesca una serie limitata di aerei d' assalto RE 2002. Nella stessa giornata del 2 maggio gli Alleati bombardarono anche Fidenza, città natale del sergente maggiore Gorrini; Visconti gli mise a disposizione l'automobile del reparto per correre a casa ed accertarsi personalmente della situazione: per fortuna casa Gorrini era stata risparmiata dalle bombe. L' 11 maggio una partenza su allarme si concluse senza avvistamenti. Il giorno successivo una troupe dell'Istituto Luce ottenne dal maggiore Visconti l'autorizzazione a filmare, per scopi propagandistici, i voli di prova sul campo di un Macchi. Il maresciallo Magnaghi, noto per le sue doti di "manico", si esibì a beneficio dei cineoperatori in figure acrobatiche a bassa quota. Mentre eseguiva i suoi tonneau , una pattuglia di P-38 del 1° Fighter Group apparve all'orizzonte provenendo dalla parte della città. Magnaghi venne colto di sorpresa ed abbattuto dal Lieutenant Armour C. Miller del 27° Squadron, senza potersi difendere. Ferito ad una gamba riuscì a lanciarsi col paracadute, atterrando in un prato tra la via Emilia e Massenzatico. Trasportato in infermeria, fu necessario amputargli la gamba: quando la sera Gorrini andò a trovarlo, Magnaghi dimostrò una forza d'animo eccezionale. Rivolto all'amico gli chiese: "Gigi, per piacere, slacciami la scarpa sinistra che è troppo stretta"; Gorrini sollevò il lenzuolo e Carletto si mise a ridere: della scarpa sinistra non c' era più bisogno. Purtroppo tanto coraggio non bastò a salvarlo: sopraggiunse la cancrena e Magnaghi perse la vita. L' Aeronautica italiana aveva perso uno dei suoi piloti migliori. In quei giorni il maggiore Visconti incontro, nel settore "civile" del campo, il maggiore Tullio De Prato, collaudatore alle "Reggiane" dopo aver comandato in Africa la 150° Squadriglia del 2° Gruppo Caccia. Visconti gli confesso le sue preoccupazioni e, secondo le parole di De Prato nel libro Un pilota contadino, " ... con candida modestia, chiese il mio parere sulla sua attività. Ne discutemmo a lungo e concluse: " Io, comunque, non posso mollare!" ... " Durante l'incursione del 12 maggio i P-38 del 1° Fighter Group mitragliarono il campo distruggendo quattro Macchi e danneggiandone sei. II sottotenente Aurelio Morandi, una delle matricole del reparto, aveva decollato mentre il campo era sotto attacco, aveva inseguito gli incursori ed era riuscito ad abbatteme uno, il Lightning del Lieutenant Richard Cooley, precipitato sul greto del fiume Crostolo, presso Vendina di Vezzano. Il campo di Reggio Emilia era troppo esposto agli attacchi della 153 Air Force e Visconti decise di spostarsi sulla vicina striscia di Cavriago, a ovest della città. La pista era molto corta e ben tre Macchi capottarono al termine della corsa di atterraggio; l'aereo del tenente Weiss si incendio bloccandolo nell'abitacolo: il valoroso pilota perse la vita nel rogo sotto gli occhi degli impotenti soccorritori. Il 14 maggio il 1° Gruppo, con Visconti in testa, affronto il suo ventiseiesimo combattimento; diciotto Macchi si levarono in volo per affrontare una formazione di B-24 scortati da P-38. Durante il combattimento il tenente Cartosio affrontò con estrema decisione un quadrimotore, incendiandolo dopo ripetuti attacchi. Il sottotenente Cucchi, quel giorno suo gregario, vide che Cartosio preseguiva nella picchiata dopo l’attacco, senza richiamare il suo aereo per riprendere l’assetto di volo. Il pilota, che era stato colpito mortalmente,precipitò con la testa reclinata sul cruscotto nella campagna veronese, vicino alla città dove vivevano i suoi genitori. Cucchi, benché sconvolto per la perdita dell’amico, riprese il combattimento e riuscì ad abbattere un P-38. Nella foga strinse troppo la virata e il suo macchi entrò in vite. Il pilota riuscì a riprendere il controllo solo a poche decine di metri da terra, appena in tempo per atterrare sulla pancia in un prato nei pressi di Ferrara. Nella Giornata del 22 maggio i Macchi del 1° Gruppo si scontrarono con i Thunderbolt e i Lightning nel cielo di Pistoia senza che i contendenti conseguissero alcun risultato. Il Tenente Cavatore, rimasto senza benzina, fu costretto ad atterrare fuori campo. Era giunto al suo quarto atterraggio d’emergenza, conseguendo un singolare record personale. II 25 maggio la coppia tenente Satta - sergente maggiore Gorrini intercettò nel cielo tra Parma e Fidenza una formazione di B-24 al rientro da una missione. I due piloti puntarono sui bombardieri che si trovavano in coda alla formazione: il B-24 colpito da Gorrini cominciò ad emettere fumo ed il pilota insistette nel suo attacco, senza avvedersi che i P-38 di scorta li avevano presi di mira. Quando se ne accorse, si disimpegnò con un rapido rovesciamento mentre l'aereo di Satta fu preso in pieno da una raffica che gli staccò un'ala facendolo precipitare senza scampo. Il Macchi, con a bordo lo sfortunato pilota, s'infranse sul greto di un torrente nei pressi di San Prospero; l'abbattitore fu il Lieutenant Jack D.Lewis del 37° Fighter Squadron. In questo combattimento il sergente maggiore Gorrini conseguì la sua diciannovesima ed ultima vittoria (secondo altre fonti, le vittorie individuali di Gorrini furono ventiquattro). Il 27 maggio tutto il gruppo, alla guida di Visconti, parti su allarme per intercettare alcuni caccia segnalati in zona. La ricerca fu infruttuosa ed i Macchi tornarono all'atterraggio; l'ultimo a rientrare alla base fu il sergente maggiore Giorgio Leone. Come consuetudine nei reparti da caccia, Leone esegui un passaggio a bassa quota con un tonneau: per motivi che non poterono essere accertati rimase in posizione rovesciata e urtò il terreno, disintegrando il velivolo e proiettandone parti contro i muri di villa Prampolini, sede logistica del gruppo. Il numero di Macchi disponibili si andava riducendo in modo preoccupante e si dovette mettere riparo alla situazione facendo affluire al reparto alcuni Fiat G.55 ceduti dal 2° Gruppo Caccia, destinato ad essere riequipaggiato con i Messerschmitt Bf 109G, ed incorporando la Squadriglia Autonoma "Montefusco". Questa era una delle unità nate spontaneamente nella fase confusa successiva all'armistizio: dotata di G.55 e di MC.205 era basata a Torino ed aveva perso il suo comandante capitano Giovanni Bonet il 29 marzo 1944, abbattuto dal Major Herschel Green del 325° Fighter Group. Prima di cadere, Bonet a bordo del suo G.55, erroneamente identificato come Fw 190, aveva fatto precipitare nei pressi di Dego, sulle alture dell' entroterra savonese, un B-17 del 2° Bomber Group. I caccia della serie 5 erano dotati dello stesso motore, ma il G.55 Centauro era più armato del Veltro, disponendo anche di un terzo cannoncino da 20 mm sparante attraverso il mozzo dell'elica; grazie al minor carico alare forniva inoltre migliori prestazioni alle alte quote. I G.55 vennero assegnati alla 1a e alla 3a Squadriglia che operarono con equipaggiamento misto, mentre la 2a rimase con i soli Macchi. Il 10 giugno Visconti decollò con il gruppo per intercettare velivoli nemici segnalati su Ravenna ma non giunse a contatto balistico con gli incursori. Il 5 giugno una missione di intercettazione condusse il gruppo al combattimento contro bombardieri medi B-25 nei pressi di Rovigo, conseguendo il danneggiamento di un Mitchell, senza perdite da parte italiana. I caccia erano appena rientrati che il campo di Reggio Emilia fu mitragliato dai P-38 del 14° Fighter Group che danneggiarono alcuni G.55. Il 9 giugno, cinque MC.205 e otto G.55 decollarono su allarme diretti verso il "quadrato PF": sulla griglia della carta operativa utilizzata dall' ANR questo codice indicava un' area ad est di Venezia. Era stata segnalata una grossa formazione di bombardieri sulla rotta di rientro dalla Germania. I caccia del 1° Gruppo evitarono i P-38 di scorta e si buttarono sui B-24. Il capitano Robetto ed il sergente maggiore Chiussi ne abbatterono uno a testa. Per Robetto, che sparo in quella occasione 300 colpi e vide sette membri dell' equipaggio del Liberator colpito lanciarsi col paracadute, si tratto della decima e ultima vittoria individuale dall'inizio della guerra. Il 13 giugno, una partenza su allarme condusse il 1° Gruppo ad uno scontro con il 325° Fighter Group, che si ripresentava in forze dopo aver cambiato i suoi Thunderbolt con i più temibili Mustang. La vistosa colorazione della coda, interamente dipinta a scacchi gialli e neri, li rendeva inconfondibili. Herschel Green, secondo in graduatoria tra gli assi della 15a Air Force, costrinse in quell'occasione ad un atterraggio d'emergenza il Macchi del sergente maggiore Luigi Di Cecco, senza conseguenze per il pilota. Il 15 giugno al 1° Gruppo fu affidato il compito di pattugliare la costa toscana. Venti velivoli, tra Macchi e Fiat, parteciparono alla missione, senza incontrare nemici nella zona presidiata. Il sottotenente Sajeva, che aveva guidato la pattuglia di G.55 incaricata della protezione a quota più elevata, si diresse coi compagni verso la base di Cavriago. Mentre si trovava nel cielo di Modena, alla quota di circa 3000 metri, si accorse che una piccola formazione di Spitfire si era posta in coda ai caccia italiani. Sajeva eseguì un immediato rovesciamento che lo portò a circa 500 metri di quota, ma quando raddrizzo l'aereo non fece in tempo a guardarsi attorno che una raffica lo colpì in fusoliera, costringendolo ad un'altra violenta manovra evasiva. Gli parve di non vedere più nemici nelle vicinanze, ma una seconda raffica gli frantumo il cruscotto, provocando una perdita di benzina nell'abitacolo e rammentandogli l'ammonimento dei "vecchi" della squadriglia: "E sempre il caccia nemico che non vedi che ti abbatte!". Lo Spitfire riusciva a manovrare con abilità in modo da trovarsi sempre nell'angolo morto della visuale del pilota italiano, colpendolo di sorpresa all'uscita delle manovre di scampo. Per toglierselo dalla coda, Sajeva si mise a volare a pelo degli alberi, passando pericolosamente sotto i fili di un elettrodotto ad alta tensione. Mentre si voltava per tener d'occhio l'inseguitore, toccò terra e si arrestò dopo una lunga corsa sul ventre del suo G.55, che nei vari urti si ridusse ad un troncone di fusoliera. Il pilota fu soccorso e ricoverato in ospedale ma se la cavò con qualche escoriazione. Non fu così fortunato il sottotenente Fausto Morettin che, abbattuto dallo Spitfire pilotato dal Wing Commander A.D.J. Lovell, del 243° Squadron, si lanciò con il paracadute ma morì per le ferite riportate in combattimento. Anche il sergente maggiore Gorrini quel giorno fu costretto ad affidarsi al paracadute, dopo aver incassato una raffica che mise fuori uso il suo velivolo. La discesa fu brusca e gli causo lesioni alla schiena che richiesero una lunga convalescenza. Per l' asso Gorrini la guerra era finita. Il 16 giugno il gruppo effettuò due partenze su allarme, senza contatto con il nemico. Il G.55 del maresciallo Forlani ebbe noie al motore con conseguente abbandono del velivolo da parte del pilota. Il 22 giugno ebbe luogo un combattimento tra i caccia del 1° Gruppo e i P-38 dell'82° Fighter Group di scorta ad una formazione di B-24 nell' area tra Bologna e Ferrara. Il maresciallo Guido Fibbia, che si era buttato sui Lightning insieme con il sergente Spartaco Petrignani, abbattè il caccia bimotore pilotato dal Lieutenant Tolmie. L'indomani, la partenza su allarme si concluse senza avvistare aerei nemici. Il 26 giugno invece lo scontro avvenne, causando l' abbattimento del Macchi C.205 del sergente Gianni Arrigoni, che perse la vita precipitando a Monte S.Pietro, abbattuto da uno Spitfire del 238° Squadron. Dopo sei mesi di combattimenti la situazione del 1° Gruppo Caccia mostrava preoccupanti vuoti tra gli organici dei piloti. Molti cacciatori esperti e valorosi erano caduti: Marinone, Satta, Torchio, Boscutti, Bortolani, Castellani, Zaccaria, Capatti, Marchi, Morosi, Lugari, Bandini, Salvatico, Magnaghi, Weiss, Cartosio, Giacomello, Leone, Mazzei, Morettin, Arrigoni. Un tangibile disagio cominciava ad impadronirsi del reparto: i suoi uomini si sentivano circondati da un crescente disinteresse, mentre un' inutile burocrazia appesantiva l'organizzazione dell' ANR. Adriano Visconti - Asso di guerra
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    World War II Aces

    Trasferimento A Reggio Emilia Il 26 Marzo il cattivo tempo impedì nuovamente a Visconti di avvistare la formazione nemica transitante su Fiume; al termine della missione atterrò a Osoppo, rientrando in sede l'indomani. Il 28 Marzo 1944, ventunesimo anniversario della fondazione della Regia Aeronautica, i cacciatori del 1° gruppo, decollati alle 11.35 alla guida di Visconti, intercettarono le formazioni di B17 e B-24 della 15a Air Force, scortate dai P-47 del 325° Fighter Group e dai P-38 del 1° e dell’82 Fighter Groups, all'altezza delle valli di Comacchio. I bombardieri si separarono in due distinte formazioni, una diretta a nord ed una a nord ovest: di conseguenza anche i Macchi si divisero in due gruppi d' attacco. I sergenti Maggiori Veronesi e Marconcini riuscirono ad abbattere due Liberator, mentre un furioso combattimento aveva luogo tra i nostri caccia e i Lightning di scorta. Al termine cinque P-38 furono dichiarati abbattuti dai tenenti Renato Talamini, Gianni Levrini, Giuseppe Rosati, Remo Lunari e dal sottotenente Giovanni Sajeva. In effetti, solo tre P-38, due del 1° Fighter Group ed uno dell’82° pilotati rispettivamente dai Lieutenants James Rodolff, Kenneth Hartwig e David Weber, non fecero ritomo alla loro base di Foggia. Due Macchi furono abbattuti abbattuti dai Lieutenants Arthur Larkin e Thomas Maloney: quelli del tenente Nino Pittini e del sergente maggiore Alverino Capatti. Pittini, del corso Urano, mentre stava scaricando su Lightning tutti i suoi colpi, venne colpito da Larkin; ferito ad una gamba, abbandonò a fatica l' aereo ormai ingovernabile. Toccò terra in un campo arato e per prima cosa bloccò l’emorragia col cavetto della radio ed una, fettuccia del paracadute. Soccorso e trasportato all’ospedale di Codigoro subì l’amputazione del piede destro; come Botto non si arrese e nel dopo guerra riprese a volare. Per "Nino" Capatti invece non ci fu salvezza: il suo Macchi cadde nei pressi di Argenta, non molto lontano da Dogato, suo paese natale, sotto gli occhi di molti civili che seguivano il combattimento, tra cui quelli del padre. Visconti sparò nel corso dello scontro 120 colpi da 20 mm e 250 da 12,7 mm, mitragliando efficacemente un quadrimotore ed atterrando ad Aviano al termine dell'azione. Il giorno successivo Visconti tornò in volo con i suoi per contrastare la quotidiana incursione di quadrimotori americani: questa volta il combattimento si svolse nella zona di Asiago e Bassano del Grappa: il sergente Vezzani colse la sua prima vittoria abbattendo un P-38 mentre a Ligugnana, Marchi, Sbrighi e Leone furono attribuiti quattro B-24. Gli aerei del sottotenente Sergio Sbrighi e del sergente maggiore Domenico Balduzzo (ferito) non fecero ritorno. Il 2 aprile, le missioni di intercettazione dei bombardieri diretti in Germania furono due, con combattimenti che si svilupparono la prima volta sopra Klagenfurt e nel pomeriggio su Lubiana. Il mattino Visconti sparò 70 colpi con i Mauser e 70 con le Safat, senza conseguire visibili risultati. Il pomeriggio Visconti sparò 80 colpi da 20 mm e 150 da 12,7, il tenente Robetto abbatte un B-17 ed il maresciallo Amedeo Benati un secondo, precipitato nella zona di Litya. I Macchi del tenente Emilio Marchi e del sergente maggiore Aldo Burei precipitarono dopo essere entrati in collisione. L'ufficiale perse la vita mentre Burei riuscì a salvarsi col paracadute. Anche il maresciallo Vittorio Pirchio, ferito all'addome, fu costretto ad affidarsi al paracadute: ricoverato in un ospedale tedesco, subì l' asportazione della milza. Appena fu in grado di spostarsi, venne recuperato dal tenente Erminio che, su incarico di Visconti, lo riporto in Italia a bordo di un piccolo biposto da collegamento Saiman 202. Il 6 aprile, l'intercettazione avvenne a nord di Zara; il tenente Bruno Cartosio ed il sergente maggiore Gorrini abbatterono due Thunderbolt, contro la perdita del tenente Lugari e del maresciallo Morosi. Gorrini conseguì in quest'occasione la sua diciottesima vittoria individuale, ma fu a sua volta abbattuto da un P-47, riuscendo a salvarsi col paracadute. Gli avversari del 1° Gruppo furono ancora una volta i piloti americani del "Checkertail clan" che dichiararono al termine del combattimento l' abbattimento di quattro Macchi, due da parte del Lieutenant Oxner ad uno ciascuno ad opera dei Lieutenants Dorety e Novotny. Il 7 aprile, venerdì santo, Treviso subì un disastroso bombardamento che i caccia italiani del 1° Gruppo e quelli tedeschi del JG77 non riuscirono purtroppo ad impedire: decollati da Campoformido e Lavariano, i Macchi ed i Messerschmitt intercettarono i bombardieri quando questi erano gia sulla rotta di rientro, dopo aver lasciato tra le macerie della citta veneta circa 1600 morti. Visconti si portò con i suoi "in cima alla palma", come usava dire prendendo spunto da un proverbio arabo, intendendo dire alla quota più alta possibile, dove si correvano meno rischi. A 9500 metri, sopra lo strato di nuvole che copriva il Veneto, i nostri caccia erano nascosti alla vista dei bombardieri, che volavano a circa 4500 metri, ed anche a quella dei Lightning di scorta che si trovavano ad una quota intermedia. Il piano prevedeva delle rapide puntate sulle pattuglie di B-24, rientrando poi in cabrata nello strato nuvoloso per occultarsi. I Veltro si infilarono in picchiata negli squarci tra le nubi, collimando i quadrimotori più esterni della "combat box", la strutturata formazione con la quale i bombardieri riuscivano a prestarsi un'efficace difesa reciproca. Inquadrato dalle traccianti del tenente Mario Cavatore, un B-24 cadde in fiamme. Con i motori al massimo, i Macchi rifecero quota, inseguiti dai caccia di scorta che non avevano fatto in tempo ad intervenire. L'attacco venne ripetuto sei volte, con l'abbattimento di altri due quadrimotori, ad opera dei tenenti Weiss e Fioroni. Giunti allimite dell'autonomia, i caccia italiani rientrarono alla base accolti dall'inatteso fuoco delle batterie contraeree, che non erano state allertate. L'aereo di Fioroni fu colpito, costringendolo ad un atterraggio d'emergenza sul greto del Piave. Nello stralcio voli di Visconti venne riportato: " ... Mitragliati efficacemente quattro Liberator. Colpi sparati: 220 da 20 mm, 340 da 12,7 mm ... ". Nel corso dello stesso combattimento ai caccia tedeschi furono attribuiti quattordici abbattimenti. Le condizioni meteorologiche si mantennero cattive per quasi tutto il mese di aprile, rendendo più difficili le intercettazioni: le partenze su allarme dei giorni 12, 17 e 18 si conclusero con un nulla di fatto. Il giorno 20 il contatto balistico fu raggiunto ma non furono conseguiti risultati apprezzabili. Nuova partenza su allarme il giorno 23 aprile, per la segnalata presenza di una formazione nemica sulla Croazia, diretta a nord, che non fu raggiunta. Il 24 aprile il gruppo si trasferi a Reggio Emilia, nuova base operativa, più prossima alle zone "calde" dell'Italia del nord. Già il giorno successivo, il 1° Gruppo ebbe occasione di misurarsi col nemico. Il 25 aprile una formazione di Liberator, scortata da P-38 dell' 82° Fighter Group, si dirigeva a bombardare la fabbrica Aermacchi di Varese. Prima di raggiungere l'obiettivo gli aerei americani furono affrontati dai Macchi di Visconti che si buttarono in picchiata sui bombardieri. I Lightning si precipitarono in difesa dei quadrimotori e si accese un combattimento che si concluse in modo decisamente favorevole ai nostri colori. Visconti abbatte un caccia (sua nona vittoria individuale) ed il sottotenente Carlo Cucchi un secondo. Nella loro relazione operativa gli americani dichiararono che "i piloti dei Macchi si dimostrarono abili ed aggressivi, stringendo maggiormente le virate, ad ogni quota e senza difficolta, rispetto ai Lightning". I Lieutenants Myron Malaise e Stuart Munson non fecero ritorno alla loro base di Foggia: il primo ebbe il suo P-38 mortalmente colpito alla giunzione dell'ala con l'abitacolo mentre il secondo riuscì a lanciarsi con il paracadute ma non fù più ritrovato. I piloti italiani rientrarono invece tutti indenni a Reggio. Il Captain Dave Weld, senior intelligence officer del'82° Fighter Group, riportò nel diario del reparto che i piloti dei MC.205 " volavano in splendide formazioni composte da elementi di due velivoli, condotti da piloti estremamente abili". Un elogio raro da parte degli anglo-americani, che non furono mai particolarmente prodighi di riconoscimenti per i piloti italiani nel corso della seconda guerra mondiale. Quando incontravano, nel teatro di operazioni mediterraneo, piloti particolarmente capaci e aggressivi tendevano ad identificarli come tedeschi, anche per accrescere i propri meriti in caso di vittoria in combattimento. Nel caso del 25 aprile invece identificarono correttamente i loro avversari, riconoscendone, oltre che il tipo di velivolo, anche la determinazione e l' abilità. Abbastanza stranamente, viceversa, gli aerei abbattuti furono riportati nel diario del 1° Gruppo come Thunderbolt, mentre nessun P-47 andò perso nell'area in quella giornata. Potendosi facilmente escludere un' errata identificazione da parte dei piloti, stante la marcata differenza tra i filanti bimotori bicoda della Lockheed ed i tozzi monomotori della Republic, l'errore e probabilmente dovuto ad una svista di trascrizione da parte del diarista. Il 27 aprile l'incursione sull'Emilia delle formazioni nemiche provoco una partenza su allarme, senza che si giungesse all'intercettazione. Il 29 aprile la missione si concluse con un episodio tragico. I bombardieri nemici sganciarono il loro carico su Bologna e nella zona a sud del Reno, prima che i venticinque MC.205V decollati da Reggio potessero raggiungerli. Per intercettarli sulla via del ritorno i caccia di Visconti si portarono sui 9500 metri, con l'intenzione di attaccare come al solito la formazione dall'alto. Sul cielo tra Rimini e San Marino il reparto avvistò gli avversari e si preparò ad attaccarli, mentre una pattuglia di Bf 109 del JG77 che incrociava nella stessa zona virò per condurre, almeno così parve, l'azione insieme con i caccia italiani. La 2a Squadriglia si trovava in posizione più arretrata; nell'ultima sezione di tre velivoli il sergente maggiore Spartaco Petrignani si accorse della manovra ed avvisò a gesti il proprio comandante, tenente Amedeo Guidi, che fece cenno di aver compreso. Petrignani inclinò l'aereo per guardarsi le spalle e la manovra gli salvò la vita: in quel momento i tedeschi aprirono il fuoco e abbatterono in fiamme gli aerei del sottotenente Luigi Bandini e del maresciallo Pietro Salvatico. Visconti ordinò di rientrare immediatamente e appena a terra chiese infuriato spiegazioni al comando gennanico. I tedeschi si scusarono, asserendo che l' errata identificazione (i piloti avevano scambiato i nostri Macchi per i temutissimi Mustang, che cominciavano a fare la loro apparizione sul nostro fronte) era dovuta alla scarsa dimestichezza degli abbattitori, appena giunti dal fronte russo, con i nostri velivoli. Il 30 aprile gli Alleati, che avevano identificato il nuovo campo di schieramento del 1° Gruppo, inviarono trenta bimotori, adeguatamente scortati, a bombardare l' aeroporto di Reggio Emilia. Visconti decollò su allarme e riuscì ad intercettarli, scontrandosi coi i P-38 della scorta: uno dei Lightning cadde sotto i suoi colpi a sud est di Bologna. Era la sua quarta vittoria individuale coi colori dell' ANR, che ne faceva fino a quel momento il pilota più vittorioso. Il giorno successivo gli americani ripeterono l'incursione, colpendo molti velivoli parcheggiati al suolo: cinque Macchi vennero distrutti. Nel frattempo erano giunti al reparto molti piloti di nuova assegnazione, destinati a riempire i vuoti che si erano aperti nei ranghi del gruppo a seguito delle numerose perdite. Visconti dedicò un gruppo di piloti sperimentati all'addestramento tattico dei nuovi inseriti. Tra i piloti prescelti c'erano il tenente Alessandro Beretta, il sottotenente Andrea Stella, il maresciallo Amedeo Benati, il sergente maggiore Francesco Cuscuna ed il sergente Angelo Vezzani. Il tenente Beretta, prima dell'armistizio, aveva fatto parte dell'8° Gruppo Caccia e si trovava tra i piloti che avevano assistito, il 9 settembre 1943, all'arrivo a Guidonia dei tre MC.205V della 310a Squadriglia con undici persone a bordo. Beretta aveva seguito le sorti della sua unità e dopo essere stato internato a Korba, era rientrato in Italia per continuare la guerra nell' Aeronautica cobelligerante. Ma gli Alleati avevano deciso che i Macchi C.200 non erano più in grado di combattere ed il reparto si trovò appiedato a Capoterra, vicino Cagliari, in attesa di nuovi velivoli. Beretta, che aveva lasciato la giovane moglie al di la del fronte, non era tipo da stare con le mani in mano: si arruolò nell' Intelligence Service per farsi paracadutare in Veneto quale informatore. Si lanciò nottetempo insieme ad un operatore radio ma entrambi furono rapidamente catturati. Beretta che aveva importanti appoggi tra i gerarchi veneti, fu liberato e si, arruolo nel 1° Gruppo Caccia dell' ANR. Nessuno dei suoi colleghi, tanto meno Visconti, si accorse mai del suo doppio cambiamento di fronte. In maggio Visconti fu promosso maggiore "per merito di guerra", con decorrenza 23 marzo 1944, ad assunse il comando effettivo del gruppo. La sua promozione, come per tutti gli aderenti alla Repubblica Sociale, non venne riconosciuta al termine della guerra ed ancor oggi il grado più elevato con cui Visconti e ufficialmente menzionato nelle carte del ministero e quello di capitano.
  9. Dave97

