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Titan Missile Museum


Guest walter

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Nella località di Sahuarita, Green Valley, a circa 35 chilometri a sud di Tucson in Arizona, esiste un interessante museo realizzato all’interno di un centro di lancio per missili intercontinentali Titan II, 54 dei quali hanno fatto parte per un ventennio dell’arsenale nucleare degli Stati Uniti. Insieme a un’analoga postazione di missili Minuteman situata nel South Dakota, il Titan Missile Museum offre ai visitatori la possibilità di immergersi nel clima della guerra fredda che per decenni ha segnato i rapporti tra i due grandi schieramenti militari.

 

All’epoca della sua entrata in servizio, il Titan II, il più grande missile intercontinentale realizzato dagli Stati Uniti [bistadio, lunghezza 31,4 metri, diametro 3 metri, peso al lancio 122.445 chilogrammi], ha rappresentato un decisivo passo in avanti rispetto ai suoi due predecessori, Titan I e Atlas, sviluppati parallelamente a metà degli anni Cinquanta. Questi infatti erano caratterizzati da una sequenza di lancio abbastanza macchinosa in quanto utilizzando propellente liquido non potevano essere lanciati direttamente dall’interno dei silos ma dovevano essere portati in superficie, tramite elevatori, e successivamente riforniti di carburante: una manovra che richiedeva non meno di 30 minuti, forse troppi in caso di un improvviso attacco da parte dell’Unione Sovietica. Grazie all’adozione di un nuovo tipo di propellente, sempre liquido ma più stabile, unito a una sostanza ossidante, nel Titan II il problema venne superato e l’USAF ebbe così a disposizione un missile lanciabile direttamente dai silos [“hot launch”] ]entro sessanta secondi dall’ordine di lancio. Inoltre il nuovo ordigno possedeva una gittata molto superiore, oltre 9.000 miglia rispetto alle 6.300 del Titan I, consentendo così al SAC (Strategic Air Command) una maggiore dispersione delle proprie basi di lancio, fino al quel momento concentrate nella parte nord-occidentale del Paese.

 

La possibilità di sviluppare un’arma molto più efficace, indusse nel novembre 1959 il Dipartimento della Difesa a limitare l’assegnazione del Titan I a soli 6 squadrons, puntando le risorse disponibile sul nuovo ICBM [inter-Continental Ballistic Missile]: la Martin Company non deluse le aspettative e dopo appena tre anni, nel dicembre 1962, il SAC riceveva il suo primo Titan II. Ancora un anno e il 31 dicembre 1963 tutti i 54 missili erano dichiarati pienamente operativi in seno a tre Strategic Missile Wing (308th SMW, Little Rock Air Force Base, Arkansas; 381st SMW McConnel AFB, Kansas; 390th SMW, Davis Monthan AFB, Arizona), ognuno dei quali articolato su due Strategic Missile Squadron, rispettivamente 373rd SMS e 374th SMS; 532nd SMS e 533rd SMS; 570th SMS e 571st SMS: l’unità elementare era dunque rappresentato dallo squadron, ognuno dei quali disponeva di 9 elementi. Le capacità del Titan II impressionarono molto favorevolmente i generali del SAC tanto che il 24 maggio 1963 il Capo di Stato Maggiore dell’USAF, Curtis E. LeMay raccomandava il ritiro del Titan I entro il 1968, scadenza anticipata addirittura al 1° aprile 1965 dal Segretario alla Difesa, Robert S. McNamara.

 

Nell’armamentario del’aeronautica statunitense il nuovo Titan veniva a rappresentare una sorta di artiglieria pesante, non solo per le sue dimensioni ma soprattutto per la capacità di trasportare una singola testata nucleare General Electric Mk6 da 9 megaton, ovvero una potenza distruttiva inimmaginabile tenendo presente che la bomba che distrusse Hiroshima era di appena 10-15 kiloton (1.000 kiloton = 1 Megaton). Da qui la decisione di armare solo 54 postazioni lasciando che il fulcro delle forze strategiche terrestri fosse affidato ai più piccoli e precisi Minuteman a propellente solido, ancora oggi in servizio ovviamente in versioni migliorate. Da sottolineare che le forza armate USA non hanno mai ufficialmente comunicato la potenza della testata nucleare MK6 ma la maggior parte delle fonti concordano sul valore qui riportato.

