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Hobo

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  1. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    99 minuti a Entebbe L'evacuazione terza parte Nel frattempo, Omer Bar Lev e gli uomini del secondo blindato erano rimasti soli. A bordo della loro M-38 erano corsi a est secondo gli ordini di Mofaz ed ora erano appostati all’estremità del raccordo orientale: di fronte a loro la pista militare di Entebbe. Al loro arrivo la zona appariva del tutto quieta, ma ora l’aeroporto militare ugandese sembrava in fermento, si vedevano ombre correre da tutte le parti. Attraverso il suo visore notturno un caporal maggiore di Bar Lev osservava i Mig parcheggiati. Nel piazzale nord si contavano tre Mig-17, su quello sud invece si vedevano distintamente cinque Mig-21. Gli aerei erano visibilissimi, argentei nella loro livrea metallica e con le sgargianti coccarde ugandesi. Quegli aerei non erano un pericolo diretto per la squadra a terra, ma rappresentavano una minaccia mortale per gli Hercules. Il caporal maggiore distolse l’attenzione dal suo visore e si voltò a guardare Omer. Non c’era bisogno di parole: ma che cavolo stavano aspettando! Omer Ber Lev si fece passare al radio VHF e chiamò Mofaz suo superiore diretto, per fargli presente che Netanyahu aveva ordinato di distruggere i Mig anche senza autorizzazione. Mofaz e la sua equipe erano impegolati con gli ostaggi e ne avevano fino al collo, così la richiesta di Bar Lev cadde nel vuoto e Omer rimase con la radio in mano e senza ordini. Non avendo ricevuto risposta, alla fine Bar Lev decise autonomamente: scansò un suo uomo e si mise personalmente alla calibro .50. Da meno di 200 metri aprì sui Mig un fuoco d’inferno. I suoi lo imitarono. Spararono con tutto quello che avevano, le . 50, le M-60 e anche con gli RPG. Gli otto Mig furono sbriciolati. Almeno tre di essi eruppero subito in enormi esplosioni a forma di fungo, che illuminarono a giorno la scena fino all’old terminal, mentre il cherosene fuoriuscito dai serbatoi squarciati si incendiava sulla pista, creando un mare di fuoco arancione. Nell’udire quel gigantesco boato, al terminal tutti si voltarono verso le esplosioni dei Mig. Persino alla torre di controllo per un attimo ugandesi e israeliani smisero di sparare, osservando affascinati il vasto incendio giù alla base militare. Mofaz allargò le braccia e sollevò gli occhi al cielo, chiedendosi chi aveva di sua iniziativa aperto il fuoco sugli aerei militari nemici, ma Biran e Oren inaspettatamente lo rassicurarono: il generale Adam, dal suo 707, aveva appena dato l’ordine di attaccare i Mig, tuttavia loro non avevano ancora potuto comunicarlo a Omer Bar Lev, il quale comunque, come tutti potevano vedere, doveva aver già agito da solo. Così, l’ordine di Adam fu eseguito anche se non per via gerarchica. Illuminati dal vasto incendio dei Mig sulla pista militare, gli Uomini del Sayeret Matkal portavano intanto a termine l’evacuazione degli ostaggi. Tra gli ultimi civili a lasciare l’old terminal c’erano il comandante Michel Bacos e i due riservisti dell’Aeronautica uno dei quali era Uzi Davidson. Insieme a Ofer e agli altri, Bacos e Davidson si accertarono che nessuno fosse rimasto in dietro. Ripercorsero in lungo e in largo le due hall dell’old terminal che erano state la loro prigione per una settimana. Avendole trovate del tutto vuote e invase dal fumo degli incendi, anche Bacos, Davidson e l’altro riservista si decisero ad avviarsi a passo spedito verso il Karnaf-Quattro. Raggiunto sani e salvi l’aereo vi salirono a bordo . Appena Amnon Halivni seppe che Bacos era a bordo del suo Hercules, per la prima volta da quando erano decollati da Ofira si alzò dal posto di pilotaggio e scese nella stiva per incontrare il comandante francese. La stiva era stracolma di gente in piedi e ammutolita. Nella metà anteriore della fusoliera era stato riallestito il piccolo ospedale volante, con le barelle disposte su due livelli e fissate a entrambi i lati della stiva e a un’incastellatura al centro dell’aereo. Il personale sanitario si prendeva cura dei feriti, mentre i morti erano stai avvolti in coperte termiche e disposti nelle barelle inferiori. Tra essi c’era anche il corpo di Netanyahu. Il maggiore Halivni riconobbe subito Bacos, grazie alla sua divisa Air France; il pilota israeliano si fece largo in mezzo alla ressa di gente e raggiunse il comandante francese. Halivni strinse la mano a Bacos e si fece dire la lui a quanto doveva ammontare il conteggio esatto dei passeggeri, poi chiamò il loadmaster del suo C-130 e gli ordinò la conta dei civili a bordo. Bacos rassicurò Halivni, dicendo che lui aveva già verificato e che c’erano tutti, ma Halivni fu irremovibile e insistè per il conteggio con il suo loadmaster, ordinando anche che i nomi dei passeggeri venissero man mano scritti su un foglio, che avrebbe fatto da manifesto di carico dell’aereo. Il loadmaster e gli addetti al carico del C-130 si misero al lavoro, ma anche stavolta la conta dei passeggeri, anche ripetuta più volte, si rivelò impossibile: troppa confusione. I passeggeri stessi cercarono di tranquillizzare Halivni dicendogli che si erano contati tra di loro e che non mancava nessuno. Persino Ilan Hartuv, disperato per sua madre, era presente. Alla fine, Halivni stesso, non soddisfatto, tentò di contare personalmente i passeggeri, ma anche lui si avvide che era impossibile. Michel Bacos e i passeggeri comunque lo convinsero: si erano contati da loro ed erano tutti. A bordo c’erano 105 persone compreso l’equipaggio Air France. Non c’era più tempo per nulla ormai. Non si poteva più indugiare, i rischi stavano diventando inaccettabili. Halivni e il suo C-130 erano fermi da 26 minuti nei pressi dell’old terminal e a tiro degli ugandesi nella torre di controllo. Solo il buio e il fuoco continuato degli uomini del Sayeret Matkal li aveva protetti fino ad allora, ma adesso bisognava andare. Amnon Halivni si decise, invitò Bacos in carlinga e avvertì tutti di prepararsi al decollo immediato. Rimessosi ai comandi del suo aereo, Halivni contattò Adam sul 707. Lo mise al corrente che aveva preso a bordo tutti gli ostaggi liberati, poi chiese e ottenne l’autorizzazione di Adam per lasciare Entebbe. Fatto questo, Halivni chiamò Shomron e chiese che venissero accese le luci dell’aeroporto. Dalla nuova torre di controllo, appena conquistata, i paracadutisti che non conoscevano gli interruttori accesero le luci di tutto l’aeroporto. Davanti agli occhi di Halivni come per magia riemersero dalle tenebre le luci di tutte le piste e dei raccordi. Halivni effettuò gli ultimi controlli, poi mollò i freni del Karnaf-Quattro e si mosse verso nord sulla pista obliqua, girò a sinistra e si immise sulla main runway completamente illuminata. Una volta là, dette tutta manetta e alle 00:52 ora locale il Karnaf-Quattro decollò da Entebbe diretto a sud, portando finalmente via da lì tutti gli ostaggi liberati. Appena decollato, una volta in salvo sul lago Vittoria, Halivni virò con decisione a sinistra, facendo prua a est e verso la salvezza dell’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi, dove Halivni era ben deciso ad atterrare in emergenza con o senza autorizzazione: il suo Hercules aveva carburante per meno di 90 minuti di volo. "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan" "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".
  2. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    99 minuti a Entebbe L’evacuazione seconda parte Gli uomini dell’Unità proseguivano intanto nell’arduo compito di accompagnare al Karnaf-Quattro gli ostaggi sotto shock. Nessuno doveva essere abbandonato. Portato a termine uno scrupoloso rastrellamento dell’old terminal e della zona immediatamente circostante alla ricerca di ugandesi o di ostaggi dispersi, vennero chiamati anche la Land Rover e il pick-up Peugeot della Golani per dare una mano al trasporto dei passeggeri liberati. Gli uomini del Sayeret Matkal iniziarono a caricare gli ostaggi liberati sulle jeep, dando la precedenza alle donne, ai vecchi e ai bambini. Gli uomini che potevano camminare venivano riuniti in piccoli gruppi e spediti a piedi lungo il raccordo, dove i fanti della Golani li stavano aspettando. Ogni volta che partiva un veicolo carico di passeggeri, dalle due Land Rover dell’Unità sotto la torre di controllo e dal blindato di Dagan partiva un uragano di fuoco, per impedire agli ugandesi di sparare sugli ostaggi in partenza. Come prima cosa, nella hall grande, Mofaz e Peled rintracciarono Amir Ofer, che parlava inglese meglio di loro e gli dissero di trovare subito il comandante del volo 139, il capitano Michel Bacos. Ofer lo trovò e si fece dire da lui quanti erano di preciso i passeggeri rimasti. Bacos disse che dovevano esserci esattamente 105 persone e non 106: una passeggera infatti, Dora Bloch, era disgraziatamente stata trasportata all’ospedale di Kampala. Gli israeliani spiegarono bene a Bacos e ai suoi cosa dovevano dire ai passeggeri per fare prima e per correre minor rischi possibili. Per prima cosa, tutti dovevano ritrovare le scarpe, perché i terroristi avevano ordinato loro di togliersele e quindi erano scalzi. Ofer ricorda che nel fumo e nel frastuono generale il tecnico di volo francese Jacques Le Moine gli passò accanto conducendo diversi passeggeri: era scalzo. Amir Ofer lo prese per un braccio e per farsi sentire gli urlò: “Le scarpe! Le scarpe!”. Indicando i piedi scalzi del tecnico. Il tecnico di volo ubbidì e tornò in dietro a cercare le sue scarpe in mezzo al caos di lenzuola, bagagli aperti e materassi bruciati che regnava sul pavimento della hall. Niente da fare: Le Moine non trovava le sue scarpe. Allora il francese disperato ritornò scalzo. Ofer gli fece cenno con la testa che aveva capito e gli disse di andare comunque avanti anche se era scalzo, ma all’uscita della hall un ragazzo dell’Unità che stava a copertura degli ostaggi, notò il francese scalzo, lo fermò e lo rimandò all’interno a cercare le sue scarpe. Il balletto ricominciò, finchè Ofer non capì quello che succedeva e avvertì la sentinella di lasciar passare il tecnico di volo scalzo. Racconta Ofer: “Era una situazione abbastanza buffa. Io non avevo ancora compiuto 23 anni e quel tecnico di volo francese che aveva la responsabilità di 300 persone veniva da me con aria sconsolata a dirmi come potrebbe fare un bambino: ‘Non trovo le mie scarpe! Lui mi ha detto di cercarle, ma io non le trovo!’ Gli feci gesto che andava tutto bene, gli dissi che poteva andare anche scalzo e mi incamminai verso la sentinella per avvertirla”. Ad un certo punto, un passeggero emerse dal fumo e si presentò agli israeliani. Era Ilan Hartuv, il figlio di Dora Bloch che era stata trasportata all’ospedale di Kampala perché si era sentita male a causa del cibo. Ora Ilan era indeciso se andarsene con la forza d’assalto venuta a liberarlo, oppure restare con la madre a Kampala. Pensava di restare. Mofaz e Ofer lo dissuasero: restare avrebbe significato morte certa. Per Hartuv fu una decisone terribile da prendere, ma non c’era nulla da fare per sua madre. Ofer squadrò l’uomo da capo a piedi, poi chiese a Bacos di mandare qualcuno dell’equipaggio francese a sorvegliare a vista Hartuv mentre venivano trasportati sull’Hercules-Quattro, in modo che l’uomo non facesse pazzie tipo allontanarsi per restare a terra. Alcuni ostaggi risultavano leggermente feriti da schegge di vetro e detriti caduti durante la sparatoria. Ofer avanzava controcorrente, in mezzo alla marea umana di passeggeri diretti alle uscite del terminal, per raggiungere il fondo della sala e assicurarsi che nessuno fosse rimasto in dietro. Arrivato in fondo si voltò e vide una giovane, probabilmente una hostess dell’Air France, che non riusciva a muoversi. Ofer mise il Kalashnikov a tracolla e la soccorse subito. La ragazza era in abiti molto succinti. Ofer pensò che doveva essersi spogliata a causa del gran caldo, come aveva visto fare a molti altri ostaggi. La giovane lo vide e cominciò a piangere e a urlare: “Sono colpita! Sono colpita!”. Ofer fece per ispezionarla, ma lei glielo impediva. Allora Ofer spazientito la prese con decisione e le disse di indicargli dove era ferita. La ragazza gli mostrò l’interno di una coscia, ma Ofer vedeva solo un graffietto assolutamente superficiale, per cui per accertarsi che non ci fosse nulla di più grave afferrò la giovane e la esaminò per bene. Quella per fortuna non aveva niente, ma andò in crisi isterica e sembrò andare in coma. Peled arrivò e domandò ad Ofer che cosa stesse facendo. Amir spalancò le braccia disperato. Peled vide la ragazza in piena crisi isterica e capì: “Portala fuori subito! Sbrigati sergente!” “Aiutami!” Peled aiutò Ofer a issarsi la giovane svenuta sulle spalle, poi i due uscirono dalla hall deserta e in fiamme. Appena Ofer, oberato dal peso della ragazza, fece un passo fuori dall’uscita della hall, una pallottola di piccolo calibro gli passò vicino alla testa: lo spostamento d’aria gli scompigliò i capelli. Il sergente si piegò ancor di più e partì a razzo, mentre velocemente faceva un calcolo mentale: “Se quel colpo mi era stato sparato da un uomo che si stava spostando a 300 metri da me, la prossima pallottola mi sarebbe passata a tre metri. Ma se si trattava di uno sulla torre di controllo a 30 metri da me, la prossima pallottola mi sarebbe entrata in testa. Presi la ragazza che avevo in spalla e me la girai sul collo: adesso se mi avessero sparato la pallottola se la sarebbe presa lei. La cosa curiosa è che tempo dopo la vidi in TV mentre raccontava che noi non c’eravamo preoccupati molto dei passeggeri e che solo un ragazzo, il suo eroe, l’aveva salvata caricandosela in spalla...”. Intanto la fiumana di passeggeri arrivava al Karnaf-Quattro. Danny Dagan faceva la spola tra il terminal e l’aereo con la sua M-38 blindata, stendendo un ombrello di fuoco protettivo a copertura di quei passeggeri che non avevano trovato posto sulle jeep e dovevano arrivare a piedi fino all’aereo. Per impedire che i civili si perdessero a causa del buio e della confusione, il colonnello Uri Saguy della Golani aveva ordinato che i suoi fanti si disponessero ai due lati del percorso dei passeggeri, formando una specie di imbuto che convogliava gli ostaggi liberati direttamente verso la rampa abbassata del C-130 fermo in attesa alla fine del raccordo per l’old terminal. Gli ostaggi sembravano molto provati e apparivano stranamente apatici e indifferenti. Bisognava afferrarli e spingerli avanti nella stiva per fare spazio a quelli che continuavano a salire. Una volta a bordo dell’Hercules, i passeggeri del volo 139 se ne rimanevano in piedi, muti e immobili sotto le luci al neon della stiva. Sembravano svuotati di ogni energia. Lì vicino, a fianco del Karnaf-Quattro, gli ufficiali del Corpo di Sanità stavano intanto soccorrendo i feriti. Netanyahu era stato trasportato lì. Il colonnello medico Elan Dolev, anestesista e comandante di tutto il team sanitario a Entebbe e il dottor Ephraim Sneh dei paracadutisti avevano fatto l’impossibile per cercare di strappare Netanyahu alla morte, ma non ci fu nulla da fare: l’emorragia interna era stata troppo grave. La vita di Netanyahu fuggì via e il suo cuore smise di battere; a nulla valsero i ripetuti tentativi di rianimarlo del dottor Dolev. Il corpo di Netanyahu venne avvolto in una coperta di alluminio e imbarcato sull’Hercules-Quattro. I passeggeri che salivano la rampa dell’aereo videro il cadavere e chiesero chi fosse. Gli assistenti di sanità glielo spiegarono. Arrivarono anche i due passeggeri gravemente feriti durante l’irruzione dell’Unità nella hall: Pasco Cohen, con un proiettile nel bacino e Yitzhak David, il sopravvissuto ai campi di sterminio che era stato colpito al polmone sinistro da una pallottola di rimbalzo. Vennero trasportati a bordo anche i due passeggeri deceduti: Jean-Jacques Maimoni e Ida Borokovitch. I 16 fanti della Golani facevano intanto del loro meglio per sospingere verso l’Hercules la massa dei passeggeri che scendeva dalle jeep. Bisognava avere mille occhi, perché gli ostaggi liberati erano come imbambolati e bastava un niente perché uscissero dalla fila e si perdessero nelle tenebre ai lati della pista. Uri Saguy ordinò ai suoi uomini un conteggio dei civili che salivano a bordo sul Karnaf-Quattro. Gli uomini della Golani iniziarono a contare ad alta voce le persone che passavano loro davanti dirette alla rampa del C-130. I fanti facevano tutto ciò che era in loro potere per contare e contemporaneamente non perdere di vista un solo civile, ma quel conteggio si rivelò impraticabile. La confusione e l’emozione erano eccessive per tutti: nessuno dei ragazzi della Golani arrivava mai allo stesso risultato degli altri. Cominciarono ad arrivare anche i primi componenti dell’equipaggio Air France e allora quelli della Golani chiesero il loro aiuto per conteggiare i passeggeri. I membri del Corpo di Sanità iniziarono a smontare l’ospedale da campo per poi riallestirlo all’interno del C-130 in modo da poterci trasportare i feriti ed essere pronti a decollare appena possibile. "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan" "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".