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    Comandante Adriano Visconti 1944 – La difesa delle città Italiane Lo scontro del 3 gennaio segnò l'inizio di una lunga serie di partenze su allarme e di combattimenti contro i quadrimotori americani che transitavano sulla valle padana, diretti a bombardare le città italiane o, superate le Alpi, quelle tedesche. Il 4 gennaio 1944, il sottosegretario dell' Aeronautica, tenente colonnello Botto, diramò l'ordine di dipingere sui velivoli i nuovi distintivi nazionali: due fasci contrapposti iscritti in un quadrato , sulle ali, e la bandiera italiana contornata da frange gialle sulla fusoliera e sul timone di direzione. Il primo Macchi così contrassegnato fu quello del capitano Marinone, consegnato al gruppo nel corso di una cerimonia che rappresentò un momento importante nella storia del reparto. Il 12 gennaio il 1° gruppo ricevette l’ordine di spostarsi a Campoformio, nei pressi di Udine,alle dipendenze operative del JG77, trasferitosi a sua volta dal Piemonte al Veneto, sul campo di Lavariano/Risano. Il 24 gennaio avvenne il trasferimento verso la nuova base: la 1° e la 3° Squadriglia si schieraro nel settore sud, mentre la 2° si installò a nord; il comando di gruppo fu basato a Bozzolo del Friuli mentre la squadriglia di Visconti si acquartierò nei locali dell'Istituto Wassermanr in Via Toppo a Udine. Furono rapidamente presi accordi con il comando guida caccia tedesco, basato a Tricesimo, per definire le procedure operative. I lavori organizzativi e logistici non erano terminati quando il reparto ebbe nuovamente occasione di misurarsi col nemico. Il 28 gennaio dal centro operativo di Tricesimo giunse una chiamata d'allarme: "Una formazione di bombardieri Liberator, scortata da Lightning, proveniente da sud, dirige verso la Germania." Le regole operative prevedevano il decollo immediato di tutti i velivoli efficienti; il gruppo al completo era chiamato per la prima volta all'impegno collettivo; alla testa della formazione si pose lo stesso comandante, maggiore Luigi Borgogno. Un razzo verde sparato dalla pistola Very diede il segnale di partenza: decollò per prima la squadriglia di Visconti, seguita da quella di Calistri ed infine dalla 2° di Marinone. Le squadriglie si dovevano suddividere in pattuglie di quattro aerei, formate da due coppie leggermente scalate: la pattuglia assumeva la disposizione delle quattro dita della mano, detta Schwarm dai tedeschi e finger four dagli anglo-americani. Dopo il decollo gli aerei raggiunsero la quota standard di 8000 metri impiegando la massima potenza del motore: secondo le procedure concordate, il solo capo formazione rimase sintonizzato sulla frequenza del comando guida caccia, trasmettendo gli ordini sul canale 2, su cui l'asscolto era collettivo; per tutti gli altri il silenzio radio era obbligatorio, a meno di comunicazioni d'emergenza sul canale 4. Per la prima volta il gruppo sperimentava in combattimento le moderne e complesse attrezzature di radio-localizzazione che consentivano di conoscere con continuità e con•notevole anticipo quota, direzione e consistenza delle forze nemiche. Quel 28 gennaio i Liberator sorvolarono il basso Friuli a quote variabili tra i 5 e i 7000 metri. Due squadriglie del gruppo si portarono sui 9000 metri mentre, su ordine di Borgogno, la squadriglia di Marinone fu inviata verso il basso per attrarre l'attenzione della scorta. Marinane si tuffò in picchiata coi suoi, proseguendo nell'affondata quando i caccia di scorta si gettarono all'inseguimento. Nel frattempo le squadriglie di Visconti e Calistri si avventarono sui bombardieri, seguendo una rotta curvilinea per rendere difficoltoso il puntamento delle torrette difensive dei B-24. Visconti, insieme al suo gregario, sergente Marconcini, attaccò frontalmente un bombardiere collimandolo alla radice dell' ala, dove si trovava un serbatoio non corazzato. Le sue traccianti raggiunsero il bersaglio, provocando scoppi e principi d'incendio, mentre altre traccianti, in direzione opposta, partivano dalle torrette del Liberator, dando l'impressione d'infilarsi nel suo parabrezza blindato. Quando il B-24 divenne troppo grande nello schermo del collimatore S.Giorgio, richiamò violentemente il suo Macchi evitando di poco la collisione. La violenta accelerazione lo schiacciò contro il seggiolino oscurandogli per qualche istante la visione; quando questa torno più chiara, guardo in basso alle sue spalle e vide Marconcini che lo seguiva a tutto motore, cercando di non perdere il contatto. A quota più bassa due Liberator si erano staccati dalla formazione,lasciando una lunga scia di fumo nero. L' abbattimento di un B-24 fu accreditato al sergente Marconcini, il secondo fu attribuito in collaborazione ai tenenti Vittorio Satta, Bruno Cartosio e Renato Talarnini. Satta fu costretto a lnanciarsi dal suo Macchi, contrassegnato dal numero individuale 6, colpito dalle mitragliatrici dei bombardieri e si ferì alla spalla prendendo terra. Due giorni dopo, il 30 gennaio, Visconti era seduto sulla sedia a sdraio di fronte alla palazzina comando quando squillò il telefono ed il sergente De Nardi gli porse il ricevitore dalla finestra aperta; mentre ascoltava la comunicazione, Visconti fece cenno a tutti di correre agli aeroplani. Il comando guida caccia, su segnalazione della postazione di avvistamento "Wasserrman” di Francavilla a mare, comunicava che due grosse formazioni di Liberator stavano sorvolando il golfo di Venezia dirette a nord. I bombardieri americani della 15° Air Force che risalivano l' Adriatico provenendo dalle basi pugliesi seguivano di solito una rotta equidistante dalla costa italiana e quella iugoslava. Poi, all’altezza delle foci del Po, deviavano verso est per ridurre le probabilità di essere intercettati; evitando il combattimento, i caccia di scorta riuscivano a conservare i serbatoi supplementari, indispensabili per completare la missione sulla Germania. In questa occasione, i Macchi decollati da Campoformido incrociarono i caccia di scorta all' altezza di Grado: si trattava di una formazione di Republicc P-47 Thunderbolt del 325° Fighter Group, dai caratteristici scacchi gialli e neri dipinti sui timoni. I Thunderbolt erano armati di otto mitragliatrici alari da mezzo pollice, che garantivano un’elevata cadenza di tiro ed una rosa piuttosto ampia. Questo tipo di armamento non era però molto efficacece contro i bombardieri corazzati: i Macchi e i Messerschmitt, che dovevano combattere sia contro i caccia che contro i bombardieri, avevano perciò aggiunto alle mitragliatrici i cannoncini da 20mm. I Macchi piombarono sui Thunderbolt di sorpresa, mentre questi mantenevano assetto e velocità di crociera: il maresciallo Magnaghi con un paio di attacchi decisi riuscì ad abbatterne due che precipitarono tra Grado e Palmanova. Il tenente "Peppo" Re abbattè un terzo P-47 ma fu a sua volta colpito e abbandonò l' aereo affidandosi al paracadute; il sergente maggiore “Gigi” Gorini, asso della nostra aviazione con quindici velivoli accreditati fino a quel momento, colse la sua sedicesima vittoria incendiando un Thunderbolt con una raffica bene assestata. Il sottotenente Natalino Stabile, dopo avere mitragliato a lungo senza visibili risultati un quadrimotore insieme con il sergente maggiore Aldo Burei, ne attaccò un altro riuscendo a farlo precipitare nella laguna di Grado. Mentre infuriava il combattimento, frazionato in tanti scontri parziali, l'ufficiale di collegamento al comando guida caccia di Tricesimo, Hauptman Wieler, richiamò con urgenza via radio i caccia italiani in difesa della loro base, perchè una formazione di B-24 si stava dirigendo su Campoformido. I Macchi virarono immediatamente verso nord ma i quadrimotori riuscirono a precederli, sganciando sulla base sia bombe di grosso calibro sia ordigni a frammentazione. Il pesante bombardamento provocò gravi danni agli impianti dell'aeroporto e la distruzione di numerose abitazioni alla periferia di Udine, causando perdite tra la popolazione civile. Quando i Macchi sopraggiunsero si accese un aspro combattimento con i Thunderbolt, che abbatterono il capitano Marco Marinone ed il sottotenente Luciano Cipiciani. Il tenente Luigi Torchio strinse troppo una virata a bassa quota, mise in stallo l'aereo e s'infranse contro una casa ai margini dell'aeroporto. Nel suo rapporto di combattimento, il 325° Fighter Group americano dichiarò l'abbattimento di sette Macchi, più due probabili, tra le 11.50 e le 12.30, contro la perdita di soli due P-47 ed i danneggiamento di altri due. Al Captain Herschel "Herky" Green furono attribuiti quel giorno sei abbattimenti, un Macchi (identificato come C.202), un Domier Do 217 e ben quattro trimotori da trasporto tedeschi Ju 52, che si erano levati in volo insieme con altri aerei nel tentativo di sottrarsi al bombardamento dell' aeroporto. La giornata del 30 gennaio segnò una data importante per il gruppo: da una parte questo aveva implicitamente dimostrato la sua efficacia, richiamando una pesante incursione nemica con la finalità di ridume l'aggressività, ma dall'altra aveva dovuto registrare perdite particolarmente dolorose. La mattina del 31 gennaio Visconti chiamò Gorrini e gli comunicò che c' era un ricognitore nemico, probabilmente un P-38 dello Squadron basato a Bari Palese, che si stava dirigendo su Campoformido per documentare gli effetti dell'attacco del giorno precedente. Sorridendo maliziosamente sotto i baffi, il comandante raccomandò a Gorrini: "Cerca di far fare una bella fotografia!". Gorrini corse all'aereo, decollò e fece quota più rapidamente possibile. Individuato il ricognitore grazie alla scia di condensazione, gli si diresse incontro a tutto motore. Quando il P-38 si avvide dell'attaccante, prima di giungere sopra Campoformido inverti la rotta, ma ormai Gorrini gli era in coda e lasciò partire una raffica che ando a segno. Il tettuccio de Lightning volo via e l' aereo cadde nella laguna di Comacchio. Non appena a terra, Gorrini cercò Visconti per annunciargli soddisfatto che questa volta la foto gliel'aveva fatta lui! Nelle settimane seguenti nuove incursioni di bombardieri americani tennero sotto pressione tutto il personale della base: gli avieri riempivano in fretta le buche lasciate dalle bombe per ripristinare più rapidamente possibile l' agibilita delle piste. I danni furono consistenti: nel corso del mese di febbraio cinque bombardamenti causarono la distruzione di otto Macchi ed il danneggiamento di trentasei: complessivamente furono sganciate 600 tonnellate di bombe ed oltre trentamila spezzoni a frarnmentazione del tipo "a spillo". Il 14, 16, 20 e 22 febbraio (due volte) Visconti eseguì partenze su allarme senza entrare i contatto col nemico. II 23 febbraio un doloroso incidente mise fuori combattimento per un lungo periodo il comardante di gruppo, maggiore Borgogno. Durante un volo d'addestramento il suo aereo fu colpito per errore da un Messerschmitt tedesco, costringendo il pilota a lanciarsi col paracadute. Fuori dall'abitacolo, urto con la spalla contro il timone di direzione, ferendosi malamente. L'atterraggio fù brusco e causò altri danni fisici. Portato a Campoformido, Borgogno fu curato dall'ufficiale medico, capitano Giuseppe Bendandi, e quindi trasportato a Bologna all'istituto Rizzoli, dove rimane ricoverato per un lungo periodo. Visconti assunse il comando interinale del gruppo, mentre quello della 1a Squadriglia fu affidato, sempre interinalmente, al tenente Robetto. Per ripristinare le condizioni di efficienza operativa, i piloti del gruppo ritirarono a Lonate Pozzolo numerosi Macchi C.205V di nuova produzione. In quei giorni venne clamorosamente alla luce il contrasto che divideva, presso gli alti comandi, gli ufficiali di sicura fede fascista dai personaggi, come Botto, che volevano tenere le questioni politiche fuori dalle forze armate. A seguito di un'accesa polemica con Farinacci, il 7 marzo 1944 il tenente colonnello Ernesto Botto, sottosegretario di Stato per l' Aeronautica, fù sollevato dal suo incarico e sostituito dal generale Arrigo Tessari, maggiormente incline ad accettare il predominio politico sulle questioni militari. Botto fu congedato con un freddo messaggio in cui gli si riconosceva un importante contributo alla nascita della Aeronautica Repubblicana. Un po' poco per un persoaggio del suo prestigio, che aveva saputo ridare entusiasmo e fiducia a centinaia di aviatori e delusi. La sua sostituzione aprì nella compattezza dei reparti una crepa destinata ad allargarsi nei mesi seguenti. Nonostante gli animi scossi, i piloti del 1° Gruppo non si sottrassero certo agli impegni morali che avevano assunto aderendo al banda Botto: dopo una partenza su allarme il giorno 8, senza intercettare il nemico, già il giorno 11 ripresero i combattimenti in difesa del nostro territorio. Agli ordini dei rispettivi comandanti, trentasei velivoli decollarono su allarme: alla guida della 2° squadriglia il tenente Amedeo Guidi aveva preso il posto del capitano Marinone, caduto nel combattimento del 30 gennaio, ed il tenente Mario Ligugnana aveva sostituito al comando della 3a il capitano Piero Calistri, passato al comando guida caccia. Era stata segnalata una formazione di B-24, diretta verso nord, scortata in quota da P-38 e, a quota più bassa, da P-47. Sulle foci del Po i caccia italiani avvistarono i quadrimotori americani e Visconti elaborò rapidamente una tattica d'attacco. Ligugnana avrebbe tenuto a bada i Lightning, mentre Guidi attaccava i bombardieri; Visconti avrebbe impegnato dal basso i Thunderbolt, con l'intento di scompaginarli, distraendoli dai compiti di scorta. La 1a Squadriglia seguì Visconti in un violento scontro con i potenti caccia americani, sei dei quali caddero sotto i colpi dei nostri piloti, a fronte di due caduti, i tenel Giovan Battista Boscutti e Guerrino Bortolani. I Thunderbolt abbattuti, appartenenti al solito 32 Fighter Group, furono attribuiti al capitano Visconti (giunto alla nona vittoria individuale), tenenti Antonio Weiss e Giovanni Sajeva, al maresciallo Luigi Morosi ed ai sergenti maggiori Domenico Laiolo e Alcide Zavatti. Nel frattempo anche le altre squadriglie facevano la loro parte: il tenente Remo Lugari, maresciallo Gino Giannelli ed il sergente maggiore Giuseppe Chiussi abbatterono un Liberator ciascuno, il tenente Bruno Cartosio un P-38, il tenente Amedeo Guidi ed il sergente maggiore Alverino Capatti un P-47 a testa. I sottotenenti Bruno Castellani e Andrea Stella furono abbattti: il secondo riuscì a salvarsi con un atterraggio d' emergenza nei pressi di Adria. Il "Checkertail clan" (il clan della coda a scacchi), come era stato soprannominato il 325° Fighter Group, dichiarò quel giorno tre perdite (contro gli otto P-47 attribuiti ai cacciatori italiani) e dieci abbattimenti (nove Bf 109 ed un MC.202), contro la perdita effettiva di quattro MC.205V. Si verificò in questa occasione, come in numerose altre, una notevole sopravvalutazione dei risultati del combattimento, da entrabe le parti. Il 18 marzo la postazione "Wassermann" avvistò sul cielo di Pola la solita formazione di bombardieri scortati da caccia, diretta verso il Friuli, e la segnalò al JG77 ed al 1° Gruppo. I Bf 109G-6 del Geschwaderkommodore Steinhoff ed i Macchi 205V del comandante Visco decollarono rispettivamente da Lavariano e da Campoformido per intercettarla. Il combattimento si sviluppò su Casarsa: tre P-47 della scorta caddero sotto i colpi del sottotenente Stella, del maresciallo Benati e del sergente maggiore Marconcini. Due di queste perdite, i Thunderbolt pilotati dai Lieutenants Davis e Hackett, furono ammesse dagli americani. Lo scontro proseguì con l' attacco in cabrata ai bombardieri: tre Liberator precipitarono, abbattuti dal tenente Robetto (il B-24 cadde a nord ovest di Lubiana) e dai sergenti maggiori Rodoz e Svanini. Un quarto fu attribuito al maresciallo Morosi in collaborazione con un pilota tedesco, che poi si scoprì essere lo stesso Steinhoff. Molti membri degli equipaggi dei B-24 riuscirono a salvarsi lanciandosi fuori dagli aerei in fiamme: Rodoz ne vide addirittura due che scendevano insieme, uno regolarmente appeso al paracadute e l' altro strettamente avvinghiato al primo. Si seppe poi che entrambi si erano salvati. Visconti partecipò al combattimento sparando 300 colpi e mitragliando quattro velivoli, senza poter accertare i risultati della sua azione. L' esito dello scontro, nel quale aveva perso la vita il sergente maggiore Zaccaria, mentre il tenente Cavatore ed il sergente maggiore Gorrini erano usciti incolumi da atterraggi di emergenza, era stato favorevole ai nostri. Per la prima volta i cacciatori americani del 325° Fighter Group identificarono correttamente i loro avversari come MC.205. Le incursioni distruttive dei bombardieri americani sulle basi di Campoformido, Lavariano Villaorba e Maniago si intensificarono, con lo scopo di neutralizzare i reparti da caccia italo-tedeschi. A Campoformido, per evitare le buche, vennero realizzate strisce provvisorie di decollo, contrassegnate da picchetti, e venne attuato un accurato piano di decentramento dei velivoli, disposti in ricoveri paraschegge per salvarli dai colpi indiretti. Il 22 e il 23 marzo Visconti partì su allarme per intercettare formazioni di bombardieri segnalate sull'Italia centrale e sull'Istria, ma non riuscì ad entrare in contatto balistico per le avverse condizioni meteorologiche. Il 24 marzo il contatto a fuoco ci fù, nella zona di Trieste - Monfalcone: Visconti mitragliò efficacemente tre quadrimotori, il sergente maggiore Rodoz riuscì ad intercettare ed abbatte uno, mentre Robetto, Cavatore e Sajeva ne abbatterono in collaborazione un altro. Adriano Visconti - Asso di guerra