 

La carriera del Titan II si è sviluppata per circa 20 anni, il doppio di quanto inizialmente previsto: solamente il 2 ottobre 1981 il segretario alla Difesa Frank C. Carlucci diede l’ordine di smantellare i 54 silos, operazione iniziata nel settembre 1982 a Davis Monthan e conclusa nel maggio1987 a Little Rock. La decisione di accelerare la disattivazione delle postazioni [oggetto dei trattati sulla limitazione delle armI strategiche] fu presa anche a seguito del grave incidente accaduto il 19 settembre 1980 al silo 374-7 di Damascus, Arkansas. Nel corso di un’operazione di ordinaria manutenzione, a seguito di un errore umano, si registrò una perdita nei serbatoi. Circa nove ore più tardi, mentre le squadre di emergenza cercavano di mantenere la situazione sotto controllo, avvenne una potente esplosione a seguito della quale la testata nucleare W53 fu catapultata a 180 metri di distanza: nell’incidente un uomo perse la vita e altri 21 rimasero feriti. Peraltro già tre anni prima, il 24 agosto 1978, un incidente dovuto sempre alla fuoriuscita di propellente aveva causato la morte di altri due avieri in servizio presso la postazione 533-7 situata nei pressi di McConnel, Kansas.

 

Terminata la missione di ICBM, il Titan II iniziò una carriera come vettore per satelliti spia, scientifici e meteo [il debutto risale al 5 settembre 1988], conclusasi nei successivi anni Novanta. Il lancio dell’ultimo razzo della famiglia Titan, nella versione IV, è avvenuto dalla Vandenberg AFB nell’ottobre 2005 con a bordo un satellite dell’U.S. National Reconnaissance Office.

 

Come si è visto, il 571st SMS di Davis Monthan aveva a disposizione nove postazioni di lancio, tutte situate a sud di Tucson e lontane l’una dall’altra non meno di sette miglia, una distanza considerata sufficiente affinchè l’esplosione di un’unica testata nucleare sovietica, per quanto potente, non potesse distruggere due silos contemporaneamente. Quella trasformata in Titan Missile Museum è la numero 571-7 [31.90 Nord, 110.99 Ovest], costruita lungo la statale 19 che conduce alla città di Nogales e alla frontiera con il Messico.

 

Al pari di tutti gli analoghi complessi, l’equipaggio era composto da quattro uomini, due dei quali ufficiali, che effettuavano turni di 24 ore, con una media di otto turni mensili: il comandante [Missile Combat Crew Commander, MCCC], solitamente un capitano o un maggiore, il suo vice [Deputy Missile Combat Crew Commander, DMCCC], il tecnico missilistico [ballistic Missile Analyst Technician, BMAT] e un secondo tecnico responsabile dei diversi apparati e sistemi [Missile Facilities Technician, MFT].

 

Il complesso sotterraneo erano suddiviso in tre distinte strutture, tra loro collegate da un corridoio lungo 80 metri [soprannominato Cableway]: la zona di accesso, il centro di controllo e il silos con all’interno il Titan II. Una volta terminato il pre-briefing mattutino presso la Davis Monthan AFB dove veniva messa a conoscenza dello stato di allerta, delle condizioni meteo e di qualsiasi informazione inerente il servizio, l’equipaggio raggiungeva in macchina la porta principale della postazione, in alcuni casi situata anche a 40 miglia di distanza, dove dopo l’opportuno riconoscimento effettuato dagli uomini già in servizio, era autorizzato a entrare per dirigersi verso l’accesso blindato e sotterraneo [se questo non veniva raggiunto entro tre minuti veniva fatto scattare l’allarme con la richiesta d’intervento delle forze di sicurezza]. Dall’esterno il complesso, che era sorvegliato da un radar del tipo TPS39, non presentava alcunchè di particolare: nessun edificio, una semplice recinzione, alcune antenne e la piastra di cemento che chiudeva il silos del missile.