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    99 minuti a Entebbe L'evacuazione A quel punto la forza d’assalto era riuscita ad eliminare ogni minaccia immediata contro gli ostaggi all’interno del terminal e nelle sue immediate vicinanze, fatta eccezione per gli ugandesi asserragliati sulla torre di controllo, che però erano costantemente tenuti sotto il tiro dalle armi delle Land Rovers e degli uomini dell’Unità non direttamente impegnati nel rastrellamento del terminal e nella conta degli ostaggi. Mentre Udi Shalvi si attestava con i blindati a nord dell’old terminal, Alik Ron ricevette da Betser l’ordine di recarsi al Karnaf-Quattro, appena atterrato, che doveva imbarcare i passeggeri del volo 139 e i feriti. Betser aveva sentito per radio che il quarto Hercules si era arrestato a ovest un po’ troppo lontano dall’old terminal per cui ci voleva qualcuno che lo raggiungesse e che lo guidasse in sicurezza più vicino a loro. Il maggiore Betser racconta: " Gli ostaggi avevano dato chiari segni di shock. Non gli si poteva certo dire semplicemente: 'Correte in quella direzione finchè non trovate un grande aereo', ma bisognava trasportarli e verificare che nessuno si smarrisse nel buio e soprattutto bisognava far avvicinare di più il Karnaf-Quattro. Alik Ron abbandonò la sua posizione davanti alla hall grande, da dove dirigeva il tiro dei veicoli contro la torre e fece venire Blumer. Passando accanto ad Hasin che soccorreva Netanyahu, Ron ricorda che era talmente scosso che arrivò a minacciare l’ufficiale medico: “Meglio per te se lo curi bene, o te la vedi con me!”. Ron, che in seguito si sarebbe scusato con Hasin, prese Blumer con sé e i due si incamminarono cautamente verso ovest con i visori notturni e i Kalashnikov in posizione di fuoco. Prima furono sul raccordo del terminal e dopo 200 metri sulla pista obliqua. Sul raccordo si imbatterono nella jeep comando di Shomron, che volle sapere cosa stessero mai facendo lì e quindi nel corpo di una delle due sentinelle ugandesi abbattute all’inizio dell’azione. Ron si fece dare la radio da Blumer e chiamò per radio per avvertire che stavano arrivando all’Hercules-Quattro, in modo da non farsi uccidere dai soldati della Golani che circondavano l’aereo. Giunti sotto il Karnaf-Quattro sulla pista obliqua, videro che l’intero corpo della Sanità era sbarcato e aveva preso posizione a 50 metri dal C-130, assistendo i primi feriti in arrivo. Ron e Blumer corsero da Halivni in cabina e gli spiegarono in cosa consisteva la richiesta di Muki Betser. Halivni conosceva bene l’aeroporto per cui capì subito dove si sarebbe dovuto portare con il C-130 senza finire nel fuoco degli ugandesi nella torre di controllo. Ron e Blumer scesero dall’Hercules e rifecero il percorso inverso. Halivni girò l’aereo e fece avanzare il Karnaf-Quattro sulla pista obliqua fino a raggiungere, senza imboccarlo, lo svincolo del raccordo per l’old terminal, 151 metri esatti a ovest della torre di controllo assediata. Halivni arrestò l’aereo, tirò i freni a rimase in attesa a motori accesi e con la rampa posteriore abbassata. Come tutti gli altri dell’Aeronautica, anche Halivni e i suoi avevano indossato elmetti e giubbotti antischegge. Halivni racconta: “Restammo in attesa, ognuno al suo posto. Potevamo sentire le esplosioni e gli spari alla torre di controllo e vedevamo i traccianti volare dappertutto nel buio intorno all’aereo. Ognuna di quelle pallottole avrebbe potuto facilmente penetrare nel velivolo. Ricordo che mormorai diverse volte la preghiera – Dio aiuta Israele! Che l’aereo parta senza essere colpito. –”. Intanto all’old terminal, Shaul Mofaz era andato da Betser nella hall grande per rendersi conto meglio della situazione e aiutare a portar via gli ostaggi. Nel farlo passò di fianco a Netanyahu esanime con Hasin che lo soccorreva lì accanto. La scena era illuminata dalla luce arancione degli incendi di diversi materassi, che erano stati incendiati dai proiettili roventi. Dal blindato di Mofaz, Dagan e gli altri sparavano ininterrottamente alla torre di controllo con le .50 e con gli RPG. Mofaz decise che ne aveva abbastanza; urlò agli ostaggi e ai soldati che li aiutavano: “Sbrigatevi maledizione!” Ma quasi tutti i passeggeri erano in stato confusionale e dovettero essere accompagnati come bambini; diversi di loro poi si ostinavano a voler trasportare con sé i propri effetti personali e il bagaglio! Mofaz e gli uomini dell’Unità glielo vietarono. Un soldato dell’Unità racconta: “Se non fossimo stati sotto il fuoco, sarebbe stato divertente. Era quasi impossibile separarli dalle loro cose. Tornavano in dietro a prenderle. La cosa più importante per loro erano le loro valige! Dovemmo letteralmente strappargliele di mano e spingerli con decisione verso l'uscita.”. Appena un gruppo di passeggeri veniva fatto uscire, La forza di copertura ravvicinata alzava un vero muro di fuoco contro la torre di controllo, in modo da obbligare gli ugandesi a tenere giù la testa, poi i passeggeri venivano caricati il più in fretta possibile su una delle Land Rover. Al volante di esse, Amitzur Kafri ricorda: “Gli ostaggi salirono in massa, si aggrappavano a tutto quello che potevano. Mi parve di trasportare all’Hercules una piramide umana. La mia arma era finita sotto di loro per cui non avrei potuto usarla! Per fortuna non ce ne fu bisogno”. Il dottor Hasin aveva medicato le ferite del comandante, ma non poteva fare nulla per l’emorragia interna, tranne infondere plasma in vena: Netanyahu stava morendo. I bendaggi applicati sul petto e sul dorso del ferito servivano più che altro a segnalare le ferite all’anestesista e ai chirurghi. Non c’era altro da fare. Hasin richiese per radio l’evacuazione immediata del ferito con precedenza assoluta. Arrivò Rami Sherman, comandante della forza di copertura ravvicinata. Scansò rudemente Tamir alla radio, vide Netanyahu in coma e aiutò Hasin a deporlo su una Land Rover. Poi Sherman strappò letteralmente l’autista dal posto di guida, assegnandolo immediatamente alla linea del fuoco e si mise personalmente al volante. Hasin rimase con altri feriti. La jeep era già carica di passeggeri, ma appena videro che si caricava un ferito grave, scesero tutti spontaneamente e si incamminarono a piedi. Dagan dal blindato ordinò ai suoi fuoco a volontà contro la torre di controllo, mentre Sherman metteva a tavoletta l’acceleratore della Land Rover urlando a Bukhris di saltare su subito. Bukhris lì accanto fece appena in tempo a balzare sulla jeep di Sherman in movimento. Si mise subito alla calibro .50, la voltò e lasciò partire una lunga raffica interminabile, mentre Sherman imballava il motore come se volesse fonderlo, accelerando sempre più sul raccordo. La torre di controllo si allontanò sempre più velocemente dietro di loro. Bukhris continuò a sparare con la mitragliatrice pesante finchè la canna incandescente non iniziò a fumare e gli avambracci non iniziarono a dolergli ed anche così continuò a fare fuoco sugli ugandesi mentre il pianale della Land Rover scompariva sotto un tappeto di bossoli roventi. In un attimo furono all’Hercules. Sherman inchiodò. La Land Rover pattinò per un buon tratto prima di arrestarsi sotto la coda. Sherman saltò giù e rintracciò Dolev, poi lui e Bukhris presero Netanyhu e lo consegnarono nelle mani dei medici, dopodiché ripartirono per l’old terminal. "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan" "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".
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    99 minuti a Entebbe La Forza di Difesa Periferica del Sayeret Matkal Appena sceso dal Karnaf-Due, il comandante della forza di difesa periferica del Sayeret Matkal, Shaul Mofaz, si era subito diretto alla volta dell’old terminal con le sue prime due jeep blindate. Anche Mofaz rimase stupito di trovare davanti al terminal l’A-300 dell’Air France. Là la battaglia infuriava. Danni Dagan guidava il blindato di Mofaz. Si immise a tutta velocità sul raccordo lungo meno di 200 metri che portava al teminal, mentre Omer Bar Lev lo seguiva con la seconda M-38. Dagan chiamò sul VHF per avvertire che arrivavano, in modo da non farsi sparare addosso dalla squadra d’assalto. Gli rispose Alik Ron, che aveva preso in pugno la squadra comando da quando Netanyahu era caduto e ora dirigeva il fuoco esterno contro gli ugandesi della torre di controllo. Gli ugandesi stavano dando prova di notevole cocciutaggine, rispondendo colpo su colpo agli israeliani. O erano molto ligi al dovere, pensò Alik Ron, oppure erano terrorizzati da quello che Idi Amin poteva fare loro nel caso che si fossero arresi. In ogni caso, quegli ugandesi rappresentavano un problema perché con il loro fuoco impedivano agli ostaggi di uscire dall’old terminal. Come arrivarono i due blindati, Ron chiese a Mofaz di unirsi alle due Land Rovers e di iniziare a combattere contro il nemico asserragliato nella torre di controllo. Mofaz decise di lasciare in loco il suo blindato, ma di mandare invece il blindato di Bar Lev a oriente: sul raccordo che conduceva alla pista militare e alla vicina base dei Mig, poi scese e corse all’interno dell’old terminal in cerca di Muki Betser. Bar Lev partì a razzo con i suoi otto uomini, mentre Danny Dagan sulla M-38 attaccò la torre di controllo. Per prima cosa Dagan fece puntare il potente proiettore del mezzo blindato contro le finestre della torre, in modo da abbagliare gli ugandesi, poi gli israeliani iniziarono a rovesciare sugli ugandesi tutto il fuoco pesante di cui erano capaci: un torrente di fuoco si abbattè sulla torre di controllo. Dagan sulla sua M-38 ricorda: "Puntammo il nostro riflettore sulla torre di controllo, per accecarli. Alla richiesta di Alik Ron, gli sparammo con tutto quello che avevamo tranne i Dragon. Anche se io ero il pilota, mi sentii in dovere di contribuire. Appena smettevo di guidare, afferravo il mio Kalashnikov e facevo fuoco, poi lo mettevo giù e ricominciavo a guidare e così di seguito. Sparai su tutto quello che vedevo”. Intanto, gli uomini delle due Land Rovers dell’Unità avevano deciso spontaneamente di spostare i loro due veicoli piazzandosi sempre sotto la torre di controllo, ma più a oriente: tra essa e l’old terminal e da lì stavano anche loro facendo fuoco sulla torre di controllo con le calibro .50. Coprivano ogni finestra e ogni squarcio che si era aperto nelle pareti della torre, in modo da impedire agli ugandesi al suo interno di instaurare un fuoco organizzato verso il piazzale del terminal. Subito a est delle Land Rovers, il tenente Arnon Epstein e Bukhris avevano preso posizione all’angolo occidentale del terminal e coprivano la torre e lo spazio di 20 metri tra questa e il terminal. A un certo punto Bukhris si sentì dare un colpetto sulla spalla sinistra. Il ragazzo si voltò e vide la canna di un Kalashnikov con dietro un volto africano che gli stava mormorando qualcosa. L’ugandese aveva scambiato Bukhris per uno di loro a causa della finta uniforme e della tintura nera sul viso. Quando però Bukhris si voltò, il soldato africano vide gli occhi spalancati del ragazzo e capì. I due si guardarono allibiti per un istante che a Bukhris sembrò eterno, poi il ragazzo urlò: “Arnon!” Lì accanto miracolosamente Arnon Epstein, che si era girato pure lui a guardare, aveva capito tutto e uccise l’ugandese una frazione di secondo prima che sparasse in faccia a Bukhris. Da quel che si sa, fu quello l’ultimo caduto ugandese all’old terminal. A quel punto infatti la forza d’assalto era riuscita ad eliminare ogni minaccia immediata contro gli ostaggi all’interno del terminal e nelle sue immediate vicinanze, fatta eccezione per gli ugandesi asserragliati sulla torre di controllo, che però erano costantemente tenuti sotto tiro dalle Land Rovers e dal blindato di Dagan. In quel momento arrivò anche seconda coppia di blindati, sbarcata nel frattempo dal Karnaf-Tre. Queste altre due M-38 blindate erano al comando di Udi Shalvi ed avevano il compito di sbarrare la vecchia strada che a nord dell’old terminal passava sopra la palude e arrivava fino a Kampala. Da quella strada si temeva che potessero arrivare i temuti rinforzi ugandesi. Shalvi arrivò da ovest, raggiunse la torre di controllo e svoltò a sinistra. I due blindati abbatterono una recinzione ed entrarono nella vecchia area appartenuta alla Shell Oil dirigendosi a nord, ma lì trovarono sulla loro strada un enorme cumulo di rottami e detriti di ogni tipo per cui tornarono in dietro. Passarono vicino al gruppo elettrogeno che riforniva di corrente l’old terminal. Lo fecero saltare, mettendo al buio tutto il complesso, poi furono ancora una volta sotto la torre di controllo. Qui Shalvi vide la Mercedes ferma e a motore acceso, con i quattro sportelli aperti; svoltò nuovamente a sinistra sotto la torre e stavolta trovò un passaggio a nord che lo portò dietro l’old terminal, dove un grosso cancello separava l’area del terminal dall’imboccatura della strada che portava a settentrione. Una volta là, i 16 uomini sue due blindati presero posizione dietro il cancello e si scontrarono con diversi ugandesi sbandati che cercavano di svignarsela scavalcando il cancello. I blindati li fecero fuori e per poco non abbatterono anche gli uomini della squadra di Reicher che, scovati gli ugandesi durante il rastrellamento dell’old terminal, li aveva inseguiti fino lì. Erano passati poco più di dieci minuti dall'atterraggio del Karnaf-Uno. Gli uomini di Shalvi videro anche diversi altri ugandesi che scappavano come lepri. Non persero tempo a inseguirli e li lasciarono andare.