  10. ADRIANO VISCONTI - Asso di guerra racconta la storia appassio­nante di uno dei più valorosi piloti italiani dell'ultima guerra. Frutto di lunghe ricerche, questo volume, corredato da una sessantina di foto, quasi tutte inedite, e basato sulla consultazione dei documenti ufficiali, dispersi in vari archivi, e sulle molte testimonianze raccolte dagli autori tra chi conobbe direttamente Visconti, condividendone esperienze ed emozioni. Ne esce il ritratto di un uomo d'altri tempi coraggioso e tutto d'un pezzo, spigoloso e tenero insieme, animato da un sincero amore per la sua terra e da una incrollabile volontà di difenderla. La sua ingiusta uccisione, avvenuta il 29 aprile 1945, a guerra finita, concluse tragicamente la sua vita generosa di silenzioso eroe. . Giuseppe Pesce, ufficiale pilota in s.p.e. dal 1939 a1 1980, ha partecipato alla guerra di Liberazione 1943 ­1945, come comandante di una squa­driglia da caccia. Ha comandato vari reparti dell' Aeronautica Militare Italiana ed e stato poi nominato Sottocapo di Stato Maggiore. E' stato infine Ispettore Generale delle forze aeree ed ha fondato, come storico, il Museo Aeronautico di Vigna di Valle. Ha pubblicato una ventina di libri di storia e tecnica aeronautica. Giovanni Massimello, ingegnere, è nato e lavora a Milano. Il suo interes­se per l' aviazione risale ai primi anni del dopoguerra quando uno zio, pilota militare, lo teneva sulle ginocchia. Da allora ha sempre co1tivato per aeropla­ni e aviatori un interesse tenuto gelo­samente separato dalla sua attivita professionale. Ha scritto, in particola­re su "STORIA militare", numerosi articoli dedicati ai piloti delIa seconda guerra mondiale e continua a racco­gliere, su questo tema, documenti e testimonianze.
  11. La storia dell' XF5U-1 Flying Flapjack, Fliegende pfannkuchen, Crèpe Volante. Quando il nuovo rivoluzionario caccia imbarcato fu presentato dalla Chance-Vought nel giugno 1946, questi appellativi sorsero spontanei indipendentemente dalle lingue. Se in ltalia fosse stato più noto sarebbe stato senz'altro ribattezzato Pizza Volante. La guerra mondiale appena terminata aveva visto apparire diversi aerei di aspetto inusuale, ma tutte le stranezze aeronautiche erano un inno all'ortodossia in confronto a questo aereo a forma di focaccia e alle prestazioni che gli venivano attribuite. L'XF5U-1 fu un tentativo, nel campo della progettazione aeronautica, piuttosto avventuroso: un aereo da combattimento rivoluzionario destinato a non poter provare praticamente le sue possibilità: gli eventi cospirarono per portare il meno ortodosso dei caccia ad elica a una fine prematura. Mentre l'intero programma XF5U fu classificato «Confidenziale» dal suo inizio nel 1939 fino a che la sua esistenza fu rivelata nel 1946, l'aspetto radicalmente nuovo del Caccia Chance-Vought non sorprese molti, in quanto il suo sviluppo era diventato una specie di segreto scoperto dopo le prove di un simulacro volante condotte parallelamente alla costruzione del prototipo. Questo, il V-173, era stato per diversi anni abbastanza facilmente visibile nei cieli del Connecticut. Infatti a ogni rullaggio e decollo assisteva una piccola folla di automobilisti che percorrevano le statali intorno all'aeroporto: non si sapeva però, che il lavoro preliminare risaliva a una decina d'anni prima dell'inizio dei collaudi del V-173. Il Chance-Vought XF5U-1 fu uno sviluppo delle ricerche pionieristiche nel campo delle ali a basso allungamento iniziate da Charles H. Zimmerman nel 1933 quando era uno studioso di aerodinamica della Stability and Control Section del Langley Memorial Aeronaut ical Laboratory della NACA. Le ricerche di Zimmerman rivelarono che le ali a bassissimo allungamento, da lungo tempo trascurate per la loro inefficienza teorica, erano potenzialmente più efficienti delle ali convenzionali grazie alla miglior portanza e minore resistenza. Poichè la principale perdita di efficienza aerodinamica risultava da vortici d'estremita prodotti da aria proveniente dalla superficie inferiore. Zimmerman concepì l'idea di utilizzare eliche montate alle estremità e rotanti in verso opposto ai vortici prevedendone così la formazione. In questo modo l'equivalente aerodinamico di un allungamento 4 poteva essere ottenuto con allungamento geometrico 1. Con un'ala quasi circolare per la portanza ad alta velocità e in volo di crociera unita ad eliche di grande diametro destinate a intervenire a bassa velocità e a punto fisso,Zimmerman ritenne di poter ottenere un'estesissima gamma di velocità e colse l'opportunita offerta da un concorso interno NACA per aerei leggeri di nuova formula per incorporare le sue idee in quello che decenni dopo sarebbe stato definito un convertiplano. Pur essendo ritenuto il migliore in fatto di originalità e ingegnosità aerodinamica, il progetto di Zimmerman fu scartato da ogni ulteriore sviluppo essendo ritenuto troppo avanzato. Non sconfitto Zimmerman, con due amici operai della NACA, John McKellar e Richard Noyes, lavorò nel suo tempo libero per dimostrare la fattibilità della sua idea e nel 1935 completo un modello in scala pilotato con apertura di circa 2,15 m, in legno, propulso da due motori francesi Cleone da 25 HP raffreddati ad aria. Il pilota avrebbe dovuto stare prono all'interno del profilo alare, ma costanti difficoltà con i motori a due tempi che non riuscivano a girare allo stesso regime convinsero Zimmerman ad abbandonare l'idea e dedicarsi a modelli in scala minore, come quello con apertura di 50 cm e propulsione ad elastico realizzato nell'autunno del 1936. Il modellino si comportò secondo le previsioni e dopo la proiezione di riprese filmate per i dirigenti della NACA fu suggerito di interessare all'idea di Zimmerman le forze armate e l'industria. Fu Eugene Wilson della United Aircraft Corp. (di cui la Chance-Vought era una division) a interessarsene, e, nell'estate del 1937, Zimmerman fu assunto dalla ditta di Stratford (Connecticut). Qui costruì un modello propulso elettricamente da 90 cm di apertura, il V-162, fatto volare all'interno di un hangar mediante comandi a distanza, che diede ampia dimostrazione di possibilita eccezionali. II 30 aprile 1938 Zimmerman ottenne un brevetto per un aereo utilizzante l'ala a bassissimo allungamento in grado di ospitare un pilota e due passeggeri sdraiati nello spessore alare e con due motori installati alle estremità ma collegati tra loro. Tuttavia l'interesse della Chance-Vought fu solo connesso con le prospettive militari della formula e dello stesso parere era il Bureau of Aeronautics dell'US Navy che promise i fondi necessari per la costruzione di un prototipo volante e pilotato. All'inizio del 1939 erano in corso la progettazione e gli studi aerodinamici con finanziamento dell'US Navy e i primi disegni del V-173 furono sottoposti al Bureau of Aeronautics il 7 marzo. Un mese più tardi il Bu.Aer. chiese alla NACA una valutazione del progetto e l'11 luglio richiese alla Chance-Vought la costruzione di un modello volante del V -173 che incorporasse le risultanze delle prove effettuate dalla NACA con un modello in scala 1 :8,75 a volo libero e uno con apertura di 61 cm provato alla galleria del vento. Il V-173 impiegava una struttura in legno alquanto complessa ma leggera con rivestimento in tela ed era propulso da due motori Continental A-80 da 80 HP a quattro cilindri contrapposti. L'ala, la cui pianta era definita da due ellissi sistemate in modo che l'asse maggiore di una coincidesse con quello minore dell'altra, comprendeva la struttura principale eccetto l'abitacolo e i piani di coda, costituiti da doppia deriva e direzionali convenzionali ed elevoni (alettoni ed elevatori combinati) per il controllo laterale e longitudinale; questi ruotavano su di un asse disposto intorno al 25% della corda. L'ala del V-173 aveva un'apertura di 7,11 m e un'area di 39,67 mq, con profilo simmetrico NACA 0015. La lunghezza totale era 8,13 m e l'altezza 3,94 m. I motori A-80 muovevano eliche tripala di 5,03 m di diametro e, per ragioni di semplicità costruttiva, il carrello era fisso. Data la natura rivoluzionaria del V-173, fu deciso di svolgere prove al tunnel sulla macchina reale al Langley Field prima di iniziare i collaudi in volo; il prototipo fu pronto per la consegna alla NACA il 15 settembre 1941 e nel dicembre successivo venne il suo turno per le prove in galleria. Queste dimostrarono che l'alta resistenza indotta dell' ala a basso allungamento sarebbe stata parzialmente compensata dalla favorevole interazione delle eliche di grande diametro compensando la resistenza con l'efficienza propulsiva; l'effetto delle eliche equivaleva a un aumento dell'apertura alare grazie all'aumento del flusso d'aria il cui momento verso il basso era determinato dalla portanza; la riduzione della resistenza indotta e l'incremento dell'efficienza propulsiva dipendevano solo relativamente dalla direzione di rotazione delle eliche e dei vortici d'estremità, e la sistemazione delle eliche generava una grave riduzione della stabilità longitudinale a causa della portanza prodotta e del flusso rotante sulla coda. Il bizzarro aereo termino le prove al tunnel aerodinamico e fu riportato a Stratford, e dopo alcune settimane di rullaggi e prove a terra il V-173 fu finalmente portato in volo il 23 novembre 1942 dal capo collaudatore della Vought, Boone T. Guyton. Le forze sulla barra risultarono eccessive durante i 13 minuti del primo yolo ma apparve possibile ridurli durante le prime fasi dei collaudi, e variando il passo delle eliche e potenziando leggermente i motori le prestazioni furono progressivamente migliorate. Guyton scoprì che a pieno regime e con la «cloche» tutta indietro e un assetto di circa 45° era possibile mantenere il controllo laterale e longitudinale e durante tutto il programma di voli, nel quale Guyton ebbe la collaborazione di Richard Burroughs, Charles A. Lindbergh e diversi piloti della marina, risultò impossibile convincere il V-173 ad andare completamente in stallo o iniziare una vite. Con un peso totale di 1.383 kg al quale il V-173 normalmente volava, lo strano aereo era indubbiamente sottopotenziato, un fatto che tendeva a limitare il programma di volo e contribuì ad almeno due atterraggi d'emergenza richiesti durante le 131 ore di volo accumulate dal V-173. In un'occasione, con Richard Burroughs ai comandi, un «vapour lock» nell'impianto carburante costrinse a un atterraggio forzato a Lordship Beach (Connecticut), le ruote sprofondarono nella sabbia morbida e l'aereo capottò quando il pilota cercò di evitare un bagnante. In un'altra occasione il V-I 73 atterrò sul campo da golf Mill River di Stratford, ma grazie alla sua estremamente bassa velocità di atterraggio non riportò in nessun caso gravi danni. Il carrello altissimo dava al V-173 un angola con il suolo di 22° 15' e il pilota prendeva posto attraverso una botola sotto il lato destro della cabina. La visibilità anteriore era quasi nulla fino a che la coda non si alzava dalla pista e, poichè era installato un seggiolino convenzionale, la necessita del pilota di sporgersi in avanti per leggere gli stumenti gli causava un certo affaticamento. Furono installati pannelli trasparenti davanti ai piedi del pilota per permettergli la visione durante l'atterraggio ma risultarono poco utili. In condizioni normali il V-173 si alzava in 60 m e poteva decollare verticalmente con vento contrario a 46 km/h. Poteva raggiungere una quota di oltre 1.500 m in 7 min e la massima velocità registrata durante i collaudi fu di 222 km/h a livello del mare. La frittella» da combattimento Dall'inizio del programma presso la Chance-Vought, Zimmerman e i suoi non persero di vista l'obiettivo di fornire all'US Navy un aereo da combattimento rivoluzionario, il VS-315, di cui il V-173 era in fondo il simulacro volante costruito mentre procedeva la progettazione del caccia. Il 16 settembre 1941, il giorno dopo l'approntamento del V-173 per la consegna alla NACA, la Chance-Vought ottenne dall'US Navy un contratto per lo studio degli alberi di trasmissione eliche-motori del VS-315 e, il 19 gennaio 1942, a seguito dei risultati soddisfacenti al Langley Field, il Bu. Aer. richiese alla Chance-Vought un'offerta per due prototipi del caccia, cui fece seguito tre settimane dopo quella per un modello in scala 1:3. Nel maggio 1942 il lavoro al VS-315 ebbe un nuovo impulso quando il «team» di Charles Zimmerman fu raggiunto dall'ingegnere progettista E.J. Greenwood e il 30 giugno la Chance•Vought sottopose la sua proposta informale al Bureau of Aeronautics che gli assegnò la designazione ufficiale XF5U-1 il 10 settembre,mentre la settimana successiva arrivo una lettera d'intento per due prototipi. Mentre la maggior parte dei progettisti dell'epoca non aveva saputo creare caccia il cui rapporto tra velocità d'atterraggio e massima fosse superiore a 1:5; Zimmerman previde una fenomenale gamma di velocita tra 64 e 684 km/h per il suo XF5U-1 che diventavano 32-740 km/h con l'incremento di potenza fornito dall'iniezione d'acqua. Tuttavia, prima di ottenere questi risultati, Zimmerman avrebbe dovuto risolvere diversi problemi peculiari dell'aereo e parte di questi comportava nuove soluzioni e ulteriore lavoro di sviluppo e costruzione. Un grosso sforzo fù la progettazione di speciali pale per le eliche in quanto l'XF5U-1 a bassa velocità avrebbe assunto alcune caratteristiche dell'elicottero in quanto, alla massima potenza, il pilota avrebbe potuto «sedere» il suo caccia sulla coda facendolo restare appeso alle eliche. Le prime prove del V-173 avevano rivelato che vibrazioni di grande ampiezza si trasmettevano attraverso la leggera struttura dalle eliche all'abitacolo, come risultanti dei carichi ciclici imposti alle pale dal flusso d'aria asimmetrico ad elevati angoli d'attacco. Ciò porto a uno stretto contatto tra i progettisti della Chance-Vought e quelli della consorella Hamilton Standard per inventare speciali mozzi che scaricassero i carichi delle pale articolate formate da legno compresso e trattato chimicamente applicato a un' anima d'acciaio. Le pale adottavano principi simili a quelle dei rotori degli elicotteri e, in prossimità del mozzo, apparivano molto larghe. Problemi per le eliche La trasmissione delle eliche fù sviluppata in cooperazione con la Pratt & Whitney (anch'essa divisione della United) che aveva realizzato i due motori R-2000-7 Twin Wasp radiali a 14 cilindri raffreddati ad aria, «annegati» nell' ala ai lati dell'abitacolo e collegati alle eliche mediante un sistema di trasmissione ad angola retto con un riduttore con rapporto 5: 1 e speciali frizioni per permettere a un solo motore di far girare, in emergenza, le due eliche. L'albero angolato a una sola velocità passante attraverso l'abitacolo e la notevole complessita del sistema costituirono per il gruppo della Chance-Vought il problema più serio di tutto il programma. Le eliche, rotanti in direzione opposta con le pale interne in movimento verso l'alto, erano collegate ad alberi passanti in gondole sporgenti dalle estremita alari. Poichè gli angoli di attacco elevati sarebbero stati mantenuti a lungo in volo dall'XF5U-1, grande cura dovette essere posta anche nella progettazione dell'impianto carburante e lubrificante per permettere loro di funzionare con questi assetti per un periodo indefinito. La configurazione dell'XF5U-1 seguiva da vicino quella del V-173, con una sistemazione similare per gli elevoni e le alette di correzione ( trim tabs) estese per il 70% del bordo d'uscita alare. L'abitacolo era un guscio completo e gli elementi del carrello principale, che davano all'XF5U-1 un'inclinazione al suolo di 18°43', comprendevano due gambe singole con ammortizzatori oleopneumatici a grande escursione e doppie ruote di piccolo diametro rientranti verso l'indietro nello spessore alare. La maggior parte della superficie e della struttura alare interna era composta di Metalite, un sandwich di balsa e alluminio che costituiva una soluzione costruttiva molto robusta e abbastanza leggera. Un modello in legno in scala 1:1 dell'XF5U-1 fù pronto per l'esame del Bu .Aer. a Stratford il 7 giugno 1943 e, dopo diverse modifiche, passo l'esame finale il 9 agosto, ma il contratto definitivo per i due prototipi non fù firmato che il l5 luglio 1944. Questo prevedeva che il primo aereo fosse dotato di due motori R-2700-7 da 1.350 HP a 2.700 giri/min al decollo e 1.100 HP a 2.550 giri/min e il secondo di due XR-2000-2 con compressori Wright. Il primo prototipo non doveva ricevere armamento, ma fu previsto il montaggio di tre mitragliatrici da 12,7 mm per lato sui fianchi dell'abitacolo con 400 colpi per arma e la possibilità di sostituire le quattro inferiori con cannoni da 20 mm. Il primo XF5U-1 uscì di fabbrica il 25 giugno 1945, quando la Chance-Vought aveva gia richiesto il permesso per utilizzare il Muroc Dry Lake che con le sue particolari attrezzature ben si adattava a una macchina altamente sperimentale e con problemi non ancora risolti. In precedenza, il 24 marzo, la ditta aveva anche riassunto i costi sostenuti chiedendo una revisione del contratto e successivamente proponendo la riduzione di alcune voci (come il programma delle prove in volo e statiche) per diminuire i costi. Dotato temporaneamente di eliche Hydromatic prelevate da F4U-4 Corsair, l'XF5U-1 fu pronto a far girare i motori il 20 agosto 1945, mentre si prevedeva che il primo volo sarebbe avvenuto entro il settembre 1946; il secondo prototipo era stato assegnato alle prove statiche. Vi furono dei ritardi nella consegna delle eliche a pale articolate, disponibili solo nel 1947. Boone Guyton e William Miller, sempre della Chance-Vought, avevano completato le prove a terra e l'XF5U-1 era pronto per essere spedito attraverso il Canale di Panama a Muroc in California, quando si abbattè la mannaia. Il turboreattore infatti si era affermato e non c'era più posto nell'US Navy per caccia ad elica, benchè rivoluzionari. Inoltre l'aviazione navale manifestava problemi finanziari e tra le ovvie economie ci fu l'XF5U-1. Così non seguirono ulteriori finanziamenti e fù data istruzione di demolire il prototipo; disposizione che fu eseguita nel 1948 dopo il recupero dei motori ed altri equipaggiamenti. Contemporaneamente il simulacro volante V-173 fu ceduto all' Air Museum della Smithsonian Institution. Così il caccia ad elica meno ortodosso mai costruito chiuse i suoi giorni senza aver potuto dimostrare le sue doti. Aerei ,Novembre 1973
  12. Dave97

