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Pilot Reports


Dave97

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Indice

1 - L'ultimo Volo
2 - G59 Le ali della memoria
3 - Che Fastidio Il Cicalino
4 - Altri Tempi
5 - Solo
6 - Io e l'Effe (1a)
7 - Non si Può Volare Così
8 - Come alla corte di Re Artù
9 - A pranzo con il comandante
10 - Stormo da caccia
11 - Ho Amato un Aeroplano…
12 - Crash Landing
13 - Viaggio a ritroso nel tempo
14 - Croci rosse, fiaschi e cannonate
15 - Un giorno d'estate del 1943
16 - Io e l' Effe (2a)
17 - Intercettazione Notturna
18 - Lezioni della Red Flag
19 - Dall’ I-SPIT con sentimento
20 - L’aeroplano Impazzito
21 - Un Fuori Programma
22 - Mustang - il primo amore del “Cacciatore”
23 - F 105 Thunderchief
24 - Il comandante è volato fuori
25 - Scramble-Scramble
26 - F18
27 - De Havilland D.H. 100 Vampire
28 - La manifestazione del 2 giugno
29 - Tra il secondo 1423 e il secondo 1797
30 - Buttarsi Contro
31 - Dicembre 1943
32 - I Miracoli di Fiorio & C
33 - Il Terzo Pilota
34 - Aviano anni trenta
35 - Il fiammifero
36 - Un salto nel buio
37 - L'accoppiata
38 - Scramble, un giorno "d'allarme" con l'F-104




L'Ultimo Volo
Il cielo è quello del Texas, con batuffoli bianchi di nuvole sull'azzurro scuro.
Da noi, questo cielo,si trova spesso in Puglia nelle giornate di vento, in primavera.
La Puglia è la mia terra e il mio ricordo costante, ma dovrò stare qui, in questa base americana, a fare da istruttore ai piloti della NATO, per almeno altri sei mesi.
Oggi è giorno di festa, rodei e grandi barbecue (i famosi BBQ) per tutti.
Noi invece, io e qualche collega, siamo impegnati a provare aerei appena revisionati, che domani devono essere pronti in linea di volo.
Ma devo ammettere che non mi dispiace affatto volare senza allievo e in libertà, in questo cielo così bello.
Il bello dell' America sono gli spazi che ti offre; puoi volare per ore in cieli liberi, senza dar fastidio a nessuno e senza sorvolare città.
In Italia, bastava una smanettata per passare dal Tirreno all' Adriatico.
Il mio T 38 è OK; tutto funziona a meraviglia; ho finito le prove previste e ora posso divertirmi per qualche minuto con tonneau, chandelle e looping.
Da quanto tempo non indulgo ai piaceri del volo?
Finite le prove si dovrebbe tornare subito alla base, ma tutti sanno che, a questo punto, ci prendiamo qualche libertà a spese del contribuente americano.
Nessuno ci ha mai rimproverato per questo.
Oltre a essere un piacere per noi, qualche manovra fa sempre bene al nostro allenamento.
Mi collego. con la base e chiedo di rientrare.
Mi danno prua e quota e mi autorizzano a un finale diretto.
Mi sto preparando alla discesa quando riconosco la voce di un mio collega e amico sulla stessa frequenza.
Ma, con sorpresa, sento che alle chiamate della base risponde in italiano invece che in inglese. "Keep heading 200 and maintain level 240".
La risposta che sento in cuffia dalla voce del mio amico è invece in italiano.
Dice: "Mantengo prua 240 e livello 200"...
Perché parla in italiano e perché dice il contrario di quello che gli hanno ordinato?
Non è da lui.
Dalla base insistono, e non capiscono le risposte.
Penso di intervenire e lo chiamo parlando gli in italiano.
Gli chiedo se ha qualche problema: mi risponde che va tutto bene.
Gli dico di mettere intanto l'ossigeno al 100 per cento e lui mi risponde che non riesce a trovare il pomello.
Sicuramente c'è qualcosa che non va.
Lui è il miglior istruttore della base; lo riconoscono anche gli americani, che con noi europei non sono proprio teneri.
Chiedo al Controllo di guidarmi verso l'aeroplano del mio amico, perché qualcosa non va.
La base mi da un vettore e dopo due minuti vedo contro sole la sagoma del suo F 16.
Mi avvicino, lo chiamo, ma non ho risposta.
Mi sembra che abbia la testa reclinata in avanti. Non ho più dubbi: Roberto sta male.
Avverto la base e cerco di parlare con lui.
Non mi risponde, ma ho l'impressione che mi stia seguendo.
Provo a virare lentamente sulla destra; mi segue.
Provo a ridurre velocità, a scendere e vedo che lui si mantiene in ala. Ma non risponde.
Siamo a 10.000 piedi; se fosse stato un guasto all'impianto dell'ossigeno ora dovrebbe essere fuori. Lo chiamo ancora varie volte, ma non ho risposta.
Continuo a scendere seguendo le istruzioni del controllore.
Ora però non mi segue; mantiene la linea di volo, evidentemente pilotando a mano.
Mi avvicino ancora di più, lo chiamo per radio e forse lui mi sente perché vedo la mano che fa uno strano gesto.
Provo a scendere e questa volta vedo che mi viene vicino.
Dobbiamo stare molto stretti.
Così siamo diretti alla pista 05. Vedo in lontananza la base.
Gli dico di tirare fuori gli aerofreni, il carrello.
Ma niente; non lo fa.
Siamo ormai in finale, la velocità è superiore a quella di avvicinamento e soprattutto non ha estratto il carrello.
Non so se riattaccare, né se riattaccando mi verrà dietro.
Siamo in corto, sto per dare potenza di decollo quando vedo, meglio intuisco, che sta uscendo il suo carrello.
Continuo a parlargli volando vicino quasi dovessi atterrare in coppia: così va bene, riduci ancora la velocità, tutti i flap, comincia a richiamare, così...
È a terra: un atterraggio perfetto; una lunga corsa.
Ora è fermo sulla pista. Apro e atterro anch'io.
Mi fermo dietro di lui già circondato dalle ambulanze e dai pompieri.
Quando scendo, lo hanno già messo su una barella.
Gli prendo una mano.
"Non è niente", mi dice, "Non è niente...".
Da quel giorno non ha mai più volato.


Tratto da Volare 7 - 1998

Edited by fabio-22raptor
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Altri particolari non sono disponibili;

trattasi di una serie di racconti narrati dagli stessi protagonisti e inseriti in una rubrica dal titolo Pilot Report, presente su alcuni numeri di volare (dal 1997- 1999)

Presumo che la causa principale sia stata l’anossia, indotta da qualche mal funzionamento o da una manovra High G.o un mix delle due cose; e conseguente forte stato di shock.

La decisione di smettere, potrebbe essere la stessa citata nel film Top Gun, la piena consapevolezza di essersi giocati il Jolly della vita e che una seconda volta potrebbe non essere più disponibile.

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G59 le ali della memoria

 

Fa fresco in questa serata romana di fine maggio. La calma e il silenzio sono finalmente ritornati sull' aeroporto di Pratica di Mare al termine di una delle giornate più intense vissute finora da questa base.

Infatti fin dalle prime ore del mattino è stato un crescendo di arrivi inconsueti ed emozionanti.

Un'efficientissima organizzazione per il controllo del traffico aereo ne ha cadenzato con cronometrica precisione gli atterraggi.

Ora, terminata la frenesia di questo particolarissimo venerdì, sui piazzali e sulle vie di rullaggio è impressionante l'allineamento di centinaia di sagome e coccarde giunte da tutto il mondo per festeggiare, domenica, i 75 anni della nostra Aeronautica.

"Eurofighter", "Viggen", "Draken", "Mirage", F-15, F-18, lo' sgraziato ma simpatico "Skyvan", quasi un brutto anatroccolo tra tanti cigni.

E ancora pattuglie acrobatiche, elicotteri, AWACS, "Tornado" e moltissimi altri ancora.

Ogni sigla, ogni nome, ogni silhouette suscitano emozione, interesse, curiosità.

Per me, però, la stella della Giornata dell' Ala è lui: il G.59. L'unico "warbird" dell' Aeronautica Militare ancora in volo.

Nel G.59 "pulsa" lo stesso "cuore" dello "Spitfire" e del "Mustang", il famoso motore Rolls-Royce Merlin, accoppiato alla cellula di un aereo dell' Asse.

Questo aeroplano rappresenta dunque la sintesi estrema dei caccia che hanno volato nel secondo conflitto mondiale.

Fra poco dovrebbe fare la sua comparsa sul cielo di Pratica di Mare: dalla torre mi hanno appena comunicato che è già in contatto con il controllore radar di "Roma Arrivi".

Nel silenzio della calma ritrovata dall' aeroporto, tendo l'orecchio per scoprire il brontolio del motore.

E' invece il bagliore del sole riflesso dalla sua livrea argentea a tradirne per primo la presenza.

Come in una scena d'altri tempi in un attimo il caccia è sul campo, passa veloce, a bassa quota lungo la pista, si impenna, estrae il carrello e con una virata si porta all'atterraggio.

A zig zag, per poter vedere davanti a sé, il G.59 rulla e parcheggia al posto d'onore, davanti all'area che domenica ospiterà il Presidente della Repubblica, fra EFA e Blériot, sintetizzando così la storia della nostra Aviazione.

Spento il motore il pilota scende.

E' Pino Valenti, un simpatico parmigiano consumato dalla passione per il volo e per gli aeroplani.

Gli tendo la mano. Mentre ci scambiamo una cordialissima stretta i nostri sguardi si incrociano e Valenti mi deve leggere nel pensiero, perché mi dice:

«Forse il direttore della manifestazione vuol vedere in volo con me il programma acrobatico che presenterò domani e domenica?» .

Di fronte ad una proposta simile gli occhi mi brillano immediatamente e rispondo entusiasta: «Magari!».

«Bene, nei serbatoi c'è ancora carburante sufficiente per il volo, se mi autorizza possiamo decollare tra un quarto d'ora».

Il tempo di una telefonata veloce in torre per coordinare l'utilizzo dello spazio aereo sopra Pratica di Mare ed eccomi qua mentre mi infilo nell'abitacolo di questo meraviglioso aeroplano.

A dire il vero l'operazione non è delle più agevoli.

La cabina è più ampia di quella di un "104", ma l'apertura superiore consente giusto il passaggio delle spalle.

Una volta sistemato dentro stringo l'imbragatura del paracadute.

Mentre compio queste azioni l'occhio torna a considerare quanto sia angusto lo spazio per uscire dall' abitacolo e a questo punto, come direbbe qualcuno, la domanda sorge spontanea circa l'utilità del paracadute.

Ok, non ci pensiamo e andiamo avanti.

A forza di passare migliaia di ore seduto ai comandi di aeroplani le cabine di pilotaggio mi sono diventate più familiari della mia stessa casa (come purtroppo sanno mia moglie e i miei figli).

Qui però tutto congiura contro questa naturalezza e mi sento fuori posto, a cominciare da quel muso gigantesco puntato dritto verso il cielo che sembra volermi fare un looping già al parcheggio.

L'abitacolo è poi un fiorire di leve e levette, interruttori, pannelli, tubi, tubicini e cavi di sapore arcaico.

Leva verde per l'acqua, levetta marrone per l'olio

Per non parlare infine degli strumenti: alcuni li ho visti al museo o sul G.91, altri li interpreto a fatica.

Neanche la prima volta che mi sono seduto in un MiG-21, con le sue scritte in cirillico e con la filosofia tutta russa di disporre gli strumenti ed i comandi, mi sono sentito così fuori posto.

Due "cicchettate", contatto; «Via dall'elica!», e quelle enormi pale cominciano a muoversi.

Incantato, le guardo e mi tornano in mente le decine di elichette scala 1/72 (1/48 solo nei rari momenti di ampie disponibilità finanziarie) che da ragazzo incollavo delicatamente ai miei modellini.

Improvvisamente mi rendo conto che sto per vivere un'esperienza unica che va al di là dei miei sogni di adolescente.

Sogni fatti ad occhi aperti davanti ad un'enciclopedia di aviazione, ad un libro di aeronautica, o di nascosto durante le ore dei compiti davanti ad un fumetto della collana "Super eroica”

Dopo neanche due giri il motore s'avvia, scuotendo poderosamente G.59.

Uno sbuffo di fumo azzurrognolo invade l'abitacolo.

Istintivamente cerco la levetta dell'ossigeno per metterla 100%, poi mi ricordo che non ho la maschera.

Mi accorgo però che questo fumo non toglie il respiro, al contrario profuma di avventura!

Nel frattempo Valenti ha chiesto l'autorizzazione rullaggio:

«Dobbiamo accelerare il rullaggio» - mi dice nell'interfono «altrimenti il liquido di raffreddamento si mette a bollire».

Entriamo in pista

Durante la prova motore il Merlin ruggisce con tutta la potenza dei suoi 1.700 HP.

L'aria entra prepotentemente. in cabina;

con la manovella faccio scorrere il tettuccio in avanti

(non esiste la posizione "bloccato" ), volendo si potrebbe decollare tenendolo aperto

Autorizzati al decollo,

Valenti porta dolcemente la manetta tutta avanti per non sfidare il mostro che ci romba davanti e che potrebbe portarci in un lampo fuori pista.

Avverto il sapiente uso del piede da parte del pilota.

A 40 kts prima magia: la coda si alza.Finalmente siamo in linea di volo e il mondo mi sembra più normale.

A 90 kts stacchiamo. Su il carrello, acceleriamo ancora e saliamo fino a 3.000 piedi.

Valenti aggiusta il motore mi legge i nuovi valori di RPM, PDA e quant'altro, tuttavia gli strumenti davanti a me continuano a rimanere di enigmatica interpretazione.

Decido di concentrarmi su altimetro e anemometro per fissare i principali parametri.

Picchiamo.