  5. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Hai ragione, anche io c'ho pensato, ma sono arrivato alla conclusione che non sia affatto un errore. Se si guardano le interviste pubbliche dei maggiori protagonisti (Betser, Ofer, Goren, Dagan...), non ce n'è una che combacia. Per esempio: uno dice che erano in 29, l'altro dice che erano in 34 ad assaltare il terminal. E così via. Penso che sia una cosa voluta. Concordano tutti sulle cose principali, ma sui metodi e sui dettagli come i visori o i laser discordano, o confondono le acque: lo fanno apposta per non parlare di armi, equipaggiamenti, procedure e tattiche che devono restare segreti, per motivi di sicurezza. Quello dei visori notturni non è un errore di traduzione. Shlomo Reisman dice proprio così: "... con i raggi dei visori notturni che uscivano paralleli alle canne dei fucili." (Entebbe 1976.L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu; pag.151). Anche io ho pensato che in realtà forse si trattava di mirini laser, ma cerco di rimanere fedele a quello che leggo, sennò è tutta una minchiata. Riguardo alla storia del Kenya, dammi tempo che ci arrivo eh eh eh eh eh eh...
  6. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    99 minuti a Entebbe “Rhinos into Africa!” Frattanto, sbarcati tutti, Shiki Shani era rimasto brevemente in attesa con Karnaf-Uno sulla pista obliqua con tutte le luci del velivolo spente. Alle 00:06 ora locale era atterrato anche il Karnaf-Due, seguito a ruota dal Tre. A quel punto, Shani spostò di nuovo in avanti le manette e ridette gas ai due motori esterni. Il grande Hercules si mosse in avanti. Shani girò a destra in direzione del new terminal tutto illuminato. Dietro di loro, Karnaf-Due di Nati Dvir si apprestava a raggiungere il suo punto di inizio attacco. In quell’istante le luci a terra si spensero, tutto l’aeroporto piombò nelle tenebre. Il maggiore Nati Dvir, pilota del Karnaf-Due, aveva posato le ruote sulla main runway ancora perfettamente illuminata. Dal Karnaf-Due in atterraggio tutti avevano potuto assistere alla comparsa nel buio dei traccianti e dei lampi delle esplosioni del combattimento che proprio allora stava avendo inizio all’old terminal. A bordo del secondo Hercules, Dvir e il tenente colonnello Biran si erano sentiti sollevati nel vedere che la prima parte dell’operazione cominciava come previsto. Anche il Karnaf-Due atterrò da sud a nord. Mentre il grande aereo rullava decelerando sulla pista, un furgoncino gli si affiancò in velocità filando lungo una stradina di servizio che correva parallela alla pista. Dalla carlinga, Dvir e Biran videro che era un camioncino dei pompieri con i fari e i rotanti sul tetto ben accesi e lampeggianti. Da bordo del C-130, gli israeliani avevano visto i pompieri ugandesi sul furgoncino allungare il collo per guardare esterrefatti il Karnaf-Due comparso dal nulla sulla loro destra. All’improvviso Dvir e Biran li videro sbandare, inchiodando i freni. I fari e la sirena sul tetto del furgone si spensero di botto, mentre il camioncino spariva in coda all’Hercules. Quasi nello stesso momento in cui le luci del furgone scomparvero, anche quelle dell’aeroporto sparirono. L’oscurità inghiottì ogni cosa. Dvir e Biran ricordano che le luci si spensero in rapida successione, come quando si premono tre interruttori uno dopo l’altro: prima le luci della main runway, poi quelle del raccordo che conduceva al new terminal, per ultime quelle dell’APRON. Gli ugandesi avevano finalmente capito e l’aeroporto era ora completamente avvolto dalle tenebre. A bordo del Karnaf-Tre, il maggiore Arieh Oz non ebbe neanche il tempo di capire quanto era nei guai. Si trovava in quel momento in corto finale ad appena 40 metri sopra la pista, quando le luci dell’aeroporto si erano spente. La pista gli era svanita di colpo da davanti agli occhi. Fu come se una botola gli si fosse spalancata sotto i piedi. Per fortuna aveva l’AWADS acceso e, soprattutto, i paracadutisti del Sayeret Tzanhanim avevano disposto le luci di segnalazione d’emergenza ai lati della main runway. Oz richiamò istintivamente e balzò con il suo C-130 stracarico verso quella doppia fila di lucine. Saltò i primi 800 metri di pista, ma alla fine toccò e atterrò colpendo violentemente il cemento. Il C-130H dette quel giorno un’altra conferma della sua proverbiale robustezza, sopportando la durezza di quell’impatto senza danni e senza feriti a bordo. Dietro di loro intanto, Halivni, che aveva visto tutto dal Karnaf-Quattro, stava già apportando le dovute correzioni alla sua discesa d’atterraggio. Frattanto Dvir e Biran erano arrivati con il Karnaf-Due all’estremità nord della pista. Svoltarono a destra sul raccordo per la pista obliqua, la raggiunsero e scaricarono le prime due M-38 blindate del maggiore Shaul Mofaz e la jeep comando del generale Shomron. Mofaz con i 16 uomini dell’Unità e i due blindati si diresse subito verso l’old terminal. Danni Dagan era l’autista del blindato di Mofaz, mentre Omer Bar Lev comandava l’altro mezzo. Erano armati fino ai denti, compresi i missili Dragon. Mentre Mofaz schizzava via sui blindati, il tenente colonnello Moshe Shapira si mise alla guida della jeep comando. Biran invece alzava la lunghissima antenna del veicolo, che avrebbe permesso le comunicazioni anche con il 707 del comando che volteggiava da qualche parte a 10.000 metri. Montata l’antenna, anche Biran saltò a bordo della jeep comando. Lui e Shapira partirono a razzo per recuperare Shomron, Oren e i tre altri ufficiali del comando che aspettavano nel buio ai lati del raccordo, fin da quando erano sbarcati dal primo Hercules. Mentre i veicoli scendevano dall’aereo, anche i 17 parà balzarono giù dal Karnaf-Due. Corsero verso il punto di riunione con i loro compagni del Sayeret Tzanhanim, i quali li aspettavano nel buio con il colonnello Vilna’i ai bordi della main runway, dove avevano appena finito di piazzare le luci d’emergenza. Riunitosi al grosso dei suoi uomini, Vilna’i si mise alla testa dei suoi 69 parà e li condusse senz’altro verso sud, alla volta del new terminal e della nuova torre di controllo: andavano espugnati entrambi. Una volta che il suo loadmaster gli segnalò che la stiva era vuota, Dvir ritirò la rampa e dette motore, dirigendosi anche lui alla volta del new terminal sullo stesso percorso già imboccato da Shani. In coda a Dvir era intanto sopraggiunto anche Karnaf-Tre. Oz arrivò al punto di inizio attacco sulla pista obliqua e scaricò la seconda coppia di blindati, comandata da Udi Shalvi e i 30 uomini della Golani con la loro Land Rover, poi anche Oz ripartì verso il new terminal. Infine, alle 00:08 ora locale, anche Karnaf-Quattro di Amnon Halivni prese terra sano e salvo a Entebbe. Il Karnaf-Quattro arrivò in fondo alla pista, girò a destra e raggiunse anche lui il punto di inizio attacco, dove scaricò il pick-up Peugeot con la pompa del carburante avio. Al contrario dei tre colleghi che l’avevano preceduto, Halivni non partì verso il new terminal, ma imboccata la pista obliqua con l’Hercules, la percorse per un buon tratto e si arrestò poco prima del raccordo per l’old terminal. Lì scaricò anche il secondo pick-up Peugeot, i 20 fanti della Golani e tutto il personale medico con il loro materiale, poi Halivni fece fare inversione al grande velivolo, tirò i freni e rimase in attesa con solo i due motori esterni in funzione. Il pick-up con la pompa del carburante avio, insieme con i 10 tecnici rifornitori dell’Aeronautica corse al new terminal verso i serbatoi civili dell’aeroporto, per approntare il cruciale rifornimento degli Hercules. I fanti della Golani invece salirono a bordo del loro pick-up e formarono un perimetro, attestandosi a difesa del Karnaf-Quattro sulla pista obliqua. Il personale medico allestì un ospedale da campo di fianco all’aereo, poi il dottor Elan Dolev, responsabile di tutta l’equipe medica, dichiarò per radio di essere pronto a ricevere i primi feriti. Giunti in prossimità del new terminal, Vilna’i fece disporre i suoi paracadutisti su una lunga fila, proprio di fronte al new terminal. I paracadutisti si appostarono in perfetto silenzio nell’erba alta in attesa del segnale di inizio attacco. Vilna’i e i suoi ufficiali si disposero al centro dello schieramento e iniziarono a studiare attraverso i visori notturni il new terminal illuminato. Era una costruzione a un solo piano. Le sue luci funzionavano. Nulla dimostrava che gli ugandesi all’interno sospettassero alcunché. C’era pochissima gente a quell’ora di notte, niente uniformi. Una grossa scala esterna, che si arrampicava attorno a un pilastro di cemento quadrato, portava sul terrazzo del new terminal. Studiando la scala esterna, Vilna’i ordinò a un suo ufficiale di salire subito lassù con i suoi uomini a inizio attacco per poi di piazzarsi lì sul tetto. Per non causare perdite inutili tra i civili ugandesi, Vilna’i ordinò anche che i Galil dei suoi fossero messi in sicura, poi uscì dalla fila da solo, alzò la destra guantata chiusa a pugno e la alzò ed abbassò ripetutamente: avanzare! In silenzio, i paracadutisti scattarono in avanti nelle tenebre. L’unico rumore che produssero fu quello dell’erba che frusciava contro di loro. Penetrarono nel new terminal con le baionette inastate, ma senza sparare. All’interno, trovarono qualche civile che guardava attonito quegli strani soldati mimetizzati comparsi dal nulla e che ora irrompevano con i fucili spianati attraverso le entrate del terminal. Il coraggioso Surin Hershko ancora non sapeva che Vilna’i aveva ordinato alla sua squadra di salire sulla scala esterna, quindi seguì gli altri e penetrò tra i primi al pian terreno del new terminal. Una volta là, Nehemiah, suo comandante di battaglione, mandò Surin e diversi altri al primo piano. Il primo piano risultò praticamente deserto e Surin vide attraverso i finestroni i suoi compagni che salivano di corsa sulle rampe della scala esterna, ma questa non poteva essere raggiunta dall’interno. Anche i compagni da fuori videro Surin e gli fecero cenno di scendere, uscire a risalire da loro. Surin lo fece. Appena uscì, udì la sparatoria in corso all’old terminal e incontrò Vilna’i che gli fece cenno di salire sulla scala esterna. Surin salì. Fatte poche rampe di scale attorno al pilastro quadrato udì un rumore, ma poiché il new terminal appariva ancora del tutto calmo e i suoi amici erano appena saliti su quelle scale, Surin pensò che fossero loro e lasciò in sicurezza il suo Galil. In questo modo Surin era praticamente disarmato quando andò a sbattere contro il poliziotto aeroportuale ed il civile ugandese che scendevano a capofitto le scale, in direzione opposta alla sua. Se la pianta del pilastro attorno a cui salivano i gradini non fosse stata quadrata, Surin forse avrebbe potuto vedere i due ugandesi. Così invece finì loro addosso appena girato l’angolo. Il poliziotto terrorizzato sparò a Surin due colpi da meno di un metro. Il primo proiettile mancò Surin, il secondo gli spezzò il collo. I due ugandesi sparirono. Surin stramazzò all’indietro sulle scale sanguinando abbondantemente. Uditi gli spari, Vilna’i e gli altri accorsero. Surin Hershko pagò il prezzo più alto rimanendo paralizzato per sempre dal collo in giù. Quei due colpi di pistola del poliziotto ugandese furono i soli spari uditi durante la conquista del new terminal. Il new terminal e la sua torre erano ormai in mano israeliana. La nuova torre di controllo aveva presentato qualche problema, perché era in cima a una scarpata alta 20 metri e i parà avevano dovuto scalarla con corde e ramponi. I civili ugandesi, in gran parte operai aeroportuali, vennero raggruppati al pian terreno e gli venne impedito di uscire. Non gli venne fatto alcun male. Vilna’i rimase in attesa degli Hercules che dovevano arrivare lì al new terminal per iniziare il rifornimento e qui si sfiorò un’altra tragedia. Sul Karnaf-Uno, Shiki Shani, una volta sbarcati uomini e veicoli sulla pista obliqua, aveva atteso l’atterraggio del secondo e del terzo Hercules, poi aveva ridato subito motore, proseguendo sul raccordo per il new terminal, ancora completamente illuminato. Poi gli ugandesi avevano spento le luci delle piste. Poco dopo, Shani era stato raggiunto anche dal Karnaf-Due di Dvir sulla bretella per il new terminal. Secondo la guida Jeppesen, il raccordo dalla pista obliqua al new terminal avrebbe dovuto essere rettilineo, invece faceva una S con gomito di 90°! Arrivati a quella svolta inattesa, Shani inchiodò i freni di Karnaf-Uno per non finire fuori pista e lui e Avi Einstein erano rimasti per un lungo momento a scrutare le tenebre davanti a loro, per capire dove portava adesso quella curva imprevista. Poco dietro di loro, Dvir, su Karnaf-Due, stava avanzando al buio anche lui convinto che il raccordo fosse dritto. All’improvviso invece Dvir aveva visto con orrore l’enorme coda del Karnaf-Uno emergere dalle tenebre proprio davanti a lui! Dvir aveva premuto disperato sui freni: Karnaf-Due si era arrestato del tutto a due metri dalla coda del primo Hercules. Solo per un miracolo non si era avuto il disastro completo. Shani riprese a muoversi e i due Hercules raggiunsero finalmente il piazzale davanti al new terminal, dove attesero l’arrivo del Karnaf-Tre (informato nel frattempo che il raccordo non era rettilineo come sulle guide). Lì, sotto la protezione dei paracadutisti, i tre aerei iniziarono ad essere riforniti dai tecnici dell’Aviazione, che erano già arrivati con il pick-up che trasportava la pompa del carburante. Vilna’i chiamò Shomron dicendogli che erano padroni dell’aeroporto. A quel punto gli israeliani potevano accendere tutte le luci pista che volevano, per permettere il decollo dei loro aerei.