    Auguri!

    AUGURI !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
  13. all'attacco di Bougie L'8 novembre nel pomeriggio, l'intero Gruppo Buscaglia decolla da Castelvetrano con meta la rada di Algeri che dista 900 km. L'intendimento è quello di arrivare addosso alle navi al calar del sole contando sulla limitata visibilità in quel momento. Si incontrano estesi piovaschi che rendono difficile il volo e aumentano il consumo di carburante; alle 18.05, mentre sta sopraggiungendo il buio, Buscaglia dà ordine di rientrare; insistere può essere un rischio perché il limite di autonomia per il rientro è troppo vicino. E infatti la decisione si dimostra saggia quando, riavvicinandosi a Castelvetrano, la base comunica per radio che sull'aeroporto è in corso un'azione inglese per cui si ordina di atterrare a Gerbini. Visto che nell'Africa francese non c'è opposizione, il giorno 10 le forze d'invasione allestiscono due convogli per un nuovo balzo via mare fino a Bougie, con un'adeguata scorta di navi da guerra che comprende anche la portaerei ARGUS. Bougie si trova a 700 km dalla Sicilia e a meno di 500 dalla Sardegna; gli aerei italiani e tedeschi vi si avventano subito, e i primi a partire sono quelli del 132° Gruppo, ai quali viene assegnato il compito di colpire i piroscafi attraccati ai moli per lo scarico delle truppe e dei mezzi. Buscaglia decide come al solito di guidare la pattuglia e prende con sé gli inamovibili Graziani e Faggioni col «nuovo» Angelucci. Il comandante intende ripetere la tattica già usata insieme col Cap. Erasi nell'attacco a Suda del dicembre 1941; invece di arrivare a Bougie dal mare, sbucherà sul porto dalla parte di terra. Durante i preparativi per il decollo la tensione degli animi è più forte del solito perché gli equipaggi che partono e quelli che restano hanno ben capito il rischio dell'impresa. Faggioni ha con sé uomini collaudati da tante prove vissute in comune: secondo pilota Borghi, motorista Facca, marconista Capaldi, armiere Gianni, fotografo Vascellari. I quattro aerei decollano di seguito e si avviano nella formazione «a quattro dita»: davanti Buscaglia, gregario di sinistra Graziani, primo gregario di destra Faggioni e secondo Angelucci. Arrivati all'altezza dell'isola di La Galite, accostano in direzione sud ed entrano nel territorio della Tunisia, procedendo poi verso ovest bassi sul terreno per non richiamare l'attenzione dei radar. Il tempo, che alla partenza era ottimo, va rapidamente peggiorando e un gran temporale investe gli aerei tra le montagne; Angelucci, che è il più giovane d'anni e di esperienza, stenta a tenersi in contatto. Raggiunto il punto previsto, la pattuglia punta a nord per superare la catena montagnosa e quindi buttarsi in picchiata e arrivare a est della rada di Bougie. Gli aerei filano alla massima velocità uno dietro l'altro e la sorpresa sostanzialmente riesce perché la contraerea tarda a mettersi in azione, ma un velivolo tedesco che vola in alto, un bimotore Me 210, vedendo i quattro apparecchi arrivare dalla parte di terra li crede inglesi o americani e picchia su loro. Si mettono in allarme tutte le unità in mare e arriva subito una formazione di caccia decollati dalla portaerei. I 79 si stringono per difendersi, sono già sul mare aperto, Buscaglia esegue una virata sinistra per entrare nella rada, i caccia li abbandonano affidandoli alla contraerea delle navi e di terra: «La baia di Bougie si presentò ai nostri occhi terrificante. Le navi erano tante, tante, tante.» La cintura del naviglio che incrocia nella baia ha già inquadrato gli aerei e il fuoco è subito serrato, i 79 passano sulle navi da guerra a 50-60 metri di quota in mezzo a una girandola di colpi quale mai s'era vista, incassano e tirano diritto: «... quanto videro i miei occhi in quel languido pomeriggio dell'11 novembre 1942 non ha mai avuto possibilità di confronto in missioni precedenti e successive. » È in questa fase che, tra il fumo delle cannonate, si vede l'aereo di Angelucci prender fuoco, staccarsi e precipitare; andrà ad esplodere sulle colline, e le salme dell'equipaggio verranno trasportate in Italia nel 1984. I tre 79 sganciano quasi contemporaneamente sulle navi alla banchina e sono subito a ridosso delle case e della conca montuosa di Bougie; per uscire dal girone infuocato devono virare stretto a sinistra in una forte cabrata che li porta a sfiorare le rocce. Faggioni, che è sulla destra, giunto al limite di velocità si lascia andare in scivolata d'ala e passa sotto i suoi compagni portandosi all'interno della formazione, Buscaglia lo imita e la pattuglia inverte così le posizioni. Sono i tre piloti più esperti tra gli aerosiluranti italiani, e ora devono riattraversare il porto a volo radente per riguadagnare il mare aperto. Incassano altri colpi senza gravi conseguenze, gli uomini respirano ma non è finita perché li aspetta di nuovo la caccia. I tre volano strettissimi a non più di un metro dalla superfice del mare e riuniscono tutto il volume di fuoco delle mitragliere dorsali e laterali contro gli aerei attaccanti che devono puntare dall'alto e non possono sfruttare per intero la superiore velocità per il rischio d'infilarsi in mare. I 79 filano a tutta manetta, gli specialisti inquadrano i caccia nei mirini e sparano lunghe raffiche, dopo una decina di minuti di combattimento, quando i caccia se ne vanno, affermano che due velivoli avversari, colpiti dalle armi di bordo o presi nei vortici delle scie, sono finiti in acqua. Il rientro avviene a velocità alquanto ridotta causa i danni riportati. Arrivati sul campo, Faggioni fa segno che desidera atterrare per primo, lo segue Buscaglia e poi Graziani. C'è il solito affollarsi di quelli che chiedono notizie, Buscaglia esamina i danni del suo aereo, che sono piuttosto vistosi. È qui che succede quello che nessuno si aspettava: Faggioni con la faccia tirata si avvicina a Buscaglia e gli dice senza mezzi termini che l'attacco non doveva essere condotto in quel modo, che così si andava a morire inutilmente. Il disciplinatissimo Faggioni, l'ufficiale che non ammette il minimo strappo al regolamento, ha iniziato la sua protesta in maniera tutt'altro che regolamentare alla presenza di ufficiali, sottufficiali, avieri. Buscaglia non risponde. Anche i compagni di equipaggio di Faggioni esprimono con calore la stessa opinione del loro pilota. Si mette in mezzo Graziani che cerca di portare Faggioni lontano dall'affollamento perché sfoghi la collera solo con lui. Buscaglia, che si è mantenuto tranquillo, si avvia al comando. Il parere di Faggioni è semplice: l'attacco non doveva essere portato all'interno di un porto tanto ristretto con una rada così fittamente pattugliata da navi da guerra; solo una fortuna enorme aveva permesso che tre equipaggi su quattro tornassero a casa, e la fortuna era dovuta all'inesperienza degli americani che, ancora alle prime prove in fatto di guerra, avevano effettuato il tiro in caccia, cioè puntando tutti direttamente sui bersagli volanti: se avessero fatto il tiro di sbarramento come da tempo usavano gli inglesi, nessuno sarebbe uscito da Bougie. Faggioni aveva sostanzialmente ragione, e ciò che avvenne nei giorni seguenti lo dimostrò; le difese attive e passive che gli angloamericani potevano mettere in campo erano tanto forti che i nostri aerei dovettero rinunciare agli attacchi di giorno per non compiere un inutile suicidio collettivo. I tre apparecchi tornati da Bougie furono consegnati per le riparazioni allo S.R.A.M. e poterono essere ripresi in squadriglia solo quattro mesi dopo. Le foto eseguite durante l'azione dimostrarono che due piroscafi erano stati silurati; gli americani lo confermarono a Graziani dopo l'armistizio: si trattava dei trasporti AVATEA e CATHAY. Durante il rapporto al comando di gruppo, Graziani cercò di minimizzare la protesta di Faggioni, ma non potè fare a meno di entrare in polemica col suo comandante quando mise in evidenza che il parere degli ufficiali era quello di effettuare le azioni nelle ore più favorevoli intorno al tramonto, soprattutto per evitare o limitare gli attacchi della caccia che si erano dimostrati molto pericolosi. Buscaglia oppose varie ragioni per sostenere la tesi degli attacchi diurni: la possibilità di volare in formazione stretta per respingere gli assalti dei cacciatori, le migliori probabilità di cavarsela nell'eventualità di un ammaraggio, le difficoltà del ritorno di notte. La discussione fu lunga e poco conclusiva. Buscaglia doveva avvertire il senso dell'isolamento nel quale era venuto a trovarsi ma, tutto chiuso nel cerchio della sua volontà d'acciaio, non poteva cambiar parere. Alla tremenda responsabilità che gli gravava addosso, alla perdita di tanti cari amici, alla constatazione che la lotta diveniva sempre più aspra reagiva rendendo più dura e salda la sua determinazione di andare fino in fondo. La cena, che avvenne in un penoso silenzio, mostrò tutta la tensione di quella giornata tormentosa. Tratto da : Carlo Faggioni e gli aerosiluranti Italiani
  14. Dave97

    Tupolev 144

    La storia del Tu-144 è in molti aspetti simile a quella del Concorde, visto che anche il velivolo russo ha subito una notevole evoluzione dalla sua prima apparizione sotto forma di modello al Salone Internazionale di Parigi del 1965 fino allo stadio attuale, evoluzione che ha allungato i tempi di produzione inizialmente previsti e che non è detto sia giunta al suo punto finale. . Infatti, dopo la nascita «ufficiale» del Concorde alla fine del 1962, erano in molti a chiedersi cosa avrebbero fatto i russi e a chi avrebbero eventualmente affidato la realizzazione di un supersonico civile. La risposta, a posteriori, appare logica: non era stato forse il «team» guidato da Andrej Nikolaievic Tupolev a creare velivoli supersonici di rilievo come il bombardiere Tu-22 e velivoli civili di ottima riuscita come il Tu-104 (primo aviogetto commerciale del mondo), il Tu-114 (il più grande turbo elica commerciale del mondo), e i più recenti Tu-124, -134 e -154? L'obiettivo che si propose Alexej Andreevich Tupolev, figlio dell'accademico e direttore della produzione del Tu-144, era estremamente simile a quello dei progettisti anglo-francesi, cioè la realizzazione di un velivolo capace di raggiungere Mach 2 basandosi su formule e tecnologie avanzate ma già sperimentate (con l'esclusione quindi praticamente a priori dell'ala a geometria variabile o di altre configurazioni inconsuete che avrebbero caratterizzato alcuni progetti americani), senza far uso di materiali di difficile lavorabilità o reperibilità o comunque particolarmente costosi. Dati i fini comuni, il risultato non poteva che essere simile, dando adito ad incredibili storie di spionaggio, storie che oggi appaiono ancora più assurde se notiamo come la somiglianza dei profili dei due velivoli è andata sempre più eguagliandosi col procedere dei collaudi, il che prova appunto che essendo eguali i problemi presentati da un velivolo destinato al trasporto di passeggeri a velocità bisonica dovevano necessariamente essere eguali - o quasi - le soluzioni offerte dalla tecnologia attuale. Dopo un periodo di studi teorici che portarono a fissare definitivamente il limite del Mach a 2,2-2,3 (oltre il quale si imponeva l'uso massiccio del titanio) e all’adozione quasi automatica della formula con ala a delta, e dopo i consueti studi statici e su modelli in scala, vennero impostati quattro prototipi, uno dei quali doveva però servire unicamente per prove strutturali, di resistenza e di rottura. Inoltre, per le prime prove aerodinamiche in volo, venne modificato un caccia MiG-21 definito Analog sostituendo ali e piani orizzontali di coda con una riduzione in scala appropriata dell'ala a delta ogivale disegnata appositamente per il supersonico. I numerosi voli compiuti da questo particolare aereo fornirono dati molto precisi sul comportamento dell'ala alle alte velocità, che furono sfruttati immediatamente portando alla modifica dei prototipi ancora in costruzione. In questo periodo, i progettisti del Tu-144 dichiararono che il loro aereo avrebbe volato entro il 1968. Come sopra accennato, nel 1965 i russi esposero un modellino in scala del loro supersonico al Salone di Parigi, dichiarando che l'aereo avrebbe avuto una velocità di 2.500 km/h (Mach 2,35) ad una quota compresa fra i 15,000 e i 20.000 metri, un’ autonomia di 6.500 km senza scalo, un peso massimo al decollo di 130.000 kg e una capienza di 120 passeggeri. Questi dati apparvero agli osserervatori occidentali quanto meno ottimistici. Due anni dopo, sempre a Parigi, un nuovo modello in scala rivelò alcuni cambiamenti nella struttura del bisonico: i motori, dapprima raggruppati in un unico «contenitore» al centro della fusoliera, apparvero divisi in due coppie disposte sotto le ali presso l'unione con la fusoliera e dotati di prese d’aria a condotti separati, evidentemente – si pensò allora - perché la vicinanza dei motori aveva creato notevoli problemi di surriscaldamenento del pavimento della fusoliera stessa. A questo punto data la lentezza con cui procedeva il Concorde e la totale mancanza di informazioni circa lo stadio cui erano giunti i lavori sul Tupolev, gli osservatori occidentali erano ancora propensi a giudicare ottimistici i dati forniti dai russi. Questi ribadirono che il primo volo sarebbe avvenuto entro il 1968. - Nessuno ci credette ! - Ma nell 'aprile del '68, il primo scacco: i tecnici francesi ed inglesi quasi non credettero ai propri occhi quando, esaminando una fotografia divulgata da fanti ufficiali dell'URSS con un primo piano del nuovo «liner» Tu-154 mentre completava le prove e in uno stabilimento presso Mosca, scorsero sul fondo la sagoma inconfondibile del Tu-144 apparentemente finito e persino già verniciato! L'aereo era stato infatti assemblato nelle officine Zhukovsky, (presso Mosca), e qui effettuò anche le prove a terra, dopodiché - il 31 dicembre 1968 - effettuò felicemente il suo primo volo.. Fu un successo enorme per i russi, che erano riusciti a mantenere sia pure in extremis le loro promesse precedendo di due mesi i loro avversari che pur erano partiti in anticipo! In questo primo volo il velivolo (che portava l'immatricolazione SSSR-68001) mantenne il muso fissato in posizione abbassata e il carrello estratto, e per tutti i 38 minuti della sua durata le complesse apparecchiature elettroniche installate a bordo registrarono e contemporaneamente trasmisero a terra i dati relativi al comportamento dell'aereo. L'equipaggio era composto da: - piloti collaudatori Eduard Y. Elyan ( comandante) e Michai! Kozlov (secondo pilota) - ingegneri Juri Selivestrov (tecnico di volo) e Vladimir Benderov (addetto agli apparati elettronici aggiunti). Un secondo volo della durata di 50 minuti avvenne con successo l '8 gennaio successivo. Le prove in volo e a terra continuarono senza apparenti inconvenienti, e il 21 maggio sull'aeroporto di Sheremetyevo (sempre presso Mosca) il velivolo venne presentato per la prima volta ai giornalisti accreditati. In questa occasione da parte dell'Aeroflot venne affermato che erano stati già ordinati 20 esemplari del nuovo aereo, la cui produzione era già cominciata. Sempre in tale occasione il Tu-144 compì un volo dimostrativo di circa 90 minuti (che anticipava la prossima presentazione a Parigi) pilotato dal com. Elyan, il quale confermò che il bisonico - nell'attuale fase dei collaudi - non aveva ancora raggiunto la velocità del suono. Solo il 5 giugno 1969, infatti, il Tu-144 raggiunse e superò il limite di Mach 1, in un volo durato più di 90 minuti e a circa 11.000 m di quota. E doveva passare ancora più di un anno prima che il velivolo, sempre pilotato da Elyan, superasse il limite di Mach 2, raggiungendo una velocità di 2.150 km/h (Mach 2,02) a 16.300 m di quota. Era il 26 maggio 1970, e il Tu-144 era il primo aereo civile bisonico del mondo: terzo scacco al Concorde! Appena cinque giorni prima era avvenuta la presentazione al pubblico, sull'aeroporto di Mosca-Sheremetyevo, e in tale occasione era stato annunciato che nello stabilimento di Voronezh (600 km a sud-ovest di Mosca) stava per cominciare la produzione in serie. Questa affermazione, apparentemente in contrasto con la dichiarazione dell' Aeroflot, confermava comunque che lo stadio dei lavori sul bisonico sovietico era molto più avanzato che non sull'avversario anglo-francese. L'anno seguente, la presentazione ufficiale del Tu-144 avvenne, dopo un'aspettativa generale e destando enorme interesse, al XXIX Salone Internazionale dell'Aeronautica e dello Spazio di Parigi, dove vennero ancora una volta ribaditi i dati e le prestazioni precedentemente dichiarate, aggiungendo che l'autonomia poteva aumentare a 7.300 km (alla velocità di 2.200 km/h e con un carico pagante di 12.000 kg). E ancora una volta molti esperti rimasero scettici nell'udire questi dati, soprattutto riguardo l'autonomia, per un semplice diretto confronto con le prestazioni del Concorde che pur pesava al decollo circa 60 tonnellate in più. Questo primo confronto diretto fra i due rivali al Bourget (messi ormai fuori giuoco i vari progetti di un SST americano) risultò quindi apparentemente a favore del Concorde: il velivolo sovietico apparve infatti piuttosto rozzo, i russi dovettero ammettere che si trattava dell'unico prototipo volante (ciò venne confermato in una conferenza stampa durante la quale venne però aggiunto che entro l'anno avrebbero volato altri due esemplari – e questa volta tutti ci credettero!), affermarono stranamente di ignorarne il costo, insistettero nell'affermare che il 12 novembre 1970 aveva volato a 2.430 km/h a 17.000 m e che sarebbe entrato in servizio nel 1974. Benché non venisse esibito in volo nella classica «Festa dell' Aria» e non fosse permesso visitarlo all'interno, con la sua presenza al Bourget il supersonico sovietico dimostrava chiaramente l'intenzione russa di affermare la propria superiorità e - perché no? - di introdurre la propria produzione aeronautica sul mercato occidentale. Stando alle affermazioni della «Pravda», in quel momento erano quattro i velivoli impegnati nel programma di sviluppo, con una serie iniziale di 14 aerei già in costruzione. L'anno dopo, al Salone di Hannover, ci si aspettava quindi la presenza del velivolo di serie, ma l'aspettativa generale venne delusa poiché il velivolo venne ancora «rappresentato» dal prototipo SSSR-68001. Anche qui, comunque, l'aereo non venne esibito in volo Poco tempo dopo, il 22 settembre, fece però la sua comparsa sull'aeroporto di Tashkent un veli¬volo sensibilmente modificato, soprattutto nella forma del musa e delle prese d'aria: l'aereo, proveniente da Mosca, aveva coperto i 3.020 km di distanza in 110 minuti di volo ad una media di 1.650 km/h. Agli inizi del seguente anno 1973, in occasione della visita a Voronezh del presidente e direttore generale dell' Aérospatiale francese, i russi « svelarono» all'avversario l'esistenza del velivolo di serie, che venne presentato ufficialmente dall'Unione Sovietica al Salone di Parigi dello stesso anno. Si trattava del secondo esemplare assemblato a Voronezh, ed appariva decisamente più grande e più pesante del prototipo, con 34 finestrini per lato anziché 25; aveva una nuova ala, i motori potenziati avevano subito una risistemazione, il carrello principale era stato cambiato e sul muso - subito dietro il posto di pilotaggio - erano apparsi i « baffi» cioè le alette retrattili per migliorare le caratteristiche di volo alle basse velocità. Da notare che nonostante l'aumentata capacità di carburante (da 70.000 a 90.000 kg) l'autonomia dichiarata rimase la stessa, il che dava ragione a quanti nella precedente edizione del Salone avevano dubitato dei dati forniti dai russi. Per la prima volta venne permesso di visitare l'aereo all'interno, cosa che rivelò una disposizione e un ambientazione sia dei posti per i passeggeri che della cabina di pilotaggio ben diversi dagli standard occidentali. Durante l'esibizione del 3 giugno avvenne però il grave incidente, notissimo a tutti e sul quale quindi non ci dilungheremo, che portò alla distruzione del velivolo e alla perdita dell'equipaggio. Sembrava la fine per il Tu-144, ma non fu così e il programma subì solo un logico ritardo, anche se fonti sovietiche affermarono che la costruzione procedeva normalmente al ritmo di un esemplare ogni 6 settimane, prevedendo inoltre una riduzione della metà del tempo d'assemblaggio entro il 1974, con l'entrata in servizio nell'Aeroflot nel 1975 sulle rotte siberiane. Si trattava chiaramente di previsioni ottimistiche (la «storia» del Concorde, ricca di simili affermazioni, stava a dimostrarlo), ma l'annuncio che il Tu-144 si trovava in piena fase di produzione, con cinque esemplari di serie pronti ad uscire di fabbrica ed altri 12 in fase di assemplaggio con le parti già consegnate dalle fabbriche subcontraenti, sorprese comunque gli osservatori occidentali (i cui entusiasmi per il velivolo russo avevano subito un notevole raffreddamento per il disastro di Goussainville), i quali pensavano che il programma avrebbe subito un arresto dopo l'incidente di Parigi. Alla penultima edizione del Salone di Parigi, nuovamente non è stato permesso visitare il velivolo all'interno (brutti ricordi, paure di sabotaggio, incompletezza dell'aereo o pura scaramanzia?), ma è stato affermato che il Tu-144 sarebbe presto entrato in servizio effettivo. Successivamente l'Aeroflot effettuava collegamenti a titolo sperimentale trasportando posta e colli urgenti sulle rotte Mosca-Vladivostok e Mosca-Kabarovsk, di 6.000 km circa, sulle quali si prevede entrerà in servizio il bisonico. L'impiego del TU.144 da parte della compagnia di bandiera sovietica risale al 1974: all'aprile di quell'anno gli aerei erano sei, più altri quattro impegnati in prove di certificazione. Il 24 marzo 1975 un Tu-144 pilotato da Elyan compì un volo di prova sulla rotta Mosca-Alma Ata con a bordo un equipaggio regolare dell'Aeroflot; nell' Agosto 1975 volavano già 8 esemplari dei 20 in costruzione, mentre fonti ufficiali affermavano che l'Aeroflot aveva ordinato un totale di 30 velivoli del tipo, ordine aumentabile a 60-75 esemplari. Va notato, poiché, stranamente, la cosa è passata quasi inosservata, che al «Salon» francese del 1975 è stato presentato l'esemplare SSSR-77144 (ufficialmente indicato come il 7° di serie) che, oltre a modifiche di dettaglio, presentava estremità alari tronche, cioè prive del terminale. I voli sulla rotta Mosca-Alma Alta divenivano successivamente regolari ma destinati al trasporto di posta. A cavallo tra il 1976 e il 1977 il Tupolev Tu-144 ritornava a far parlare di sé in quanto in un rapporto delle «lsvestia» del 30 novembre 1976 riguardante i velivoli che sarebbero stati immessi in servizio tra il 1978 ed il 1980 nell'Aeroflot il supersonico non compariva. Fonti americane avanzarono subito deduzioni secondo le quali nei voli postali (prima trisettimanali, poi settimanali e poi, pare, con cadenza irregolare) l'aereo avrebbe dimostrato un consumo di combustibile più elevato del previsto. Anche tutte queste illazioni, però, venivano nuovamente messe in forse in quanto, il 22 febbraio di quest'anno, un Tu-144 copriva la distanza Mosca-Khabarovsk in 3 h 23 min, stabilendo un nuovo record, dimostrando così, quanto meno, il proseguimento per i voli sperimentali ed un nuovo interesse per l'aereo. Attualmente, al momento in cui scriviamo, è in corso il Salone di Parigi 1977 e tra i vari aerei sovietici parcheggiati sul piazzale troneggia anche il Tu-144, segno abbastanza trasparente che, per il momento, l'Aeroflot non ha ancora deciso di metterlo da parte. Evoluzione tecnica Il supersonico sovietico presenta una fusoliera a sezione circolare inizialmente prevista per accogliere un massimo di 121 passeggeri in classe unica turistica (oppure 18 in prima classe e 82 in classe turistica), con un compartimento per i bagagli di circa 20 mc in coda dotabile di quattro appositi contenitori per le valigie (caricati e scaricati attraverso un grosso portello sul lato destro del cono terminale di coda) e un altro compartimento più piccolo subito dietro la cabina di pilotaggio. La forma originale dell'ala del prototipo era un delta ogivale, quasi un doppio delta, più angolare di quello «addolcito» del Concorde. Sul bordo d'attacco era notevole la curvatura dei profili in corrispondenza del «gomito» e della parte interna delle semiali, mentre il bordo d'uscita era dritto. La marcata curvatura verso il basso del tronco anteriore della linea media del profilo alare in corrispondenza del gomito del bordo d'entrata indica l'importanza che era stata attribuita allo sfruttamento della portanza incrementale ottenibile dai sistemi vorticosi tipici delle ali a delta. Nei velivoli di serie, la nuova ala mantiene la forma a doppio delta, con una freccia sul bordo d'attacco di 76° per la parte interna e di 57° per quella esterna, ma l'apertura appare aumentata di circa 1,20 m e i profili sono ora curvi lungo tutta la corda con bordo d'uscita pure curvo. Il diedro negativo, inizialmente costante, risulta ora crescente verso le estremità. Questa forma alare pare ottimizzata per le alte velocità. Gli otto elevoni sono comandati da due servocomandi ciascuno; il timone verticale è diviso in due sezioni, comandate anch'esse da due attuatori ciascuna. I motori sono quattro turboreattori Kuznetsov NK-144 a doppio flusso, sviluppanti nella loro prima configurazione una spinta a secco di 13.000 kg ciascuno, aumentabili a 17.500 con l'uso del postbruciatore. Questi propulsori, derivati dal motore NK-8, hanno un diametro di circa 1,50 m, un rapporto di flusso di 1,5:1, e sono dotati di compressore da bassa pressione a 5 stadi e da alta pressione a 11 stadi (con un rapporto di compressione di circa 15) e di una camera di combustione anulare; la turbina a bassa pressione è bistadio, mentre quella ad alta pressione è monostadio, e le palette sono raffreddate ad aria. Da notare che già il prototipo era dotato di apparati silenziatori ed antifumo, e che il suo scarico «pulito» aveva favorevolmente impressionato dopo i fumiganti passaggi del concorrente anglo francese. La posizione dei motori e la struttura delle gondole hanno subito le modifiche più notevoli con l'evolversi del velivolo. Originariamente, nel progetto e nei primi modelli, i quattro motori erano disposti affiancati sotto la parte centrale della fusoliera in un unica grande gondola trapezoidale dotata di un'enorme presa d'aria anteriore divisa in due metà (per i motori destri e sinistri). Il primo prototipo, però, aveva già due gondole separate, ognuna contenente due motori, anche se ancora raggruppate al centro sotto il ventre dell' aereo. Le prese d'aria, inoltre, erano più grandi, suddivise per ogni motore, e di forma rettangolare. Il velivolo di serie è potenziato dagli stessi turboreattori, ma potenziati in modo da ottenere una spinta a secco di 15.000 kg, aumentabili a 20.000 inserendo il postbruciatore. Quest'ultimo, che viene impiegato durante il volo di crociera al 30-40% della sua massima potenza, è regolabile e permette - in volo supersonico - di regolare la spinta e ridurre la postcombustione man mano che l'aereo si alleggerisce per consumo di carburante. Inoltre, i motori sono ora montati in due gondole ventrali nettamente distinte. Le prese d'aria sono a geometria variabile, e sono munite di rampe mobili a comando automatico con possibilità di comando manuale e di aperture ausiliarie laterali disposte nel tratto compreso fra l'ingresso e i motori, che permettono un flusso d'aria supplementare d'alimentazione utilizzabile per il decollo. L'avviamento dei motori può avvenire indipendentemente dalle attrezzature di terra. Le gondole dei motori sono notevolmente lunghe, e questo per ottenere un forte recupero di pressione nel condotto di presa e per fornire un adeguato vano per il carrello principale. Gli ugelli di scarico dei turboreattori sporgono ora dal bordo d'uscita, segno dell 'installazione - almeno -prevista – di inversori di spinta. Il caratteristico carrello triciclo del Tupolev è un altro elemento che ha subito tutta una serie di notevoli cambiamenti. Nel prototipo, la gamba anteriore, sterzabile, dotata di due ruotini affiancati, si ritraeva nel muso con movimento verso l'indietro, mentre quelle principali (dotate ognuna di sei ruote disposte in tre coppie in tandem) si ritraevano nell'ala con movimento verso l'avanti dopo una rotazione laterale di 90°. Negli esemplari di serie, la gamba anteriore risulta allungata e spostata verso la prua e si ritrae con movimento verso l'avanti; le gambe del carrello principale, che mantiene un passo relativamente ridotto, sono ora dotate di otto ruote ciascuna (il che aumenta la già generosa superficie di contatto), e si ritraggono ancora con movimento verso l'avanti ma vanno ad alloggiare nelle gondole dei motori tra i condotti delle prese d'aria, sempre previa rotazione laterale di 90° attorno alla base. I freni sono del tipo a quadrupli dischi in acciaio, e la lunga gamba anteriore porta sei luci di atterraggio. Tutti i vani sono isolati termicamente. E veniamo ora ai «baffi», cioè a quelle particolari superfici mobili apparse per la prima volta tempo fa sul Dassault Milan e subito battezzate «moustaches», che costituiscono la più vistosa novità introdotta sul velivolo di serie. L'applicazione di queste alette retrattili (che pare siano state ribattezzate più enfaticamente «ali dell 'angelo») è interessante in quanto tali superfici aumentano notevolmente la portanza massima in virtù del loro profilo curvo e della presenza di ipersostentatori a doppia fessura (flaps) sul bordo d'uscita e di doppie alule fisse (slats) sul bordo d'entrata. La loro presenza migliora sensibilmente la manovrabilità alle basse velocità, in quanto permette, nel volo lento, di ruotare verso il basso tutte le superfici mobili alari adoperandole come ipersostentatori con evidente incremento della portanza, contrariamente a quanto avviene nei normali velivoli con ala a delta, dove bisogna ruotare gli elevoni verso l'alto per far assumere all'aereo l'incidenza necessaria alla sostentazione a bassa velocità. Queste alette (che hanno un'apertura di 6,10 m, un discreto allungamento e un marcato diedro negativo) si ritraggono con movimento all'indietro in appositi vani carenati sul dorso della fusoliera subito dietro la cabina di pilotaggio. Una soluzione simile era stata studiata a suo tempo per il Concorde, anche se pare si trattasse di un piano fisso, ma venne scartata dato il già buon comportamento dell'ala in tutti i regimi di volo, mentre l'ala del Tupolev - come detto - risulta «ottimizzata» per le alte velocità. Il «Charger» è dotato di modernissimi sistemi di navigazione inerziale e di controllo del volo che gli consentono capacità ogni-tempo, con la possibilità di installare impianti di atterraggio automatico. Conclusione Fare un confronto diretto fra Concorde e Tupolev non è facile. Rispetto il supersonico anglo-francese, l'aereo russo è più grande e più pesante, ha motori più potenti e una più elevata velocità di crociera; il pesa al decollo e l'autonomia praticamente si equivalgono negli esemplari di serie. Aerodinamicamente equivalente, il Tu-144 non è però in alcune parti tecnicamente all'altezza della realizzazione occidentale. Pur avendo battuto l'avversario in varie occasioni (primo volo assoluto, primo volo sonico, primo volo bisonico,primo impiego effettivo su una linea regolare), il «Concordskij» (come viene ironicamente chiamato) ha subito a sua volta un grosso scacco con l'incidente del 1973. Aerei, Settembre 1977
  15. Dave97