La velocità aumenta e il rumore del motore cambia, si fa più intenso e acuto.

A 500 ft, a 280 kts tiriamo su per un looping, con top su 3.000 ft.

Una sfogata e ci ripresentiamo in rapida sequenza per otto cubano, tonneau in 4 tempi, volo a coltello.

Complimenti Pino, una bella mano! Le manovre sono continue, pulite, pennellate.

«Si potrebbe fare di meglio» ammette lui con la modestia dei professionisti –

«ma far volare il G.59 è così costoso che non riesco a fare più di 20 ore l'anno».

Facciamo una bella schneider e quindi, riguadagnati 3.000 ft, mi fa: «Comandante vuol provare lei?»

«lo?!» esclamo colto di sorpresa.

Subito mi vengono in mente le numerose storie di esperti piloti di jet che sono stati coinvolti in incidenti con aerei a pistoni.

Ci penso un istante e poi dico «Ok. Pino, basta che le sue mani restino vicine ai comandi».

«Anche i piedi»- risponde lui ridacchiando, «questo aereo si porta anche con quelli».

Decido di "assaggiare" questo purosangue poco per volta, senza cercare di domarlo ma piuttosto assecondandolo nelle sue peculiarità.

Un' occhiata ad altimetro e manometro mi dicono che siamo a 3.000 ft e 200 kts, la manetta è lì avanti e lì la lasciamo.

Cominciamo con una timida sfogata: l'aereo risponde dolcemente.

Inclino di più e mi allineo con la pista. A 1.000 ft e 260 kts azzardo una prima manovra verticale.

Tiro su decisamente cercando il G-metro.

Dov'è? Ma c'è?

Comunque il sedere conferma 3 g e mezzo e questo riscontro mi tranquillizza.

Rovescio, 3.200 ft, 120 kts: aspetto che il muso scenda sotto l'orizzonte e poi lo giro.

Sono almeno 20° disallineato con la pista. Un'altra sfogata accentuata per rientrare in direzione opposta.

Ad 80 kts Valenti spinge la cloche in avanti.

Ok, ho capito, non più lento di così.

Di nuovo sulla pista e giù in picchiata, il motore urla, 500 ft, 270 kts, 3 g e mezzo, cerco il conforto dell' orizzonte artificiale... lasciamo perdere!

Prima del rovescio sento i 1.700 HP che tirano l'aereo di lato ed intervengo dolcemente di piede.

Giù il muso, punto la pista e, cercando di coordinare piede e cloche, giro in otto cubano.

Completo poi l'otto cubano dall' altra parte.

Tiro un respirone e sono pronto per il looping. Giù di nuovo il muso per guadagnare qualche nodo in più

A 290 tiro i 3 g e mezzo misurati con il solito strumento, lo stesso che mi suggerisce l'intervento di piede. Rovescio, 3.100 piedi, 130 kts, allineati. Arrotondiamo, l'aereo risponde docilmente.

La velocità aumenta, lo avverto dal rumore del motore ma anche dal fruscio del vento che ora avverto distintamente.

Mi accorgo così che l'orecchio non serve solo ad ascoltare le comunicazioni radio, le sirene di avvettimento o i "warning", ma che diventa anch'esso strumento essenziale per il controllo del volo.

Resta il tempo per un paio di tonneaux a botte.

Il primo è iniziato a 240 kts e da rovescio il muso tende a scendere un po' troppo; rilascio leggermente in avanti la cloche ricordandomi gli insegnamenti acrobatici basici:

il tonneau è potenzialmente sempre più pericoloso del looping, se il muso scende da rovescio mai tirare, ma scaricare e ruotare!

Riproviamo a 260 kts e questa volta la traiettoria è più corretta.

Il tempo è letteralmente volato, è ora di atterrare.

«Lo riprenda lei!» dico a Valenti.

Mentre guardo la bella ala dritta con la coccarda tricolore che punta verso il cielo, il sole al tramonto tinge di rosso il maestoso disco dell' elica.

Il pilota riduce motore, 20 di PDA, velocità 100 kts.

Al flare l'aereo è ballerino, galleggia ed è bravo Valenti a toccare perfettamente allineato.

Ridotta la velocità l'aereo si siede sulla coda ed a questo punto è possibile frenare.

Siamo fermi dopo pochi metri.

Un rapido contropista e poi sempre a zig zag rientriamo al parcheggio dove con un ultimo fremito l'elica si ferma.

Nel complesso possiamo dire che le prestazioni del G.59 sono paragonabili a quelle di un MB.339, ma che differenza!

Grazie dunque Pino Valenti per questa esperienza unica e indimenticabile, ma grazie soprattutto per avermi fatto riscoprire l'importanza dei sensi nel pilotaggio, quei sensi che le moderne tecnologie ed una certa enfasi addestrativa non fanno più sviluppare nei piloti di oggi.

 

Rivista Aeronautica del giugno 1998

Edited by Dave97
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Che Fastidio il Cicalino

Sono sicuro che i nostri errori di pilotaggio, opportunamente riconosciuti, possono aiutare altri piloti e

quindi ritengo sia giusto rendere "pubblico" il fatto, senza nominare chi lo ha commesso.

Per questo non rivelerò l'aeroporto di partenza, il tipo di aeroplano, eccetera; perché mi sento più libero di raccontare tutto, senza attenuanti.

Venivo da un aeroporto del Nord Europa e avevo fatto il pieno di passeggeri e carburante.

O meglio, avevo fatto il pieno di carburante perché oltre a noi due piloti, in un primo momento, ci era stato detto che vi sarebbero stati soltanto due passeggeri. Si presentarono invece in sei.

Avevo qualche libbra in più del peso massimo al decollo, ma non feci storie e accettai di partire lo stesso.

Tutto si svolse in modo tranquillo fino a 20.000 piedi e, arrivato alla quota di crociera in linea di volo, mi stavo rilassando, anche perché ormai ero rientrato nel peso.

C'erano davanti, proprio sulle Alpi, nubi sottili a strati, ma nessun problema;

la temperatura non avrebbe consentito la formazione di ghiaccio.

Insomma, un volo come tanti altri su un aeroplano che ormai, dopo 150 ore di volo, conoscevo benissimo.

Entrammo nelle nubi e in questa atmosfera ovattata mi sentii tranquillo come nel salotto di casa.

Fu il mio secondo a riportarmi alla realtà con una notizia tutt'altro che confortante: si era accorto che, di tanto in tanto, uscivano delle nuvolette di fumo dal motore destro, cioè dalla sua parte.

Allentai le cinture e mi portai quasi sopra il mio compagno per vedere che cosa stesse accadendo.

In effetti, dal motore usciva, ora non più a tratti ma continua e densa, una scia di fumo biancastro.

Era una perdita di olio, non c'era alcun dubbio.

Non avevo scelta, dovevo "tagliare" il motore in avaria prima di guai peggiori.

Avvertii i passeggeri che avevamo un "piccolo" problema, (tra l'altro, qualcuno di loro aveva già visto il fumo), ma che non correvamo alcun pericolo.

lo peraltro mi sentivo tranquillo e perfettamente lucido.

Eseguii, come da manuale, la chiusura del motore, trimmai l'aeroplano e cominciai la discesa alla quota di tangenza di un solo motore, che era di 18.000 piedi. Lo potevo fare perché ero ritornato nel chiaro e avevo superato la punta delle Alpi più alta lungo la mia rotta.

Avvertii il Controllo della mia situazione, che non era di vera emergenza, ma chiesi priorità in atterraggio.

Con la manetta del motore sinistro in off suonava fastidiosa e petulante la sirena che avvertiva che avevo il motore chiuso e il carrello dentro.

Un avviso di sicurezza per evitare di dimenticare di estrarre il carrello in atterraggio.

Per fermare quel suono, tirai fuori quasi istintivamente il breaker e finalmente ritornò il silenzio.

L'atmosfera dentro l'aeroplano, se non serena, era ritornata abbastanza tranquilla, nonostante una ragazza tra i passeggeri mi sembrasse piuttosto nervosa.

Dissi, rivolgendomi ai passeggeri, qualche battuta senza senso per sdrammatizzare, ma mi resi conto che era meglio non parlare.

L'assistenza del Controllo fu veramente ottima; da lontano, mi posizionarono direttamente per la pista 18, in modo da arrivare direttamente all'atterraggio. Mi chiesero se dichiaravo emergenza per allertare i Vigili del fuoco; risposi che non ce n'era bisogno. Manovravo perfettamente e già ero in vista dell'aeroporto.

Cominciai a mettere i flap e, alla velocità richiesta, tirai fuori il carrello.

Non sentii il classico rumore del blocco,forse ero distratto da altro, pensai.

Ma subito il mio secondo mi disse che non si erano accese le tre luci verdi, quelle che danno la conferma che le ruote sono fuori.

Era così. Il carrello non usciva.

Non persi tempo, ero quasi in finale e non pensavo certo di riattaccare; feci la manovra di estrazione d'emergenza. Nulla di fatto; le luci rimasero inesorabilmente spente.

Ero in finale e già autorizzato ad atterrare.

Fu un attimo; pensai che, se fossi atterrato sull'asfalto, avrei corso il rischio di provocare un incendio con tutto il carburante che avevo, avrei potuto provocare una strage.

Decisi allora di continuare l'avvicinamento, ma di deviare leggermente a destra e atterrare sull'erba a fianco della pista.

Il pericolo di incendio sarebbe stato così molto ridotto.

Toccai al limite dello stallo e fu un atterraggio perfetto.

Perfetto perché il carrello era completamente fuori.

Ne fui così sorpreso che non feci in tempo a frenare prima che un maledetto fossato spaccasse il ruotino anteriore e l'aeroplano si cappottasse.

Non ci furono né morti né feriti. L'aeroplano però subì gravissimi danni.

Le luci del carrello erano collegate al breaker che avevo staccato per non sentire l'avviso del "carrello su".

 

Tratto da Volare luglio 1999

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Altri Tempi

Nella primavera del 1952, dopo straordinarie vicissitudini di ordine burocratico che non è il caso qui di raccontare, cominciò finalmente il corso di pilotaggio per allievi ufficiali di complemento, il 4° per l'esattezza, cioè uno dei primi organizzati nel dopoguerra.

Siamo a Gioia del Colle (in provincia di Bari) e il nostro corso viene diviso in due scaglioni.

Il primo inizia a volare con il "vecchio" Stinson L-5 (l'età dei velivoli è una cosa abbastanza singolare: chiamavamo "vecchio", già allora, lo Stinson, mai più pensando di trovarlo in linea ancora oggi presso gli aero club per il traino alianti), mentre il secondo è destinato a volare sui nuovissimi Macchi 416 (versione italiana dell'olandese Fokker S.ll Instructor).

lo faccio parte di quest'ultimo scaglione.

Particolare curioso dei 416 era che la ditta costruttrice delle gambe del carrello, fuse in lega leggera e dalla caratteristica forma "a ginocchio", non aveva messo a punto la combinazione materiale-procedimento di fusione, cosa che provocava soventi rotture, tali da far "inginocchiare" per terra gli aeroplani, per fortuna senza causare gravi incidenti.

Ma parliamo dell' addestramento.

Ogni istruttore aveva una squadra di cinque allievi.

Alla mia squadra viene assegnato un maresciallo bonaccione, abbastanza simpatico ma con due particolarità:

1°) aveva una "panza" tale che la barra a cabrare non arrivava a fondo corsa, ciò .nonostante si riusciva ugualmente a fare la vite;

2°) non ci ha mai, dico mai, lasciato neanche per un istante i comandi, per cui la prima volta che ho avuto la sensazione di pilotare il 416 è stato quando ho fatto il controllo predecollo col tenente designato per l'esame e quindi, subito dopo, quando sono decollato da solo.

Altro aereo per me indimenticabile è stato il North American T-6 Texan, di cui ancora oggi volano nel mondo diversi esemplari.

A quei tempi, vi assicuro, era visto come un grosso aeroplano "da guerra", con quell'enorme motore stellare da 600 cavalli, i due cruscotti zeppi di strumenti e addirittura,.gli esemplari più vecchi, con l'incavo per la mitragliatrice anteriore e il seggiolino posteriore ruotabile di 180 gradi per poter operare la mitragliatrice posteriore, entrambe tolte.

Che ne dite? Una settimana di corso macchina a terra prima di volarci sopra potrebbe andar bene?

Aprite bene le orecchie e sentite invece cosa capitava a noi allievi.

Avevamo intravisto fugacemente, per la prima volta, un T-6 atterrato a Gioia, senza però poterci avvicinare a più di 10 metri.

La seconda volta in assoluto che io vidi il T-6 fu la mattina dopo essere arrivato ad Alghero, dove si svolgeva la fase avanzata dell' addestramento.

L'aeroplano in questione si era fermato presso la biga, col motore in moto, ne era saltato fuori l'allievo che mi precedeva ed io fui aiutato velocemente a prendere il suo posto.

Mentre ancora stavo collegando le spine della cuffia e del laringofono, l'istruttore (anche questo mai visto prima) diede motore, rullò in pista e mi disse: "Dai, decolla".

Diedi motore, mi trovai per aria alla meno peggio e quindi, arrivati mi pare a 5.000 piedi o giù di lì sentii l'istruttore dirmi: "Forza, fai un looping".

"Ma io... - risposi - veramente...".

"Dai, dai - mi incalzò - non fare il timido, sei un pilota da caccia"

(avevo sì e no 50 ore di volo!).

Non me lo feci dire due volte e cercando di indovinare il comportamento dell'aeroplano, naturalmente con l'aiuto dall'istruttore, feci in circa 20 minuti tutta l'acrobazia possibile, per poi tornare in circuito ed effettuare due atterraggi.

Non faccio per vantarmi, ma allora bisognava essere un tantino svegli, altrimenti ti rimandavano a casa con molta facilità.