  7. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Il capitano Yiftah Reicher aveva intanto condotto la sua 4° squadra all’assalto della dogana e del primo piano del terminal. Negli uffici della dogana e nel suo corridoio al pianterreno, gli uomini dell’Unità si erano scontrati con diversi soldati ugandesi e li avevano eliminati uno ad uno. Poi si erano diretti a nord lungo il corridoio e fino all’altro capo del terminal, dove una solitaria rampa di scale conduceva al primo piano. La 4° squadra con Reicher in testa si lanciò su per i gradini. Alla sommità delle scale comparvero due ugandesi a Kalashnikov spianati. Reicher li eliminò. Gli israeliani raggiunsero così il primo piano del terminal. In cima alle scale, Reicher e i suoi si ritrovarono all’inizio dell’ampia galleria fenestrata che andava verso est: era il ristorante del primo piano. Sulla destra si apriva anche la porta che portava al ballatoio della grande hall. La porta era protetta da una robusta inferriata artisticamente decorata. L’inferriata era chiusa. Da lì, un ballatoio dominava tutta la hall grande in cui stavano gli ostaggi. Il ballatoio andava espugnato e tenuto a qualunque costo perché da lassù si poteva dominare tutto la scena all’interno della hall degli ostaggi. Reicher non abbattè la porta che dava sul ballatoio con gli esplosivi, ma lasciò invece Amir Shadmi di sentinella a quella porta con l’ordine di sparare su chiunque cercasse di avvicinarcisi; poi lui e Rani Cohen proseguirono a est, lungo le pareti della galleria e nel grande ristorante sparando, lanciando granate e urlando come impazziti. Nel ristorante non c’era più nessuno, ma per terra era pieno di sacchi a pelo e di cianfrusaglie d’ogni tipo, a indicare che il locale aveva ospitato una grande quantità di ugandesi. I sacchi a pelo avevano preso fuoco con gli spari e le bombe a mano. Il fumo era dappertutto. Reicher e Cohen si guardarono e si chiesero che fine avessero fatto gli ugandesi. L’unica spiegazione era che fossero fuggiti ai primi spari, saltando dalle finestre! Una figura umana si mosse. Reicher e Cohen si voltarono e la crivellarono di colpi. Ci fu un enorme frastuono di vetri mandati in frantumi. Avevano sparato alle loro stesse sagome riflesse in un gigantesco specchio a parete. Tornarono da Shadmi. Davanti a Reicher stava la grande terrazza occidentale, che altro non era che il tetto della dogana e dalla quale si poteva assistere alla battaglia in corso contro la torre di controllo. Reicher e Cohen rientrarono nel ristorante. Reicher chiamò subito sul VHF la 5° squadra di Arnon Epstein, che di sotto non era riuscito a trovare il corridoio che portava alle scale al primo piano. Quell’ala dell’edificio infatti era del tutto sconosciuta agli israeliani e Epstein non sapeva che a pianterreno bisognava percorrere tutto il corridoio dalla dogana fino al lato nord del terminal per trovare la scala percorsa da Reicher. Epstein arrivò subito e mentre percorrevano il corridoio vicino alla dogana abbatterono alcuni ugandesi sfuggiti a Reicher. Raggiunto il primo piano, la 4° e la 5° squadra si attestarono a difesa del ballatoio sopra la hall grande e in aggiunta parteciparono dalla grande balconata occidentale allo scontro che stava avendo luogo all’esterno contro gli ugandesi appostati nella torre di controllo. In quel mentre, Peled e Bukhris che uscivano dalla grande hall videro il corpo di Netanyahu riverso a terra nel piazzale antistante il terminal. Gridarono: “C’è un ferito!” e accorsero. Rigirarono il corpo e videro che si trattava del comandante, respirava ancora. Il dottor Hasin arrivò immediatamente con Alik Ron dalla hall grande. Il medico esaminò il ferito e riscontrò i segni di una grave emorragia. Estrasse il pugnale e tagliò gli abiti di Netanyahu. Il ferito era pallidissimo, sul dorso c’era un piccolo foro d’uscita vicino alla spina dorsale, un’altra ferita superficiale stava sul gomito destro. Si vedeva un unico foro d’entrata, a destra sul petto. Mentre Hasin e Peled facevano questo, alla radio di Netanyahu sentirono Muki Betser che chiamava il comandante. Hasin rispose e Betser lo scambiò per Netanyahu. Hasin disse a Betser che il comandante era ferito ed era grave. Il comando passava a Reicher che era il vicecomandante dell’Unità. Reicher era di sopra con la 4° squadra, per cui Muki Betser assunse il comando. Dato che il sangue all’esterno del corpo di Netanyahu era poco, Hasin ne dedusse giustamente che l’emorragia doveva essere interna e che quindi la cosa era grave perché non poteva essere arrestata senza intervento chirurgico. Hasin era senza infermiere. Prese subito un accesso venoso centrale e iniziò a infondere plasma fresco per cercare di bilanciare le perdite dovute all’emorragia. Tamponò come meglio poteva le ferite esterne, poi richiese l’evacuazione immediata del ferito. Nella hall grande intanto Muki Betser stava parlando con gli ostaggi. Essi gli dissero che nella hall piccola c’erano ancora passeggeri. In realtà si sbagliavano, quelli che avevano visto erano i terroristi abbattuti da Giora Zusman e da Shlomo Reisman, cui nel frattempo si era aggiunto anche Ilan Blumer. Quando Blumer tornò dalla saletta VIP, Amir Ofer fu contento di rivederlo vivo. Infatti i due si erano persi di vista all’inizio dell’attacco e Ofer temeva che Blumer fosse morto. Al primo piano rimbombavano i colpi di Reicher e Cohen. Ofer non esternò molto il suo sollievo, ma andò da Blumer con un Kalashnikov ugandese in mano e gli disse: “Ma guarda che bel mitra ho trovato!”. Reicher scese dal primo piano sparando ad altri ugandesi, poi condusse la sua squadra lungo l’altro corridoio al pianterreno, quello che serviva solo come passaggio di servizio per il personale aeroportuale, tra dogana e hall grande. Reicher volle accertarsi che anche quel passaggio fosse vuoto e non ospitasse nemici. "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan" "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".
  8. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Schema di come si svolse effettivamente (da quel che si sa) l'assalto dell'Unità all'old terminal: 4° e 5° squadra per prime nella dogana. Muki Betser (1° squadra) salta la prima entrata della hall grande ed entra dietro Peled (2° squadra) e Amos Ben Avraham (3° squadra) nella seconda entrata. Giora Zusman (6° squadra) entra correttamente nella piccola hall, dove si pensava fossero realmente i 106 ostaggi. Danny Arditi con la 7° squadra non riesce ad aver ragione in tempo della porta della saletta VIP e per fare prima segue Zusman nella piccola hall, per poi lanciarsi nel corridoietto a destra, verso la sala VIP. 8° squadra (Sherman): copertura ravvicinata di tutto il team d'assalto (tra old terminal e torre di controllo). Sq. Comando (Netanyahu e poi Alik Ron). direzione dell'assalto da davanti all'old terminal (prima porta della hall grande, davanti al muretto). (Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu).
  9. Hobo

    CSAR

    Non sono bestiate. Le cose sono standardizzate il più possibile. I seggiolini eiettabili portano diversi kit di sopravvivenza e tra le varie cose c'è anche una zattera gonfiabile. Non dipende dal luogo che stai sorvolando, se è un deserto o un oceano. Ci sono delle procedure precise poi a seconda di dove ti lanci e aseconda del tuo seggiolino: quando separarti da esso, cosa aprire durante la discesa a seconda se sei sul mare o su terra ferma. Molto dipende dalla missione prevalente cui è destinato l'aereo. Per esempio, se ti lancia ad alta quota hai bisogno di O2, sennò svieni subito e tanti saluti. L'O2 può essere integrale nel tuo seggiolino e ti salva la vita. Inoltre molti piloti perdono conoscenza durante l'eiezione, per cui la cosa dev'essere automatica: ossigeno, gonfiaggio della zattera... I giubbotto salvagente (sgonfio) è invece quella specie di "collare" a forma di U rovesciata che si portano i piloti attorno al collo. Questo è l'SKU-7 (Survival Kit Unit) del sedile eiettabile americano Martin Baker GRU-7, usato anche dall'F-14A per intenderci. http://www.tpub.com/content/aviation/14218/css/14218_165.htm Notare che è un kit rigido bivalve (valva superiore e inferiore in fibra di carbonio). Ha l'ossigeno integrale nel sistema, per cui all'eiezione l'impianto di ossigeno segue il pilota. Come si vede ha la forma del sedile del seggiolino e ha la zattera (liferaft) all'interno che si gonfia al contatto con l'acqua anche se sei svenuto e mentre il suo salvagentye attorno al collo ti fa galleggiare. Hai visto mai Top Gun? Quando finiscono in mare con Goose svenuto e si aprono i canotti e i segnalatori si sciolgono in acqua e la colorano di arancione? Ecco questo era dovuto all'unita di sopravvivenza SKU7 dei deggiolini dell'F-14. Non cambia niente se voli sul deserto...
  10. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    99 minuti a Entebbe (Simon Dunstan) Seconda Parte Frattanto, le altre squadre proseguivano nel loro assalto all’old terminal. Giora Zusman della 6° squadra fece irruzione nella hall piccola. Sembrava vuota. La inondò di proiettili. Vide che in quella hall c’era un tavolino con sopra i passaporti degli ostaggi e alcuni letti. Il pavimento era coperto di valigie aperte. Qualcuno gli stava sparando addosso da dietro i letti. In quel mentre entrarono anche i suoi uomini. Bombe a mano volarono nella stanza. Gli spari cessarono. Delle ombre si mossero nel corridoio a destra. Giora Zusman aprì il fuoco. La 6° squadra si fece avanti nella piccola hall. In fondo alla sala c’era un cucinotto; dentro c’erano due ugandesi morti. Arrivò anche Slomo Reisman della 2° squadra. Reisman avrebbe dovuto entrare con Peled e Ofer nella seconda entrata della hall grande. Piombò invece nella piccola hall con Giora Zusman. Infatti Shlomo Reisman correndo si era trovato dietro a Muki Betser. Shlomo sapeva che lui doveva entrare nella porta successiva a quella di Betser. Betser aveva sbagliato porta, saltando la prima entrata della grande hall, per cui aveva sbagliato anche Shlomo Reisman che correva dietro Betser. Entrando nella hall piccola, Reisman rimase stupito di trovarci il capitano Giora Zusman. “Che ci fai nella mia hall?”, gli domandò allibito Reisman. “Che ci fai tu nella mia!”. Gli urlò di rimando Giora Zusman mentre continuava a fare fuoco verso la sala VIP. Vedendo la piccola hall vuota e credendo che si trattasse della grande hall, Shlomo Reisman lì per lì pensò che gli ostaggi erano stati spostati, magari nel new terminal e fu preso da un terribile scoramento. [Gli israeliani infatti sapevano che gli ostaggi ebrei e l’equipaggio francese erano nella piccola hall, invece non era così]. Giora stava cambiando caricatore, quando si accorse che la squadra di Danny Arditi aveva qualche problema con la sala VIP lì accanto. La squadra di Arditi, la 7°, era l’ultima tra quelle di assalto. Doveva irrompere nella sala VIP che fungeva da alloggio per i terroristi a est della piccola hall, ma Arditi aveva trovato la porta sbarrata e chiusa da un chiavistello e non riuscivano a forzarla in tempi rapidi. Un uomo di Arditi si dava da fare con un piede di porco, ma dall’interno qualcuno sparava. Uno di Arditi lanciò una granata attraverso la finestra della saletta VIP, ma la bomba prese una sbarra dell’inferriata e rimbalzò in dietro verso gli israeliani, ferendo abbastanza seriamente a una gamba quello con il piede di porco. A quel punto Giora Zusman, che si trovava nella piccola hall, indicò con l’AK-47 il corridoietto ormai pieno di fumo a Shlomo dietro di lui e gli urlò: “Pronto ?”. Reisman annuì. Subito dopo Zusman gridò ad Arditi che lì da loro c’era un breve corridoio che portava dalla hall piccola alla sala VIP e che si poteva provare a entrare anche da lì e subito dopo Giora e Shlomo Reisman si lanciarono nel corridoietto verso la sala VIP, sparando all’impazzata e facendosi precedere dalle granate antiuomo. Dietro di loro comparvero anche Blumer e Tamir il quale, da quando Netanyahu era caduto, non aveva più un compito specifico e ora voleva rendersi utile. Due persone coperte di sangue e di polvere e con abiti civili a brandelli emersero dal nuvolone di polvere sollevato dalle bombe a mano nel corridoietto. Si fecero in contro ai quattro israeliani, con le mani parzialmente alzate. Giora urlò: “Fermi!”. Ma quelli lo oltrepassarono senza fermarsi. Allora Giora ebbe un brutto presentimento, balzò fuori dalla linea di tiro lasciandosi cadere e urlò a Shlomo: “Sparagli Reisman!”. Lui infatti non avrebbe potuto fare fuoco senza uccidere anche Reisman, Blumer e Tamir che si trovavano sulla sua linea di tiro dietro i due figuri. Ma Reisman che pensava ancora di venire dalla hall grande e non da quella piccola, gridò a Giora: “No! No! Sono ostaggi!”. Shlomo Reisman non aveva finito di gridare questo che notò una granata appesa alla cintura di uno dei due, allora lasciò partire una raffica dal suo Kalashnikov e ne uccise uno, ma non fu abbastanza svelto. L’altro lasciò cadere sul pavimento la bomba a mano. Shlomo si buttò su Tamir urlando: “Granaaata!” Fecero appena in tempo a vedere il lampo azzurro del detonatore che la bomba esplose. Fu un miracolo. Per sua fortuna Giora si era appena scansato dalla linea di fuoco buttandosi verso la saletta VIP, per cui le schegge della granata non lo raggiunsero. Shlomo Reisman si rialzò assieme a Tamir e a Blumer. Reisman era coperto di sangue e per poco i suoi due compagni non ebbero un infarto credendolo mortalmente ferito, ma poi videro che si trattava solo di un profondo taglio al volto, causatogli da una scheggia della granata. Facendosi più innanzi, Giora, Shlomo, Tamir e Blumer si imbatterono nel cadavere di un terzo terrorista, gli spararono per maggior sicurezza, poi lo scavalcarono e continuarono ad avanzare armi in pugno vero la sala VIP. Nel frattempo, Arditi e la sua squadra avevano fatto saltare la porta della saletta VIP e vi avevano fatto irruzione con le bombe a mano, insieme ad Amos Ben Avraham, che non avrebbe dovuto essere con loro, ma che, avendo visto che nella grande hall non c’era più nulla da fare, li aveva raggiunti. Tutto questo accadeva al pianterreno.
  11. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Questa non è affatto "la mia discussione" sennò diventa un monologo sterile e noioso. Si, Amir Ofer a 22 anni era considerato anziano e aveva già combattuto nella guerra del Yom Kippur del '73 e in molte altre azioni speciali. Lo stesso comandante dell'Unità, Netanyahu, che morì a Entebbe, aveva 31 anni quando gli assegnarono il comando dell'Unità, veniva dal comando di un battaglione corazzato e aveva combattutto nella guerra dei sei giorni ('67) e in quella del Kippur e inoltre in molte altre missioni speciali al comando di Ehud Barak. Danny Dagan a 42 anni era considerato il vecchio della situazione. Daltronde è inevitabile che in una Forza Speciale la gente sia giovane. Chi è stato in Israele sa che età hanno i soldati che si vedono in giro. Non si vede un vecchio manco a cercarlo. A Gerico io ho visto normalissime ragazze sui 18 anni guidare i Merkawa e poi la sera mollano tutto e vanno a Tel Aviv a ballare. E poi se qualcuno vuole info sull'IDF può sempre chiedere... (foto non mia): L'impostazione di tutte le forze armate dovrebbe essere in realtà quella di stampo britannico: estremamente precisa, pratica e che bada al sodo. Non ci sono molti vecchi. E non sono richiesti anni, ma mesi per diventare ufficiale e pilota. E a che livelli poi... L'addestramento del Sayeret Matkal sembra breve forse perchè tutti i ragazzi israeliani hanno già di base un addestramento militare completo che dovrebbe durare 3 anni, quindi non partono da zero. (Se ho capito bene, solo gli ebrei ortodossi, quelli vestiti in modo tradizionale, possono se vogliono essere esentati dal servizio militare, per motivi religiosi. Secondo qualcuno questo non è giusto nei confronti di tutti gli altri). Si, quella da te postata e la vecchia torre di Entebbe, ancora piena di buchi. Dietro si intravede la vecchia area di stoccaggio della Shell. La foto mi pare che guardi verso ovest. L'old terminal dovrebbe essere sulla destra della foto. Notare l'indicazione dell'altitudine della torre: "3789 ft". Strana mimetica quel C-130 che si vede.
  12. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Grazie, mi limito a riassumere (o a cercare di farlo dato che non volevo farla cos' lunga, ma l'argomento mi ha interessato). L'Hercules-Uno atterra a Entebbe: Il Sayeret Matkal assalta l'old terminal con uniformi ugandesi (ricostruzione pittorica, Simon Dunstan). Notare la Mercedes nera, il comandante Netanyahu che cade, il muso dell'A-300 Air France davanti al terminal. In fondo Reicher con la 4° squadra fa irruzione nella dogana, la 1° squadra di Muki Betser sfonda nella prima entrata della grande hall, mentre in primo piano Amir Ofer, seguito dal suo comandante Peled e dalla 2° squadra, irrompono attraverso la seconda entrata della grande hall. Notare Ofer in primo piano con il megafono. Sul piazzale, la 6° squadra, guidata dal capitano Giora Zusman e da Adam Kolman e la 7° squadra del tenente Danny Arditi stanno correndo rispettivamente verso la piccola hall e verso la saletta VIP: All'epoca del quadro l'artista ancora non sapeva che Muki Betser aveva sbagliato porta, entrando non nella prima entrata, ma nella seconda entrata della hall grande insieme con Peled e Ofer.