 

Dopo un nuovo controllo, gli uomini scendevano a circa 12 metri sottoterra percorrendo 55 gradini [l’ascensore presente, manovrabile dall’interno, era impiegato per il trasporto materiale] fino ad arrivare alla Entrapment Area dove attraverso un nuovo riconoscimento mediante tv a circuito chiuso e codice di accesso poteva giungere alla cosiddetta Blast Lock Area, protetta da quattro porte corazzate di acciaio, ognuna della quale non veniva aperta se non era chiusa quella precedente. Alla prima porta i due equipaggi prendevano nuovamente contatto attraverso un telefono e finalmente, azionati i comandi d’apertura da parte di ambedue gli equipaggi, avveniva l’incontro. Questa parte della struttura sotterranea poggiava su grosse molle elicoidali che la isolavano dal terreno in modo da assorbire le devastanti vibrazioni prodotte da un’esplosione nelle vicinanze di una testata nucleare di 150 kiloton.

 

Il punto nevralgico del complesso era il Control Center articolato su tre livelli: al primo piano vi erano gli alloggi e il locale mensa, al terzo diversi macchinari e una via fuga d’emergenza da utilizzare in caso di distruzione dell’accesso principale mentre il secondo rappresentava il cuore del sistema con tutti i sistemi di controllo, comunicazione e lancio. Il locale principale era disseminato di apparecchiature elettroniche e consoles con al centro la postazione del comandante [Launch Control Complex Facilities Console, LCCFC], dietro la quale, in posizione obliqua, si trovava quella del vice [Alternate Launch Officers Console, ALOC]. Davanti alla LCCFC vi era il Control Monitor Group suddiviso in quattro pannelli per la sequenza di lancio [CMG1], la scelta del bersaglio [CMG 2 - 3] e la verifica del funzionamento delle apparecchiature [CMG4].

 

La sequenza di lancio partiva dal comandante della Forze Armate, ovvero il Presidente degli Stati Uniti, accompagnato in ogni suo spostamento dalla famosissima “valigetta nera” nelle mani di un alto ufficiale. Una volta deciso l’impiego delle armi nucleare, il Presidente riceveva dall’ufficiale i codici di autorizzazione che venivano inviati al Joint Chiefs of Staff [JCS, Capi di Stato Maggiore] che a sua volta li girava al SAC, il cui compito era allertare comandi e postazioni missilistiche [il 571st di Davis Monthan dipendeva dalla 15th Air Force di Riverside, California]. Nel silos sotterraneo l’allerta giungeva attraverso i piccoli altoparlanti posizionati sulle consoles di MCCC e DMCCC. Il messaggio era così trascritto, verificato vicendevolmente, prima di procedere all’apertura di una cassetta rossa [EWOSafe, Emergency War Order], chiusa da due lucchetti a combinazione: i due uomini, ovviamente, erano al corrente della combinazione del proprio lucchetto ma non di quella dell’altro e a ogni cambio della guardia il personale subentrante se ne portava con sè di nuovi. Nella cassetta metallica vi erano depositati i documenti top secret per la convalida del messaggio ricevuto dal SAC, i relativi codici alfanumerici, e le chiavi di lancio.

 

I due ufficiali ritornavano al proprio posto e ricopiavano un codice alfanumerico di 16 unità composto di tre parti: un codice di autentificazione a conferma della legittimità dell’ordine, l’ora del lancio, e un terzo codice, il più importante, di sei cifre [bVL Unlock Code] indispensabile per iniziare le vere e proprie procedure di lancio. Il BVL Unlock Code veniva dettato ai due restanti componenti l’equipaggio [bMAT e MFT] che provvedevano a inserirlo nel Butterfly Valve Lock Control [bVLC], situato sopra il Control Monitor Group. Se la procedura veniva eseguita correttamente [si potevano effettuare al massimo sei tentativi, pena il blocco dell’intera sequenza] il missile era “ready to launch”.