 

L'addestramento

Ma forse vi avranno spiegato qualcosa dopo, durante il corso, direte voi.

La 'risposta è: assolutamente no!

L'istruzione avveniva esclusivamente "per aria"; le parole briefing e debriefing sarebbero nate parecchio tempo dopo!

Frequentammo sì delle lezioni teoriche in aula, ma queste riguardavano soltanto le arti militari, i regolamenti e altre materie più o meno complesse, ma per quanto riguarda la conoscenza delle macchine su cui volavamo e la tecnica di pilotaggio non ci fu mai spiegato, ripeto, assolutamente nulla, salvo che per il P.51 Mustang.

Del T-6, per esempio, di tutti gli strumenti ne conoscevamo ben pochi, come pure non potevamo mai selezionare il serbatoio, manovra demandata esclusivamente al motorista di terra, dato che facevamo solo voli di durata non superiore,.. all'ora.

Non adoperavamo mai i trim (sic!) e via dicendo...

Qualche esempio di istruttore competente dal punto di vista teorico, a dir la verità, c'era, ma ciò costituiva un'estrema rarità: verso la fine del corso, ad Elmas, quando già si volava sul Mustang, si completava il volo notturno con un raid sul T-6 Elmas-Alghero- Elmas.

Un giorno mi capita di fare tale volo notturno con l'allora capitano Mura, diventato poi famoso generale (e col quale non avevo mai volato prima).

Al punto attesa, dopo la prova motore, che per noi consisteva solo nel provare i magneti, il capitano mi dice nell' interfonico:

"Ora proviamo l'aria calda al carburatore"

panico assoluto!

Dopo qualche secondo di una mia febbrile quanto inutile ricerca per fare qualcosa...

"Allora? Non sa come si prova l' aria calda?"

“nnnno, comandante! Non lo so".

"Guardi in basso a sinistra, sotto il cruscotto, vi è un manettino verde con un pulsantino in cima, schiacci il pulsantino e tiri tutto indietro il manettino ..fatto?

Si' !

Adesso controlli la temperatura dell' aria al carburatore".

La mia vergogna (sono l'unico perito aeronautico del corso) è alle stelle.

Dove la leggo questa maledetta temperatura?

Chi mi ha mai parlato di simili diavolerie?

E dopo altri spasmodici secondi la voce seccata del capitano mi dice di guardare quello strumentino che si trova in quella certa posizione:

"Cosa segna?"

"Quaranta gradi" rispondo io.

"Bene, ora riporti il manettino nella posizione di prima e osservi lo strumento, cosa segna ora?"

"E' sceso a 15, comandante".

"Bene, ora possiamo decollare!"

Per la cronaca non ricevetti alcun rimbrotto, perché il capitano sapeva che in proposito non ci aveva insegnato niente nessuno.

Volete un'altro esempio? Eccolo!

Una mattina piovigginosa devo fare un volo strumentale sul T-6 (a metà corso circa) e mi capita (non vi meravigliate, gli istruttori cambiavano quasi continuamente) il tenente B., che conoscevo benissimo essendo stato il mio istruttore all' aero club, ma ad Elmas era la prima volta che volavo con lui! Appena a bordo, lui davanti ed io dietro in "tendina" (cioè senza visibilità esterna), il dialogo all' interfonico fu pressapoco questo:

"Bergomi, che lezione devi fare?"

"La xx signor tenente" .

"Ah, bene, quella di inizio del volo radioguidato, allora accendi l'ADF e sintonizzalo sul radiofaro di Elmas".

Per me tutto ciò era arabo completo!

"Guardi, signor tenente, che non so niente di tutto ciò".

"Come, non ti hanno insegnato !'impiego dell' ADF?"

"Assolutamente no!"

"Beh, guarda davanti a te, sotto il cruscotto, proprio al centro in basso c'è un apparato quadrato, nero, grande circa una spanna, l' hai trovato?"

"Sì, sì".

"Allora, in alto a destra vedrai una finestrella semicircolare con sei numerini, l' hai vista? Cosa leggi sui numerini?"

"1.500 signor tenente".

"Bene, allora sotto la finestrella vi è una specie di chiavetta, girala finché leggerai circa 300... fatto?

Sì?

Allora vedi che a sinistra vi è un' altra chiavetta con un indice e le scritte OFF-ANT-ADF-LOOP eccetera... trovata?

Mettila su ANT'.

Insomma, per farla breve, io ho imparato ad accendere e sintonizzare l'apparato ADF, che allora non era per nulla automatico, nei pochi minuti in cui il motore si scaldava (meno male che era il primo volo del mattino) ed ho appreso le prime nozioni per l'intercettazione dei rilevamenti immediatamente dopo andando in volo.

Vi prego di credere che tutto ciò è vero, tutt' al più posso essere incorso in qualche piccolissima imprecisione dovuta alla memoria.

Ma ora basta parlare di tutte queste cose negative, perché c'è anche la parte positiva, e come!

 

Gli attacchi al suolo

 

Nonostante le difficoltà teoriche, devo sinceramente dire che il corso era condotto con uno spirito, un entusiasmo e con soddisfazioni tali che per molti di noi è stato uno dei periodi più belli ed eccitanti di tutta la nostra vita in assoluto!

Poi, dopo il nostro corso, le cose cambiarono, adeguandosi, sotto certi aspetti immediatamente e sotto certi altri piano piano, ai sistemi di tipo americano, cioè con studio, controlli, programmi precisi, sicurezza, ecc.

Una delle cose che cambiarono subito fu questa: durante l'addestramento cosiddetto "bellico", gli attacchi al suolo li facevamo in modo molto realistico. Volavamo in coppia paralleli ad una strada e quando scorgevamo una macchina o un camion (allora il traffico stradale era estremamente raro), con un quasi rovesciamento ci buttavamo in picchiata, puntando il bersaglio come per effettuare un attacco reale.

Considerando che i nostri erano i primi aeroplani dall' aspetto indiscutibilmente bellicoso che volavano di nuovo in Sardegna dalla fine della guerra, per gli ignari autisti era un autentico shock, tale da provocare anche alcuni incidenti stradali, come capitò a quel poveraccio che, per guardare gli aeroplani che "lo attaccavano", non si accorse di una curva finendo in un fosso.

Un altro autista, invece, ebbe il tetto della macchina quasi sfondato dal ruotino di coda di un T-6, che aveva richiamato un po' troppo tardi.

lo ricordo personalmente di aver visto schizzar fuori da una autobotte - che stavo puntando con determinazione - i due autisti, che se la diedero a gambe per i campi, convinti che fosse di nuovo scoppiata la guerra!

I nostri istruttori, che avevano fatto tutti la guerra, magari non conoscevano la formula della portanza, ma ci insegnavano, per esempio, a fare il volo radente in modo tale che, se sotto c'era l'acqua del mare l'elica sollevava una scia di vapore quasi come un motoscafo: ovvio che l'altezza non era questione di metri, ma di pochi centimetri...

I finti combattimenti aerei, poi, si facevano senza alcuna limitazione di assetti e di "G", pur di riuscire a vincere sul collega avversario.

Come ho già detto, i termini briefing, check list, virate di sicurezza e simili erano completamente sconosciuti.

Col Fiat G.59, che saliva molto rapidamente, la media dei voli era di 20/25 minuti, comprendenti: decollo, salita in zona, tutta l'acrobazia, discesa e due circuiti con relativi atterraggi.

Insomma, una autentica orgia, in cui si sfogava tutta la nostra (e la loro, cioè degli istruttori) passione per il volo.

Con la sola eccezione per quelli che andavano male e che prima o poi dovevano prendere la strada di casa.

Che per fortuna, nel nostro corso, non furono numerosi. Altri tempi!

(o altri allievi?)

 

Pegaso luglio 1996

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Altri Tempi

Nella primavera del 1952, dopo straordinarie vicissitudini di ordine burocratico che non è il caso qui di raccontare, cominciò finalmente il corso di pilotaggio per allievi ufficiali di complemento, il 4° per l'esattezza, cioè uno dei primi organizzati nel dopoguerra...

 

 

Sembrano scene dal film ' Dark Blue World' quando gli inglesi insegnano agli ungheresi in bicicletta come volare in squadra e ingaggiare il nemico con tanto di tratatatata onomatopeico LOL

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SOLO

- Okay, Zap! You may go solo –

Le parole dell'istruttore mi giungono come musica via interfono dal cockpit posteriore del Canadian T 6 Harvard fermo sulla linea di parcheggio col motore ancora in moto.

Any questions, any problems before I climb oft,Zap?, aggiunge.

No Sir! No questions, no problems, mi affretto a rispondere.

Sono emozionato, felice, eccitato.

È il 13 ottobre 1954, il più bel giorno della mia vita!

L'istruttore armeggia ancora un po', in piedi là dietro: sta bloccando le cinghie del sedile.

Non vedo l'ora che scenda, che se ne vada.

Dai, esci, scendi, lasciami solo.

Ecco, finalmente: lo vedo scavalcare il bordo dell'abitacolo e chiudere con un colpo secco il tettuccio posteriore.

You may go Zap, mi urla nel frastuono.

Mi batte sulla spalla e salta a terra, investito dal flusso dell'elica che fa svolazzare il suo equipaggiamento.

Si allontana di qualche passo e si volta, mostrandomi il pollice della mano destra alzato.

Sono solo a bordo.

Solo!

È una sensazione di grande sollievo; piacevole, indescrivibile.

Di colpo mi sento diventato importante.

Anche il velivolo, ora che è tutto in mano mia, mi sembra più importante, più grande.

Dovrò fare un decollo, un circuito intorno al campo e un atterraggio: dieci minuti in tutto, forse meno.

Andrà tutto bene - lo sento - e saranno i minuti più belli, più emozionanti della mia vita!

Un po' teso sui comandi, ma con l'animo più leggero che mai, chiedo alla torre di controllo di rullare.

Mi rispondono che sono autorizzato a portarmi al run up point, alla piazzola prima dell'ingresso alla pista 30.

Alzando contemporaneamente le punte dei piedi, mollo i freni sulla pedaliera e inizio il rullaggio.

Il musone alto non mi permette di vedere davanti, perciò devo avanzare a serpentina, sporgendo la testa fuori dall'abitacolo, un po' a sinistra e un po' a destra.

Eccomi al punto attesa.

Non devo fare la prova motore perché l'ho già fatta con l'istruttore prima del Solo check, quella bella serie di decolli e atterraggi che lo hanno convinto a lasciarmi andare da solo.

A memoria eseguo il Before take-off check: H, T, M, P, F, F, G ,G, S

(Hydraulic, Harness, Hood, Trim, Tension, Mixture, Pitch, Flaps, Fuel, Gills, Gyros, Switches.).

Per ogni lettera, uno o più controlli.

Premo il pulsante radio sulla barra:

"Claresholm Tower, Yellow One-Three, line-up and take-off" chiamo.

Sanno che sono l'Italiano al suo primo "solo" e mi rispondono staccando bene le parole.

"Roger, One-Three. Clear to line-up and takeoff. Wind 330 degrees, 5 to 7 knots. After take-off report on circuit, over"

Confermo ed entro in pista.

Freno il velivolo ben allineato sulla riga bianca della mezzeria sotto la fusoliera. Non la vedo più, segno che sono proprio al centro.

Con i piedi che pigiano forte sui freni, do tutto motore: è il grande momento.

Un ultimo sguardo agli strumenti e mollo i freni: vado

Sento un immenso fragore di lamiere.

I seicento cavalli in risonanza fanno vibrare la barra nelle mie mani.

Tirano da tutte le parti tranne che diritto.

Sono concentrato al massimo, un corpo unico col velivolo.

Lo sento mio: col fondo schiena, con le mani, con i piedi, con lo sguardo, con tutto me stesso.

So che devo esser pronto a domare, a correggere ogni tentativo di deviazione di questa bestiaccia!

Ho visto T 6 decollare dopo una serie di zig-zag sulla pista; alcuni dopo averla attraversata in diagonale; altri dopo aver rimbalzato sull'erba a lato; e purtroppo uno, dopo aver staccato prematuramente, ricadere con conseguenze mortali, primo caduto del nostro corso "NATO 5313".

E in un lampo vedo con la mente quel Senior Cadet costretto a girare per la base a mensa, al circolo, perfino al cinema con appeso al collo un bel pezzo di lamiera del timone di un T 6.

È una punizione, ma soprattutto un monito adottato dalla Scuola per ricordare a lui e a noi il danno provocato rullando con il muso troppo a ridosso del velivolo di un collega.

Scaccio i pensieri-lampo mentre l'aereo accelera.

L'anemometro segna 20, 30 nodi.

Spingo la barra in avanti per fare alzare il ruotino di coda.

Ecco, 40, 50 nodi: il musone si abbassa e davanti mi appare la riga bianca della mezzeria e così riesco a controllare meglio la mia traiettoria.

Sono tutt'uno con comandi e correggo in anticipo qualsiasi accenno di deviazione provocato dalla coppia di reazione del motore e dal flusso dell'elica. A 70 tiro leggermente la barra e stacco.

Sono in volo, e sono "solo". Evviva!

80 nodi, su il carrello.

OK, retratto e bloccato. 90 nodi, su i flap.

Che pace! Nonostante il rombo del motore mi sembra di salire nel silenzio. Avverto solo il battito del cuore, il pulsare del sangue nelle vene del collo e delle tempie.

Mi sento padrone del mondo e salgo leggero nell'aria limpida e pura.

Là dietro non c'è nessuno che mi dica che cosa devo fare, ma come un robot programmato mi inserisco nel circuito right hand, a destra.

Riduco un po' la manifold e salgo, virando nel braccio al traverso e poi ancora per mettermi in sottovento livellato a 1.000 piedi di altezza

Siamo sull'altopiano a est delle Rockies, 4.330 piedi sul QNH (livello del mare).

La giornata è "gloriosa" con un cielo azzurro intenso.