  13. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Gli israeliani avanzarono più veloci che poterono, coprendo in pochi secondi i circa 200 metri che ancora li separavano dalla torre dell’old terminal. I soldati ugandesi posizionati sulla torre di controllo avevano il miglior campo di tiro ed erano pericolosi, per cui Netanyahu ordinò di farsi sotto il più possibile per ridurre l’angolo di fuoco al minimo e complicargli così le cose. Gli israeliani furono sorpresi di trovare il grande A-300 Air France parcheggiato davanti all’old terminal. Pensavano infatti che fosse in fondo alla pista obliqua [i terroristi invece avevano ordinato a Michel Bacos di spostare l’aereo, forse per tenerci davanti un comizio il giorno dopo, quando pensavano che avrebbero celebrato la capitolazione di Israele, o massacrato gli ostaggi]. Raggiunto il punto di stop ai piedi della vecchia torre di controllo, gli israeliani fermarono le auto. Netanyahu ordinò a Kafri di fermare la Mercedes a motore acceso, poi scese e dette l’ordine di assalto generale. Gli uomini dell’Unità sciamarono giù dalle due Land Rovers e dalla Mercedes e si mossero verso l’old terminal distante non più di 30 metri da loro. Si disposero di corsa a triangolo. Muki Betser e Netanyahu in testa. Si udì un soldato ugandese al piano superiore del terminal gridare: “Maybe the Children of God are coming!” Ma evidentemente il trucco delle uniformi ugandesi funzionava, perchè ancora solo pochi colpi d’arma da fuoco si udivano e il fuoco nemico era erratico e impreciso. Muki Betser in testa alla colonna sparò per primo a due ugandesi emersi dalle tenebre, poi vide un terrorista (era Wilfred Bose) proprio davanti alle entrate della hall grande. Gli sparò nell’attimo stesso in cui lo vide, ma quello riuscì a ritirarsi subito dentro la hall, urlando: “Gli ugandesi hanno tradito! Gli ugandesi ci sparano!” Questo confermò a Betser e Netanyahu che il trucco delle false uniformi funzionava eccome (e forse fu l’unico motivo per cui i terroristi non sterminarono subito gli ostaggi). A quel punto, Muki Betser aveva colmato lo spazio che separava la torre di controllo dall’estremità ovest del terminal. Raggiunto l’angolo del muro si arrestò per cambiare caricatore, ma tutta la forza d’intervento si fermò dietro di lui! Betser si sporse oltre lo spigolo del muro ed iniziò a fare fuoco sugli ugandesi davanti al terminal uccidendoli. Netanyahu a quel punto lo superò sulla destra, uscì allo scoperto e gli urlò: “Betser avanti! Betser, avanti! Per un terribile attimo, tutta la forza d’assalto parve incapace di muoversi. I ragazzi esitarono a uscire allo scoperto, come incerti sul da farsi. Il ritardo anche di pochi istanti poteva causare il disastro completo con lo sterminio degli ostaggi. Shlomo Reisman della 2° squadra, che si trovava un po’ più in dietro, ricorda vividamente quel momento. “Ci arrestammo ammassati uno sull’altro. Stavamo ripiegati, tesi in avanti nelle uniformi mimetiche, con i raggi dei visori notturni che uscivano paralleli alla canna delle armi”. Goren udì Netanyahu urlare di nuovo: “Avanti! Avanti!”. Poi lo vide scavalcare Betser e superare in corsa l’angolo ovest dell’edificio irrompendo da solo nel piazzale. Appena gli uomini videro il comandante fare questo si riscossero dal torpore e lo seguirono come trascinati. Il triangolo si riformò dietro Netanyahu che correva sparando. Non era stato che un istante, ma poteva significare morte certa per gli ostaggi. Nel frattempo, anche Reicher, compresa la situazione, aveva superato Betser. Si lanciarono entrambi verso le due hall, sparando su tutto quello che vedevano. Yiftah Reicher si buttò con la 4° squadra subito a sinistra nell’entrata della dogana, dove il corridoio e la rampa di scale in fondo a esso conducevano al primo piano. A quel punto accadde una cosa imprevista. Il sergente maggiore Amir Ofer arrivò come un fulmine stracarico di munizioni. Cercava di riagganciare il suo comandante Amnon Peled, che Ofer credeva essere più avanti. In realtà, Peled era rimasto impigliato con le fibbie sulla Land Rover ed era saltato giù con un istante di ritardo! Questo Ofer non poteva saperlo, per cui superò d’un balzo tutti gli uomini che stavano dietro Betser all’angolo della costruzione chiedendosi cosa diavolo stessero facendo ancora lì e arrivò da Netanyahu che incitava gli uomini. Ofer scavalcò Betser e si buttò all’aperto dietro Netanyahu e dietro Reicher. Dietro di Ofer c’era Peled che si sforzava di stare dietro all’uomo che invece avrebbe dovuto seguirlo. Peled non notò nemmeno l’attimo di impasse della forza d’assalto. Ofer, ricordando gli ordini, voleva stare a non più di un passo dal suo comandante, per cui correva come una lepre sparando all’impazzata, senza sapere che Peled in realtà si trovava dietro di lui. Non si sa chi arrivò per primo al piazzale illuminato del terminal, se Netanyahu, Ofer o Peled. Reicher già aveva fatto irruzione nella dogana. Nel frattempo anche Betser e la sua squadra avevano ripreso a muoversi. Ofer e Peled si ritrovarono in testa. Peled inseguiva Ofer. A seguire, c’erano Muki Betser con Goren lungo la parete del terminal, quasi alla stessa altezza di Netanyahu che era più all’esterno sul piazzale, alla destra di Betser. Ron e Tamir della squadra comando erano un metro dietro Netanyahu. Sparavano su tutto quello che vedevano. Cerano alcune casse sul piazzale sulla destra. Un ugandese saltò fuori da là dietro e sparò a raffica, fu subito abbattuto. In quell’istante, sulla sinistra, le vetrate del terminal esplosero in mille pezzi sotto il fuoco di qualcuno. Un terrorista aveva aperto il fuoco da dietro lo stipite destro della seconda entrata della hall grande: proprio l’entrata cui si dirigeva Ofer. Ofer che correva in velocità lo vide e fece fuoco su di lui, abbattendolo. Ofer racconta: “La vetrata del terminal andò in pezzi alla mia sinistra sotto il fuoco automatico di qualcuno che stava sparando da là dentro. Un proiettile mi passò sulla destra, un altro sulla sinistra, due tra le mie gambe e uno mi ferì leggermente all’orecchio sinistro mentre mi giravo. Contai 15 colpi sparati su di me, così seppi quanti gliene rimanevano nel caricatore. Solo Dio sa perché non sono morto. Era a meno di 10 metri da me [si vide poi che era a 5 metri, probabilmente il terrorista sparava agli uomini dietro di lui, altrimenti è inspiegabile come Amir Ofer sia ancora vivo]. Gli sparai subito contro. Vidi diversi colpi andare a segno su di lui e lo vidi cadere all’indietro. Balzai all’interno della hall continuando a sparargli addosso anche se era caduto e solo allora mi accorsi che ero solo!” Fayez Abdul Rahim Jaber fu così il primo terrorista a morire. Fu in quel momento che Goren ricorda che con la coda dell’occhio vide che Netanyahu era stato colpito. Il comandante cadde in ginocchio sul piazzale, allargò le braccia, disse qualcosa e stramazzò in avanti sul cemento. Goren urlò: “Yoni! Hanno colpito Yoni!”. Anche Tamir urlò. Nessuno si fermò. Erano gli ordini: non fermarsi per nessun motivo. Erano ormai davanti alla prima porta della hall grande, il punto di dispiegamento della squadra comando e Netanyahu era caduto. Muki Betser lo superò con la sua squadra. Intanto Ofer nella sua corsa aveva superato tutti e aveva fatto irruzione nella seconda entrata della grande hall, sparando a Fayez Abdul Rahim Jaber. Il terrorista era caduto dietro lo stipite destro della porta, così Amir Ofer piombò dentro la grande hall sparando in semiautomatico e urlando come un invasato: “Koolam lishkàv! Koolam lishkàw! Everybody lie down! Stay down! Stay down! Siccome sparava a Rahim Jaber, la sua attenzione era diretta sulla destra dietro la porta della hall. Mentre faceva questo non si avvide di due figure sua sulla sinistra. Ofer aveva visto che il terrorista a terra davanti a lui era morto e si era girato verso gli ostaggi iniziando ad articolare la frase: “Hey! Are you all right?”. Fu un attimo, per fortuna Peled era subito dietro di lui; entrò e dato che Ofer era a destra, Peled si girò a sinistra e vide. Un uomo e una donna accovacciati, Wilfried Bose e la Kuhlmann, stavano per sparare nella schiena a Ofer. Peled aprì fulmineamente il fuoco su di loro e li falciò un istante prima che uccidessero Ofer. Ofer si era accorto che era il primo dentro la hall; sentì gli spari dietro di lui si voltò terrorizzato e vide Peled e i corpi dei due terroristi a terra dietro di lui. Peled aveva ripreso già a muoversi e balzò in avanti nella sala gremita di gente sdraiata a terra. Ofer vide Peled balzare in avanti nella hall e gli urlò: “Fermati Amnon!” Poi Ofer estrasse il suo megafono cominciando ad urlarci dentro: “Koolam lishkàv! Koolam lishkàv! Everybody lie down! Stay down! Stay down!”. “Tzahal! Tzahal! We are the Israeli Army! ”. [in ebraico e inglese]. La cordite, l’eccitazione e tutto quell’urlare avevano fatto perdere ad Ofer la voce che ora si potè sentire solo grazie al megafono. Proprio in quell’attimo, i due furono raggiunti alle spalle da Betser, Goren e da un altro della squadra di Betser. I tre finirono letteralmente addosso a Peled e Ofer, poi si disposero a ventaglio all’entrata della hall. Muki Betser avrebbe dovuto entrare dalla prima porta della hall grande, invece era lì nella seconda (avevano sbagliato entrata) e Amos Goren che doveva stare con il suo comandante aveva seguito Betser. Muki Betser arrivò così veloce che urtò Peled, vide i due terroristi a terra e gli sparò senza accorgersi che erano già morti uccisi da Peled. I cinque uomini si arrestarono per un attimo puntando le armi in tutte le direzioni e scrutando la hall strapiena di gente. Una figura si alzò e fece per sparare. Era Jayel Naji al-Arjam. Amos Goren l’abbattè, i suoi colpi attraversarono il calcio del Kalashnikov del terrorista: se non avessero colpito anche quell’arma, Goren sarebbe morto. [si vide poi che i colpi di Amos avevano colpito il cilindro del Kalashnikov, in quel modo i proiettili del terrorista non avevano più potuto essere estratti dal caricatore e immessi nella camera di scoppio: un altro miracolo]. Tutti e quattro i terroristi che costituivano un pericolo immediato per gli ostaggi erano stati quindi eliminati 45 secondi dopo lo sbarco dalle jeep. Nel frattempo sopraggiunsero il resto degli uomini della squadra di Peled e di Betser, come pure quelli di Ben Avraham. Meno di un minuto dopo l’eliminazione delle due sentinelle ugandesi sul raccordo e tre minuti dopo lo sbarco dal Karnaf-Uno, l’obbiettivo primario era stato raggiunto! La massa degli ostaggi rimaneva immobile. Qualcuno comunque si mosse. I soldati fecero fuoco e lo uccisero. Dai passeggeri sdraiati a terra si levò un grido: “Non sparate! Non sparate!”, ma era tardi. Si trattava purtroppo di un ragazzo di 19 anni, Jean-Jacques Maimoni, francese. Era già morto non ci fu nulla da fare. Un’altra figura si alzò in piedi. Goren e Peled puntarono e fecero fuoco nel momento stesso in cui si resero conto che si trattava di un ragazzina di 12 anni completamente sotto shock! Nessuno sa come fecero Goren e Peled ad alzare il tiro. E’ un fatto però che i proiettili passarono sopra la testa della bambina e andarono a conficcarsi nel muro. La ragazzina era terrorizzata ma stava bene e rimaneva lì in piedi da sola a piangere. Un’atra figura si mosse: un uomo! Ma questa volta si vide subito che era solo un ostaggio in stato confusionale. Peled e Goren urlarono ripetutamente di non sparare. Un altro corpo giaceva a terra esanime, una donna. Si trattava di Ida Borokovitch. Era l’unico ostaggio che i terroristi avevano fatto in tempo a uccidere per rappresaglia: le avevano sparato al cuore. Sarah Davidson, si era buttata sul figlio per proteggerlo dalle pallottole appena aveva udito i primi spari. Era ancora lì per terra. Lei e il piccolo Benny stavano bene. Benny Davidson fu il primo passeggero a capire davvero quello che quegli strani “soldati ugandesi” avevano fatto. Commise l’imprudenza di alzarsi carponi sul pavimento e alzare la testa. Gli uomini dell’Unità videro un ragazzino dodicenne con i capelli dritti mettersi a quattro zampe sul pavimento, sollevare il capo in mezzo al mare di corpi sdraiati a terra, guardarsi intorno con gli occhi spalancati ed esclamare: “Fooorte!” Il braccio di suo padre lo tirò subito a terra. Il signor Pasco Cohen, un assicuratore di 52 anni, era stato invece raggiunto da una pallottola vagante al basso ventre, sarebbe morto di lì a poco nonostante gli sforzi dei medici militari che lo soccorsero subito. Un terzo passeggero, il signor Yitzhak David, il sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, aveva ricevuto una pallottola nella spalla e nel polmone sinistri, ma se la sarebbe cavata ancora una volta. Sarah Davidson racconta: “Stavo facendo un solitario con le carte sul pavimento, quando udii uno sparo, seguito da diverse grida. Lasciai cadere le carte e mi buttai su mio figlio, poi mi guardai attorno. I terroristi puntavano le armi in tutte le direzioni sembravano confusi. Iniziò una grossa sparatoria. Qualcuno urlò: “Sono israeliani!”. Tenni giù la testa di mio figlio, mentre ci appiattivamo ancora di più al suolo. Poi vidi la cosa più bella della mia vita. Come in un sogno, dalla porta entrò con un lungo balzo un piccolo soldato [era Amir Ofer]. Indossava una tuta mimetica, aveva la faccia nera e uno strano cappellino bianco in testa e stava sparando con un grosso mitra puntato davanti a sé. Uccise un terrorista, poi ci guardò e sussurrò: “Hey! State bene? Dietro di lui entrarono subito tutti gli altri soldati e uccisero gli altri terroristi”. Gli ostaggi rimanevano a terra sul pavimento della grande hall. Il fumo andava dissipandosi. La sparatoria all’esterno infuriava. Le mitragliatrici pesanti delle Land Rovers e gli RPG avevano aperto il fuoco contro la torre di controllo e gli ugandesi asserragliati al suo interno. Ordini in ebraico cominciarono a risuonare. Uomini armati correvano da tutte le parti. Ofer e Goren iniziarono a dire al megafono. “Israeli Army! We’ve come to take you home!”. I passeggeri del volo 139 finalmente realizzarono: l’impossibile era successo, quegli strani soldati “ugandesi” erano venuti a riportarli a casa! Da più parti si cominciò a sentir gridare di gioia: “Nes! Nes!” (Miracolo! Miracolo!). Muki Betser fece il suo rapporto per radio nel suo consueto stile: “Have hostages. Team intact. No casualties”. Ma dal piazzale esterno Tamir gli rispose per radio: “Yoni’s down”.