    RE 2005 - Sagittario

    RE 2005 Sagittario Il Reggiane Re2005 Sagittario è stato giudicato da molti il più bell’aereo da caccia italiano della seconda guerra mondiale; questo parere può essere avallato o meno (che dire dei vari Macchi MC.205, FIAT G.55 e SAI Ambrosini 207?): è indubbio invece che è stato senz'altro piuttosto sfortunato, giungendo ai reparti molto tardi ed essendo prodotto in un numero di esemlari trascurabile. Il Re2005 faceva parte della cosiddetta «Serie 5» che sarebbe meglio definire come l'ultima generazione di aerei da caccia italiani con motore a pistoni, di cui facevano parte anche i FIAT G.55 Centauro e il Macchi MC.205V Veltro, tutti caratterizzati dall'adozione di un motore Daimler-Benz DB-605A. Dire se le ditte interessate abbiamo sviluppato questa serie di macchine dalle caratteristiche eccezionali, almeno per lo standard italiano dell'epoca, su propria iniziativa o su specifica del Ministero della Difesa-Aeronautica, sarebbe un po' come dire se è nato prima l'uovo o la gallina; è certo, in ogni caso, che tutti i costruttori italiani stavano da tempo esaminando la possibilità di dare ai loro caccia monoplani della seconda generazione un sostituto dotato di un motore in linea più. potente. L'elemento catalizzatore di questa serie di progetti fu uno studio della Direzione Generale Costruzioni del ministero per un caccia intercettatore con velatura di almeno 20 mq destinato ad operare ad alta quota. Poichè la più «disponibile» dal punto di vista industriale era la FIAT, non impegnata in produzioni di generazione intermedia, il contratto per lo sviluppo del nuovo caccia fu assegnato proprio a quest'ultima. Non appena i motori Daimler-Benz DB-605A da 1.475 HP al decollo diventarono disponibili, tutti i costruttori si lanciarono sulla specifica. Nella primavera del 1942 si susseguirono serrati i collaudi dei prototipi Serie 5: il 19 aprile a Lonate Pozzolo l'MC.205V, il 30 aprile a Caselle il G.55 intorno al 2 maggio a Reggio Emilia è stata la volta del Re.2005. Lo staff progettativo della Reggiane, composto dagli ingegneri Longhi, Alessio, Maraschini, Toniolo e Pozzi e dai tecnici Giovagnoli e Costa,iniziò a lavorare al Re.2005 nel 1941, prendendo solo come spunto il Re.2001 Falco II, ma differenziandosene notevolmente. La progettazione fu terminata, a tempo di record, nel dicembre 1941 e, a quel che dicono le storiografie ufficiali, la cellula era stata completata già nel febbraio 1942. Introvabile invece risultava il propulsore DB-605A-1 inviato per ferrovia dalla Germania già nel dicembre precedente; c'è chi ha parlato - per questo fatto - di sabotaggio- ma è indubbio che si trattava di momenti non facili, durante i quali potevano anche succedere episodi di questo tipo. Il motore fu comunque rintracciato con il personale intervento dell'ing. Haug della ditta tedesca e portato a Bologna. Qui fu montato sul prototipo MM.494 che, alla fine di aprile del 1942, era pronto a volare. Il primo collaudo, ad opera del capo-pilota della ditta, cap. Tullio Da Prato, avvenne tra l' 1 e il 3 maggio successivo (e vedremo poi le ragioni di questa incertezza). Dopo il decollo il collaudatore eseguì una serie di figure acrobatiche, durante una delle quali si ritrovò con un semicarrello principale estratto; a causa di questo banale incidente il Sagittario compì sul ventre il suo primo atterraggio, riportando lievi danni che richiesero circa una settimana di lavoro per le riparazioni, sicchè il primo volo «ufficiale» avvenne solo il 9 maggio (o, secondo altre fonti, il 10 maggio) Nel luglio l'aereo fu portato a Guidonia per la verifica delle prestazioni. Come sempre succedeva all'epoca, i rilevamenti della velocità massima avvenivano in maniera piuttosto empirica, per cui, per il volo orizzontale, secondo le varie quote e i diversi sistemi di misurazione, troviamo valori compresi tra 565 e 678 km/h, comunque la Regia Aeronautica stabilì come valore ufficiale 628 km/h. Durante la prova di velocità in picchiata, per la quale si richiedeva il raggiungimento della velocità massima orizzontale più il 50% il collaudatore Da Prato registrò 980 km/h! Si trattava comunque di una velocità «indicata» dagli strumenti di bordo e che, negli anni successivi è stata chiaramente smentita dai tecnici americani che avevano fatto registrare risultati analoghi con i loro P-38 Lightning e P-47 Thunderbolt (stando agli strumenti di bordo, anzi, si sarebbero registrati valori molto prossimi a Mach 1, il che è impossibile). Nonostante le polemiche che si possono fare su questi dati, il Re.2005 si presentava come una macchina molto veloce e senz'altro in grado di superare largamente i 600 km/h in volo orizzontale, dotata, in più, di una maneggevolezza superba al di sopra dei 7.000 m. Nel frattempo la Regia Aeronautica aveva ordinato una cellula, per prove statiche e un secondo prototipo (MM.495), cui fece seguito l'ordine di una Serie 0 o pre-serie di 16 macchine (MM.92343/58): impostata allo scadere del 1942. Nel febbraio 1943 fece seguito l'ordine di una seconda pre-serie di 18 esemplari e una serie di 750 destinati ad affiancarsi a 600 G.55 e 250 MC.205V; in realtà solo una piccolissima parte di questi aerei (tra cui nessun Re.2005) fu poi realmente costruita. Nella primavera del 1943 (fine di marzo) l'MM.494 fu a Furbara impegnato nelle prove a fuoco unitamente al G.55. Nel maggio 1943 la Regia Aeronautica ricevette ufficialmente in carico il prototipo e lo assegnò alla 362° Squadriglia del 22° Gruppo Caccia Terrestre basata a Napoli-Capodichino che, in pratica, fu l'unico reparto in Italia a fare impiego operativo di questa macchina. Durante un collaudo riguardante l'impiego della bomba ventrale da -640 kg. vi fu un cedimento nell'impianto idraulico e l'MM.494 dovette compiere il suo secondo atterraggio di fortuna, anche questa volta senza conseguenze. Successivamente vennero consegnati alla stessa squadriglia i Re.2005 Serie 0 caratterizzati dal numero 362 in rosso e dall'insegna dello «spauracchio», simbolo del 22° Gruppo. I caccia furono dislocati a Capodichino e a Capua. Il 10 luglio 1943, con il precipitare degli eventi bellici, gli 8 Re.2005 che costituivano l'organico del reparto furono trasferiti a Sigonella in Sicilia. Un bombardamento su quell'aeroporto ne distrusse sei. I due superstiti passarono il 14 luglio a Reggio Calabria, aggregati alla 371° Squadriglia, presso la quale pare abbiano operato senza insegne, per ragioni di mimetismo. Dopo pochi giorni anche i due Sagittario della 371° finirono sotto le bombe anglo-americane. A Capua, tra la fine di luglio e l'agosto, la 362° aveva ricevuto altri dieci Re.2005 con i quali compì un certo numero di missioni di intercettazione sul cui esito nulla ci è dato sapere. Durante uno di questi voli volti a intercettare i quadrimotori inglesi e americani, l'esemplare MM.96105 denunciò fenomeni di «sbattimento» in coda riportandone anche deformazioni e cedimenti strutturali della fusoliera. Tre aerei vennero rinviati alla Reggiane dove si scoprì che il fenomeno compariva nelle picchiate esasperate a velocità reali superiori a 750-800 km/h e che vi si poteva ovviare con una lieve variazione di assetto e di regime del motore. La RA, comunque, il 26 agosto 1943 preferì «mettere a terra» i 2005 che, del resto, non erano più di 10-16 in tutto. L'ultima fase operativa dei Re.2005 è stato l'esperimento del com.te Mantelli con l'uso di bombe aria-aria da sganciarsi su formazioni nemiche e dotate di spolette a tempo: venne fatto un lancio, ma la spoletta non funzionò e la bomba esplose al contatto con le acque del Golfo di Napoli, ponendo così fine agli esperimenti. Alle ore 20 del 7 settembre la RA aveva in carico sette Re.2005, tutti dichiarati bellicamente inefficienti. La fine di questi aerei è incerta: secondo alcuni almeno cinque-sei di essi furono incendiati affinchè non cadessero in mano ai tedeschi; diciamo cinque-sei perchè pare che due Sagittario siano scampati al rogo: uno sarebbe stato «impacchettato» dagli americani (gli Alleati ne avevano già catturato almeno uno a Sigonella, ma abbastanza danneggiato) e portato negli Stati Uniti dove fu sottoposto a valutazioni. Qualcuno lo ha visto a Cleveland nell'Ohio nel 1946 dopodichè se ne sono perse le tracce. Un altro Re.2005 scampò al rogo e, nel dopoguerra, fu donato all'Università di Napoli; ne sopravvive la fusoliera (si tratta forse dell'MM.92345) recuperata dall' Aeronautica Militare e affidata alla Caproni Vizzola per il tentativo di ricostruzione utilizzando componenti nuovi di fabbrica sopravissuti al bombardamento della Reggiane. Così si conclude la carriera operativa del Re .2005 presso la RA, ma ci sono altri episodi da segnalare. Alla fine del 1942 la Kungsl Flygvapnet svedese prese contatto con la Reggiane per la cessione della licenza di produzione del 2005 (la Svezia produceva già il motore DB-605) e l'acquisto di 50 cellule finite in Italia. Le trattative si protrassero dal gennaio al settembre 1943 e, quando era tutto concluso, era ormai troppo tardi. Il Sagittario interessò anche ai tedeschi che nel luglio 1943 portarono a Berlino il prototipo (non sappiamo a che titolo); dopo l'armistizio dell'8 settembre le forze tedesche requisirono il secondo prototipo che si trovava a Guidonia e lo portarono in Romania. A Reggio Emilia si trovavano 11 aerei della seconda serie O (MM.96100/4 e 96106/ Il) e dopo lievi modifiche ai comandi per adattarli allo standard della Luftwaffe li inoltrarono a Berlino tra il 6 e il 10 ottobre. Ordinarono anche alla Reggiane il completamento dei primi 7 esemplari della commessa italiana di 750, ma questo lavoro non fu mai fatto. Sei Re.2005, la cui provenienza è incerta in quanto risulta che a Reggio Emilia, oltre agli 11 Re.2005 della seconda serie 0 requisiti dai tedeschi, vi fossero cinque aerei in fase di completamento (probabilmente gli MM.96105 e 96112/17) e tre della prima serie 0 in corso di revisione, furono assegnati all' Aeronautica Nazionale Repubblicana (ANR) della Repubblica Sociale Italiana. Uno di questi era l'MM.92352, della prima serie 0, che quindi non può. essere l'esemplare conservato a Vizzola Ticino (come vorrebbero alcuni) che porta ancora le insegne della RA. Per ragioni di standardizzazione questi Sagittario non furono utilizzati dai reparti da caccia, ma assegnati alla Squadriglia Addestramento Caccia di terzo periodo. Un Re 2005 fu usato dal RESBA (Reparto Esperienze Siluri Bombe Aerei) di Desenzano diretto dal ten. col. (ing.) Cremona, basato sull'aeroporto di Bettole. Quest'aereo compì esperienze di lancio con un simulacro di silurotto in legno, oltre ad altre prove. Come è noto, l'ANR scelse come aerosilurante il G.55S e queste ricerche non ebbero seguito. Descrizione tecnica Il Reggiane Re2005 Sagittario era un monomotore da intercettazione, con possibilità di impiego anche come caccia-bombardiere, monoposto, monoplano ad ala bassa a sbalzo con carrello retrattile e di costruzione interamente metallica. Il motore montato sul prototipo era un Daimler-Benz DB-605A-1 a 12 cilindri a V rovesciato, raffreddato a liquido, da 1.47S HP al decollo, sostituito poi, sul secondo prototipo, da una diversa variante, unita ad un'elica tedesca VDM utilizzata anche sui BF109, dei quali conservava la caratteristica ogiva. Gli esemplari successivi avevano la versione costruita dalla FIAT come RA.1050 RC.58 Tifone con elica tripala Piaggio P.6001. La potenza passava a 1.355 HP a 5.700 m e a 1.250 HP in regime continuativo a 5 .800 m. Il carburante era contenuto in quattro serbatoi alari, due anteriori da 160 litri e due posteriori da 108. La fusoliera aveva struttura a guscio interamente metallica con rivestimento lavorante in duralluminio e aveva sezione triangolare con spigoli arrotondati. In posizione centrale era sistemato l'abitacolo chiuso da un parabrezza in tre pezzi e da un tettuccio con vetri scorrevoli laterali e due pannelli sul cielo (tre sui prototipi), ribaltabile verso destra e praticamente uguale a quelli installati su G.55 ed MC.205 Il pilota disponeva di un seggiolino corazzato e di struttura anti-capottamento. La strumentazione era quella standard dei caccia italiani dell'epoca, leggermente incrementata date le caratteristiche avanzate della macchina. É da notare che la visibilità soprattutto in decollo, era notevolmente ridotta, sia per la scarsa superficie vetrata, sia per l'assetto e la configurazione generale dell'aereo. La fusoliera sopportava i piani di coda a sbalzo interamente metallici ma ancora dotati di parti mobili rivestite in tela, dure a morire nella tradizione aeronautica italiana; il timone verticale e quello orizzontale sinistro erano dotati di alette di compensazione di dimensioni generose, regolabili a terra. La struttura di coda comprendeva il ruotino orientabile e completamente retrattile all'indietro in un vano chiuso da due sportelli. L'ala monoplana a sbalzo in posizione bassa aveva la caratteristica pianta ellittica tipica dei caccia Reggiane, ma più famosa per la sua installazione sul caccia inglese Spitfire, con sezione a profilo biconvesso variabile. La struttura era a cassone in duralluminio con rivestimento lavorante. I due alettoni (quello di sinistra con aletta di compensazione regolabile a terra) avevano struttura in duralluminio e rivestimento in tela ed erano compensati staticamente e dinamicamente. Due ipersostentatori in duralluminio occupavano tutto il bordo d'uscita tra i due alettoni senza soluzione di continuità e funzionavano a comando oleodinamico. L'ala ospitava anche parte dell'armamento, il radiatore, e il carrello principale, i cui due elementi - realizzati dalle ditte Bassani e Magnaghi - si ritraevano con movimento verso l'esterno. Le versioni Del Re.2005 furono progettate diverse versioni, anche se una sola di esse vide la luce. Tra le prime variazioni sul tema ricordiamo il Re.2004, progettato nel giugno 1942 per l'installazione di un propulsore Isotta-Fraschini Zeta RC.25/60 da 1.250 HP nell'ipotesi di difficoltà di approvvigionamento dei DB-605; il Re.2004 non fu costruito data l'inaffidabilità del motore italiano. Il 24 dicembre 1942 la Reggiane offrì alla RA il progetto del Re.2005 Bifusoliera, un caccia pesante di classe analoga al Caproni Ca.380 Corsaro e ai SIAI Marchetti SM.91 ed SM.92 armato con quattro cannoni da 20 mm e ,due bombe da 500 kg o un siluro pesante; il pilota trovava posto nella fusoliera di destra, mentre quella di sinistra era priva di abitacolo. Questo interessante progetto, per cui si prevedeva una velocità massima di 680 km/h a 7.000 m, non fu costruito. Un’altra versione presa in esame ma non costruita fu il Re.2005 con struttura interamente in legno proposto dall'ing. P. Nardi di Bologna e rimasto, appunto, senza seguito. Molto interessante il Re.2005R studiato dal magg. Ferri del Genio Aeronautico su iniziativa del Ministero dell' Aeronautica. Si trattava di un Re.2005 modificato mediante l'installazione, immediatamente dietro l'abitacolo, di un motore ausiliario FIAT A.20 a 12 cilindri da 370 HP a 5.500 giri, azionante due compressori centrifughi Campino uno dei quali era destinato a ristabilire la pressione nei due motori alternativi ad alta quota; il secondo compressore avrebbe dovuto invece trasformare il motore in una sorta di moto-reattore o di «turbo-compound» grazie alla spinta prodotta. La potenza complessiva era stata valutata in 2.030 HP e la velocità massima, secondo i calcoli, avrebbe oscillato tra 710 e 760 km/h in quota. Questa modifica non sarebbe stata esente da problemi tecnici in quanto il baricentro si sarebbe spostato dal 25% al 31% della corda alare (portandosi su valori simili a quelli del G.55) e il peso totale sarebbe passato da 3.574 kga 4.084 kg, per compensare quest'aumento si propose di togliere due armi da 20 mm (130 kg) e la corazzatura dell'abitacolo (40 kg) contenendo così il peso in poco più di 3.900 kg. Anche il consumo sarebbe aumentato grandemente, da 290 kg/h a 930 kg/h, dimodochè, anche con l'aggiunta prevista di 50 kg di benzina, l'autonomia sarebbe stata ridotta del 20% e l'uso della propulsione ausiliaria limitato a 12 minuti. Una nuova stesura del progetto, presentata il 7 luglio 1943, prevedeva il ritorno di tutte le armi da 20 mm, peso totale di 4.070 kg. e una velocità massima di 730 km/h a 7.800 m per 12 minuti. Le vicende del settembre successivo troncarono questo sviluppo, ma bisogna dire che né l'ing. Longhi né il resto dello staff progettativo della Reggiane condividevano l'in¬eresse del ministero per il Re.2005R in quanto caratteristiche similari si sarebbero potute ottenere con il Re.2006, in corso di costruzione. Il Re.2006 era un progetto iniziato dall'ufficio tecnico della Reggiane che prevedeva l'adattamento della cellula del Re.2005 al più potente propulsore Daimler-Benz DB-603A da 1.750 HP, parallelamente a quanto previsto dai progetti FIAT G.56 e Macchi MC.207. Abbastanza modificata appariva l'ala, con serbatoi di carburante integrali come sul Re.2000 e radiatori interamente annegati, sperimentati già su di un Re.2001 bis. Per il Re.2006 si prevedeva, a 8.000 m, una velocità massima di oltre 700 km/h. Nella primavera del 1943 il Ministero approvò il progetto e mediante i contratti 90.565, 90.595 e 90.597 ne ordinò due prototipi, cui assegnò il 9 maggio 1943 le matricole militari 540 e 541. La costruzione dell'MM.540 proseguì anche dopo l'armistizio e la macchina fu completata nel febbraio 1944, pare con un motore DB-605, mentre il DB-603A sarebbe stato montato sull'MM.541 la cui costruzione era ancora estremamente arretrata. Si tratta comunque di un particolare dedotto da alcuni disegni costruttivi e del quale non possiamo dare conferma. Il Re.2006 rimase a Reggio Emilia fino all'ottobre 1944; il 12 ottobre dello stesso anno risultava in carico alla Caproni di Taliedo. Privo di motore, armamento, strumentazione, parte del carrello e altri dettagli, il Re.2006 MM.540 fu ceduto all'Istituto di Aeronautica del Politecnico di Milano nel maggio 1945, con il beneplacito della commissione alleata di controllo che richiese, però, che le ali fossero segate. Una volta giunto a Milano il Re.2006 dovette subire anche il taglio della fusoliera nella sua parte poppiera in quanto si trattava di un aereo da combattimento avanzato e, in quei tempi gli Alleati si dimostravano molto meno di manica larga di quanto non sarebbero stati qualche anno più tardi. La macchina fu sezionata ulteriormente a scopo didattico e nel 1949 ne esistevano soltanto la coda e una gamba del carrello d'atterraggio; alcuni particolari minori erano conservati ancora presso il Politecnico nel 1967, ma dubitiamo che oggi ve ne sia ancora traccia. Allo stadio di modello per galleria del vento rimasero due progetti successivi, previsti per la ripresa postbellica, periodo in cui sarebbero apparsi irrimediabilmente superati. Si trattava del Re.2006P (postale), in pratica un Re.2006 con motore radiale da 1.500 HP e carico utile di 1.100 kg, del quale fu prevista anche una variante «racer» per le tipiche gare di velocità americane. L'ultima versione era il Re.2006PP (passeggeri e posta) ispirato solo vagamente agli aerei da caccia e dotato di una grossa fusoliera con cabina vetrata per 6 passeggeri e due uomini d'equipaggio con compartimenti alari per 100 kg di posta. . Finisce così la storia del più bell'aereo da caccia italiano. Nell'immediato dopoguerra esistevano ancora molti componenti finiti (soprattutto strutture alari e carrelli) che avrebbero permesso di riprendere la produzione con facilità, come del resto avvenne per il FIAT G.55 e l'MC.205, eventualmente montando dei motori Rolls-Royce Merlin, dal momento che i Daimler-Benz non sarebbero stati facilmente disponibili. Senz'altro il Re.2005 avrebbe potuto trovare un certo mercato in Egitto, Siria, Israele, Argentina, tutti paesi che, in quel periodo, acquistarono aerei italiani. Del Sagittario oggi ci resta solo una parte posteriore di fusoliera e un certo numero di componenti, alcuni dei quali nuovi di fabbrica, che si trovano presso la Caproni di Vizzola Ticino, incaricata del tentativo di ricostruzione. Nico Sgarlato Aerei, Novembre 1973
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    Pilot Reports