 

Il tutto allora ritornava nella responsabilità di comandante e vice nelle cui mani si trovavano le chiavi, famose quanto la valigetta nera a disposizione del Presidente. All’ora prefissata, ognuno dei due operatori doveva inserire la chiave nella propria postazione [distanti in modo tale che fosse fisicamente impossibile per un solo uomo effettuare l’operazione] al massimo entro due secondi l’una dall’altra e tenerla girata per almeno cinque secondi. L’operazione era così terminata e nello spazio di un solo minuto il Titan II, difeso da una porta corazzata scorrevole di 740 tons [il tempo di apertura era di circa 20 secondi], poteva dirigersi con il suo carico distruttivo verso il bersaglio dopo un volo di circa 35 minuti a 15.000 miglia all’ora e aver raggiunto le 700 miglia d’altezza. La posizione del bersaglio era ovviamente memorizzata ma fino ad un istante prima del lancio vi era la possibilità di scegliere tra altri due siti alternativi [la variazione comportava non più di 2 secondi], le cui coordinate erano già state impresse nei computer: per ragioni di segretezza ma anche per rispettare la volontà dei quattro uomini, quest’ultimi non erano a conoscenza su quale località avrebbe impattato la testata nucleare.

 

Dunque le possibilità di un lancio accidentale o frutto di un attimo di follia di un singolo addetto erano assolutamente nulle. A parte il fatto che il codice iniziale di attivazione della procedura doveva giungere dall’esterno, tutte le fasi dovevano essere eseguite da almeno due persone. Anche il BVL Unlock Code di sei cifre - che non comportava comunque la partenza automatica del missile - non poteva praticamente essere individuato, nel caso un membro dell’equipaggio volesse porre in essere un gesto insano: il BVLC era infatti composto da sei rotelle rotanti con impresse 16 cifre: vi erano dunque 16.777.216 combinazioni diverse, troppe per sei soli casuali tentativi. Da sottolineare anche che tutti i locali del Control Center erano classificati “No Lone Zones”, ovvero non vi si poteva accedere e rimanervi se non in coppia.

 

Oggi il Titan Missile Museum offre la possibilità di “toccare con mano” tutto questo. Aperto tutti i giorni dell’anno, con le uniche eccezioni di Natale e della Festa del Ringraziamento, apre i battenti alle ore 9 e l’entrata è consentita fino alle 16. I tour, della durata di circa un’ora, sono guidati da volontari. Almeno una volta al mese è possibile effettuare una visita anche di quei locali solitamente chiusi oppure sono previste visite guidate dagli stessi ufficiali che comandavano la postazione. Tra le proposte non periodiche, vi è anche la visita alle rovine delle altre postazioni presenti nei dintorni di Davis Monthan oppure a un particolare silos, acquistato da un privato e trasformato in abitazione, sicuramente unica.

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  • 3 months later...

Scusate se riapro questo vecchio post. però ultimamente mi sono messo ha vedere alcuni film, come:" war games, Twilight's Last Gleaming e The day after".

Ma mi mancano altri film con ambientazioni ICBM.

Fatto sta, mi sono venuti dei dubbi su questi silos sotterranei, per esempio l'equipaggio del bunker, che sono sempre in due, e sopra il silos, ci sono delle guardia armate, che sorvegliano la zona da qualsiasi pericolo, fatto sta quando lanciano i missili, il regolamento prevede che la sorveglianza, venga evacuata in elicottero, ma l'equipaggio del silos rimane li.

Ma quando finiscano tutti i missili da lanciare, cosa devano fare quei due, starsene li zitti e buoni, o devano evacuare anche loro la zona?

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Al pari di tutti gli analoghi complessi, l’equipaggio era composto da quattro uomini, due dei quali ufficiali, che effettuavano turni di 24 ore, con una media di otto turni mensili: il comandante [Missile Combat Crew Commander, MCCC], solitamente un capitano o un maggiore, il suo vice [Deputy Missile Combat Crew Commander, DMCCC], il tecnico missilistico [ballistic Missile Analyst Technician, BMAT] e un secondo tecnico responsabile dei diversi apparati e sistemi [Missile Facilities Technician, MFT].