  14. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    99 minuti a Entebbe (Simon Dunstan) - “Who Dares Wins” - Sayeret Matkal: motto. Il Karnaf-Uno prese terra nella notte estiva di Entebbe, come un normale aereo civile. Atterrò in direzione sud-nord. L’atterraggio fu da manuale. All’ultimo Shani richiamò dolcemente per la flare finale e posò delicatamente le ruote del pesante velivolo sul cemento ancora bagnato dalla pioggia. La lunghezza della pista permise a Shani di rallentare solo con i freni e senza usare i reverse. Questo permise di non fare troppo rumore inutile. Pieno d’entusiasmo, Shani cliccò diverse volte sul pulsante radio, per segnalare che l’atterraggio aveva avuto successo, poi spense i due motori interni del C-130, per abbattere ulteriormente il rumore e iniziò ad agire in modo intermittente sui pedali dei freni. Serviva per non surriscaldare troppo i dischi, dato che l’aereo era stracarico. Le luci del new terminal di Entebbe sfrecciarono sulla destra degli israeliani, mentre il grande aereo decelerava verso nord, fino ad arrivare in fondo alla main runway. Poco prima dell’estremità settentrionale della pista, sulla destra, Shani cercò il raccordo per la pista obliqua, lo trovò e lo imboccò lentamente con l’Hercules. A bordo, gli uomini accesero i motori e i fari dei veicoli. Amitzur Kafri ricorda bene che recitò una preghiera per il motorino d’avviamento della Mercedes, poi girò la chiave: stavolta il diesel si accese al primo colpo. Amir Ofer sulla prima Land Rover mise il colpo in canna nel suo Klatch (Kalashnikov). “Hey! Niente armi cariche a bordo, lo sai!”, lo apostrofò Blumer lì accanto. “Siamo in guerra”, si limitò a rispondere Ofer senza guardarlo. Tutti misero il colpo in canna. Il Karnaf-Uno rallentò fino ad arrestarsi sul raccordo. Appena l’aereo fu immobile, gli uomini del Sayeret Tzanhanim saltarono giù subito dalle porte laterali per andare a disporre le luci di atterraggio di emergenza ai lati della pista. Poi si diressero verso il new terminal aspettando il resto della forza in arrivo. Ora, anche se gli ugandesi avessero spento le luci della main runway, gli aerei che seguivano avrebbero comunque avuto una chance in più. Anche Shomron, Oren, e altri tre ufficiali della squadra comando scesero e si appostarono ai lati della main runway in attesa dei Karnaf-Due e Tre. Shomron ricorda: “Era una situazione bizzarra: cinque alti ufficiali israeliani appostati nell’oscurità più completa, circondati dall’erba elefantina, al centro dell’Africa e nel bel mezzo di un aeroporto nemico. Eravamo del tutto soli, avevamo con noi solo i nostri Uzi”. Il Karnaf-Uno intanto era ripartito. Percorse il raccordo, poi girò a destra e fu sulla pista obliqua: era il punto di inizio attacco del Sayeret Matkal. L’Hercules si arrestò per la seconda volta. Shani e gli altri piloti sarebbero rimasti fermi lì in attesa, a motori accesi nel buio, fino alla conquista dell’aeroporto, poi avrebbero portato l’aereo al new terminal conquistato per iniziare il rifornimento. Gli equipaggi dell’Aeronautica indossarono elmetti e giubbotti antischegge, rimanendo al loro posto sul C-130 immobile. In un attimo, la rampa posteriore fu abbassata del tutto e la Mercedes e le Land Rovers cariche di uomini scesero in velocità. Una volta a terra, fecero inversione sgommando e svoltando subito a sinistra. In un lampo passarono sotto l’ala destra del C-130, a un pelo dall’elica esterna che ancora girava e corsero sulla pista obliqua verso il vecchio terminal. Gli uomini si ritrovarono al buio sul suolo africano. Faceva caldo. Era mezzanotte ora locale, l’inizio di domenica 4 luglio. Amir Ofer racconta: “Ci aspettavamo di vedere leoni, elefanti e giraffe: vedemmo solo una normalissima pista aeroportuale come in ogni altra parte del mondo”. Tuttavia, i grandi formicai che emergevano dal terreno, l’afa e uno strano profumo di fiori, ricordarono a tutti che erano lontanissimi da casa. Non pioveva più, il cielo era stellato. La luce dei fari delle auto si rifletteva sul cemento bagnato. Muki Betser ruppe per un attimo il silenzio radio per lanciare il segnale convenuto: regolare i selettori delle armi sul colpo singolo. Erano 30 secondi in anticipo sul percorso previsto: bene. Si mossero veloci; la Mercedes nera e lucida in testa, le due Land Rovers a seguire in un piccolo convoglio. Tutti con i fari accesi. Gli uomini a bordo indossavano le tenute da combattimento ugandesi, in tasca il cappellino bianco che avrebbe sostituito a quello d’ordinanza verde una volta all’interno del terminal. Stabilizzarono la velocità sui 60 all’ora, per apparire più disinvolti e destare meno sospetti. Dopo circa 300 metri svoltarono a sinistra sul raccordo per l’old terminal. Tutto ebbe inizio rapidamente. Ai due lati del raccordo comparvero nella luce dei fari due sentinelle ugandesi. Proprio come all’esercitazione! Pensò Bukhris sulla Land Rover. Alla vista della Mercedes nera gli ugandesi fecero segnale di arrestarsi. Quello a sinistra si girò e scomparve alla vista. Quello sulla destra si avvicinò camminando nella luce dei fari, poi battè lo scarpone per terra intimando l’alt e iniziò ad alzare il suo Kalashnikov minacciosamente. A quel punto, Netanyahu prese una decisione fulminea. Disse a Kafri di rallentare, come per fermarsi per l’identificazione, poi ordinò di scartare sulla sinistra per avere una migliore linea di tiro; estrasse la Beretta .22 silenziata e lui, Alex Davidi e Giora Zusman aprirono il fuoco a bruciapelo da una decina di metri. La pistola di Davidi non era silenziata. L’ugandese cadde, ma il calibro 22 evidentemente non lo aveva ancora ucciso perché ora stava ruotando il suo Kalashnikov per puntarlo sull’auto. Il silenzio notturno fu infranto, il tenente Amnon Peled dalla sua Land Rover fece l’unica cosa possibile: aprì il fuoco sull’africano con il suo Kalashnikov, finendolo. L’altro soldato ugandese ricomparve subito a sinistra. Invece di ributtarsi di lato nel buio stranamente si mise a correre lungo la pista verso il terminal, rimanendo nella luce dei fari degli israeliani! Bukhris dalla Land Rover lo eliminò con una raffica della sua pesante GPMG. A quel punto Netanyahu ordinò di accelerare alla massima velocità verso l’old terminal. Le ruote posteriori della Mercedes fischiarono in una nuvola bianca.
  15. Hobo

    VIDEO Sezione Caccia

    Scherzavo. Comunque sono aerei che hanno finito il loro ciclo: anche volendo non credo che potrebbero volare ancora per molte ore. I motori e la cellula penso che siano arrivati al capolinea, quindi io non ci volo. Comunque. Il "Q" nel suffisso non credo che indichi una versione dell'F-4, ma dovrebbe essere solo un suffisso burocratico per indicare che la destinazione è fare da bersaglio. Infatti a guardarli si torna in dietro nel tempo. Io vedo i vecchi F-4G Wild Weasel di Desert Storm. Si vedono subito dalla carenatura all'apice della deriva che alloggiava un'antenna dell'APR-38; e non avevano il cannone. Al suo posto c'era sempre un'altra scatola nera dell'APR-38. Ci sono poi anche qualche F-4E e almeno un RF-4. Ma perchè invece di giocarci al tiro a segno non li donano a qualche museo, o non li cedono "a offerta" a qualche scuola o associazione per tenerli in mostra statica (al coperto, sennò diventano inguardabili). Perchè diavolo non li mettono su e-Bay che ci penso IO?
  16. Hobo

    VIDEO Sezione Caccia

    Come no. Se vuoi montarci, accomodati pure: l'ebrezza di un vero duello aereo a fuoco REALE, gratis per giunta!
  17. Gli One Way non sono solo in USA. Comunque se è un fake, mi sembra molto ben fatto. A me sembra vero. Anche se non è che si vedono tutti i giorni cose del genere, anche perchè il sorvolo a bassa quota delle zone cittadine è strettamente regolamentato, forse era il giorno di una qualche manifestazione aerea. Da quel che so, gli Apache si muovono proprio proprio a squadre di tre elementi per volta, più uno o due OH-58.
  18. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Il Profeta Nell’old terminal di Entebbe, la grande tempesta aveva svegliato tutti, strappando gli ostaggi al sonno agitato in cui erano scivolati, per riportarli all’atroce realtà in cui si trovavano. Nel fragore del fortunale, i disgraziati passeggeri del volo 139 si erano fatti istintivamente ancora più vicini gli uni agli altri sul pavimento della piccola hall illuminata a giorno dai fulmini. Porte e finestre avevano preso a sbattere con forza, con rumore simile a spari, al punto che gli ugandesi avevano dovuto accorrere per fissarle e assicurarle alla meno peggio. All’improvviso, pioggia e vento avevano spalancato le entrate del terminal ed erano penetrati violentemente all’interno, portando via con loro l’afa e il puzzo che vi regnavano. Per la prima volta da una settimana a quella parte gli ostaggi avevano potuto, inaspettatamente, respirare una boccata d’aria fresca. La disperazione e l’apatia avevano da giorni conquistato i cuori della gente. Il solo fatto di sperare ancora in qualcosa provocava sofferenza e anche soltanto l’accennare a un eventuale salvataggio in extremis poteva generare una lite furibonda. L’ultimatum sarebbe scaduto il giorno dopo e Israele non aveva dato ancora alcun segno che facesse pensare ad una sua volontà di accedere alle richieste dei terroristi. Il giorno seguente forse tutti gli ostaggi sarebbero stati massacrati. Come se non bastasse poi, vomito e dissenteria, causati dal cibo intossicato servito dagli ugandesi, erano andati ad aggiungersi alle sofferenze degli ostaggi, rendendo la loro permanenza coatta nella piccola hall di Entebbe un vero calvario. La signora Dora Bloch si era sentita male a causa del cibo e i terroristi avevano acconsentito a un suo trasporto all’ospedale di Kampala, ma non avevano permesso al figlio di seguirla ed ora Ilan Hartuv era in angoscia per il destino di sua madre. I passeggeri ormai si erano rassegnati ad una sorte tanto atroce quanto ineluttabile. Avevano accettato la realtà per quella che era e nulla importava più. Tutti giacevano nella passività e nella rassegnazione. Tutti meno Benny Davidson, 12 anni. Nel boato dei tuoni, in mezzo al rombo del vento, sua madre, Sara Davidson, l’aveva abbracciato e stretto a sé sul pavimento della hall. Benny Davidson forse decise in quel momento che non era più un bambino: ora doveva essere lui a fare coraggio a sua madre. “Mamma”, le aveva detto, “Vedrai: verranno a salvarci”. Ancora oggi Sara Davidson non sa dire dove trovò la forza di non scoppiare in lacrime davanti a suo figlio. Fatto sta che non lo fece. Si limitò ad accarezzargli i capelli. Suo padre e un altro passeggero erano riservisti dell’Aeronautica e avevano spiegato più volte a tutti che Israele era semplicemente troppo lontano per un salvataggio. Madre e figlio rimasero in silenzio sul pavimento, a guardare la tempesta insieme con gli altri. I tuoni e il vento cancellavano qualsiasi altro rumore, la pioggia batteva sui vetri e la luce dei fulmini irrompeva attraverso le grandi vetrate del terminal. Sara Davidson ancora non poteva sapere quanto profetiche si sarebbero rivelate le parole del figlio. All’insaputa dei passeggeri del volo 139 e oramai a poche miglia da loro, quattro Hercules stavano affrontando quella stessa tempesta, lottando nelle tenebre sopra le acque del lago Vittoria. Presto, un altro genere di lampi sarebbe balenato nel buio a Entebbe. “May the Almighty bless the way of warriors” Yitzhak Rabin a conclusione della sua autorizzazione definitiva a Thunderbolt Il Karnaf-Uno frattanto proseguiva ormai isolato, diretto a ovest sul lago Vittoria. Mancavano meno di 30 minuti al touchdown. Ogni uomo a bordo venne chiamato a un controllo finale dell’equipaggiamento. Torce e visori notturni vennero provati ancora una volta sui Kalashnikov e regolati sulla “optimum killing distance”. Tutto il personale iniziò a spalmarsi su mani e viso la crema mimetica nera da combattimento. Rani Cohen, che i suoi compagni avrebbero voluto malignamente lasciare a dormire fino all’ultimo come un bambino sulla Land Rover, era invece stato svegliato dalla tempesta ed ora stava effettuando gli ultimi controlli con gli altri. Amitzur Kafri sbucò da sotto la sua Mercedes e vide Alik Ron risalire di corsa verso prua, scavalcando tutti, per poi lanciarsi come un matto in cabina dai piloti: si era svegliato per ultimo, aveva fame e ingurgitò tutti i dolci rimasti. Le briciole gli rimasero appiccicate sul volto. Le mescolò con una tintura opaca nera. Nella stiva si accesero le luci rosse. Nel chiarore color sangue, gli uomini sbatterono le palpebre, poi andarono a prendere ciascuno il suo posto sulle due Land Rovers e sulla Mercedes. Frattanto, anche il Boeing 707 comando e controllo di Adam e Peled aveva raggiunto la zona d’operazioni, volando lungo la normale rotta sud della El Al per Città del Capo. Bruscamente, così com’era arrivata, la tempesta se ne andò. Rimase però la pioggia a bassa quota. Per la prima volta fu stabilito il contatto tra il 707 e la forza d’assalto. Si era abbondantemente fuori dalla portata delle radio arabe, per cui si poteva fare a meno dei codici e parlare in ebraico. Peled chiese a Shani se vedeva già Entebbe. Shani rispose di no e proseguì nel suo volo. La sua rotta finale lo portò a ovest e fino a una grossa isola sul lago Vittoria, presa come riferimento, sopra la quale virò bruscamente a nord di circa 90°, portandosi così di fronte alla main runway di Entebbe che era perpendicolare alla spiaggia sul lago Vittoria. Il grande velivolo era già in assetto per l’atterraggio con le luci di navigazione spente. Rami Levi frattanto chiacchierava già da un pezzo con i controllori di volo di Entebbe, i quali si dimostrarono gentili e professionali e guidarono in modo impeccabile il “volo 70 della East African Airlines” lungo il suo sentiero di discesa. Non ci fu bisogno neanche di inventarsi un’avaria elettrica. I civili ugandesi sembravano proseguire nella normale routine aeroportuale come se nulla fosse: la mancanza di sicurezza era totale! Se andava bene agli ugandesi, andava ancora meglio per la forza d’assalto. Shani immise il Karnaf-Uno nel tratto finale del circuito del traffico. La pioggia tuttavia non gli faceva vedere ancora niente, fino a quando però, a circa 2 miglia dall’aeroporto, uscì di botto dall’acquazzone e finalmente vide le luci della pista di Entebbe: erano perfettamente accese! La tensione era al massimo. Tutti continuavano a verificare con gli occhi e con le mani di aver preso tutto quanto, fatto questo si guardarono l’un l’altro in attesa. A questo punto, Netanyahu face una cosa che ancora nessuno gli aveva mai visto fare. Venendo dalla carlinga dei piloti, ancora privo della buffetteria e delle armi, percorse tutto il C-130 da prua a poppa. Si aggirò con semplicità in mezzo ai suoi uomini, guardandoli negli occhi e rivolgendo ad ognuno una parola, un sorriso, un gesto d’incoraggiamento. Chiamò tutti per nome mano a mano che li incontrava. Non dette alcun ordine. Andò dal più giovane di tutta la forza, Bukhris, sulla Land Rover, per stringergli la mano. Scherzò brevemente con lui, scompigliandoli i capelli. Raggiunse la Mercedes, si voltò e disse: “Ciascuno ricordi la sua parte. Non esitate ad uccidere: la vita degli ostaggi dipende da noi. Non dovete temere nulla: siamo noi i migliori sul campo. Buona fortuna”. Poi Netanyahu indossò il suo equipaggiamento e andò a prendere il suo posto sulla Mercedes, sul sedile davanti, alla destra di Kafri che guidava. Muki Betser andò da lui e gli disse di ricordarsi di non stare troppo vicino alla squadra d’assalto: non doveva esporsi troppo, era il comandante e c’era bisogno di lui. Netanyahu annuì e i due si strinsero la mano. Tutti si chiedevano come sarebbe stato fuori: faceva caldo o freddo in Uganda? Pioveva ancora? Era meglio portare abiti pesanti? Frattanto Shani continuava a far scendere l’aereo a luci spente verso la pista che invece era tutta illuminata. Non poteva crederci! Poco prima di toccare, Shani abbassò parzialmente la rampa posteriore del C-130. In questo modo gli uomini nella stiva poterono vedere che la tempesta era passata, non pioveva più e il cielo notturno era pieno di stelle. Il vento portò loro un’aria tropicale umida e calda. Sotto l’aereo, tutti videro correre le acque nere del lago Vittoria e infine le luci e il cemento della pista: erano ancora accese! Il trucco aveva funzionato! In alto, da qualche parte a 10.000 metri, Adam sul 707 lanciò nell’etere il segnale: “Over Jordan!” Che significava che la forza d’assalto stava prendendo terra a Entebbe con successo. Subito dopo, a bordo del Karnaf-Uno ci fu lo scossone del carrello che toccava per la prima volta il suolo ugandese. Fonti: "Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
  19. Se lo si ha più grosso si vince eccome ... Comunque il mio era un esempio per dire che sono andati a un concorso con un elicottero che pesa circa un terzo in meno dell'UH-60. Se lo hanno fatto avranno avuto i loro motivi. Onore al 149 che pur essendo più piccolino ha retto il confronto con il Black Hawk. Ma onore anche al Black Hawk, che ancora una volta vince anche se inizia ad avere 30 primavere sul groppone. Totale, da quel che vedo: il 149 è poco, l'AW-101 è troppo, l'UH-60 fa centro...