Lontano, a occidente, si distinguono le grandi macchie verdi dei parchi nazionali Banff e Glacier.

A sud-est ecco Calgary e aldilà la grande prateria costellata di laghetti, villaggi e silos per il grano.

I campi arati si estendono a perdita d'occhio fino ai confini con il Montana.

Le strade diritte sembrano i meridiani e paralleli di una carta geografica.

Ma non posso distrarmi: devo fare i controlli sotto vento.

Metto giù la leva del carrello e do un po' di potenza.

Faccio la chiamata d'obbligo

"Claresholm Tower Yellow One-Three, down-wind, over".

Subito mi autorizzano a riportare in finale per pista 30, numero uno all'atterraggio.

Decido di allungare il braccio sottovento: mi servirà un bel finale.

Mi sento abbastanza tranquillo, rilassato mi permetto addirittura di pensare ad altro in particolare a tre persone che ci tengono molto che io riesca a concludere felicemente il corso piloti.

Una è l'addetto aeronautico all'ambasciata a Ottawa.

Allarmato per la falcidia di allievi italiani dimessi dal corso

( i famosi CT, Ceased Trainee), sapendomi l'ultimo italiano rimasto, mi ha mandato una lettera affettuosa, esortandomi a non mollare, per il buon nome dell'Aeronautica

E poi mio padre: mi ha scritto che desiderava tanto vedermi tornare con l’ Aquila sul petto, lui che partì volontario nel prinmo Battaglione Aviatori "Torino' alla vigilia della prima guerra mondiale, senza poi veder realizzato il suo sogno di diventare pilota.

E infine il buon Flying Officer Webster della RCAF, il mio istruttore, che immagino in trepidante attesa sul piazzale.

E un vero "manico", un veterano della guerra mondiale, che ha saputo trasmettermi il suo entusiasmo per il volo.

Devo molto a lui se oggi sono qui, impegnato nel mio primo "solo".

Ha persino trovato una soluzione per il mio stowmack, che non accetta la cucina canadese: infatti riesco a mandare giù soltanto la colazione, il breakfast all'inglese.

Well Zap, mi ha detto, you say you like only breakfast?!

All right then, eat three breakfasts per day!

 

Pochi giorni fa, mentre eseguivo delle semplici virate in linea di volo, ha interrotto bruscamente la lezione e...

Zap, mi dice all'interfono, I have controls. Lock your harness and gyros.

Allentata la presa sui comandi, rispondo: Yes-sir, you have controls. Gyros and harnesses locked.

Con piacevole sorpresa, molto in anticipo sui tempi del corso, mi ha portato alla low flying zone, un'area di laghetti pieni di anatre, e mi ha dimostrato come si fa il volo radente; soprattutto come devono essere eseguite in sicurezza e a perfezione le virate di 180 gradi, sorvolando avanti e indietro, a bassissima quota, un determinato obiettivo.

Il Flying Officer Webster usava una tecnica che sin da ragazzo avevo osservato nel volo delle rondini quando pattugliano avanti e indietro a volo radente a caccia di insetti.

Prima di invertire la direzione, fanno sempre una bella cabrata, e solo dopo aver guadagnato quota virano stretto e si rituffano a volo radente, in senso opposto.

Che maestria di pilotaggio! Ora sapevo il perché

Ore e ore di lezione di aerodinamica in aula e di studio sui libri, specialmente sui diagrammi di caduta della portanza in virata me le aveva condensate in quel volo.

L'obiettivo prescelto era un laghetto pieno di anatre selvatiche.

I nostri passaggi le costringevano a levarsi tutte insieme in volo, e a sbandare a destra e a manca per non essere affettate dall'elica del grande uccello a motore

Quack, quack, quack! mi urlava interbordo Do you like this, Zap?

Altre volte abbiamo rincorso branchi di antilopi che, sbandando, ci mostravano il "posteriore" bianco.

Che pilota, il mio istruttore!

Ora è qui sotto che mi sta aspettando.

Mi pare di sentirlo: C'mon Zap, come down. You'll make it all right.

Ubbidisco al suo richiamo: sono pronto a virare nel braccio base.

Riduco un po' il motore e inizio a scendere, virando a destra per raccordarmi al finale.

Ed eccomi, in lungo finale, a una distanza che mi permette di studiare gli effetti del vento laterale e di fare tutte le correzioni necessarie.

Metto tutto flap. Che invenzione, i flap! Con la loro maggiore superficie portante allontanano lo stalla e con il loro momento cabrante permettono di abbassare notevolmente il muso del velivolo, aumentando la visuale.

Chiamo la torre:

"Claresholm tower, Yellow One-Three on final " un'occhiata al cruscotto

"... Gear down and locked. Full stop landing,over".

"Yellow One-Three, cleared to land. Wind Three hundred degrees, ten - twelve knots, over" rispondono asciutti.

Che vento! Devo correggerlo con un po' di muso a destra e un po' d'ala inclinata nel vento per mantenere la retta del finale.

La pista è vicina: fai il bravo mio bel bestione. Punto appena sopra la zebra pettine, tenendo un po' di motore, quel tanto che non dà trazione, ma aiuta.

Ed eccomi al "dunque", al flare out, la richiamata finale a un palmo da terra.

Mi sforzo di guardare lontano per volare parallelo al suolo, controllando solo con la coda dell'occhio quanta pista ho già "mangiato" prima di toccare.

Sono importanti sia la traiettoria sia mantenersi sull'asse pista con una visione a tutto campo.

Gradualmente, con quella tecnica di "assaggio, assaggio, assaggio", insegnatami dall'istruttore, e cioè con varie piccole correzioni sulla barra, metto l'aereo in assetto quasi seduto.

Mi sembra di sentirlo: "Check it, check it, check it!".

Tenendo l'ala destra nel vento tolgo motore e... Miaoooo!!

La ruota destra "sgomma".

Controllo di aver tolto tutto motore. Ed ecco che sgomma anche l'altra ruota. Sono soddisfatto, ma c'è ancora qualche istante di suspence, prima di sentire toccare il ruotino di coda, quello che dà maggiori problemi.

Ecco: la coda si abbassa e il muso si alza, coprendo la visione dell'asse pista. Non mi rimane che la visione laterale

 

Non appena il ruotino tocca il suolo, il velivolo sembra voler ubbidire più al vento che a me: imbarda a destra e sento forti sbatti menti in coda, che si ripercuotono sulla pedaliera.

Il velivolo sente le mie correzioni, ma i colpi si ripetono con prepotenza, proprio come faceva l'istruttore.

Che sia ancora a bordo?

Il dubbio mi assale d'improvviso.

Eppure sono sicuro di averlo visto scendere!

Di colpo mi tranquillizzo. Ma certo! È lui, il mio aeroplano, che mi parla! Ora si che ti capisco, mio caro T 6! Ora ti conosco: sono veramente "solo" con te

I dilemma è presto risolto: lo contrastavo troppo duramente, quasi con astio, con la pedaliera.

Ora lo faccio più dolcemente, con amore.

Ma quasi al termine della corsa, il T 6 riprende a imbardare a destra, e non basta "tutto piede" a sinistra per raddrizzarlo.

Allora tento il tutto per tutto, e provo con le cattive.

Azzardo a un col petto sul freno sinistro, a rischio di mette l'aereo "sugli attenti".

Con un brusco scarto a sinistra, l'aereo accenna a mettere giù il muso, alzando la coda.

Poi, con mio grande sollievo, si raddrizza, riabbassa la coda e continua a decelerare.

Ha ubbidito!

L'ho scampata bella!

A tre quarti di pista, a velocità scaduta, posso azzardarmi a usare entrambi i freni della pedaliera: prima dolcemente, poi con più forza.

"Claresholm tower, Yellow One-Three, request taxy instructions, over".

"Roger One-Three, clear into the next left taxyway and proceed to E Flight".

Apro il tettuccio e respiro a pieni polmoni. Ce l'ho fatta!

Ci sarà ancora tanta strada da percorrere, ma io mi sento arrivato, come se avessi già conseguito il brevetto.

Al parcheggio, sul tarmac, appena chiuso motore, sono circondato dai cadet del 5313.

Uno di essi sale sull'ala sinistra brandendo minaccioso un forbicione lucente, afferra come può la mia cravatta e... zac! la taglia di netto.

Scoppia un urlo e un applauso.

Si stappano bottigliette di Coca-Cola, Ginger Ale, Seven-up.

Il moncone della mia cravatta, con gli altri, rimarrà appeso al muro della saletta piloti con data, nome, cognome e ore d volo al "solo" fino alla fine del corso.

Ne ho fatti di voli importanti, nella mia vita di pilota, ma quello rimarrà impresso per sempre nel mio cuore

Volare Settembre 1996

Edited by Dave97
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Io e L'Effe

Ho lasciato i 42.000 piedi dopo un rapido rovesciamento e con tutta la manetta dentro,vengo giù "pulito", in perfettatta verticale.

Il mondo si avvicina come dentro una "zoomata".

La lancetta del machmetro avanza;

indica già 1.0, ed ecco – sento soltanto un impercettibile scuotimento,mentre un tuono (che io non odo) si spande sull'Adriatico.

Passo Mach 1,05, quasi arrivo a 1,1...

E’ ora di uscire senza indugio da questa situazione da meteorite.

Via il motore, fuori gli aerofreni e una decisa "tirata" costante a 5 g.

Non di più (per non entrare in stallo di alta velocità), ma non di meno: una richiamata insufficiente è uguale fare un bel buco per terra!

E’ il 14 maggio 1959.

Sono uno dei tanti piloti militari di vent'anni, ed è il mio secondo volo del giorno (designazione "Mix 14") in questa settimana intensa di addestramento alla base di Rimini Miramare della 5° Aerobrigata.

Sto effettuando la transizione sull' F 84F, il primo supersonico (seppure in picchiata) in servizio nell'Aeronautica Militare Italiana.

Un aereo molto all'avanguardia, a quel tempo, per concezione e versatilità.

Se solo avesse avuto un motore più potente di quel Wright J 65 (che poi altro non era che il Bristol Siddeley Sapphire,inglese)...

Un aereo bellissimo nelle linee e fantastico da pilotare, progettato dal mitico Kurt Kartveli, (il "papà" del P 47' Thunderbolt della II guerra mondiale) e discendente diretto dell' F 84G Thunderjet, suo predecessore nell'AMI.

Ali a freccia accentuata, diedro negativo, amplissima carreggiata del carrello con ruotino anteriore in posizione estrema in prua;

e poi: griglie retrattili di protezione al compressore anti FOI (Foreign Object Ingestion); velocità massima indicata (VNE, o placard airspeed) di 610 nodi (1.130 km/h); Mne il Mach massimo consentito 1,15; e 9,33 g di fattore di carico massimo!

E ancora: auto pilota e capacità di rifornimento in volo (ma i nostri aerei non montavano questi optional); autonomia sterminata con serbatoi ausiliari, esterni (due taniconi da 450 galloni o quattro da 230) - aggiungendo da 3.400 a 3.480 litri ai 2.150 interni - garantivano un'autonomia fino a 1.800 miglia nautiche (oltre 3.300 km) con profili di missione tabulati (una grande innovazione) che prevedevano salite a gradini(step climb)

E, per finire servocomandi idraulici;trim elettrico su due assi; spoiler differenziali sulle ali, paracadute freno; razzi JATO per il "decollo corto assistito"; e impressionanti velocità caratteristiche: 150 nodi (278 km/h) in decollo, 300 (556) in apertura, 180 (333) in avvicinamento e richiamata finale a 160 (296).

 

Una macchina da strike

Il velivolo era stato concepito con capacità di strike (attacco, anche nucleare) e

close support (appoggio tattico ravvicinato alle forze di superficie).

Per questo si facevano un sacco di missioni di "aerocooperazione" con Esercito e con la Marina.

Ma la sua vera specialità era "interdizione profonda, alla quale ci si allenava in missioni solitarie che ci portavano in luoghi remoti con armamento costituito da bombe e razzi oltre che dalle sei mitragliatrici da mezzo pollice (12,7 mm).

Il collimatore era dotato di radar-telemetro.

Così caricato, l’aereo poteva sembrare un "ferro da stiro", ma se veniva liberato dai pod (i travetti per i carichi esterni), l'F 84 tirava fuori una grinta d'intercettore per missioni air watch (sorveglianza aerea) con capacità di strip alert (intervento su allarme in volo o a terra.su.piazzole di pronto intervento).

I carichi bellici erano impressionanti per l'epoca: bombe sui due pod centrali fino a 900 kg e fino a 450 sui due laterali, oppure spezzoniere di pari peso; 24 razzi HVAR (High-Velocity Air Racket) con selezioni salva,sequenza o intervallo; sei mitragliatrici da 12,7 con riscaldamento; collimatore multifunzione GBR (Guns,Bombs,Rockets); e infine predisposizione per armamenti speciali.

Dell' Effe c'era poi , in dotazione alla 3° Aerobrigata la bellissima versione da ricognizione fotografica RF 84F, che aveva le prese d’aria laterali e i gruppi di fotocamere installati nel muso affusolato

Ma come si pilotafa un’ Effe ?

Tanto per cominciare, niente biposto trainer, quindi niente doppi comandi.

Dopo un rullaggio, un’accelerazione – frenata sulla lunga pista, si decollava tutti soli, seguiti da un pilota esperto su un secondo velivolo di sorveglianza (chase) per la prima missione.

L’Effe non aveva freni di parcheggio, né sterzo al ruotino.

Tolti i tacchi, ci si muoveva dal parcheggio, dirigendosi in rullaggio con leggeri tocchi differenziali dei freni.

Altrettanto si faceva all’inizio della corsa di decollo, fino a quando il timone di coda (dopo i 60 Kts) diventava efficace.

Qualche volta, per addestramento, il decollo si faceva con i razzi ausiliari JATO, ed era come avere più di un post bruciatore.