 

Il complesso sotterraneo erano suddiviso in tre distinte strutture, tra loro collegate da un corridoio lungo 80 metri [soprannominato Cableway]: la zona di accesso, il centro di controllo e il silos con all’interno il Titan II. Una volta terminato il pre-briefing mattutino presso la Davis Monthan AFB dove veniva messa a conoscenza dello stato di allerta, delle condizioni meteo e di qualsiasi informazione inerente il servizio, l’equipaggio raggiungeva in macchina la porta principale della postazione, in alcuni casi situata anche a 40 miglia di distanza, dove dopo l’opportuno riconoscimento effettuato dagli uomini già in servizio, era autorizzato a entrare per dirigersi verso l’accesso blindato e sotterraneo [se questo non veniva raggiunto entro tre minuti veniva fatto scattare l’allarme con la richiesta d’intervento delle forze di sicurezza]. Dall’esterno il complesso, che era sorvegliato da un radar del tipo TPS39, non presentava alcunchè di particolare: nessun edificio, una semplice recinzione, alcune antenne e la piastra di cemento che chiudeva il silos del missile.

 

Dopo un nuovo controllo, gli uomini scendevano a circa 12 metri sottoterra percorrendo 55 gradini [l’ascensore presente, manovrabile dall’interno, era impiegato per il trasporto materiale] fino ad arrivare alla Entrapment Area dove attraverso un nuovo riconoscimento mediante tv a circuito chiuso e codice di accesso poteva giungere alla cosiddetta Blast Lock Area, protetta da quattro porte corazzate di acciaio, ognuna della quale non veniva aperta se non era chiusa quella precedente. Alla prima porta i due equipaggi prendevano nuovamente contatto attraverso un telefono e finalmente, azionati i comandi d’apertura da parte di ambedue gli equipaggi, avveniva l’incontro. Questa parte della struttura sotterranea poggiava su grosse molle elicoidali che la isolavano dal terreno in modo da assorbire le devastanti vibrazioni prodotte da un’esplosione nelle vicinanze di una testata nucleare di 150 kiloton......

 

.......La sequenza di lancio partiva dal comandante della Forze Armate, ovvero il Presidente degli Stati Uniti, accompagnato in ogni suo spostamento dalla famosissima “valigetta nera” nelle mani di un alto ufficiale. Una volta deciso l’impiego delle armi nucleare, il Presidente riceveva dall’ufficiale i codici di autorizzazione che venivano inviati al Joint Chiefs of Staff [JCS, Capi di Stato Maggiore] che a sua volta li girava al SAC, il cui compito era allertare comandi e postazioni missilistiche [il 571st di Davis Monthan dipendeva dalla 15th Air Force di Riverside, California]. Nel silos sotterraneo l’allerta giungeva attraverso i piccoli altoparlanti posizionati sulle consoles di MCCC e DMCCC. Il messaggio era così trascritto, verificato vicendevolmente, prima di procedere all’apertura di una cassetta rossa [EWOSafe, Emergency War Order], chiusa da due lucchetti a combinazione: i due uomini, ovviamente, erano al corrente della combinazione del proprio lucchetto ma non di quella dell’altro e a ogni cambio della guardia il personale subentrante se ne portava con sè di nuovi. Nella cassetta metallica vi erano depositati i documenti top secret per la convalida del messaggio ricevuto dal SAC, i relativi codici alfanumerici, e le chiavi di lancio.

 

I due ufficiali ritornavano al proprio posto e ricopiavano un codice alfanumerico di 16 unità composto di tre parti: un codice di autentificazione a conferma della legittimità dell’ordine, l’ora del lancio, e un terzo codice, il più importante, di sei cifre [bVL Unlock Code] indispensabile per iniziare le vere e proprie procedure di lancio. Il BVL Unlock Code veniva dettato ai due restanti componenti l’equipaggio [bMAT e MFT] che provvedevano a inserirlo nel Butterfly Valve Lock Control [bVLC], situato sopra il Control Monitor Group. Se la procedura veniva eseguita correttamente [si potevano effettuare al massimo sei tentativi, pena il blocco dell’intera sequenza] il missile era “ready to launch”.

 

 

 

Dal post di Walter.

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ma quello che voglio capire, è quando sono finiti i missili da lanciare, cosa deve fare l'equipaggio del silos, abbandonarlo, o continuare a bere birra ghiacciata?

So che il silos, può reggere a una esplosione nucleare.

Edited by andreoso
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  • 2 weeks later...
Guest intruder
in ogni caso penso che l'ordine di evacuazione debba arrivare dall'alto...