  20. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Nel retro dell’Hercules, la maggioranza degli uomini ormai dormiva. Braccia, gambe e piedi calzati in stivaletti da jungla pendevano da tutte le parti alle angolazioni più strane, oscillando all’unisono con i sobbalzi dell’aereo. I pochi rimasti svegli si tenevano occupati come meglio potevano, controllando e ricontrollando le armi, i visori notturni e l’equipaggiamento. Un uomo dell’Unità aveva smontato il suo Kalashnikov alla luce delle stelle ed ora lo stava spolverando con un pennello da barba. Il sergente maggiore Amir Ofer ricorda che non riuscì a chiudere occhio nonostante fosse già un veterano e non dormisse da 24 ore. Si sentiva inquieto, non si vergogna di ammettere che aveva paura e il pensiero che, se loro avessero sbagliato qualcosa e si fosse perso l’effetto sorpresa, i terroristi avrebbero fatto un massacro di innocenti non gli faceva prendere sonno. Ofer racconta: “Ad un certo punto, durante il volo, sapemmo che avevamo superato il punto di non ritorno. Oramai non si poteva più tornare: non avevamo più abbastanza carburante, quindi anche volendo era impossibile. Molti ragazzi si addormentarono, ma io non ci riuscii. Rimasi seduto con i miei pensieri, ripassando mentalmente i miei compiti e quelli dei miei uomini. Ripetei il piano tra me e me credo all’infinito”. Bukhris della 5° squadra se ne rimase seduto per tutto il tempo nel sedile di guida della Land Rover: Kalashnikov sulle ginocchia, la pesante GPMG posata al suo fianco nel mezzo della vettura, sguardo fisso davanti a sé perso nei suoi pensieri. Muki Betser chiamò Goren e Ofer e gli consegnò i megafoni, concordando con loro che cosa avrebbero dovuto ordinare gli ostaggi. La cosa più semplice per tutti risultò essere che i due avrebbero dovuto urlare nei megafoni: “Everybody lie down! Stay down!”, in inglese e poi in ebraico. Il sergente dei parà Surin Hershko ricorda che non riusciva a dormire. Era seduto per terra tra i suoi sul Karnaf-Uno, con la schiena appoggiata alla fusoliera; il fondo d’acciaio era troppo duro e non aveva spazio per le gambe, allora decise di allungarle davanti a lui e sotto la Mercedes, ma ad ogni turbolenza il fondo della vettura gli batteva sui piedi, per cui le tirò fuori e le rannicchiò come meglio poteva, ma stava scomodissimo. Dietro la paratia che separa la carlinga del C-130H dalla stiva, ci sono due cuccette per il personale di volo. Sul Karnaf-Uno, la cuccetta inferiore era rotta, ma quella superiore funzionava. Netanyahu andò a sdraiarsi su quella superiore, ordinò di essere svegliato 30 minuti prima dell’arrivo e si addormentò all’istante, nonostante il rumore dei motori. Poco dopo arrivò anche Shani, guardò Netanyahu dormire e non se la sentì di sloggiarlo. Non era procedura usuale che il personale trasportato dormisse nelle cuccette dei piloti, indipendentemente dal grado, ma, pensò Shani, quell’uomo addormentato di lì a qualche ora avrebbe comandato un attacco in cui avrebbe avuto il 50% di probabilità di essere ucciso: lo lasciò dormire, ma si mise al suo fianco nella stessa cuccetta ed anche lui si addormentò a fianco di Netanyahu. Frattanto, l’aereo continuava il suo volo nella notte tropicale, mentre prima il Mar Rosso e poi l’Africa scorrevano sotto il suo ventre metallico. Evitarono di misura il radar sovietico a Berbera, in Somalia. Raggiunto il punto concordato sul Mar Rosso meridionale, prima della Somalia e dei radar francesi a Gibuti, gli Hercules virarono uno dopo l’altro per sudovest, facendo rotta verso l’Etiopia. Avevano volato per più di mille miglia sul Mar Rosso a una quota che in nessun punto aveva superato i 60 metri. Sull’Etiopia gli Hercules poterono finalmente abbandonare il volo a bassa quota e salire fino a 2.000 piedi (circa 600 metri), dove avrebbero volato più veloci e risparmiato carburante e dove eventuali armi contraeree etiopi non avrebbero potuto raggiungerli. Poterono fare questo perché il sistema radar etiope era così obsoleto che difficilmente avrebbe individuato con precisione i quattro aerei a quella quota. Shani nella cuccetta accanto a Netanyahu non era riuscito a dormire a lungo, il pensiero di un atterraggio a luci spente e il fatto che tutto, comprese le vite degli ostaggi, quelle dei suoi amici e l’immagine internazionale di Israele sarebbero dipese dalla sua abilità nell’atterrare in quelle condizioni, era cosa che gli toglieva il sonno e gli aumentava i battiti cardiaci, per cui Shani cedette presto il posto nella cuccetta a Rami Levi, che andò a coricarsi accanto a Netanyahu. Gli Hercules superarono verso sud il confine etiope e furono sopra il grande lago Rodolfo. Continuarono a sudovest e passarono sul Kenya nord-occidentale, diretti su Kampala. Il cielo sopra gli aerei si coprì di nubi cariche di umidità e di quando in quando la pioggia rigava il parabrezza dei C-130; cominciarono a captare la torre di Entebbe: un pilota della British Airways che decollava in orario. A bordo dell’aereo di Shani, Netanyahu era stato svegliato per tempo. Chiamati i comandanti di squadra, ordinò l’approntamento generale: mancavano meno di 30 minuti all’azione. L’armata aerea era quasi arrivata sul grande lago Vittoria vicino a Kisumu quando la fortuna voltò le spalle ai quattro Hercules e una tempesta tropicale si abbattè su di loro, investendoli con tutta la sua furia. Non ci fu modo di evitarla. Come accade ai tropici, la cosa fu improvvisa. Le stelle scomparvero. I lampi squarciavano le tenebre illuminando a giorno gli aerei. Le gocce di pioggia si abbattevano sui velivoli come sassi, mentre i tuoni riuscivano a coprire anche il rombo dei motori. Alla luce dei fulmini, tutti videro che stavano volando tra due strati di nuvoloni neri, uno sopra gli aerei e l’altro sotto. La superficie del lago Vittoria era sparita sotto le nuvole. I fulmini cadevano tra i due strati nuvolosi e tutto attorno agli aerei, accecando i piloti e facendo loro perdere la visione notturna, mentre nella stiva archi violacei di elettricità statica scoccavano tra i finestrini della fusoliera. Gli aerei, carichi com’erano, vennero sbattuti come fuscelli. Mantenerli in quota fu una vera impresa. Qualcuno nella stiva del Karnaf-Uno, dove gli uomini facevano del loro meglio per non finire scagliati a fracassarsi le ossa contro la fusoliera o contro i veicoli, trovò anche il coraggio di urlare sopra tutto quel frastuono: “Thunderbolt! Thunderbooolt!”. La tempesta sul Kenya settentrionale almeno un lato positivo però lo ebbe: diminuì l’efficienza di tutti i radar dell’Africa orientale. Giunti al punto di separazione, i tre aerei che seguivano il Karnaf-Uno presero una rotta obliqua e scesero di quota nella pioggia, rallentando ed entrando in un circuito circolare d’attesa sopra il lago Vittoria, per dare il tempo alla squadra d’assalto di andare avanti. Ormai non mancava molto. Fonti: "Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
  21. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    A bordo degli Hercules tutto era calmo. Vigeva l’oscuramento, nessuno usava luci di nessun tipo, solo la luce delle stelle filtrava dagli oblò. Il frastuono dei motori riempiva la stiva e scoraggiava le conversazioni. Ogni uomo rimaneva fermo al suo posto solo con i propri pensieri, lo sguardo apparentemente perso nel vuoto; i più fortunati dormivano, sballottati dalle vibrazioni dell’aereo. All’esterno l’oscurità era totale. A bordo di Karnaf-Uno i paracadutisti si erano buttati ai lati della Mercedes e delle due Land Rovers, mentre gli uomini dell’Unità stavano nel mezzo, sul tetto dei veicoli e al loro interno. Il morale era alto. Qualcuno riusciva a parlottare e di tanto in tanto si poteva udire nel buio qualche parola pronunciata al di sopra del rombo delle turbine. Tutti quelli che potevano guardavano invidiosi Rani Cohen che appena decollati da Ofira aveva detto a tutti che l’operazione secondo lui non sarebbe mai stata autorizzata, si era buttato sul pianale della sua Land Rover e si era addormentato all’istante e da allora dormiva tranquillo e beato. Nessuno se l’era sentita di svegliarlo per dirgli che l’autorizzazione invece era arrivata: Rani lo avrebbe scoperto comunque molto presto. A un certo punto, Netanyahu si alzò dal suo posto e si mosse verso poppa, aggrappandosi con le mani agli appigli della fusoliera e cercando di calpestare meno gente possibile. Il maggiore Betser lo seguiva. I due raggiunsero Amos Goren e gli dissero di seguirli. I tre uomini si arrampicarono sopra la Mercedes, superarono i soldati sdraiati sul tetto e sul cofano dell’auto e si lasciarono cadere nello spazio tra il muso della vettura e la rampa inclinata del C-130. Amos Goren era l’uomo salito a bordo ad Ofira per sostituire il ragazzo che si era sentito male, per cui conosceva solo sommariamente i dettagli del piano d’assalto all’old terminal ed ora Netanyahu aveva intenzione di istruirlo a dovere riguardo al suo ruolo nell’operazione. Goren e Ofer tra l’altro avrebbero portato anche i megafoni per farsi sentire meglio dagli ostaggi al di sopra della sparatoria. Dato poi che Goren avrebbe fatto parte della 1° squadra d’assalto, Netanyahu aveva chiamato anche Muki Betser, che sarebbe stato il suo comandante. Goren ascoltò attentamente tutto quello che i due ufficiali gli dicevano. Alla fine, Netanyahu estrasse di tasca uno di quei sacchetti di carta per il mal d’aria e alla luce rossa di una torcia tattica vi disegnò sopra uno schizzo dell’old terminal, comprendente le vie di accesso e i percorsi d’attacco delle varie squadre d’assalto. Poi consegnò tutto a Goren dicendogli che, qualunque cosa fosse successa, il suo posto avrebbe dovuto essere sempre e comunque a non più di un passo dal maggiore Betser. Goren fece cenno con la testa che aveva capito e infilò il sacchetto con lo schema in una tasca (lo ha conservato fino a oggi). Netanyahu e Betser si alzarono e andarono a sedersi sui sedili davanti della Mercedes. Chiacchierarono per un po’e scherzarono con Amitzur Kafri che continuava a girare attorno alla “sua” auto e ora ispezionava le asticelle delle bandierine ugandesi saldate sul muso. Netanyahu estrasse dalle tasche un libro e cominciò a leggerlo. Era un thriller: “The way to dusty death”, di MacLean. Forse lo fece perché tutti gli uomini lì attorno potessero vedere il comandante in mezzo a loro e perfettamente tranquillo. Poco dopo l’aereo entrò in una turbolenza, l’automobile sobbalzava talmente che Netanyahu e Betser scesero. Netanyahu si recò in carlinga dai piloti. L’ampia cabina ampiamente vetrata del C-130 era ingombra di ufficiali, qualcuno addirittura seduto per terra o su sgabelli di vimini. Le luci degli strumenti illuminavano la scena, mentre fuori regnava l’oscurità più completa. Nella cabina del C-130H ci sono cinque sedili: pilota, copilota, sedile del navigatore nel mezzo e due sedili laterali lungo la parete di destra del cockpit, per il tecnico di volo e il vice-navigatore. Gli altri ufficiali erano seduti sul pavimento della carlinga. Sul sedile anteriore di sinistra stava Shani, il comandante; su quello di destra il maggiore Avi Einstein, copilota. Rami Levi, della El Al, era il pilota di riserva e ora era immerso nella lettura delle guide Jeppesen sugli aeroporti africani. Era lui quello che avrebbe dovuto parlare con la torre di Entebbe e convincerli a lasciarli atterrare con le luci della pista accese. Levi decise che si sarebbe finto un pilota partito dall’aeroporto keniota di Kisumu. Si sedette per terra in un angolo e iniziò a ripetere meccanicamente le frasi che avrebbe raccontato al controllore di Entebbe, per imprimersele nella memoria. Fatto questo aprì una mappa dell’Uganda sul piancito della cabina e con una guida dell’aeroporto di Entebbe cominciò a tracciare lo schema di discesa verso Kampala e il suo aeroporto. Gli addetti al carico dei C-130, volendo, funzionano anche da vivandieri. Ne entrò uno con una bella torta. Netanyahu ne prese un pezzo per sé e un altro lo offrì a Shani che era ai comandi. Shani glielo rimandò in dietro: “Dammene uno dal centro della torta, non uno dai bordi: la crosta te la mangi tu!”. Netanyahu si finse scandalizzato e disse qualcosa a proposito di certi elementi dell’Aeronautica, poi gli mandò un pezzo morbido dal centro del dolce. Tutti sorrisero. Netanyahu si rivolse a Shomron e quest’ultimo chiese ai piloti la loro posizione e una stima del tempo che rimaneva. Ottenuta la risposta si rimise a parlare con Netanyahu e Oren. Decisero che sarebbero scesi con o senza luci sulla pista. C’era anche il comandante dei parà, Matan Vilna’i e il discorso finì su Idi Amin. Netanyahu se ne usci dicendo che, per quanto lo riguardava, se Idi Amin si fosse trovato nell’aeroporto al momento del loro attacco, l’avrebbe ucciso senz’altro. Oren sorrise e disse che non avevano l’autorizzazione ad uccidere un capo di stato, ma Netanyahu parve irremovibile: se avesse incontrato Idi Amin sulla sua strada, non gli avrebbe permesso di restare nel numero dei vivi. Fonti: "Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
  22. Perchè il Black Hawk è un utility leggero? Se dovevano fare concorrenza all'UH-60 secondo me dovevano andarci con un mezzo pari o superiore come l'AW-101, specie se l'UH-60 è gia "radicato" sul posto da anni. O no?
  23. Hobo

    IL MIO NOME E' JONATHAN.