Al peso medio di 21.000 libbre (9.5 ton) si riusciva a decollare in 3.000 ft (meno di 1 km).

Durante la corsa, si poteva controllare l’accelerazione, comparando velocità precalcolate con i segnali di lunghezza della pista, piazzati ad intervalli regolari.

Lo stacco avveniva a velocità tra i 140 e i 170 nodi (260-315 km/h), in funzione del peso.

Il peso massimo raggiungeva il ragguardevole valore di 12.200 Kg (27.000 libbre), 3.806 dei quali costituito da carichi esterni (serbatoi di carburante e armamento).

Sin dalle prime missioni di familiarizzazione si aveva il piacere della maneggevolezza e della precisione dei comandi idraulici (ma se questi andavano in avaria l’aereo diventava un macigno), delle elevate velocità, dell’efficacia degli aerofreni, della risposta potente nelle manovre acrobatiche.

Lo stallo di bassa era controllabilissimo, ma bisognava stare molto attenti alla velocità di caduta verticale; il variometro andava subito giù a valori impressionanti malgrado la sensazione falsamente rassicurante di tener dritta la macchina.

Anche lo stallo di altà (velocità' e fattore di carico) era riconoscibile in tempo,ma qui le precauzioni erano di altro genere,per il pitch-up improvviso (una tremenda spanciata) che poteva scattare, se si trascuravano i segnali di buffeting (scuotimento).

Erano ,allora, G in abbondanza che potevano raggiungere e persino eccedere i massimi strutturali.

Per la vite, la manovra di uscita era del tutto anti-istintiva e opposta a quanto si era appreso sugli altri aerei:

Portare tutta la barra indietro, dando un terzo di alettoni nello stesso senso (in spin) ed infine (finalente) piede contrario.

Così recitava il manuale di volo.

 

Un syllabus massacrante

L'addestramento nell' Effe, come su tutti i mezzi operativi militari, era intenso,e impegnativo.

Dopo le 18 missioni di transizione, che coprivano la gamma completa di manovre in volo:

stalli, virate strette,Flame out simulati ,(si planava con variometri tra i 4.000/5.000 piedi al minuto), atterraggi con parafreno, Acrobazia, tutta: da soli, in coppia e in formazione., Molto volo notturno navigazione e avvicinamenti strumenti e GCA.

Dopo tutto questo cominciava l'addestramento bellico, con vere abbuffate di navigazione a bassa quota, visual recce (riconoscimento a vista), coppie tattiche e formazioni, missioni profilo" e navigazione long range, di giorno , di notte , in lFR reale

E poi intercettazioni di aerei; aerocooperazioni; e infine i poligoni di tiro BAA e BBA (bombardamenti ad alto e basso angolo); MBA (mitragliamenti); RX 4-8-12 (attacchi, con varie configurazioni di razzi); e fine i LABS (simulazione di lanci di bombe nucleari con il Low-Altitude Bombing System), progenitori dell'attacco stand-off.

La manovra consisteva in un mezzo "otto cubano" con sgancio nella parte alta, e via a tutta manetta in direzione opposta!'

Alla fine di una elettrizzante ed esteuante serie di "stazioni", arrivavano i tiri aria-aria sul poligono di Brindisi, e finalmente si diventava Combat Ready, e cioè pronto all'impiego operativo.

 

Volare, Aprile 1997

Edited by Dave97
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Non si può volare cosi !!

non ho mai tenuto conto delle restrizioni di volo riportate dalle carte di navigazione.

Se uno tiene conto delle zone proibite, regolamentate, ristrette, limitate, non va da nessuna parte, datemi retta.

Certo, una volta era più facile; nessuno ti chiedeva niente: non c'era il transponder, non c'erano i radar militari.

Oggi, dannazione, ti vedono e cominciano a rognare.

Per andare da Milano a Venezia, ho sempre messo in prua 90 gradi e sono sempre arrivato tranquillamente.

E se qualche volta "Garda" rognava, facevo finta di non sentire, poi chiudevo la radio e buonanotte.

Ma l'altra settimana non è andata così.

Intanto tenete conto che c'era un bel po' di foschia.

Se devo essere sincero, non si vedeva proprio niente; ma anche quando non vedo, volo guardando gli strumenti anche se non ho mai fatto l'abilitazione strumentale.

Siccome però non sono proprio nato ieri, mi tengo ben lontano dalle montagne. Nel volo di cui vi parlo ho lasciato ben a sinistra Brescia, sono passato a Sud di Verona per poi puntare dritto verso Venezia.

Avevo la frequenza di Milano Informazioni aperta soltanto perché mi ero dimenticato di spegnere la radio

 

Che vogliono da me?

Sento che mi stanno chiamando; voglio non rispondere, ma quelli insistono.

Che cosa diavolo vogliono da me, che già faccio fatica a tener dritto l'aeroplano in quelle condizioni di visibilità?

Rispondo.

Apriti cielo: non soltanto sono passato sull'aeroporto di Ghedi, ma sto ora tranquillamente avviandomi su quello di Verona Villafranca dove, in attesa del mio passaggio, il traffico è stato sospeso.

Cioè aerei militari e civili non decollano né atterrano perché io sto andando a intercettare il loro circuito.

Insomma, ho interrotto la guerra alla Jugoslavia.

Visto? Avrei fatto bene a tenere la radio spenta.

Per rispondere, per cercare di capire cosa devo fare e per dire loro quello che penso, per poco non perdo il controllo dell'aeroplano.

Questi controllori non vogliono capire che loro sono comodamente seduti e noi piloti invece siamo sospesi in aria con mille cose da accudire.

Così mi sono trovato tutto inclinato e a velocità non dico prossima, ma quasi, allo stallo.

E loro a parlare, parlare...

Finalmente, dopo avermene dette di tutti i colori (loro faranno rapporto, ma lo farò anch'io, ribatto) mi passano con l'Avvicinamento di Treviso.

Questa volta so di essere sotto tiro e dunque mi collego con il controllo di Treviso.

Treviso mi dice di seguire le rotte standard per Venezia Lido.

E che cosa sono le rotte standard?

Loro candidamente mi spiegano, come se fosse la cosa più semplice del mondo, che per andare da Vicenza a Venezia devo scendere a una certa quota, andare prima su Padova, poi su Piove di Sacco, poi su Chioggia, poi su Malamocco.

Che cosa?

E chi li trova questi paesi mai sentiti nominare?

Dice che devo saperle, queste cose, per volare VFR.

Davvero?

Allora che cosa significa volare a vista?

Per evitare discussioni, dico che farò come mi chiedono.

Invece vado diritto e per fregarli scendo a 500 piedi.

Sono finalmente tranquillo quando a pochi metri, dico proprio metri, mi passa davanti un aereo militare velocissimo.

Non so che tipo di aereo fosse, ma era tanto vicino che ho visto la faccia del pilota.

Ero a cinquecento piedi; bisogna essere proprio pazzi per volare con un aereo militare a cinquecento piedi.

Non avevo finito di fare queste considerazioni quando un altro e un altro ancora mi attraversano la rotta.

 

Annegato nelle nuvole

Accidenti ai militari.

Questa volta chiamo io Treviso Avvicinamento.

Chiedo che cosa sta accadendo..

Mi chiedono se sto seguendo le rotte e le quote stabilite.

Dico di sì.

Negativo, mi rispondono.

Lei è a 500 piedi esattamente nella traiettoria di avvicinamento all'aeroporto militare di Aviano.

Ora saremo costretti a interrompere l'esercitazione militare.

Intanto salga a 3.000 piedi e assuma una prua di...

Dò tutta potenza e in poco tempo mi ritrovo a 3.000 piedi.

Ma a 3.000 sono dentro uno strato di nubi... comincio ad aver paura e le mie mani sono bagnate.

Prima ero in vista dei piloti militari, ora non vorrei che non mi vedessero e...

E poi le nubi sono peggio della foschia: non riesco a tenere dritto l'aeroplano. Proprio non ci riesco; ma non oso parlare.

Speriamo che mi facciano scendere.

Ma quanto tempo è passato?

A quest'ora dovrei essere vicino alla Jugoslavia piuttosto che a Venezia.

Mi tremano le mani tanto che non riesco a prendere la frequenza VOR di Venezia.

Ho a bordo anche un GPS, ma non sono ancora riuscito bene a capire come funziona.

Provo ad accenderlo, ma senza antenna sarà difficile che funzioni.

Perché non mi chiamano?

Ora sono io a chiamare.

Recupero il microfono che era caduto sotto il sedile e chiamo Treviso.

Nessuno risponde. La radio non va.

Sembrava così facile arrivare a Venezia. Ci sono venuto mille volte.

Leggo l'altimetro: sono a 4.600 piedi.

Devo scendere, devo scendere e vedere il terreno.

Scendo, anzi precipito; la velocità è eccessiva, tolgo tutto motore.

Mille piedi,cinquecento, trecento.

Devo fermare a tutti i costi la discesa.

Sono a duecento piedi e ancora non vedo niente. O sì; forse sotto di me c'è il mare.

Non ho più alcun riferimento; non so più dove andare.

Metto una prua di 90 gradi senza sapere perché.

Ma, se sono sull'Adriatico, devo mettere il contrario, cioè 270 gradi per ritornare sulla terra.

Viro per 270 e mi accorgo di essere a meno di cento piedi dal mare.

Ho perso la nozione del tempo: non so da quanto sono in volo, ma mi sembra un secolo.

Non avevo fatto carburante e vedo che i televel segnano appena.

Provo ancora a usare la radio e finalmente qualcuno risponde.

Anche questo protesta perché non avevo più chiamato.

Non è il momento di rispondere.

Adesso mi porti a terra, poi ne parliamo.

Per andare sull'aeroporto del Lido dovevo mettere una prua di 340

Arrivato finalmente a terra, ho una crisi di nervi.

Non si può volare in questo modo, non si può... farò rapporto, scriverò ai giornali.

 

Considerazioni

La pianificazione

Il volo non era stato preparato; quello non era un volo, ma un tentativo di suicidio. E se uno ha deciso di ammazzarsi, fatti suoi.

Ma la verità è che con una programmazione di volo così disastrosa i rischi non li corre solo l'aspirante suicida, ma tutti quelli che, sfortunatamente, si trovano a volare in quella zona, militari o civili che siano.

Il pilota del racconto non deve essere molto giovane.

Deve essere un pilota abituato a volare in altri tempi e dunque difficilmente adattabile alle nuove realtà.

Un giovane non avrebbe mai commesso quella serie di errori.

Il volo VFR è diventato certamente più complesso negli ultimi anni, ma anche più facilitato dalle strumentazioni di terra e di bordo.

Ma proprio per questo va pianificato attentamente.

L'uso dell'aeroplano come un'automobile è un non senso e da tempo i piloti con qualche esperienza l'hanno capito.

Oltre a tutto, il volo VFR è più complesso e più difficile di quello IFR.

Lo spazio è quello che è e soprattutto nessuno è padrone dello spazio.

Le zone proibite, regolamentate e via dicendo devono essere rigorosamente osservate.

Non si può fare il furbo, come una volta si faceva, senza mettere in pericolo se stessi e gli altri.

Una volta, tra l'altro, nessuno ti vedeva, mentre oggi i radar militari sono in grado di osservare piccoli aerei anche a bassissima quota.

Dunque, specialmente volando da soli, bisogna avere bene in mente un "piano di volo" e le relative azioni di scampo prevedibili; bisogna conoscere le rotte di ingresso e attraversamento delle diverse zone, quelle famose "rotte standard" che sono chiaramente indicate sulle carte di navigazione.

 

L'uso della radio

Non si trasmettono messaggi radio per fare un piacere al Controllo; si tengono contatti per la nostra sicurezza e per quelli che in quel momento volano interessando la stessa zona.

In un caso come questo, poi, l'uso intelligente della radio - o meglio il rapporto con il controllore - è determinante.

Non è vero che i controllori sono chiusi nelle loro sale e non si curano dei piloti. Chi si è trovato anche una sola volta in difficoltà a bordo di un aeroplano sa bene con quanta attenzione i controllori partecipano al suo problema.

 

Mancanza di visibilità

Qui nel Nord a volte vi sono condizioni di visibilità molto vicine allo zero anche in piena estate.

E un pilota di buon senso non deve trovarsi mai in condizioni di assenza di visibilità: per nessun motivo si deve far confusione tra volo a vista e volo strumentale.

Il nostro, come abbiamo visto, perde il contatto con il terreno salendo a 3.000 piedi e tenta di volare con l'ausilio degli strumenti, ma con risultati disastrosi.

Non ci stancheremo mai di dire che senza abilitazione strumentale (non la carta, ma l'addestramento) volare in assenza di visibilità è come guidare un'automobile a occhi chiusi.

Il che crea sia problemi al pilota, che fatica a "tener dritto l'aeroplano", sia agli altri. Il pilota, praticamente senza vedere niente, è passato su due aeroporti in piena attività.

Altro che protestare e fare rapporti.

In qualunque paese al mondo, chi commette un'infrazione del genere perde il brevetto per molti mesi.

Dopo aver combinato questi guai, era certamente in tensione e quindi non più in condizioni di volare serenamente.

L'unica possibilità di fare una cosa giusta, a questo punto, era atterrare al più vicino aeroporto.

Un'altra occasione perduta.

Abbiamo riportato questo esempio per ricordare a noi che voliamo che a volte la mancanza di preparazione del volo ha portato a conseguenze tragiche. Soltanto per non aver saputo pianificare.

Pianificare significa anche sapere che a Venezia (Tessera e Lido) non vi sono VOR.

 

Volare Settembre 1996

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Come alla corte di Re Artù

Assonnato ed ancora in parte addormentato,all'alba del 28 luglio 1943 ero salito sul mio Macchi 200 in posizione di primo allarme.