    L’aeroplano Impazzito Tre F-86K della 51° Aerobrigata decollano da Istrana per una missione di intercettazione radar. Rientrati i flaps, spengono uno a uno il postbruciatore mentre si avviano verso il crepuscolo in formazione di salita a breve distanza tra loro e dentro una densa nuvolaglia che ristagna a 5.000 piedi. A 25.000 piedi escono "on top", poi attraversano il livello 350 e chiamano il CRC (controllo guida caccia) sul canale 7: sono le ore 17.28'.00". Pluto Rosso 1: "Pluti rossi check in" Pluto Rosso 2: "Rosso 2" Pluto Rosso 3: "Rosso 3" Rosso 1: "CRC da Pluti rossi, over? " CRC: "Pluti rossi qui è il CRC, avanti" Rosso 1: "Pluti rossi, missione 760, livello di volo 370 in salita, ora sul radiofaro di Istrana, prua 280°" CRC: "Pluti rossi chiamate il CRC sul canale 13" L'ufficiale guidaccia, dopo aver tentato di stabilire il contatto sulla nuova frequenza, chiama i Pluti rossi sul canale di guardia e ordina di ritornare sul canale 7. Rosso 1: " R osso 1" Rosso 2: "Rosso 2" Rosso 3: "Rosso 3" Rosso 1: “ CRC, CRC, Pluti rossi" CR C: "Pluti rossi, qui è il CRC, avanti..... Rosso 1: "livello 400, prua 280°; istruzioni; IFF Standard" CRC: "Roger" Improvviamente il secondo gregario vede il Rosso 2 inclinarsi fortemente in ala destra e scendere verso le nubi con il postbruciatore inserito in un pericoloso angolo di discesa. Rosso3: "Rosso 1 da 3" Rosso1 : "avanti" Rosso3: "il Rosso 2 sta scendendo rapidamente...fa un picchiata, è sparito in nube...2 da 3, 2 da 3...torniamo sul canale 7" Rosso3: "io lo vedo, tu lo vedi? " Rosso1: "è sceso giù, vedo solo la sua scia che scende dentro le nuvole" Rosso3: "lo vedo, vuoi che gli vada dietro? " Rosso1: "OK, se lo vedi, inseguilo! " Rosso3: "affermativo, ora lo chiamo su guardia... Rosso 2 da 3...Rosso 2 da 3...continua a chiamarlo su guardia, io gli vado dietro..." Rosso3: "Rosso 1 da 3 torniamo sul canale 13, forse è lì" I due compagni chiamano Rosso 2 sul nuovo canale, ma non ottengono risposta. Rosso3: "Rosso 1 da 3, sono in coda a Rosso 2, ha sempre il postbruciatore inserito, scende e sale...25.000 piedi..,va a punto nove e rotti! che fa? ...non risponde...Rosso 2, 2 da 3, 2 da 3, 2 da 3...non risponde! " Rosso1: "non capisco, ma ci vado dietro se ci riesco...ehi, siamo quasi sul Mach! Lo chiamo io adesso...se è uno scherzo..." . Rosso1: "Rosso 2 da 1 su guardia, se mi senti canale 7, controlla ossigeno al cento per cento, over” CRC: "Pluti rossi da CR C" Rosso1: "avanti" CRC: "tutto normale? Vi abbiamo perso, confermate livello di ricezione" Rosso1: "negativo...4/5 forte e chiaro, stiamo correndo dietro al numero 2, sono in coda a un miglio, non si capisce..." CRC: "Rosso 1 modo 1" Rosso1: OK, OK, Rosso 1 modo 1" CRC: "Rosso 3 IFF stand-by" Rosso3: "CR C siete in contatto con il 2?" CRC: "ricevuto" Rosso3: "dite se siete in contatto con il 2! Non risponde da cinque minuti..." CRC: "negativo, negativo" Rosso3: "il Rosso 2 mantiene il postbruciatore dentro e sta scappando, non riusciamo a capire il perché...siamo a 34.000 piedi sempre con l'AB, non riesco a fare l'agganciamento radar sul 2; comunque ho il contatto radar" CRC: "Rosso 1 da CRC, IFF modo 2" Rosso1: "avanti" Rosso3: "ha virato? ...possibilmente vai in coppia e vedi che ha...macché va dritto" Rosso1: "roger, modo 2" Rosso3: "attenzione al carburante...siamo...2.400 libbre...crr...crr non riesco a beccarlo...guarda! Tira su e vedi se, a destra! " CRC: "confermate che state seguendo il 2, Rosso 1?" Rosso1: "affermativo, sono a circa 6.000 piedi, questo scherzo dura troppo...ma che fa, è impazzito? " Rosso3: "non lo so, adesso ha 240° di prua, sale di nuovo.....” Rosso1: "siamo a 40.000 in salita" Rosso3: "sto seguendo a vista, 2.000 libbre, noi si rientra?" Rosso1: "beh, vediamo" Rosso3: "adesso scende come un matto" Rosso1: "se ci senti, Rosso 2 su guardia, vieni sul canale 7, controlla ossigeno al cento per cento.....” Rosso1: "CR C, provate a chiamare Rosso 2 su guardia e ditegli che viri a sinistra, verso casa" CRC: "roger, Rosso 2, qui è il C R C su guardia se mi sentite virate a sinistra verso casa, prua 090°. Rosso 2 controllate la pressurizzazione" I Rossi 1 e 3 continuano il loro inseguimento dietro il Rosso 2, alla massima potenza disponibile con saliscendi continui da 25.000 a oltre 40.000 piedi Rosso3: “siamo sempre a un miglio...crr...va su e giù, non riesco ad avvicinarmi, corre molto" Rosso1: "continuiamo ancora un po', siamo ai limiti, semmai atterriamo a Villafranca" CRC: "Rossi, vettore e distanza per Istrana 084°, 40 miglia" Rosso1: "roger, dateci vettore anche per Villa" Rosso1: "guarda il 2, ora stalla...sta andando giù di velocità...siamo a 43.000 piedi" Rosso3: "non capisco ancora cosa gli prende, fai un altro tentativo su guardia" CRC: "vettore e distanza per Villa, 10 miglia 210°" Rosso1: "Rosso 2 ossigeno al cento per cento, vira a sinistra e abbassati di quota" Rosso3: "43.000 piedi e sale ancora...farà 180 nodi, ha spento il postbruciatore! acchiappalo! " Rosso1: "ora ci provo, porc...l'ha ridato ancora! " Rosso3: "ho paura che stia seguendo quella stella davanti" Rosso1: "tira su di nuovo, per me 43.000 in salita...44...45 ...140 nodi! " Mentre i due continuano l'inseguimento chiamando sul canale 7, il Rosso 2 chiama finalmente il CRC sul canale 13. Rosso2: "CRC, CRC" CRC: "stazione che chiama CRC dia nominativo" Rosso2: "Pluto Rosso 2" CRC: "Rosso 2, ditemi che cosa avete a bordo! " Rosso2: "a bordo niente, sto seguendo il Rosso 1" CRC: "riducete la vostra velocità, togliete l'AB, scendete a 30.000 piedi, il Rosso 1 verrà a intercettarvi, assumete vettore 090°" Rosso2: "roger, vedo un aereo più in alto" Rosso1: "O K mi sto mettendo in coppia" CRC: "roger, atterrate a Villafranca, affiancatevi al numero 1" Rosso3: "Pluti rossi dichiarano emergenza; silenzio radio alle stazioni che trasmettono." Il volo finisce con la penetrazione della formazione su Villafranca, e con un felice, se pur pesante, atterraggio. Ma cosa era accaduto in quei lunghissimi 7 minuti in cui il Rosso 2, dopo essersi rovesciato sulle ali, aveva percorso tutto il Veneto per la sua longitudine con postbruciatore inserito tra 25,000 e 46.000 piedi? Perché tutto era tornato normale? Il Rosso 2, interrogato su quanto era successo dalla commissione di inchiesta, rispose che aveva dato il "check in" (ora 17.29'.30") e subito dopo aver chiamato il CRC (ora 17.37'00"), dei 7 minuti di cui tutti parlavano non sapeva nulla. Ricordava solo di aver sentito un gran freddo improvviso e di aver seguito il numero 1 (che invece era una stella). Si accertò in seguito dall'esame dell'impianto ossigeno, che c'era stata una decompressione esplosiva associata ad una deficienza del sistema di erogazione di ossigeno: l'anossia prolungata spiegava tutto. Non si comprese invece come mai l'F-86K della 5,.. non era precipitato in vite, pur procedendo senza controllo a 140 nodi. Quella sera tutto il circolo di Villafranca festeggiò il Rosso 2 e il suo incontro con la signora Fortuna... JP4 , aprile 1978
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    World War II Aces