    Lasciare Ofira non fu facile per i quattro C-130. La pista della base corre lungo la spiaggia parallela alla costa orientale della penisola del Sinai. All’estremo settentrionale, la pista di Ofira sale su una piccola collinetta. A causa dei venti prevalenti quel giorno, i quattro Hercules dovettero decollare in direzione nord. Questo significava che per loro l’ultimo tratto di pista sarebbe risultato in leggera salita e gli aerei erano stracarichi. Shani sapeva che il decollo in quelle condizioni non sarebbe stato uno scherzo. Il peso normale al decollo del C-130H è pari a 70.307 chili. In tempo di guerra è usualmente ammesso un peso massimo al decollo (MTOW o maximum takeoff weight) di 79.379 chili precisi, ma alle operazioni speciali quel giorno l’Hercules-Uno era stato richiesto di decollare con un MTOW pari a 81.647 chili. Con una temperatura dell’aria a livello del mare pari a 37,8° C, che avrebbe ridotto di un buon 30% la potenza dei motori e con quel fondo non esattamente ottimale il C-130 avrebbe avuto bisogno di ogni millimetro della pista lunga 2.400 metri. Ricevuta l’autorizzazione al decollo, Shani mollò i freni, dette tutta potenza e si sorprese a sperare per il meglio. A detta degli uomini dell’Unità che erano a bordo, l’accelerazione di decollo dell’Hercules fu penosamente lenta, mentre la collinetta all’estremo opposto della pista balzava loro in contro sempre più velocemente. Nel rombo delle turbine, gli uomini ammutolirono e si lanciarono sguardi inequivocabili. Shani sfruttò fino all’ultimo metro di pista, poi richiamò dolcemente il volantino e finalmente fu in aria. La cima della collinetta passò sotto di loro e poi sparì dietro l’aereo. Appena in volo, Shani si accorse subito che il suo aereo non ne voleva sapere né di far quota, né tanto meno di virare. Il C-130 si manteneva a stento in aria a neanche 50 metri di quota, volando una manciata di nodi appena al di sopra della velocità di stallo e non solo, ma, come Shani provava ad inclinare l’ala per virare, si accendeva subito il cicalino dell’avvisatore di stallo e il grande velivolo iniziava subito a vibrare. Shani fu quindi costretto a volare diritto e perfettamente livellato per più di quindici miglia subito dopo aver lasciato la pista e prima che il suo aereo riuscisse ad accumulare abbastanza velocità da poter virare senza stallare. Solo allora il pilota israeliano si immise in una cauta virata sulla destra ed anche così vide che non poteva superare un angolo di bank di più di 5 gradi o il suo velivolo decelerava e andava in prestallo. A causa di tutto ciò e dell’ampiezza di quella virata a est, i quattro C-130 si ritrovarono fuori della rotta prevista e furono obbligati a sorvolare rasoterra un tratto di spazio aereo saudita: cosa assolutamente non autorizzata. Usciti da quell’ampia virata di 180°, gli aerei misero la prua a sud-sudovest, disponendosi in formazione allargata lungo un arco di una decina di chilometri e mantenendosi sempre a non più di 60 metri al di sopra delle acque azzurre del Mar Rosso per sfuggire ai radar civili e militari: davanti a loro 2.400 miglia piene d’incognite. Appena usciti dalle acque territoriali saudite a 30 metri sul livello del mare, i piloti dei quattro Hercules badarono bene a immettersi lungo la sottile striscia di acque internazionali al centro del Mar Rosso, che avrebbero percorso verso sud e fino all’Eritrea e all’Etiopia. La Somalia e i francesi a Gibuti andavano accuratamente evitati. I Quattro Karnaf volavano bassi e veloci, in completo silenzio radio e cercando di sfuggire ai radar egiziani sulla loro destra e a quelli sauditi sulla sinistra. Con enorme sollievo di tutti, sul mare la turbolenza si rivelò quasi inesistente. Gli uomini provarono a trovare posizioni un po’ più confortevoli e cercarono di vedere se gli riusciva di riposare: li aspettavano 8 ore di volo. Al contrario dei commandos nella stiva, i piloti non potevano distrarsi un solo attimo. Il volo di guerra basso e veloce è molto impegnativo. Oltre ad evitare i radar, dalla cabina di ogni Hercules diverse paia di occhi scrutavano la superficie del mare attraverso binocoli navali. Gli ordini erano di evitare qualsiasi imbarcazione: nessuno per quanto possibile doveva vedere quattro C-130 israeliani a bassa quota che correvano a sud. Questo significava che ogni volta che si avvistava una nave, si scartava sulla destra o sulla sinistra di diverse miglia per tenersi alla larga da occhi indiscreti e quindi si usciva di rotta, per poi ritornarci dopo aver fatto accurati calcoli una volta aggirato il pericolo. Se i terroristi fossero stati informati, avrebbero sterminato gli ostaggi, di questo erano profondamente consci ogni pilota e ogni navigatore a bordo degli Hercules. Con il sopraggiungere del tramonto e della notte, le cose migliorarono un po’ e protetti dall’oscurità ci si servì del radar per evitare le imbarcazioni. Il volo comunque rimase molto stressante per i piloti, che quindi si alternavano ai comandi ogni poche decine di minuti. Fonti: "Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
  24. E vorrei vedere .... Il Black Hawk mi sa di elicottero da guerra; il 149, se vuole, potrà svolgere al massimo compiti di polizia. Ma perchè dai Turchi non ci sono andati con l'AW-101 ?
  25. Hobo

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    Il volo dei Rinoceronti Sul piazzale di carico di Lod, Kafri si diresse con il Mercedes sotto la coda del Karnaf-Uno. Fece inversione e salì in retromarcia nella stiva dell’aereo, posizionando la macchina sui fermi esattamente dietro le due Land Rovers che erano già a bordo e con il muso puntato verso l'uscita. Nel frattempo, la forza dell’Unità venne raggiunta anche dagli uomini del resto della forza d’intervento, i paracadutisti e quelli della Golani. Il piazzale ormai era ingombro di personale ed equipaggiamenti di ogni tipo. A un certo punto arrivò Avi Livneh, ufficiale alle informazioni dell’Unità, con un plico di foto recentissime dell’old terminal. Livneh andò da Netanyahu per commentarle con lui e consegnargliele. I cinque C-130 iniziarono a scaldare i motori, avviandoli uno dopo l’altro: il rumore crebbe d’intensità e ora bisognava urlarsi nelle orecchie per farsi capire. Un ufficiale dell’aeronautica militare corse dal dottor David Hasin, medico dell’Unità e gli disse che aveva ricevuto una comunicazione dal comando secondo cui il suo infermiere rimaneva a terra a causa di un problema di spazio sui veicoli. Ad Hasin la cosa non piacque e andò a protestare da Netanyahu: senza infermiere, disse, la sua operatività come medico sarebbe scesa in pratica della metà, ma non ci fu nulla da fare, non c’era posto. A questo punto, Kafri e Dagan ricordano di aver visto paracadutisti e uomini dell’Unità salutare con un bacio qualche segretaria della loro base, che li aveva seguiti fino a lì. Il comandante della forza difensiva periferica, il maggiore Shaul Mofaz, raggiunse il suo pilota a bordo di Karnaf-Due, il maggiore Nathan (Nati) Dvir: era quella la prima volta che i due trovavano il tempo per stabilire insieme i codici e i segnali da dare agli uomini per l’apertura del portellone del C-130, per lo sblocco dei fermi dei mezzi e il loro scarico al suolo. Questa non era certo una procedura di routine e rende l’idea della scarsità del tempo avuto a disposizione. Infine comparvero sulla pista anche Shimon Peres, ministro della difesa e Mordechai Gur, capo di stato maggiore di Zahal, venuti a salutare di persona gli uomini in partenza prima di recarsi al vertice di Tel Aviv. Tutti gli sguardi si puntarono su di loro. Shomron e Netanyahu andarono da Peres e da Gur, assicurando loro che il piano era fattibile. La questione cruciale era però se il via all’operazione sarebbe stato concesso: l’assenza di un’autorizzazione formale pesava ancora come un macigno su tutta la missione. Peres e Gur, dissero che c’erano buone probabilità, ma qualcuno degli uomini rimase comunque dubbioso. Alla fine, tutto il personale venne chiamato sotto gli aerei. Gli uomini, piegati in due sotto il peso degli zaini, si allinearono in due file parallele sotto la coda del C-130 cui erano stati assegnati e cominciarono a salire a bordo, spingendosi fino a prua nella stiva degli Hercules per far posto a quelli che salivano dietro di loro. Gli aerei erano molto più carichi che alle esercitazioni. Sul Karnaf-Uno del tenente colonnello Joshua “Shiki” Shani: 29 (qualcuno dice 34) uomini della forza d’assalto del Sayeret Matkal di Netanyahu. 52 paracadutisti del Tzanhanim. Il generale Shomron, il tenente colonnello Haim Oren e metà della loro squadra comando e infine le due Land Rovers e la Mercedes. Sul Karnaf-Due del maggiore Nathan “Nati” Dvir: 16 uomini del Sayeret Matkal con il maggiore Shaul Mofaz (equipaggi della prima coppia di blindati). L’altra metà della squadra comando, con il tenente colonnello Biran, la loro jeep-comando, due jeep blindate M-38A1C e 17 altri paracadutisti. Sul Karnaf-Tre, del maggiore Aryeh Oz: la seconda coppia di M-38 blindate con i loro 16 uomini, insieme con 30 fanti della Golani e la loro Land Rover. Infine Karnaf-Quattro (matricola militare 4X-FBQ/420), pilotato dal maggiore Amnon Halivni, portava a bordo i due pick-up Peugeot, uno per la Golani, l’altro con la pompa del rifornimento carburante, insieme con 10 tecnici rifornitori dell’Aviazione, 20 altri soldati della Golani e i 10 uomini dell’equipe medica di supporto con tutto il loro materiale ospedaliero. I quattro C-130H (più un quinto di riserva) appartenevano tutti al 131° Squadron. Le matricole militari degli aerei erano: (4X-FBA/102; 4X-FBB/106; 4X-FBT/435; e infine 4X-FBQ/420). Imbarcato tutto e assicurato il carico nelle stive, gli equipaggi degli aerei dichiararono uno dopo l’altro di essere pronti. Il quinto C-130 rappresentava la riserva qualora uno dei primi quattro Karnaf avesse avuto malfunzionamenti e si sarebbe fermato a Ofira in attesa. Shani a bordo dell’aereo di testa si dichiarò pronto a muovere e, ricevuta l’autorizzazione, dette motore. Sulle prime, l’Hercules-Uno stracarico parve quasi voler restare ostinatamente al suo posto sul piazzale, ma subito dopo, dapprima impercettibilmente, poi sempre più velocemente, le grandi ruote del carrello iniziarono a girare. L’aereo si mosse diretto alla pista di rullaggio, dietro di lui tutti gli altri. La missione era iniziata. Arrivato in fondo alla pista di rullaggio, il Karnaf-Uno voltò di 180° sullo svincolo e si immise sulla pista di decollo arrestandosi per eseguire gli ultimi controlli prevolo. Ricevuta l’autorizzazione, Shani decollò da Lod. Erano le 13:20 ora di Tel Aviv. Dietro a Karnaf-Uno decollarono in perfetto silenzio radio tutti gli altri aerei, distanziati di 5 minuti l’uno dall’altro. Questo non era dovuto solo al fatto che non dovevano ritrovarsi nella scia dell’aereo che li precedeva, ma i decolli distanziati erano stati studiati per ingannare eventuali osservatori nemici che di sicuro non mancavano mai sulle spiagge di Tel Aviv e a bordo dei pescherecci sovietici e che non dovevano certo vedere cinque C-130 israeliani decollare tutti insieme e virare a sud. Il Boeing 707 comando e controllo, con a bordo i generali Adam e Peled, sarebbe decollato invece diverse ore dopo gli Hercules (quattro ore dopo), perché essendo molto più veloce li avrebbe raggiunti sull’Uganda in tempo per dare il via al raid. Appena decollati, i cinque C-130 presero rotte iniziali apparentemente diverse, ma poi si diressero tutti su Sharm el Sheikh. Il volo dei cinque aerei verso Ofira, sulla punta meridionale della penisola del Sinai, fu difficilissimo. L’aria torrida a livello del deserto ribolliva letteralmente di turbolenza e i velivoli venivano sbattuti da tutte le parti. A bordo degli Hercules stracarichi, gran parte dello spazio era occupato dai veicoli e dall’equipaggiamento per cui gli uomini avevano dovuto arrangiarsi a trovare posto dove capitava, in ogni anfratto rimasto libero. Le panchine pieghevoli laterali in tela rossa, che correvano lungo la fusoliera, erano state smontate per fare spazio; gli uomini quindi si erano buttati meglio che potevano sul fondo del pianale di carico, sopra e dentro i veicoli e nell’angusta fessura che rimaneva tra il fianco dei mezzi terrestri e la fusoliera dell’aereo. Alcuni si erano adattati a sdraiarsi in coda, sulla rampa di carico dell’aereo, ma questa era inclinata, per cui scivolavano e dovevano puntellarsi con zaini e materiali vari. Altri avevano provato a stendersi sotto i veicoli, ma questi ultimi sobbalzavano continuamente sulle loro sospensioni a causa della turbolenza, per cui il fondo dei mezzi sbatteva continuamente addosso ai soldati, che si tolsero subito da là sotto, rassegnandosi a sedere con la schiena contro la fusoliera e limitandosi ad allungare soltanto le gambe sotto il ventre dei mezzi. Muoversi da un punto all’atro era praticamente impossibile, a meno di non camminare sopra qualcuno. Il caldo iniziò a farsi sentire, andando ad aggiungersi alla scomodità di quelle sistemazioni improvvisate; ma la cosa peggiore erano le turbolenze e, nonostante gli sforzi, anche i più resistenti tra gli uomini iniziarono a vomitare. A bordo il puzzo divenne ben presto insopportabile. Agguerriti commandos, ammessi nell’Unità solo attraverso una selezione spietata, iniziarono a sentirsi male come bambini con il mal di mare. Il sergente maggiore Amir Ofer, dell’Unità, così ricorda quel volo brutale. “Il volo a Sharm el Sheikh fu il più difficile che io abbia mai fatto. Mi vomitai addosso molte volte, ero messo veramente male. Il volo a bassa quota per sfuggire ai radar ci esponeva alla turbolenza. Quando raggiungemmo Sharm, capii che, se quelle condizioni fossero continuate, non avrei potuto reggere ancora per molto. Il dottore arrivò e mi diede delle pillole contro il mal d’aria e mi disse che ero così disidratato che avrei potuto collassare da un momento all’altro, per cui da quel momento in poi avrei dovuto mandar giù una di quelle pillole ogni ora per tutto il tempo di volo”. Il pianale del Karnaf-Uno era ormai coperto di vomito e di gente che sembrava agonizzante. Proprio durante l’atterraggio a Ofira, un pilota civile della compagnia israeliana Avira per poco non mandò all’aria tutto, quando, atterrando a Sharm con il suo aereo di linea, appena vide i cinque Hercules miliari esclamò alla radio: “Hey! Ma c’è una festa giù alla base!”. All’arrivo a terra, un uomo dell’Unità stava talmente male che dovette essere sbarcato contro la sua volontà e sostituito da un elemento della riserva: il sergente Amos Goren. Gli uomini restanti scesero sulla pista mentre i C-130 venivano riforniti di carburante. Quelli della forza d’assalto dell’Unità si sbarazzarono dell’uniforme israeliana e indossarono le tenute mimetiche ugandesi con il tipico berretto verde con visiera. Per motivi di sicurezza infatti Netanyahu aveva ordinato che i suoi soldati indossassero la normale uniforme da combattimento israeliana, questo per passare inosservati al momento del loro imbarco in Israele. In seguito, a bordo del C-130 non c’era stato lo spazio per cambiarsi per cui ora gli uomini si cambiavano lì sulla pista a Ofira. Avevano con loro anche un cappellino bianco da mettere quando si sarebbero ritrovati dentro l’old terminal, in modo da evitare di ammazzarsi a vicenda. Una volta ad Ofira, per la forza d’attacco si presentava ora più che mai il problema dell’autorizzazione governativa. A terra sulla pista della base, il brigadiere generale Dan Shomron, comandate di tutte le forze a terra dell’operazione, decise di arrangiarsi, contattando per radio il suo collega ed amico il segretario del primo ministro, brigadier generale Ephraim (“Froika”) Furer. I due concordarono che la forza d’attacco avrebbe comunque continuato nel suo percorso, con la riserva mentale che c’erano ancora almeno quattro ore di volo prima del raggiungimento del punto di non ritorno. Furer infine disse che comunque il primo ministro, Yitzhak Rabin, era apparso incline a dare il via ufficiale. Nel frattempo sul piazzale il comandante dell’Unità, Netanyahu, aveva radunato gli uomini della sua forza d’assalto per un ultimo briefing. Non si sa quand’è che arrivò l’autorizzazione ufficiale: alcuni hanno detto che arrivò mentre erano a Ofira, altri invece dicono che arrivò mentre erano già sul Mar Rosso da un pezzo. Fonti: "Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
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