 

 

Secondo me, a quel punto, non c'è più "alto".

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Guest intruder
e va be lanciato tutto ci si suicida in massa all'interno del bunker? hanno rifornimenti per quanto tempo?

 

 

Visto che siamo OT già da un po', credo di poterlo chiudere io consigliando a tutti di leggere un bellissimo romanzo di fantascienza americano degli anni 50: Level Seven, di Mordecai Roshwald, temo mai tradotto in italiano. Parla proprio di questo, la sopravvivenza in un bunker dopo una guerra nucleare totale. Dire che è angosciante è poco.

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Visto che siamo OT già da un po', credo di poterlo chiudere io consigliando a tutti di leggere un bellissimo romanzo di fantascienza americano degli anni 50: Level Seven, di Mordecai Roshwald, temo mai tradotto in italiano. Parla proprio di questo, la sopravvivenza in un bunker dopo una guerra nucleare totale. Dire che è angosciante è poco.

 

Da un lato l'insopprimibile istinto di sopravvivenze dell'uomo; dall'altro il nulla ad aspettare, nessun futuro, il passato cancellato, niente per cui valga la pena vivere ancora. Non potresti farci una piccola sintesi?

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e va be lanciato tutto ci si suicida in massa all'interno del bunker? hanno rifornimenti per quanto tempo?

Forse potrebbe essere portato direttamente al Norad, grazie a un elicottero, dove in caso di guerra nucleare, si rifugerebbe il presidente con il suo staff :ph34r:

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Guest intruder

Parliamo di qualcosa che, per fortuna, non è mai accaduto, e, si spera, non accadrà mai. Comunque credo che in caso di scambio globale, USA-URSS (o Nuova URSS) cioè 5 Gt o giù di lì, non abbia molto senso starsi a preoccupare di quello che si troverà quando hai finito i viveri, perché credo che per parecchi anni non ce ne saranno più, almeno nell'emisfero boreale. E questo per quanto contestate le proiezioni del Day After, Nuclear Winter eccetera, siano.

Edited by intruder
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Parliamo di qualcosa che, per fortuna, non è mai accaduto, e, si spera, non accadrà mai. Comunque credo che in caso di scambio globale, USA-URSS (o Nuova URSS) cioè 5 Gt o giù di lì, non abbia molto senso starsi a preoccupare di quello che si troverà quando hai finito i viveri, perché credo che per parecchi anni non ce ne saranno più, almeno nell'emisfero boreale. E questo per quanto contestate le proiezioni del Day After, Nuclear Winter eccetera, siano.

Sinceramente non era la risposta a cui attendevo, pensavo a qualche scenario peggiore, non so, magari che dopo aver sparato tutti i missili, si sparano in testa, dai non è possibile....

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ma quello che voglio capire, è quando sono finiti i missili da lanciare, cosa deve fare l'equipaggio del silos, abbandonarlo, o continuare a bere birra ghiacciata?

So che il silos, può reggere a una esplosione nucleare.

Visto che siamo OT, accorciamo la discussione.

 

MAD è per definizione la mutua distruzione dei due blocchi, non c'è molto da divagare.

 

I silos stanno li per assicurare la ritorsione, e devono durare per il tempo necessario a garantire il lancio, non un minuto di più.

 

Presumibilmente, le scorte stanno li per il periodo necessario a garantire la sopravvivenza di un personale addestrato in attesa di comunicazioni, semmai dovessero arrivare.

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Solo a titolo informativo il presidente, nel caso di attacco nucleare, non si rifugia a cheyenne mountain, sede del NORAD, ma in volo sull'E4, anche perchè, con tutta probabilità, la montagna in colorado finirebbe azzerata al livello del mare a suon di megatoni.

In ogni caso io credo che anche dopo una guerra nucleare massiccia la vita sarebbe potuta continuare.

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Guest intruder
Mi ricordo che ci furono dei film ambientati in silos, in cui i terroristi entrano, ammazzano i militari di guardia, e vogliano lanciare i missili sopra gli Stati Uniti.

Qualcuno se lo ricorda ?

 

 

Twilight's Last Gleaming, con Burt Lancaster, del 1977 o giù di lì.

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