Era il mio turno, per quella mattina, insieme a due sottufficiali piloti della 92a Squadriglia.

I solerti specialisti avevano già scaldato i motori dei tre velivoli che avrebbero costituito la prima difesa contro gli attacchi dei bombardieri americani diretti verso la nostra flotta ancorata a La Spezia.

La nostra base era sul corto campo di Sarzana.

Il particolare non trascurabile era costituito dal fatto che normalmente (ormai quasi ogni giorno) la formazione che ci attaccava era di almeno una cinquantina di bombardieri, due "squadron".

La squadriglia di “secondo allarme", di appoggio alla pattuglia di primo, era di nove o dieci velivoli.

Tutta qui la "difesa aerea della piazzaforte”.

Tralasciamo, poi, il commento relativo all’insufficienza di armamento, velocità e quota di tangengenza del nostro Macchi 200: ma questo passava il convento, visto che i superstiti Macchi 202 e qualche 205 dovevano,per forza di cose, combattere in Sicilia e Calabria.

Ma la storia è nota.

Seduto al posto di pilotaggio, protetto da un ombrellone dal cocente sole di luglio appena sorto,mi ero dolcemente addormentato, nonostante il fastidio costituito dal salvagente, il battellino pneumatico sotto il sedere, il paracadute e la “Marus" pesante.

Improvvisamente il trillo del telefono, piazzato nella “tenda d'allarme" vicina agli aerei mi risvegliò.

Giusto in tempo per vedere partire dalla torre di controllo un razzo rosso e basta, ossia:

"decollo immediato per un solo velivolo".

Misi in moto e, senza fare alcuna prova (erano state fatte dagli specialisti una mezz' ora prima) diedi tutta manetta e decollai.

A tutto motore, in salita, mi misi in contatto radio con il carro "1.000", centro operativo collegato col radio-localizzatore "Freja" tedesco, piazzato sull'isola del Tino.

Un aereo isolato, ad alta quota, si stava avvicinando con provenienza da sud, probabilmente verso Pisa e Livorno.

Mi diressi verso la zona segnalata, salendo a tutto motore fino alla quota massima operativa del Macchi (circa 7.000 m), dove la manovrabilità era ancora accettabile.

Arrivato in zona, col sole ancora relativamente basso, mi misi a girare in tondo per tentare di avvistare l'aereo segnalato.

Di tanto in tanto il sole mi abbagliava, rendendomi il compito ancora più difficile.

Dopo un paio di giri, un attimo prima di fare la trasmissione che avevo deciso ("qui non c'è nessuno") abbassai lo sguardo e lo vidi un paio di mila metri sotto di me.

Era un veloce bimotore, di un tipo a me sconosciuto, ma con le coccarde rosso-blu ben visibili sulle ali.

Feci un rovesciamento e gli piombai in testa, mentre trasmettevo a "Gloria" (il carro 1.000) il necessario messaggio.

Il mio avversario mi vide all'ultimo momento, quando avevo già iniziato a sparare: ma era un bel pilota perchè sfuggì alla mia prima raffica con una strettissima virata a destra.

Aveva le idee chiare sul combattimento aereo, manovrando il suo pesante bimotore quasi come un caccia.

Mentre l'armiere dalla torretta posteriore mi indirizzava serrate raffiche con le due Browning 0,50 (altro che le nostre povere Safat!) per fortuna senza colpirmi.

Da vicino lo riconobbi, confrontandolo con le sagomine che erano in mostra al nostro ufficio operazioni: era un "Baltimore".

Strinsi la virata e mi ritrovai in posizione per sparare ancora.

Dall' ala destra cominciò a perdere del carburante.

Fece un rovesciamento a sinistra tentando di passarmi sotto: riuscii a stargli in coda, e gli indirizzai una terza raffica sui piani di coda.

Avevano perduto molta quota e nella foschia sul mare improvvisamente lo persi.

Eravamo appena fuori del porto di Livorno: girai, girai, ma non riuscii a ritrovarlo.

Riatterrai e tornai al mio posto d'allarme, dopo aver fatto un salto all'Ufficio operazioni per stendere il rapporto sull'accaduto.

Verso mezzogiorno terminò il mio turno: andai alla mensa a mangiare un boccone (i bombardieri quella mattina forse erano di riposo) e poi nelle nostre stanze (di legno) a tentare di fare un pò di "pennica".

Mi ero appena addormentato che il piantone entrò senza bussare.

«Signor tenente, il comandante Bacich la vuole subito nel suo ufficio».

E seppi che l'equipaggio del "Baltimore" era stato recuperato, incolume, sul battellino pneumatico, da un nostro "MAS", e lo stavano trasportando all' aeroporto di Pisa.

Bacich, generosamente, mi autorizzò ad usare il "Caproncino" del Gruppo per correre a Pisa.

Li ritrovai, tutti e quattro (un Flight Lieutenant inglese, pilota, un secondo Flight Lieutenant canadese, navigatore, i sottufficiali armiere e marconista inglesi) fradici ed inffreddoliti, al corpo di guardia, in prigione.

Mi precipitai dal colonnello ed ottenni per loro del vestiario asciutto.

Poi li portai a pranzo alla mensa.

Il pilota inglese aveva capito al volo che io ero "quello".

Non me lo disse, ma capii che stavano facendo fotografie su Pisa, base dei nostri aerosiluranti (fu bombardata dopo qualche giorno).

In breve, diventammo amici: con un pò di francese e qualche parola di inglese, parlammo a lungo e mi impegnai su loro richiesta di fare in modo che non fossero consegnati ai tedeschi.

Ci lasciammo al tramonto stringendoci amichevolmente e lealmente la mano.

Ripresi il "Caproncino" e rientrai, con un po di tristezza, a Sarzana.

 

Venticinque anni dopo, ormai pacifico pilota di linea, una notte senza una precisa ragione mi tornò in mente il tutto.

Appena arrivato a Fiumicino, mi precipitai a telefonare per tentare di recuperare il mio vecchio valoroso avversario.

Attraverso il nostro ufficio storico e quello della RAF in un paio di settimane, con telex e telefonate a Londra, riuscii ad avere il suo indirizzo e numero telefonico.

Ormai per ragioni professionali masticavo l'inglese abbastanza bene e lo chiamai.

In un primo tempo lui non capì ma poi fu felice di aver¬mi ritrovato:

«as a brother», disse con la voce rotta dalla commozione.

Decidemmo di incontrarci al più presto.

E dopo un paio di settimane mi arrivò l'invito per un pranzo all’ “Officers Club" della RAF, a Piccadilly.

Furono ore bellissime.

I vecchi avversari, come ai tempi Re Artù, erano uno nelle braccia dell' altro, uniti in una confraternita sconosciuta a chi non ha lealmente combattuto.

Anche le mogli parlavano come due amiche.

La consorte inglese disse ad un certo punto: «Ma veramente erano nemici questi due ?».

Al termine, il mio amico disse una frase che non dimenticherò:

«Oggi qui noi non dovevamo esserci. Le premesse per cui non dovevamo essere qui c'erano tutte.

E invece ci siamo.

Di fronte a questo, tutte le difficoltà sono un’ inezia, confrontate con l'insperato dono della vita».

 

Rivista Aeronautica 1/1998

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A pranzo con il comandante

All'esame del brevetto di pilota privato ho sbalordito i miei esaminatori.

Da tempo, mi ha detto l'esaminatore, non trovava uno bravo come me.

lo, quando mi metto in testa una cosa, la devo fare al meglio.

Così, sabato scorso, ho organizzato un bel viaggetto con la mia ragazza e due nostri amici.

Stabilita la meta, un piccolo aeroporto in pianura (meglio evitare le montagne, la prima volta) con un ottimo ristorante, mi metto subito a studiare la rotta, i tempi di volo, i possibili alternati, le quote da mantenere nelle zone regolamentate e tutto quello che ci vuole per un volo sicuro e... per non fare una brutta figura.

Il giorno stabilito non è poi così bello come era previsto: niente di preoccupante però, solo un po' di foschia e nubi basse.

Mi danno un ceiling di 2.000 piedi, che per me è più che sufficiente.

Meticolosa la preparazione dell'aeroplano.

I check-list li faccio davvero, e non una sola volta.

Per poco, non mi dimenticavo dell'olio al motore; ne mancava, e ne ho aggiunto un litro.

Forse troppo, ora che ci ripenso.

Sarebbe stato meglio controllare con l'astina, prima di versare l'intera confezione.

Ma che può succedere? Meglio di più che di meno...

Finalmente gli amici arrivano (per sfottermi mi chiamano comandante), saliamo a bordo e siamo pronti al decollo. La mia ragazza, Luciana, mi farà da navigatore

Il decollo è perfetto; un solo errore: dimentico di inserire la pompa elettrica.

Nulla di grave, ma mi da un po' fastidio, visto che nelle cose che faccio cerco sempre la perfezione.

Penso di essere scusabile: è la prima volta che porto passeggeri a bordo.

Devo essere calmo e lo sono, anche se mi tremano un po' le mani, che forse stringono troppo il volantino.

Ma la prua? Quale prua devo mettere dopo il decollo? 120 gradi, mi dice Luciana.

Ma per qualche minuto sono andato per 90°; ora forse è il caso di correggere.

Mettiamo 135 per rientrare in rotta, e vediamo di riconoscere i posti che sorvoliamo.

Come sono diversi, visti dall'alto, i paesi, le strade, i fiumi.

Intanto occorre tener presente l'ora di partenza, perché, mantenendo la velocità stabilita, ai 23' dobbiamo sorvolare il primo punto di riporto.

Ma arrivano i 23', poi i 24', i 25' (intendo minuti dopo l'ora), ma sotto è campagna.

Meglio rientrare in rotta (ricordate? 120 gradi) e aspettare il prossimo punto di riporto sul quale dovrò passare ai 44'.

Eccolo, siamo sulla verticale.

Non potete immaginare la mia soddisfazione; ma sono soltanto i 39'.

Vuoi dire che abbiamo vento in coda e dobbiamo rivedere il tempo sul prossimo punto.

Stiamo volando da circa 40 minuti (avrei dovuto cambiare serbatoio alla mezz'ora, ma non l'ho fatto) e l'aeroporto d'arrivo non dovrebbe essere lontano.

Finalmente qualcuno da dietro dice di vederlo, avanti sulla sinistra.

Anche a me sembra che quello sia l'aeroporto.

Mi dirigo verso quel posto, e comincio a prepararmi all'atterraggio.

Tiro intanto fuori il carrello. Man mano che mi avvicino, però, mi rendo conto che si tratta soltanto di un prato di colore diverso dagli altri.

Niente da fare; ritorno indietro.

Mi accorgo di avere una prua di 270 gradi.

Guardiamo bene la carta di navigazione, dico, cercando di mantenere una certa calma forzata.

Tutti e quattro guardiamo la carta e ognuno di noi dice la sua: è più avanti, più a destra, dobbiamo tornare indietro.

Non c'è un punto di riferimento, un qualcosa che ci indichi dove siamo.

Sto facendo dei larghi "trecentosessanta", senza alcun risultato.

Ora ricordo che l'istruttore mi aveva detto che per vedere di più in caso di difficoltà, bisogna salire.

Sono a 500 piedi dal suolo, solo ora me ne accorgo.

Dò potenza e cerco di salire.

Con la potenza che ho dato (25 di pressione e 2.500 giri), l'aereo dovrebbe salire almeno a 500 piedi al minuto, sale invece a poco più di duecento e la velocità diminuisce.

C'è qualcosa che non va.

Ora saliamo in lenta spirale e purtroppo, dopo qualche minuto, mi trovo in nube.

Fermo la salita, ma non riesco a tenere fermo l'aeroplano: la velocità aumenta paurosamente, tiro il volantino e sento subito il suono dell'avvisatore di stallo.

Lo spingo in avanti, poi ancora indietro.

Non so come, proprio non so come, a un certo punto usciamo dalle nubi in virata stretta (60 gradi o forse più).

Raddrizzo l'aeroplano, riduco potenza e... sotto di noi un piccolo aeroporto, cioè il miracolo. Non ho più la voce per parlare alla radio, ormai devo atterrare a qualunque costo.

Fuori il carrello: dannazione il carrello è già fuori, ecco perché l'aereo non saliva.

Flap, eccetera e via all'atterraggio: perfetto, ma in senso inverso alla pista in uso.

Un altro piccolo aereo ha dovuto riattaccare all'ultimo momento.

Pazienza, anche se sopporteremo qualche rimprovero siamo finalmente a terra.

Oltre tutto questo non è il nostro aeroporto di destinazione. E non ha ristorante.

 

Volare settembre 1999

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STORMO DA CACCIA

 

Chiara mattinata di sole.

Le romabanti argentee chiazze degli aeroplani macchiano il verde tenero del campo.

A mano, affettuosamente, come accompagnandoli a festa, gli avieri spingono i velivoli, lustri, sulla linea di volo.

Le prime eliche prendono a girare, e lo stormo inizia la sua vita di un giorno, che è la vita di tutti i giorni.

Il preludio è dei "pinguini" alle prese con i primi segreti del volo acrobatico.

A sera, negli ultimi raggi del sole calante, gli esperti, gli anziani, uomini per cui il volo non ha più segreti, improvviseranno lo spettacolo finale.

Due, tre pattuglie, di sette aeroplani ognuna, comporranno la gran gala disegnando nel cielo evoluzioni che fino a poco fa, eseguite da un solo pilota su di un solo velivolo, parevano il non plus ultra dell'acrobazia aerea.

Decolla il primo apparecchio: è il "la" ad una intensa attività di volo apparentemente indisciplinata, coreograficamente caotica, retta invece nelle sue intime basi da una lucida volontà disciplinatrice e ad ognuno assegna compiti precisi e definiti.

Ed al decollo del primo apparecchio, presso l'antenna delle segnalazioni, vera centrale nevralgica della vita del campo, e lungo tutta la linea di volo, si formano capannelli di uomini.