    Abilitazione sul Typhoon Quel pomeriggio stesso sbarcavo a Aston-Down, dove dovevo seguire un rapido corso teorico-pratico ed essere abilitato al pilotaggio dei Typhoon e dei Tempest. Il comandante della base, tenente colonnello J .S. Shaw, presa visione del mio stato di servizio e del numero delle mie ore di volo, decise di abbreviare le formalità e di dispensarmi dai corsi teorici. Potrò quindi fare questo pomeriggio il mio primo decollo su un Typhoon. Arrivo alla base con tutto l'equipaggiamento di volo e mi presento all'istruttore, un australiano, Mac Far, chiamato dai suoi compagni « l'immacolato Mac » per via del suo aspetto ispido e trasandato. Col paracadute sulla schiena, ci vogliono tre persone per aiutarmi a salire nell' abitacolo del Typhoon che si trova a due metri e mezzo dal suolo. L'apparecchio è molto liscio, non c'è modo di aggrapparsi a niente. Bisogna attaccarsi ad alcune nicchie con coperchio a molla che tornano in posizione appena si toglie la mano o il piede, come una trappola per le volpi. Finalmente mi issano, mi installano, mi danno una manata sulla schiena e dopo un ultimo augurio di buona fortuna mi trovo soletto nelle viscere del mostro. Poiché i gas di scarico, a elevato contenuto di carbonio, che s'infiltrano nella cabina sono veramente dannosi, bisogna inalare continuamente ossigeno e quindi m'affretto a mettermi la maschera e apro la valvola di regolazione. Ripasso in fretta nella mente tutti i consigli degli istruttori. Apro il radiatore. Controllo che il carrello d'atterraggio sia bloccato. Accendo le lampadine del cruscotto. Regolo la manetta del gas. Spingo in avanti il comando del passo dell 'elica. Verifico il livello dei quattro serbatoi di carburante e pongo il selettore sulla riserva centrale per decollare (in tal modo posso contare sull'alimentazione per gravità in caso di avaria alla pompa della benzina). Svito gli iniettori; introduco la cartuccia per la messa in moto. Con un dito sul contatto del magnete e un altro sull' accensione della cartuccia, scateno il sistema. Il motorista, aggrappato all'ala, mi aiuta a dare l'avvio al motore, che parte con un fracasso cinque volte più potente di quello dello Spitfire. Dopo qualche brontolio, prende a girare più regolarmente, pur seguitando a sputare olio da tutti i pori. Il suono di questo motore e le sue vibrazioni mi insospettiscono. Ho i nervi tesi e non mi sento affatto sicuro. Alzando la testa, vedo i motoristi, un po' stupiti del mio silenzio, in attesa che io dia il segnale per togliere i tacchi. Comincio a rullare, un po' troppo rapidamente. Attenzione, non bisogna abusare dei freni, perché si riscaldano presto. Un freno caldo perde efficacia. Si rulla alla cieca, cercando il cammino da seguire alla maniera dei granchi, con un colpo di freno a destra e uno a sinistra, alternativamente, per aver libera la visuale. Al limite della pista, prima di allinearmi, do una pulitina alle candele seguendo le istruzioni. Provo il motore dando gas fino a tremila giri e subito una nuvola d'olio investe il parabrezza. Due Typhoon che si trovano nel circuito d'atterraggio si posano alla meno peggio, ma il controllore non sembra disposto a darmi luce verde. Tiro fuori la testa dalla cabina per fargli un segno, a rischio di prendermi una goccia d'olio bollente in un occhio. Sempre luce rossa. Certamente ho dimenticato qualcosa; e intanto quel maledetto motore comincia a scaldare. Il mio radiatore è già a 95 gradi. Un'occhiata all'interno: i flap sono, come devono essere, a 15 gradi; il radiatore è aperto. Avevo dimenticato la radio! La inserisco e chiamo il controllore, che mi dà finalmente luce verde. Stringo le cinghie, mollo i freni, m'allineo accuratamente sulla linea bianca che segna il centro della pista di cemento e do motore lentamente, col piede sinistro a fondo sulla pedaliera. M'avevano avvertito che il Typhoon imbardava, ma fino a questo punto!... E questo animale accelera come un razzo!. Correggo per quel tanto che posso, col freno, ma sono lo stesso spinto pericolosamente verso destra. A metà pista, la ruota destra sfiora l'erba. Con un arnese del genere, se vado fuori dal cemento, cappotto. Rischio per rischio, meglio staccarsi dal suolo. Questo velivolo è di una instabilità laterale che sgomenta. Continuo ugualmente a derapare e non oso abbassare troppo l'ala sinistra, con questi alettoni della malora che non rispondono se non oltre i 200 chilometri l'ora. Per fortuna, in conseguenza d'una serie d'incidenti dovuti alla stessa causa, hanno demolito l'autorimessa F. Passo ugualmente, non troppo bene, accanto all'autorimessa E. Ritiro il carrello, ma dimentico di bloccare i freni. Una vibrazione formidabile che squassa il velivolo dalla coda alla prua mi rivela che il carrello è rientrato al suo posto con le ruote che girano a gran velocità. Speriamo che non abbia massacrato i pneumatici! Quando penso che stavo così tranquillo al mio tavolino allo Stato Maggiore... Alla fine, dopo qualche minuto, riprendo la mano e mi sento più calmo. Le virate derapano sempre un po', ma in complesso non c'è male. Una piccola picchiata timida, tanto per rendermi conto. Che massa! Con le sue sette tonnellate, questo animale accelera in modo prodigioso. Verifico con soddisfazione che fila molto più dello Spitfire. Che sarà poi col Tempest! Una mezz'ora passa presto e comincio a radunare tutto il mio coraggio per atterrare. Dapprima un circuito a tutto motore a 700 chilometri l'ora per pulire questi accidenti di candele che si sporcano presto. Ma poi, per quanto riduca il motore, faccia derapage, abbassi il radiatore, non riesco ugualmente a ridurre la velocità a quella prevista per fare uscire il carrello. Un circuito, con motore al minimo a 500 all'ora. Un altro circuito a 400. Non potendo fare altro, eseguo una virata in cabrata senza motore e risalgo di mille metri circa, riducendo però la mia velocità a 320. A bassa velocità questo bestione è terribilmente instabile e l'uscita dell' enorme carrello ha conseguenze imprevedibili sul centraggio. Anche per questo, benché prevenuto, mi son fatto sorprendere da imbardate formidabili che rassomigliano addirittura a un principio di avvitamento. Domando l'autorizzazione ad atterrare. Prudentemente, in linea retta, con una buona riserva di velocità, effettuo l'avvicinamento, abbasso i flap e tutto va bene fino alla richiamata. Ma queste ali pesanti, che sembrano avere una grande riserva di sostentamento, sono traditrici; ho appena cominciato a toccare la cloche che già comincio a stallare e il velivolo cade come un sasso, abbattendosi sull'ala sinistra, e poi rimbalza in su di dieci metri, col muso dritto al cielo, in un fracasso spaventoso. Do tutto motore per attutire la caduta, pur lottando come un disperato con gli alettoni, per non andare a finire sul dorso. Finalmente, dopo due o tre balzi e colpi di freno stridenti, il mio Typhoon, domato, rulla alla meno peggio sulla pista che pare troppo corta. Prima di uscire sul raccordo, devo ancora fermarmi in mezzo a una nuvola di fumo e d'olio. Un forte odore di gomma bruciata si sprigiona dai miei poveri pneumatici che hanno validamente resistito alle sette tonnellate rotolate su loro a 200 chilometri l'ora. Per fortuna, il mio cattivo atterraggio non è stato troppo notato: ve ne sono stati di così brutti, questo pomeriggio, due dei quali con gravi avarie, che finché l'apparecchio è intatto qualunque atterraggio è considerato buono Ho la fronte bagnata di sudore, ma il morale è più alto. La Grande Giostra
  18. Dave97

    Pilot Reports

    Dall’ I-SPIT con sentimento Il mio grande giorno, quello del primo volo sullo "Spitfire", è stato il 30 ottobre 1982, quando alle 13,05 sono decollato dalla pista di Malpensa. Il primo volo dell'I-SPIT, a ricostruzione ultimata, l'aveva eseguito Paul Day il27 ottobre 1982; tre giorni più tardi Paul mi trasferiva il caccia da Vergiate a Malpensa, in modo da darmi la possibilità di mettere in pratica i preziosi consigli di piloti più esperti di me, ed in prima fila i collaudatori della SIAI: «Almeno al primo volo su un aereo così diverso da quelli che sei abituato a portare in giro, cerca di evitare un problema in più, quello della lunghezza della pista di decollo». In effetti, la pista di Vergiate non è poi lunghissima, e la collina a Sud ed il paese a Nord avrebbero potuto complicarmi parecchio l'esistenza, se qualcosa non fosse andato bene. Paul Day atterra a Malpensa alle 12,55, tra lo stupore di comandanti DC-10 e Boeing 747 delle più svariate compagnie. che probabilmente credono di avere le traveggole, e dopo un breve rullaggio porta lo SPIT al parcheggio, dove l'aspetto, sempre col motore in moto. Paul salta giù dall'aereo, mi aiuta a tirare le cinghie e a sistemarmi il casco, e per un attimo mi squadra con attenzione, ben consapevole di quale esperienza stia per affrontare. Supero anche quest 'ultimo esame, perché Paul mi fa un sorriso - se gli costa fatica sa dissimularla benissimo - ripetendomi che non avrò il minimo problema; poi salta giù dall'ala. Rullo lentamente fino al punto attesa, tenendo d'occhio le temperature del glicol e dell'olio maledettamente alte, in quanto al "Merlin", che per l'occasione ha girato a¬cuni minuti a terra, le attese non piacciono, e col carattere che si ritrova fa presto a scaldarsi; poi la torre mi autorizza al decollo. Mi allineo con l'asse della pista, stringo un po' i freni e comincio a dare gas molto lentamente. Poi, quando mollo i freni, do anche piede destro. Dopo circa 200 metri di rullaggio, con un'accelerazione ed un rombo - direi meglio un fragore - che mai prima ho provato comincio ad alleggerire la coda spingendo un po' la barra avanti: mi rendo conto di quanto energica sia la coppia -me l'avevano detto e ripetuto, ma un conto è sentir raccontare, ed un conto è provare con l'l-SPIT dannatamente spostato sulla sinistra. Colpa mia, perché non ho dato subito piede destro con tutto l'entusiasmo necessario. Mentre mi avvicino al bordo sinistro della pista, leggo 85 nodi sull'anemometro, e tiro leggermente la barra: è un attimo, e mi trovo per aria. Mi allineo immediatamente con la pista e, a circa 100 metri di quota, eseguo la manovra di retrazione del carrello, che è piuttosto scomoda e complicata, dato che la relativa leva è a destra. Viro a destra, e a circa 1.600 piedi riduco motore, anche se sono abbondantemente sotto la potenza massima, dato che ho decollato con poco più del 50% dei CV disponibili; viro di 180. in cabrata sulla sinistra, poi a destra, e quindi faccio 360 a media inclinazione. Sento però dalla torre che vi sono un po' di aerei in attesa, e decido quindi di atterrare. Fuori carrello, fuori flap, sottovento, 90" a destra, virata base di 90" ancora a destra, finale - onestamente, molto rilassato ¬mantenendo i 90 nodi indicatimi da Paul; anche se mi guarda da terra è come se fosse con me nell' abitacolo dell' I-SPIT. dopo il trattamento intensivo di raccomandazioni e spiegazioni fornitomi negli ultimi tre giorni prima del mio volo. In prossimità della pista assumo la posizione su due punti, preparandomi a toccar terra con le due ruote avanti, a muso leggermente alto. Tocco e lo SPIT sobbalza appena, molto dolcemente: continuo il mio primo atterraggio, tirando la barra tutta indietro, in modo da costringere il ruotino a terra per poter controllare la direzione e la velocità. Questa va calando, e basta far funzionare leggermente i freni ad aria compressa perché lo "Spitfire" si fermi a 700 metri dalla testata pista. Mi sento molto soddisfatto e rilassato, dopo una sensazione forse a metà tra preoccupazione e paura, e rullo fino al parcheggio, dove Paul Day è in attesa di riportare l'I-SPIT a Vergiate, in casa SIAI. Anch'io, naturalmente, torno a Vergiate, in macchina, con tre amici, abbastanza sopraffatto da tante emozioni, al punto da rimanere in silenzio per tutto il percorso Non è questione di retorica, ma devo dire che da quel momento sentii che in me qualcosa era cambiato. Ricordo che per una settimana non riuscii a chiuder occhio di notte, ripensando all'esperienza che avevo vissuto: fu solo dopo il primo volo, anche se breve, che riuscii a rivivere i sei minuti che avevo passato su questa splendida macchina - anzi, che questa meravigliosa macchina mi aveva regalato. E mi trovai perfettamente d'accordo con tanti piloti da caccia della seconda guerra mondiale, concordi nel giudicare superlativa la dolcezza e il coordinamento dei suoi comandi. Secondo i collaudatori della Supermarine, che di "Spitfire" ne avevano provati certamente tanti, il Mk VIII, come il mio, era il migliore di tutti. Franco Actis Jp4 aprile 1984
  19. Dave97

    World War II Aces

    La paghiamo cara! Bisogna diffidare di questi accidenti di cacciatori tedeschi come della peste: non sai mai con chi hai a che fare. Ore 17.30. Attacchiamo una colonna di camion nei pressi di Bény-Bocage. Con queste nuvole basse e con la contraerea, il sistema che si inaugura di volare in due sezioni non mi dice nulla di buono. Volo oggi con una sezione eccellente: Jimmy come numero 2, Bruce Dumbrell come numero 3 e Mouse Manson come numero 4. Con loro non c'è bisogno di grandi spiegazioni via radio. Un semplice battito d'ali e sono già in formazione d'inseguimento e di battaglia. Jimmy mi segnala due velivoli, lontano, davanti, a sinistra. Volano rasente gli alberi. A 3000 metri li identifico: sono Focke Wulf 190 Faccio mollare i serbatoi e acceleriamo. Guadagniamo su loro facilmente. Debbono scortare qualcosa sulla strada, probabilmente grosse colonne con precedenza assoluta di autocisterne per carri armati inchiodati dalle parti di Bény¬Bocage. A 1000 metri lascio la protezione del suolo e inizio una candela per metterci in posizione di combattimento. Ci avvistano immediatamente e salgono per affrontarci. Proprio in quel momento il comandante e il suo numero 2 passano attraverso noi come ciechi. Per evitare una collisione, effettuo una brusca virata e la formazione della mia sezione è rotta. Giocando d'audacia, i due Boche attaccano in candela. Sono due tipi in gamba. La loro manovra temeraria mi disorienta. M'ero preparato a tagliar loro la strada delle nuvole, ma non m'attendevo di vederli così celermente su di noi. L'errore del mio nuovo comandante mi ha fatto perdere il vantaggio iniziale. Prima ancora che abbia potuto fare il minimo movimento difensivo, un enorme motore stellare s'inquadra nel mio parabrezza e un fascio di traccianti mi arriva dritto fra gli occhi. Istintivamente spingo la cloche, sento il vortice della sua elica sui miei impennaggi e a stento evito un albero. Viro disperatamente, con la cloche contro il ventre, in tempo per vedere una formidabile deflagrazione al suolo, presso una casa colonica: un nuvolone nero. Un'ala di Spitfire rimbalza, strappata. Il comandante e il suo numero 2 sono scomparsi. Il secondo Focke Wulf insegue uno Spitfire completamente smarrito, che riesce a infilarsi fra le nuvole, non senza aver sparacchiato tre o quattro colpi. . . Impegno il Boche: vira così stretto che lo sfioro senza poter ottenere una correzione sufficiente per tirargli. Bisogna fare attenzione: è un tipo che conosce tutte le malizie. Jimmy, intanto, chiede soccorso. È stato colpito. Il Focke Wulf ritorna verso di me, perfidamente, in scivolata e sono costretto a disimpegnarmi così bruscamente che l' apparecchio va in auto-rotazione e mi riprendo solo a filo degli alberi, con un mezzo tonneau molto rischioso, che mi dà un tuffo al cuore. Sparo a mia volta sul Focke Wulf, ma quell'animale è svelto a derapare sulle sue ali corte e lo fallisco. Riprendo quota con una Immelmann. La flak riattacca: solito accavallamento di traccianti rossi e verdi. A tutto motore risalgo verso le nuvole. I Focke Wulf sono scomparsi: l'azione è durata sessanta secondi. A questo punto, scorgo di fronte a me uno Spitfire che scende planando, con il motore al minimo. Dai suoi radiatori squarciati sfugge una lunga nuvola di glicole in fiamme. . Leggendo la matricola, mi sento un colpo allo stomaco che mi toglie il respiro: LO-S. È Jimmy! Gli passo molto vicino, per vedere. Chiamo Jimmy, ma non ottengo risposta. Vorrei fare qualcosa, aiutarlo, non assistere terrorizzato e impotente alla fine d'un buon amico. Non posso distinguere nella cabina che una forma vaga, rattrappita, abbandonata sulla cloche e, proprio dietro, nella fusoliera, una serie di strappi a intervalli regolari. Lentamente lo Spitfire si mette in picchiata man mano accelerando. Chiudo gli occhi, mi prende una nausea amara alla gola... ... poi c'è solo un braciere ai bordi d'una strada. Rientrando, sento colarmi le lagrime lungo il naso. Che dirà Max? E tutto per colpa di Clueless Claude. Speriamo che Dumbrell sia rientrato. Farsi accoppare in quattro contro due in tali condizioni è una vergogna! Mio Dio, fate che Bruce sia rientrato. Non saprei da solo spiegare come sono andate le cose. Bayeux... Longues, finalmente. Un capannello s'agita attorno a uno Spitfire sfasciato lungo il margine della pista. Faccio un passaggio per rendermi conto. Il pilota, Dio sia lodato, fa grandi segni. È Bruce, salvo!. La Grande Giostra
  20. Dave97