Tra questi, i comandanti, a ricercare ognuno, in mezzo ai tanti che scarambolano nel cielo, il suo "pollo" e lo seguono con quella stessa attenzione, con quello stesso affetto con cui a loro volta furono seguiti lungo i primi passi della loro vita di aviatori.

Ogni comandante ha il suo modo caratteristico di seguire: ad uno potrai leggere sul volto approvazione o disappunto, gioia od ansietà per quanto "quello" va ingegnandosi di combinare lassù; un altro non ti mostrerà che imperturbabile muta serenità.

In questi capannelli si riassume e concentra lo spirito, l'essenza del volo.

Non vi si parla di altro, non si commenta altro che quanto i compagni stanno facendo lassù.

In questi gruppetti nascono le leggende, si creano le tradizioni, vengono ravvivati episodi memorabili di questo o quel pilota, il giovane apprende le gesta a cui ispirarsi; si narrano i fasti dello Stormo, dei Gruppi, delle Squadriglie; si foggia la storia orale dell'Aviazione.

A tratti qualcuno esce dal gruppetto: alla chiacchiera salutare sostituisce l'azione.

Esegue il suo volo, svolge il suo programma, riatterra e riprende nel coro il suo posto.

A volte è il tenore, il cantastorie maggiore, quello che abbandona il coro, ed allora tutti, gli occhi al cielo, lo seguono, ne bevono le manovre come a carpire il segreto delle evoluzioni che avvincono.

Così si rinsalda la tradizione, in queste raccolte di uomini la si vivifica, la si rinnova con l'esempio e con la parola.

E la tradizione, in aviazione, come del resto in tutte le attività più alte dello spirito umano, è importantissima.

Si evolve il mezzo, la tecnica, ma le basi sono quelle che sono, solide, buone, resistono nella coscienza degli .anziani, nell'avido desiderio di apprendere dei giovani.

A osservarla superficialmente, la vita di uno stormo da caccia, la vita intima, quella quotidiana, non vi ritroveresti quegli elementi che contribuiscono a creare quell’ “abitudine al coraggio" che è elemento caratteristico e distintivo del cacciatore italiano.

Ma a viverla ed osservarla da vicino vedresti che c'è qualcosa nella vita di questi soldati pieni di disciplinata irruenza, che ti dà l'impressione di trovarti di fronte ad una umanità nuova, ad una umanità in "combinazione" abituata a vivere con il cielo e nel cielo.

E se non leggerai negli occhi adusi di questi uomini il riflesso della vita eroica che ogni giorno conducono, se non ti parrà vero di trovare nella paterna e ad un tempo severa figura del Comandante la serena abilità con cui solo pochi giorni addietro risolveva brillantemente l'ennesima delle "situazioni imbarazzanti" della sua bella carriera di pilota, ti renderai però conto che questa umanità senza retorica vive di fede senza quasi avvedersene.

E capirai che non è paradossale definire monastica la vita dei piloti di uno stormo da caccia. Monastica in quel senso per cui il volo ed ogni attività ad esso inerente sono tenuti a guisa di rito, monastica perché il rituale ha i suoi santi.

Santi prontissimi magari a lanciarsi nella scia delle gonnelle di qualche donzella carina, ma santi per quel loro rigido attenersi a discipline nuove necessarie ed indispensabili per ottenere quei meravigliosi risultati che il mondo, a volte in modo non del tutto gradito, ha avuto modo di conoscere.

Santi per il mistico slancio che li anima quando nei cieli di guerra si gettano audaci sul nemico, o nei cieli della pace si tuffano in un vorticoso susseguirsi di instancabili "ruote" a pochi metri dal terreno.

Santi per quell'estasi che li domina quando a te spettatore sembrano impazziti', e li vedi più arditi, più impressionanti, scarambolare geometricamente in formazioni strettissime, serrate ala contro ala.

E santi, infine, in quella santità del sacrificio finale che ad alcuni, ai migliori, è richesto: in quell'offerta senza reticenze della giovane esistenza agli ideali per cui hanno vissuto.

Ma mi sembra di tradirli nel rivelare quella loro intima essenza, questo loro mistero.

Mistero che credo solo svelino agli angeli, quando li incrociano sulle loro rotte celesti, e li invitano a gettarsi con loro nelle più ardite picchiate, nelle più entusiasmanti acrobazie.

A quegli angeli che danzano sulle loro ali quando l'apparecchio offre al bacio del sole la pancia poderosa ed al pilota il mondo appare rovescio: un mondo cinematografico.

Cinematografia per bambini, di casette simili a piccoli dadi rovesciati, di monti appoggiati per le cime aguzze nell'azzurro, e verdi laghetti che non ti spieghi per quale magica virtù non si rovesciano ad inondarti.

A quegli angeli degli aviatori che sanno le tappe della iniziazione, dura iniziazione, lunga scala da percorrere incerti di superare il noviziato.

Perché il volare è qualcosa di più che un atto materiale, è una dura divisa fatta di disciplina, di tenacia, di obbedienza: e come tale deve essere basata su dei princìpi ideali senza dei quali non c'è posto per il sacrificio.

Ho detto gli aviatori uomini che vivono di fede senza avvedersene, ma forse non è esatto. Cioè, è più esatto dire che non lo dimostrano con manifestazioni esteriori, ma lo esprimono quando è l'ora delle necessità supreme.

 

Oscar Abello 25 novembre 1938

 

Aeronautica, Ottobre 1992

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Ho Amato un Aeroplano…

Sì, ho amato un aeroplano!

Qualcuno dirà che è impossibile, che si tratta di una battuta, eppure è vero, è capitato a me come credo sia capitato a tanti altri piloti.

Un uomo è un uomo e un aeroplano è un aeroplano, eppure venne un giorno nel quale uomo e aeroplano furono una cosa sola!

E' una storia d'amore di tanti anni fa, nata nei cieli infuocati della guerra.

In squadriglia, la vecchia gloriosa 93a dell'8° Gruppo Caccia, mi avevano assegnato il Macchi 200 con il n. 4, un apparecchio scontroso più di quanto già lo fosse per sua origine, tanto che alla prima manovra un po' violenta mi aveva risposto con una altrettanto violenta autorotazione.

Per qualche tempo convivemmo con distacco, andavamo in azione, partenze su allarme, scorte alle navi, ricognizioni, ma io lo pilotavo sempre con una certa diffidenza finché un giorno, al rientro da una missione, avvenne il colpo di fulmine.

Era uno di quei giorni magici, misteriosi, che sconvolgono tutto e di colpo aprono, dentro, nuove prodonde tracce e nulla si può spiegare: avvengono!

Ero in alta quota, solo, in un infinito purissimo azzurro dove si rincorrevano manciate di grandi nuvole bianche, architetture fantastiche fra sciabolate di sole, alte montagne e grandi laghi azzurri, profonde vallate e cattedrali e torri e pareti vertiginose.

Mi tuffai sotto un batuffolo candido e poi tirai su a circondarlo con un morbido looping e poi di seguito virate in piedi e capriole fra spume trasparenti.

Allungando un braccio avrei potuto acchiappare una nuvola e mi sentivo grande, invulnerabile e nello stesso tempo infinitamente piccolo per una immensa Presenza che sentivo sopra di me. Tutto era musica e cantavo, leggero, senza peso ed io e il mio n. 4 ora eravamo una sola creatura che si librava in una danza inebriante a disegnare arabeschi nelle profondità dell'azzurro.

Le sue ali erano le mie ali e la guerra non c'era più, non c'era più la terra con i suoi orrori, ero oltre ogni limite, immerso in un mondo magico: a tratti il sole tracciava la mia ombra su vicine candide pareti ed il Macchi, ora veramente "mio", era una piuma che volteggiava morbida nel vento.

A terra, spento il motore, rimasi immobile ad assaporare il lento defluire delle emozioni che avevo dentro, poi la voce preoccupata del motorista:

«Tutto bene tenente?...»

«Tutto bene!» risposi e battendo una mano sul cruscotto aggiunsi

«Oggi, io e questo qui ci siamo innamorati».

E fu amore per tanto tempo, con il mio n. 4 vissi tante altre drammatiche vicende in un guerra sempre più disperata: la grande paura nella nebbia, i violenti scrosci di pioggia senza il tettuccio a ripararci, il gelo dell'alta quota, la ragnatela infuocata delle raffiche nemiche, gli squarci nella fusoliera, la sabbia rossa della Tunisia che impregnava la mia pelle e il suo motore, eppure, arrancando, lui testardo, mi portò sempre a casa.

Ed io gli parlavo nei momenti difficili e poi a terra lo ringraziavo con una carezza e sapevo che lui capiva…

Ma con lo scorrere del tempo, venne anche il giorno del distacco, mi aspettavano altri apparecchi, i suoi più giovani fratelli, il 202 e il 205; era finito il lungo aspro cammino che avevamo percorso assieme.

Volammo per l'ultima volta verso il campo dove lui avrebbe addestrato giovani pivelli e facemmo l'ultimo looping e l'ultimo atterraggio "al bacio".

Tante e tante volte, assieme avevamo messo in gioco le nostre vite, fu un distacco triste e, allontanandomi, mi girai più volte a guardarlo, il mio vecchio n. 4, laggiù nella nuova linea di volo.

Da allora è passata una vita, ma nei ricordi che sovente si affollano alla mente, il legame col mio Macchi 200 è sempre ben vivo.

Penso che quando il Dio dei Cieli mi chiamerà, ritroverò lassù il vecchio scontroso n. 4 e torneremo assieme a volare, nei santuari del cielo, a disegnare musica a gloria di Colui che, con mano paterna, ci guidò negli anni dell'Apocalisse.

 

Aeronautica Giugno 1998

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Crash Landing

E’ una mattina calda e piovigginosa dell'estate 1968 e sto attraversando a piedi il piazzale di parcheggio velivoli di Milano Malpensa.

Nel bel mezzo di una ordinata fila di jet di linea dalle sagome filanti, tutti in livrea bianca con le insegne colorate delle più disparate compagnie aeree internazionali, spicca alquanto diversa la sagoma goffa e scura di un velivolo da trasporto militare con l'ala alta, due grossi motori stellari con eliche quadripala, dietro i quali si protendono due travi di coda con alte derive.

È il mio Lupo 90, un Fairchild C 119 Flying Boxcar, un Vagone Volante del 98° Gruppo della 46a Aerobrigata Trasporti Medi, che ha base a Pisa.

È un aeroplano già superato, brutto, se volete, ma io gli voglio un gran bene.

Con lui ho vissuto i momenti più emozionanti e avventurosi della mia vita di pilota.

Lupo 90, reduce dalla grande revisione delle 2.000 ore eseguita dalla SIAI di Vergiate, dopo il collaudo in volo è ora pronto per essere riportato a "casa".

Il mio equipaggio è già a bordo.

Al CDA di Malpensa, l'ufficio di Controllo d'aerodromo dove ho compilato il piano di volo IFR, l'ufficiale meteo mi ha detto che la parte peggiore della perturbazione atmosferica sul Nord Italia, dovuta a una classica occlusione di due masse d'aria, una calda e una fredda, dopo aver scaricato piogge e temporali per tutta la notte, si è spostata più a Est.

Rimangono qua e là solo sporadici rovesci, i soliti "colpi di coda".

Appena a bordo, dopo essermi sistemato sul sedile a sinistra e aver chiesto l'autorizzazione alla Ground, la sezione che si occupa dei movimenti al suolo della Torre di Controllo, ben coadiuvato dal mio ottimo equipaggio, metto in moto.

Nella spaziosa cabina regna il buon umore.

Siamo rimasti fuori per due giorni, e ora abbiamo tutti voglia di rientrare.

Si respira già aria di casa.

Sul tavolino del navigatore c'è una specie di televisore, un'apparecchiatura in più del solito, che ci è servita per il collaudo.

È l'Analyzer che, attraverso vari pick up point (in pratica, delle microsonde), rivela su un oscilloscopio ogni eventuale anomalia nel funzionamento dei due potenti motori turbo-compound Wright 3350-85 da 3.500 cavalli ciascuno.

Su quell'aereo mi sento in una botte di ferro.

Come istruito via radio, lascio il parcheggio e, rullando davanti ai bellissimi aerei allineati a destra, giro verso sud e imbocco il raccordo parallelo, diretto al punto attesa della grande pista 35 destra.

Ed ecco che, tutto d'un tratto, il cielo si fa buio pesto e si mette a piovere forte.

L'allegro vociare alle mie spalle s'interrompe.

Metto in azione il tergicristallo e faccio accendere tutte le luci, ma davanti a me distinguo ben poco.

La Ground ci chiama e ci detta la clearance di rotta.

"Roger, autorizzato a Pisa via Voghera - Genova, sale e mantiene livello 110" conferma il mio secondo pilota.

Rotta e livello sono quelli chiesti nel piano di volo.

Mentre ci avviciniamo alla testata pista sud, piove sempre più forte.

Aumento la velocità dei tergicristalli.

I fari inquadrano due bellissimi fagiani che attraversano veloci il raccordo.

Sono usciti dalle sterpaglie a sinistra e zampettano veloci verso destra, quasi sotto il musone.

D'istinto do una spuntatina ai motori.

Spirito venatorio o ricordi di fame patita da un tredicenne che, in tempo di guerra, armato di fionda e sassi, acquattato tra i cipressi del monumento ai Caduti di Villotta d'Aviano, riusciva ad abbattere da sei a dodici passerotti al giorno (chissà che cosa direbbe oggi la LlPU!).

Poi, a casa, li gettava con sussiego sul tavolo di cucina, ordinando alla mamma:

"Arrosto con polenta!".

Bei ricordi...

"Rieccoli, comandante!" grida il mio secondo.

I due volatili sono sfuggiti alle eliche e al carrello, e zampettano a destra del raccordo, fuori portata.