    Aliante

    Ad Esempio il fantastico ASK21 ? ASK21 ASK21_2 Ma vuoi mettere il piacere di Volteggiare nell’aria, con in sottofondo il solo fruscio del vento..
  21. Beh diciamo che : Il libro è stato scritto nel 1948, quindi i dati tecnici sul Tempest e altri aerei, potrebbero volutamente essere arrotondati per eccesso. Per quanto riguarda i dati reali sugli abbattimenti, come testimonia Edward. Sims nel suo libro, ci vollero diversi anni prima che fossero confermati da entrambo le parti… Se proprio dobbiamo muovere un’appunto al libro di Clostermann è che , secondo me, descrive in modo poco dettagliato le fasi dei duelli aerei mentre i libri di Sims sotto questo aspetto sono molto più coinvolgenti.
  22. Edit: Allego la ricostruzione storica dell'evento precedentemente descritto
  23. Buscaglia - l'asso degli Aerosiluranti In un suo celebre libro di memorie, Martino Aichner (a sua volta pilota di aerosiluranti e autore tra l'altro dell'affondamento del C. T. britannico Bedouin durante la battaglia navale di Pantelleria del 15 giugno 1942) afferma che se Baracca è stato elevato a simbolo del combattente alato italiano della Prima Guerra Mondiale, lo stesso simbolo per il secondo conflitto mondiale spetta, a Carlo Emanuele Buscaglia, asso degli aerosiluranti italiani. «Buscaglia - ha scritto Aichner - non fu un pilota raffinato come Faggioni, Moci o Erasi, né completo come Raffaelli, Unia o Graziani, ma era un combattente nato. L'elemento del carattere che lo faceva superiore a qualsiasi altro era l'incredibile forza di volontà dimostrata in ogni occasione. Per lui la guerra consisteva in un lavoro e voleva che questo lavoro fosse fatto con serietà e per primo lo faceva molto seriamente». Buscaglia nacque a Novara nel 1915, entrò nell'Accademia aeronautica nel 1934 seguendo il corso Orione e all'inizio del conflitto era tenente nella 254° Squadriglia da bombardamento con la quale si batté sul fronte occidentale, ma nell'agosto 1940 era già stato assegnato al Reparto sperimentale aerosiluranti che proprio il 15 di quel mese sferrò un attacco alla base britannica di Alessandria. Immediatamente, le qualità eccezionali di Buscaglia emersero e il suo primo notevole successo porta la data del 17 ottobre, quando nel golfo di Sollum, durante la notte, riuscì a silurare l'incrociatore pesante Kent che dovette essere rimorchiato fino ad Alessandria. Le gesta della 278° Squadriglia, alla quale apparteneva Buscaglia, divennero ben presto famose; Si trattava dei «Quattro gatti» del capitano Erasi (i quattro aerei della squadriglia al momento della sua costituzione, che avevano assunto come distintivo appunto quello con quattro gatti che passeggiavano su un siluro) che inflissero gravissimi danni all'incrociatore Liverpool e il 3 dicembre, per merito personale di Buscaglia, al Glasgow Nel 1941, al comando della 2810 Squadriglia, Buscaglia operò nell'Egeo (successi contro un convoglio britannico a Creta). Le imprese vittoriose si rinnovarono nei mesi successivi, sempre ai danni della Mediterranean Fleet britannica. Con i nuovi S.79 Buscaglia, con i compagni Cimicchi, Faggioni, Graziani e Forzinetti, inflisse danni ai britannici nel Mediterraneo orientale: convogli, navi isolate e le maggiori unità della flotta inglese vennero perseguitate senza posa dai siluri della 281° Squadriglia. Ormai Buscaglia aveva raccolto frequenti citazioni nei Bollettini di guerra ed era in testa alla classifica del tonnellaggio del naviglio affondato (con un primato addirittura mondiale di 100.000 tonnellate). Durante la prima battaglia della Sirte nel dicembre 1941 il nucleo di Buscaglia, Faggioni e Forzinetti (Cirenaica) e quello di Cimicchi, Rovelli e Cipelletti (Gadurrà - Rodi) si era battuto a fondo contro un convoglio nel quale i ricognitori avevano segnalato erroneamente come presenti navi da battaglia. Forzinetti venne però abbattuto e la stessa sorte toccò a Rovelli a fine mese. Con la 204° e 205° Squadriglia del 41° Gruppo, Buscaglia e compagni si batterono nel febbraio e nel marzo 1942 e parteciparono alla seconda battaglia della Sirte. Si giunse infine alla costituzione del 132° Gruppo con la 278° e la 281° Squadriglia e alla sua partecipazione alla battaglia di Pantelleria. Intanto Buscaglia era stato ricevuto a.Palazzo Venezia da Mussolini: sei medaglie d'argento e una croce di ferro di seconda classe gli erano già state aggiudicate. Il comunicato ufficiale, ricordando le ventinove azioni di siluramento e i ventiquattro siluri messi a segno, affermava: «L'attività del capitano Buscaglia non trova per il momento alcun riscontro in nessuna delle aviazioni estere». L'incontro si concluse con il preannuncio della promozione a maggiore e con una promessa di Buscaglia: «Combatterò sino all'ultimo!». E giungiamo al 12 novembre 1942: quando l'aereo di Buscaglia era andato a schiantarsi nel golfo di Bougie, l'asso non era morto, come si era dato per scontato. Gravemente ferito, era stato recuperato in mare insieme al fotografo Maiore (che però era successivamente deceduto) e portato in un ospedale britannico e quindi in prigionia negli Stati Uniti. Nel 1944 si seppe della reale sorte di Buscaglia; l'asso, reduce da dolorose operazioni chirurgiche conseguenti alle terribili ustioni, ricomparve in Italia nel 1944 nel regno del sud, impaziente di rientrare nella lotta. Dopo l'8 settembre 1943 gli specialisti aerosiluranti si erano ritrovati per metà al nord nel territorio della Repubblica Sociale Italiana e per metà al sud per collaborare con gli Alleati. Carlo Faggioni fu l'animatore al nord della ricostituzione del gruppo Buscaglia che vide la presenza di Buri, Marini, Teta, Sponza, Bertuzzi e Balzarotti e che si batté alla testa di ponte di Anzio dove il 6 aprile 1944 lo stesso Faggioni venne abbattuto. Il Gruppo della RSI cambiò il suo nome assumendo quello di Faggioni. Al sud l'animatore degli aerosiluranti fu Massimiliano Erasi al comando del 132° Gruppo ricostituito che nel giugno 1944 effettuò il passaggio sui Baltimore americani. Il 23 agosto 1944 Buscaglia, senza farsi notare dai compagni seduti in mensa, salì su un Baltimore e cercò di decollare, ma un incidente tecnico fece impennare l'aereo che ripiombò a terra incendiandosi. Il giorno dopo l'asso degli aerosiluranti moriva in ospedale. Perché Buscaglia aveva voluto prendere il volo da solo? La risposta non è mai venuta: da una parte si affermò che, volando da solo, cercava di riacquistare fiducia in se stesso; dall'altra parte (nella RSI) si disse invece che aveva voluto fuggire per ricongiungersi con i compagni al nord. Storia Illustrata , maggio 1984
  24. I Mitici Gobbi all'attacco di Bougie Il novembre 1942, ore 17,40, aeroporto di Castelvetrano. Tre aerosiluranti S.79 rientrano alla base al termine di una missione. «Un velivolo non è tornato! ». La voce corre tra gli uomini della 278° e della 281° Squadriglia del 132° Gruppo autonomo aerosiluranti. Poi si ha la conferma ufficiale. L'impresa viene diligentemente verbalizzata alcuni giorni dopo ,dall'allora capitano Giulio Cesare Graziani, comandante ad interim del Gruppo dopo l'improvvisa scomparsa di Carlo Emanuele Buscaglia (che avverrà il 12 novembre, cioè il giorno successivo). I siluranti del Gruppo efficienti erano 16. La missione bellica programmata riguardava due velivoli della 278° Squadriglia e due velivoli della 281°. Compito: attaccare con siluro nella baia di Bougie un grosso convoglio nemico alla fonda, composto di 10 piroscafi e circa 15 unità di naviglio sottile da guerra. Il verbale annotò poi il risultato. «I velivoli si sono gettati decisamente attraverso il violento fuoco di sbarramento contraereo e hanno lanciato i siluri a distanza ravvicinata contro piroscafi di grosso tonnellaggio. Un piroscafo è stato sicuramente colpito da siluro. È stato notato un altro piroscafo avvolto di denso fumo nero che gli equipaggi non hanno potuto assicurare se sia stato provocato dallo scoppio del siluro. Non si è potuto osservare il risultato degli altri siluri causa la violentissima reazione contraerea e gli attacchi della caccia nemica. Durante la rotta di scampo la formazione è stata attaccata da velivoli da caccia tipo Hurricane. Durante l'attacco un velivolo della formazione è stato abbattuto in fiamme. Tutti i vetivoli sono rientrati colpiti dalla reazione a.a.». Fin qui il verbale della missione che si concludeva con l'elenco dei membri dell'equipaggio abbattuto: sottotenente pilota Ramiro Angelucci, nato a Ronta nel 1914; maresciallo Alberto Fedi , nato a Livorno nel 1911); primo aviere motorista Guido Savio ,nato a Roverbella nel 1913; primo aviere fotografo Francesco Cupiraggi ,nato a Sambiase nel 1918; aviere scelto armiere Claudio Flauto ,nato a Torre Annunziata nel 1921; aviere scelto fotografo Cesarino Rossi , nato a Modena nel 1923). Il 18 gennaio 1984, a più di quarantuno anni dalla tragica missione, i resti dei sei uomini recuperati a Bougie, la città algerina che oggi viene chiamata Béjaia, e trasportati in Italia, sono stati tumulati nel corso di una cerimonia a Roma presso il Sacrario dei Caduti in volo dell'Aeronautica Militare a coronamento di un'opera di pace e di pietà alla quale hanno collaborato anche le autorità e i cittadini algerini. Le ferite della Seconda Guerra Mondiale si riaprono dunque ancora oggi a più di quarant'anni. Si riaprono le ferite e si riaprono le pagine di quella drammatica storia del novembre 1942, il mese che capovolse le sorti del conflitto. La storia Il 4 novembre a El Alamein i mezzi corazzati britannici raggiungevano il terreno aperto e iniziavano l'inseguimento delle restanti forze corazzate italo-tedesche in ritirata. In quella stessa giornata Alexander poteva telegrafare a Churchill: «Il fronte nemico è stato infranto». Il 5 novembre l'inseguimento alleato venne accelerato. Rommel fu costretto ad abbandonare Fuka e tre giorni dopo Marsa Matruh fu ripresa dagli anglo-americani. Rapidamente la porzione di Egitto conquistata nella primavera del 1942 veniva persa. Il ripiegamento del feldmaresciallo tedesco, ritenuto fino a quel momento invincibile, proseguiva irresistibilmente. Nella notte tra il 7 e l'8 novembre, di sorpresa, scattava sulle coste marocchine e tunisine l'operazione Torch: la Task Force occidentale dell'americano Patton puntò su Casablanca, la Task Force centrale del britanico Fredenhall assalì Orano, la Task Force orientale del britannico Ryder piombò su Algeri. Apparve subito evidente che l'operazione era riuscita in pieno. Il maresciallo Pétain da Vichy ordinò alle truppe in Africa di contrastare l'invasione alleata, ma contemporaneamente un messaggio segreto venne inviato all'alto commissario ammiraglio François Darlan per lasciarlo libero ,eventualmente , di trattare con gli Alleati. Ciò puntualmente avvenne. La Task Force orientale, consolidata la conquista di Algeri, penetrò per via di terra verso Costantina e verso l'aeroporto di Bosura, mentre per via di mare veniva conquistata Bougie (11 novembre) e truppe aerotrasportate catturavano il presidio di Bona (12 novembre). I tedeschi, colti di sorpresa, corsero subito ai ripari e il 9 novembre iniziarono l'invio di truppe aerotrasportate che presero terra negli aeroporti di Sidi Ahmed e di Tindja (presso Biserta) e di El Aouina (presso Tunisi). Il giorno seguente consolidavano la loro testa di ponte a una trentina di chilometri da Biserta e Tunisi. Più o meno su questa linea si sarebbe stabilito il fronte di battaglia fra i tedeschi e gli uomini del 5° Corpo britannico, mentre altre truppe tedesche venivano sbarcate nel sud della Tunisia a Sfax e Gabes per costituire una barriera entro la quale accogliere le forze di Rommel ripieganti dall'Egitto e impedire quindi il ricongiungimento alleato nel Nordafrica. L'aviazione dell' Asse giocò un ruolo importante in quei giorni di novembre anche se non riuscì a impedire il successo dell' operazione Torch. La ricognizione italo-tedesca aveva già avvistato il convoglio della Task Force orientale di Ryder che puntava su Algeri nel corso della giornata del 7 novembre, ma si ritenne che si trattasse del solito convoglio (anche se di consistenza inusitata) diretto a Malta. Mentre la Luftwaffe e l'Aeronautica italiana disponevano per il trasferimento delle squadriglie negli aeroporti sardi e siciliani, le azioni offensive dell' Asse iniziarono. Aerosiluranti del 105° Gruppo attaccarono il convoglio al largo di Algeri già nella serata dell'8 novembre, ma il buio vanificò la missione. Andarono all'attacco anche sei aerosiluranti del 130° Gruppo che presero di mira un incrociatore e quattro piroscafi; un aereo fu danneggiato dalla contraerea. Entrò anche in azione il 132° Gruppo del maggiore Carlo Emanuele Buscaglia con aerosiluranti della 278° e della 281° Squadriglia che nei giorni seguenti venne trasferito da Pantelleria (dove era schierato all'inizio dell'operazione Torch) a Castelvetrano (Trapani). La prima missione del Gruppo avvenne 18 novembre non appena giunsero le notizie degli sbarchi alleati ad Algeri. Decollarono alle 15,15 dodici «Gobbi», sei della 278° e sei della 281° Squadriglia: era la prima grande sortita dopo le missioni dell'agosto precedente. Ma il buio sopraggiunse presto e, a poca distanza dagli obiettivi, Buscaglia decise che non era il caso di proseguire e diede ordine di rientrare. L'atterraggio avvenne a notte ormai fatta, alle 20,30. Il 9 e il 10 novembre furono trascorsi nei preparativi e nell'attuazione di variazioni dello schieramento tra Pantelleria e Castelvetrano. Nel frattempo la flotta davanti ad Algeri subì l'attacco della 283° e della 280° Squadriglia. Il mattino dell' 11 novembre giunse notizia a Castelvetrano che nella baia di Bougie si trovava, per lo sbarco, un convoglio composto di dieci piroscafi e una quindicina di unità da guerra minori. Giunse anche l'ordine a Buscaglia di andare all'attacco. Graziani, attraverso Romagna Maloja, cosi ha rievocato le disposizioni impartite da Buscaglia quella mattina: «Il nostro obiettivo è Bougie. La baia pullula di navi da guerra e da carico. Noi dobbiamo preferibilmente attaccare le navi attraccate ai moli. Attaccheremo perciò da sud, tenendo ci possibilmente nelle gole dei monti per sfuggire ai radar e per sorprendere la difesa antiaerea. Vengono con me: Graziani, Faggioni e Angelucci. Gli altri, pronti per le prossime azioni». L'equipaggio dell'S.79 di Buscaglia comprendeva il sergente maggiore pilota Francesco Sogliuzzo, il maresciallo mar¬conista Edmondo Balestri, l'aviere mo¬torista Vittorio Vercesi, l'aviere armiere Walter Vecchiarelli e l'aviere scelto pilo¬ta Francesco Maiore. Con il capitano Giulio Cesare Graziani volavano il sergente maggiore pilota Mario Trombetti, l'aviere motorista Luigi Tamburini, il sergente marconista Renzo Casellato, l'aviere armiere Pietro Giannandrea e l'aviere allievo fotografo Athos Pasquesi. Con il tenente pilota Carlo Faggioni volavano il sergente maggiore pilota Armando Borghi, il sergente maggiore motorista Ideale Facca, l'aviere marconista Giovanni Capaldi, l'aviere armiere Italo Gianni e l'aviere scelto fotografo Ugo Vascellari. Il quarto S.79 era comandato dal sottotenente pilota Angelucci con Fedi, Savio, Cupiraggi, Flauto e Rossi. Quel giorno il cielo era sereno con ottima visibilità. Per realizzare, nonostante tutto, la sorpresa, decollati alle ore 11,50, i quattro «Gobbi», secondo quanto aveva anticipato Buscaglia, penetrarono in territorio tunisino fra Tunisi e Biserta; si portarono a una ventina di chilometri dalla costa e di qui diressero verso l'obiettivo, entrando in territorio algerino e giungendo alle spalle del porto passando su Setif. Alle ore 14,50 circa gli S.79 stavano per fare la loro apparizione nel golfo di Bougie ma, proprio in quel momento, i «Gobbi» vennero intercettati da sette Spitfire V. La sorpresa veniva a mancare, ma Buscaglia decise di andare avanti. A Bougie, in effetti, gli Alleati avevano stabilito una ferrea sorveglianza del cielo perché gli sbarchi erano ancora in corso: nella mattinata il compito era andato agli aerei dell' Argus, dell'Avenger e della Formidable che avevano portato la loro sorveglianza agli estremi eccessi abbattendo per errore un velivolo britannico da ricognizione proveniente da Gibilterra. Nel pomeriggio la sorveglianza del cielo era passata agli aerei della RAF che avevano dovuto contrastare l'attacco di cinque Ju.88 tedeschi. I sette «Spit», che appartenevano all'81° Squadron, piombarono sui «Gobbi» italiani riuscendo a mettere a segno alcuni colpi che danneggiarono gli S.79 senza tuttavia comprometterne la tenuta di volo. Venne colpito anche l'aereo di Buscaglia e il suo fotografo Maiore rimase ferito a un braccio. Terminato l'attacco degli Spitfire, gli S.79 erano intanto entrati nel golfo, iniziò il martellamento della contraerea alleata navale e di quella terrestre. Come ha raccontato Graziani, nella baia «c'erano incrociatori, cacciatorpediniere, torpediniere che incrociavano veloci alla ricerca di eventuali sommergibili nemici in agguato. Noi dovevamo attaccare i piroscafi attraccati alla banchina. Volammo sulle unità da guerra a 50-60 metri. Ho visto centinaia e migliaia di bocche di armi sputare fuoco verso di noi. La formazione avanzò in mezzo all'intreccio micidiale dei proiettili. Si percepivano colpi metallici dei proiettili e delle schegge delle granate che urtavano contro le pale delle eliche o sul rivestimento in lamierino del velivolo. I velivoli stessi rimbalzavano o sbandavano per effetto dello scoppio delle granate delle artiglierie contraeree. Era difficile pure mantenere le posizioni di pattuglia», Buscaglia si buttò in picchiata per portarsi alla quota di sgancio e nello stesso tempo virò a sinistra per attaccare da est verso ovest, dalla baia verso il molo. La formazione dei «Gobbi» era ancora compatta perché si era stretta per meglio difendersi dalla caccia. Improvvisamente il velivolo di Angelucci venne colpito in pieno: «Lo vidi esplodere in pezzi», ricorda Graziani. «Fu la visione di una frazione di secondo! ». Gli occhi dei tre comandanti superstiti si concentrarono sull'attacco. Buscaglia sganciò il siluro per primo, poi fu la volta di Graziani, infine quella di Faggioni. Un denso fumo nero avvolse almeno due piroscafi: si trattava dell' Avatea e del Chatay la cui perdita fu ammessa dagli Alleati. I tre aerei furono costretti a compiere un'improvvisa virata prima della collina che sovrastava Bougie, scegliendo forzatamente una rotta di scampo che li costrinse a riattraversare in senso inverso la baia, esponendosi nuovamente al tiro della contraerea. «Mi trovai » ha scritto Graziani « a essere all'interno della formazione in acrobatica evoluzione. Vidi sopra di me i velivoli di Buscaglia e di Faggioni che, al vertice della virata in cabrata, scomparvero alla mia vista perché con una manovra di scivolata d'ala passarono sotto di me e si portarono all'esterno della virata. Non avevo più fiato per respirare. In quel momento temetti di venire in collisione con loro perché scomparsi alla mia vista. Quando li rividi sulla mia sinistra,mi rassicurai. A volo radente lungo la spiaggia della baia, con l'ala del mio velivolo che sfiorava gli spigoli dell'alta costa, uscimmo da quell'uragano di fuoco, sul mare aperto». Ma le vicissitudini dei tre «Gobbi» non erano ancora terminate, perché gli Spitfire li ripresero in consegna, fortunatamente senza conseguenze. Il rientro alla base di Castelvetrano, come si è già detto, avvenne alle 17,40. Fu dopo l'atterraggio che lo choc della perdita di Angelucci e del suo equipaggio piombò come una cappa sui superstiti. Faggioni, stressato al massimo, si lamentò con Buscaglia che era stata una follia «sfidare una piazzaforte in pieno giorno così in profondità e senza nessuna scorta». Ma il mattino seguente, 12 novembre, gli uomini del 132° Gruppo Autonomo Aerosiluranti erano di nuovo all'attacco per una drammatica giornata che avrebbe visto l'abbattimento di Buscaglia, il non ritorno alla base dell'asso e la convinzione della sua morte con annuncio ufficiale nel bollettino di guerra numero 901 e concessione della medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Il nuovo attacco al porto di Bougie venne compiuto da sei S.79. Buscaglia volle con sé Aichner, Bargagna, Marini, Moci e Pfister e nel suo equipaggio volle essere presente anche il fotografo Maiore al quale i medici avevano consigliato invece di rimanere a riposo. Il percorso di avvicinamento a Bougie fu più o meno lo stesso del giorno precedente, anche se Buscaglia volle percorrere nell'ultima fase una variante per poter ottenere la sorpresa. I sei siluranti italiani riuscirono nell'intento ma, proprio mentre si gettavano nel golfo, a una distanza di circa cinque chilometri dall'obiettivo, vennero nuovamente attaccati dai sempre vigili Spitfire britannici. «Sul suo apparecchio » ha scritto Martino Aichner nel suo prezioso volume Storia degli aerosiluranti italiani e del gruppo Buscaglia « si sviluppò subito un incendio e certamente qualcuno dell'equipaggio fu ferito; noi abbiamo ancora negli occhi e nell'animo l'immagine di quell'aeroplano che tira diritto con la scia di fumo che diventa sempre più grossa. Quando, entrati nel campo delle mitragliere navali, la caccia ci mollò, speravo ancora che l'equipaggio di Buscaglia ce l'avrebbe fatta a domare l'incendio. Ma proprio nel momento in cui sorvolavamo un caccia torpediniere, l' S.79 del comandante incassò altri colpi e la scia di fumo si fece più densa. Benché mortalmente colpito Buscaglia superò senza esitazione l'anello di fuoco delle navi da guerra, diresse contro un grosso piroscafo alla fonda e sganciò mentre l'incendio divampava a bordo. Il velivolo scese come per un ammaraggio verso la parte occidentale del golfo; quando toccò l'acqua esplose e la benzina in fiamme si sparse sul mare». Ma che cosa era successo il giorno prima all'aereo di Ramiro Angelucci dopo essere stato colpito dalla contraerea? È a partire da questo punto che inizia un'altra storia di guerra che è proseguita fino ai nostri giorni. L'S.79 della 278° Squadriglia fu visto esplodere in volo o precipitare, si ritenne in mare. Da terra l'accaduto fu seguito da due testimoni, oggi anziani, ed è stato cosi ricostruito. Il «Gobbo» di Angelucci sarebbe stato colpito dal caccia britannico Monitor dopo aver sganciato il suo siluro e mentre si dirigeva verso il molo. Non esplose in volo ma ebbe certamente un grave incendio a bordo. Superato il porto e la cittadina di Bougie, l'aereo avrebbe compiuto una virata a sinistra di 360 gradi, forse in cerca di uno spiazzo di terreno adatto a un atterraggio di emergenza. Nel tentativo, sorvolando un'altura prospiciente la cittadina, avrebbe urtato con la sua ala sinistra contro i rami di un ulivo, precipitando contro il terreno e andando in pezzi. L'esplosione finale era da attribuirsi ai serbatoi di benzina. Estintosi il piccolo incendio, i testimoni oculari della caduta raggiunsero la zona e constatarono che cinque membri dell'equipaggio erano stati proiettati fuori dalla carcassa dell'aereo mentre il sesto vi era rimasto imprigionato. Tutti erano straziati dall'esplosione. Dopo una ricognizione sul posto di alcuni soldati britannici, che tolsero le piastrine di riconoscimento ai corpi dei piloti, gli abitanti del luogo provvidero alla sepoltura. Nelle vicinanze si ergevano la fattoria di un colono francese di nome Roussel e la fornace di proprietà di un certo Aliprandi, italiano. Fu costui che forni un mucchio di tavelloni forati di cotto con i quali furono preparate le tombe. Proprio sotto gli ulivi vennero scavate tre fosse orientate su est-ovest, come prescritto dal Corano. In ogni tomba furono composti due corpi, con la testa rivolta una a occidente e una a oriente: Una fila di tavelloni completò le tre tombe coperte di terra e rese riconoscibili grazie a tre grosse pietre. L'iniziativa per la ricerca dei corpi dell'equipaggio dell'S.79 partì da un fratello di Francesco Cupiraggi, fotografo a bordo dell'aereo di Angelucci. Questi, trovandosi per ragioni di lavoro in Algeria, riuscì a raccogliere testimonianze secondo le quali alcune persone avevano visto precipitare l'11 novembre 1942 (erano già passati trent'anni) un aereo italiano e avevano provveduto alla sepoltura dei piloti. Le indagini in luogo iniziarono a cura del capitano di vascello Roberto Del Toro che, assegnato ad Algeri, capitale della nazione algerina divenuta indipendente, si recò a Bougie (che aveva mutato il suo nome in Béjaia) e assodò che la possibilità di recuperare i corpi dei sei aviatori era concreta. Le autorità algerine si dichiararono disposte ad approfondire la ricerca che ebbe il successo sperato. Le tombe furono individuate e nella zona circostante venne recuperato anche un vecchio motore di aeroplano a pezzi, riconosciuto come appartenente all'S.79. Esattamente 41 anni dopo la tragica giornata del novembre 1942, è avvenuto il recupero dei resti di Angelucci, Fedi, Savio, Cupiraggi, Flauto e Rossi. Il 13 novembre dello scorso anno, infatti, atterrava ad Algeri un G. 222 della 46° Aerobrigata che portava a bordo una delegazione italiana composta dal generale di Squadra Aerea Giuseppe Pesce, dal colonnello di Fanteria Carlo De Simoni, dal tenente colonnello pilota Tiziano Boccagni, dal tenente di Fanteria Giulio Serafini e dal maresciallo fotografo Luigi Pascale. Lo stesso aereo il mattino seguente (dopo l'incontro con il capitano di vascello Del Toro e con l'ambasciatore italiano ad Algeri e una cerimonia con le autorità algerine) atterrava a Béjaia. Le operazioni di recupero si svolsero il 15 novembre: mentre alcuni operai provvedevano allo scavo per riportare alla luce le tre tombe, alcuni membri della delegazione italiana rintracciavano nella zona, parzialmente sepolti dal terriccio, tre motori Alfa 125. Uno dei motori segnava il punto preciso nel quale l'aereo era precipitato a terra ed esploso. La pietosa opera di recupero dei resti dei sei aviatori venne portata a termine nel pomeriggio: le ossa furono sistemate in sei cassette di lamiera. I sei uomini dell'S.79 Sono così rientrati in Italia, seguiti anche da uno dei motori e da alcune altre parti del relitto, che sono finiti al museo di Vigna di Valle (Roma). Il 18 gennaio 1984 una solenne cerimonia religiosa-militare, svoltasi nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura a Roma, vedeva la tumulazione dei resti dell'equipaggio dell'S.79 di Angelucci. I sei uomini riposavano finalmente in pace nella terra per la quale avevano combattuto ed erano morti. Quarantun anni dopo l'11 novembre 1942 si poteva dire che anche l'S.79 della 278° Squadriglia del 132° Gruppo autonomo aerosilurante era infine rientrato alla base. Storia illustrata , maggio 1984
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