Il vento ora si fa sentire e li spinge verso la fitta brughiera.

"Addio arrosto con polenta!" mugugno.

Quando giungiamo al punto attesa, il tempo è peggiorato tanto che peggio non si può: le nubi nere toccano praticamente terra. Toc! totoc! to-to-to-totoc!

Alla pioggia si è aggiunta la grandine, in un turbine di vento che non mi consente di orientarmi per provare i motori.

"Disregard, Zap" mi dico.

Metto i freni di parcheggio nella solita posizione con il muso a 45 gradi rispetto alla pista, e procedo al regolamentare run-up check.

Tiro il collo ai motori, prima al sinistro poi al destro e poi a tutti e due insieme.

Il rumore, in cabina, è assordante.

La terrific power si scarica sulle grandi eliche quadripala Hamilton Standard e fa scuotere tutto il velivolo, dandomi brividi di piacere: che bello "avere sotto" tutti quei cavalli!

Intanto la pioggia è talmente cresciuta d'intensità, che nel selezionare sul soffitto gli interruttori dei magneti sulle tre posizioni Left-Right-Both, alcune gocce d'acqua

cadono sul mio braccio destro.

"Never mind, comandante" minimizza il mio motorista (è fissato con l'Inglese).

"Li sistemerò a casa con un po' di sigillante".

Sugli strumenti i parametri sono tutti OK.

Anche l'operatore all'Analyzer mi segnala con il pollice alzato.

Riduco motore, mentre il secondo pilota termina la lettura della parte Before Take-off e depone la check-list.

È tutto OK: non rimane che chiedere pista e decollo.

Fuori, però, ora c'è l'inferno.

"Stand-by, Zap, never take chances" mi avverte la voce interna del mio vecchio istruttore canadese (fermati un momento, mai rischiare... se puoi farne a meno).

Un lacerante fragore e - zig-zag! - una saetta nel classico "segno di Zorro" squarcia il cielo, illuminando una valanga di nubi nere sopra di noi.

Pioggia, grandine, tempesta martellano il parabrezza, le lamiere del velivolo e l'asfalto,allagando tutto.

Rimango ammutolito e assisto in silenzio all'uragano che si sta scaricando sulla pista.

Mi riscuote la voce del controllore:

"Lupo 90, passate sulla frequenza di, Torre e provate a chiamare l'AZ 320.

E’ in avvicinamento per la 35, ma non ci risponde".

"Roger, Malpensa, lo chiamo subito".

Faccio tre inutili tentativi e richiamo la Torre:

"Malpensa, Lupo 90, spiacente: contatto negativo con AZ 320, e... Malpensa, Lupo 90 rinuncia al decollo, chiede un ritardo di 40 minuti e rientra al parcheggio".

Un unico grande sospiro di sollievo in cabina accompagna le mie parole.

Dopo qualche minuto sono di nuovo sul piazzale.

Spengo i motori e faccio scorrere appena il finestrino, che resta protetto dal vento che urla da destra, tirandosi dietro gravidi nuvoloni neri;

il parcheggiatore, da sotto l'enorme cappello della cerata tipo Nordovest che lo fa sembrare un vecchio lupo di mare, vuole dirmi qualcosa.

"A là sentì, cumandant?" mi urla nella fessura.

"L'è burlàa giòo el Dici Vòtt dell'Alitalia da Neviorch.

L'àn dìt adess:su la colina da Vergiaa" .

Di colpo, con la mia fervida immaginazione, ritorno a pochi minuti indietro, e m'immagino seduto ai comandi di quel potente aviogetto di linea.

Tutto è predisposto per l'atterraggio: sono ben stabilizzato in azimut e in elevazione sul sentiero elettronico di discesa, l' ILS di Malpensa.

Ho lasciato l' outer marker tenendomi leggermente sopra il glide path, e ora sto aspettando il segnale del middle marker.

C'è un tempo da lupi, ma ho tanta esperienza di atterraggi con cattivo tempo, e sicuramente andrà bene anche questo.

Ecco il segnale: sento il suono corretto in cuffia e vedo il lampeggia della spia azzurra sul cruscotto.

Sono sempre un po' sopra il sentiero, ma ben allineato: localizzatore al centro.

Tolgo motore per abbassarmi.

Ma ecco: un lampo - zig-zag! - squarcia con fragore il cielo.

Scompaiono dallo strumento i segnali verticale e orizzontale dell'ILS.

Che il fulmine abbia colpito la trasmittente?

Rallento la discesa, ridando un po' di motore.

Ritornano i segnali, meno male!

Sono ancora allineato, ma ora sono alto sul glide.

Via i motori; volantino un po' avanti; ecco che esco dalle nubi: vedo le luci che conducono alla pista.

Ed ecco la pista!

C'è un grosso bimotore a due code, goffo e scuro, al punto attesa.

Lo sorvolo, scompare.

Sono decisamente troppo alto.

Raffiche di pioggia, grandine e vento investono il mio aereo.

Ricontrollo carrello e flap: OK, tutto fuori.

Giù, spingo giù, e manette indietro, quasi senza potenza, ma il velivolo è come un barcone in mare: galleggia e non perde quota, nonostante l'assetto appropriato.

L'asfalto scorre veloce, molto sotto di noi: mi sono "mangiato" metà pista, e non riesco a mettere giù le ruote; sono troppo "lungo"; non ce la faccio.

Devo riattaccare!

"Overshoot!" comando. "Tutto motore: riattacchiamo". Il copilota mi scandisce le velocità.

"Su il carrello!"

"Carrello up" risponde.

Il tergicristallo corre avanti e indietro come impazzito; la pista scompare sotto di me, ma mi accorgo che non riesco a guadagnare quota.

"Flaps up, dieci gradi". "Up: dieci".

A tutta potenza con assetto a cabrare,

il velivolo non sale.

Anzi, attraverso gli sfilacci delle nubi bassissime, vedo il terreno avvicinarsi sempre più.

C'è un bosco in ascesa davanti a me: è su una collina, una delle tante tra Malpensa e il Lago Maggiore.

Le cime degli alberi si avvicinano a velocità vertiginosa: vorrei evitarli, ma non ci riesco... non ci riesco!

Com'era facile, sul mio Republic F 84F Thunderstreak, "tirare su" e ritornare per l'atterraggio con uno "stretto": sottovento-base-finale.

No, qui non posso: sono troppo pesante.

Tutta potenza e assetto cabrato non contano più niente.

Sono immerso in una colonna d'aria discendente: è un wind-shear!

La collina si avvicina; gli alberi si avvicinano, sempre più alti; li sto sfiorando...

"Crash landing!" urlo. "Via i motori!" Tiro tutte le T handle, le maniglie a T di emergenza. Automaticamente, le shut-off valve e gli estintori faranno il resto.

Il mio DC 8 si adagia, striscia, spezza, schianta rami e alberi; s'infila nel bosco.

I tronchi spezzati martellano i fianchi del velivolo.

Ne prendiamo uno in pieno, che squarcia la cabina sotto i miei piedi; mi spezza una gamba.

Il dolore è insopportabile.

Il velivolo si è fermato.

Con gli occhi annebbiati dal dolore, vedo alzarsi colonne di vapore e fumo.

Sento urlare; sento le voci degli assistenti di volo, che esortano i passeggeri a uscire con ordine, ma in fretta: "Di qui, di qui! Presto, presto!".

Mi pare di sentire fischiare, da lontano, le sirene di soccorso, mentre qualcuno sta cercando di sollevarmi dal sedile.

Il dolore alla gamba è lancinante. Svengo...

Mi riscuoto dai miei pensieri bui.

Lontano, verso sud-ovest, vedo che il cielo comincia a rischiararsi.

Dopo mezz'ora, tutto è passato.

Veniamo a sapere che passeggeri ed equipaggio del DC 8 sono probabilmente tutti salvi.

Mi sento sollevato, mentre ripeto per l'ennesima volta la procedura di messa in moto del mio vecchio e goffo (e tanto caro) Vagone Volante.

Questa sera ceneremo a casa.

Volare Gennaio 1999

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DIARIO DI UN VIAGGIO A RITROSO NEL TEMPO

 

Sul pullman che da Marmaris mi porta ad Antalya osservo il paesaggio.

Ho voluto questo ritorno in Turchia ed in Anatolia in particolare.

Cinquant'anni fa, esattamente oggi, su questa costa ho vissuto l'avventura di guerra che tanto ha influenzato la mia vita.

Il "Libretto Personale di Volo" ritrovato nel bagaglio fatto pervenire alla mia famiglia, a seguito dell'accaduto in questione, recitava come segue:

"16-6-1943. Partito alle ore 13,00 per una ricognizione strategica offensiva nel Mediterraneo Orientale non faceva ritorno alla base. Alle ore 16,15 comunicava l'attacco della caccia avversaria".

Non ero in turno di volo, quel giorno, e pensavo di dedicarlo al "tutto riposo".

Il Comandante di Gruppo, invece, da poco abilitato sul Cant Z "1007 bis", aveva voluto sostituire, per la missione del giorno, il Comandante di Squadriglia anche lui nuovo assegnato al Reparto.

Il compito di effettuare la su accennata ricognizione con il Comandante di Gruppo veniva, quindi, affidato al subalterno che, in quell'area operativa, aveva al suo attivo una sessantina di missioni di guerra: e, cioè, a me.

 

Volo tranquillo, nessun avvistamento.

Il rientro a Maritza (Rodi) entra nella fase conclusiva.

Si punta verso Capo Kelidonia (Turchia), che s'intravede distintamente, per poi dirigere con 270° in prua verso Rodi. All'improvviso, nel cielo, appare la sagoma di un "Beaufighter".

In pochi attimi tutto è cambiato.

Una brusca affondata mi consente di superare indenne il primo attacco e, raggiunto il pelo dell'acqua, di evitare l'attacco dal basso.

Poi, il velivolo inglese, più veloce e maneggevole, si mette in coda.

Il volume di fuoco del "Beaufighter" è devastante.

Qualche istante ed il motore destro è in fiamme.

Il motorista, Mezzabotta, calmo e preciso spegne l'incendio e, con un lieve cenno della testa, mi fa capire che avevamo un motore in meno su cui contare.

Sul bordo dell'ala serpeggiano leggere lingue di fuoco e del fumo si arriccia in volute piccolissime, ma ben visibili.

Non ci sono alternative: continuare il volo e saltare in aria o cercare di effettuare un ammaraggio e salvare l'equipaggio o chi fosse riuscito a sopravvivere.

Scelsi questa seconda possibilità.

L'ammaraggio, mai provato prima e con un velivolo terrestre, riesce perfettamente.

Sull'acqua, calma e piatta, il velivolo, ora, giace come un grande uccello ferito a morte.

L'aiuto motorista Inneguale, al suo primo volo di guerra, giace anche lui senza vita all'interno della carlinga.

Accertato che i focolai di incendio si sono spenti, i superstiti, distribuitisi sulle ali, osservano l'apparecchio nemico che punta, ancora una volta, su di loro.

Attraverso la calotta si intravede il pilota che calza un caschetto bianco.

Un attimo e poi una mano saluta con un gesto lento, mentre, veloce, il velivolo si allontana verso Cipro.

La voglia di sopravvivere scatta e si cercano il battellino ed il salvagente.

Il battellino è inservibile in quanto forato dai proiettili, mentre mancano due salvagente perduti attraverso lo squarcio creatosi nel "marsupio" al momento dell'ammaraggio.

La situazione non è molto allegra.

Dei superstiti il marconista Trebbi ha una gamba spezzata; lo scrivente piccole ferite in varie parti del corpo e vaste ecchimosi al viso ed alle gambe; l'armiere Fusco ed il Comandante quasi illesi.

Il velivolo incomincia ad affondare ed è urgente andare alla ricerca di aiuti sulla terraferma.

Rinuncio ad indossare il salvagente e per primo raggiungo la costa.

Alta e discoscesa non offre facili appigli per una scalata di chi, a piedi nudi sensibilizzati fino allo spasimo dalla lunga permanenza in mare, vuole avere un'idea del posto di approdo.

Gli sforzi non sono coronati dal successo.

Rocce e spine e nessuno insediamento umano in vista.

Il ritorno sul bagnasciuga è penoso.

Sfiniti dalla lunga nuotata vi giacciono altri due naufraghi.

Gli sguardi sono eloquenti.

Mi sdraio accanto a loro e resto in attesa degli eventi.

Sull'imbrunire alcuni pescatori di Creta che, su una barca, da lontano, avevano assistito al combattimento aereo, ci raggiungono, ci soccorrono e, quindi, ad un paio di chilometri più a nord, ci sbarcano all'astanteria di una miniera di cromo, in località Udbuk, ove, se non ricordo male, i nostri corpi doloranti ricevono le prime cure.

Scomparsi in mare, che ci dicono infestato di pescicani, Mezzabotta e Fusco.

Una profonda tristezza mi pervade.

Sento, di colpo, tutto il peso della tragedia vissuta.

Trasportato, assieme agli altri due superstiti il Comandante e Trebbi, a bordo di una piccola imbarcazione turca, scortata dalla polizia, ad Antalya, una cittadina ad alcune ore di navigazione dalla miniera di cromo, ricoverato al locale ospedale civile, ricevetti le prime appropriate cure mediche ed un letto. E per me, pensai, la guerra era finita.

 

Il Fgt. Serg. A.G. Olley, così si chiama il nemico rintracciato, per via epistolare, tanti anni dopo (1971), mi scriverà di avere pensato a lungo a quegli uomini "standing on the wing of the aircraft in the sea off the Turkish coast".

Il destino, tuttavia, non è stato benevolo con lui.

Da molti anni egli non sta bene e paga il suo tributo di dolore alla guerra, che personalmente non avrebbe voluto, ma che ha combattuto lealmente.

Cavalleria della gente dell'aria.

 

Da ieri sera sono ad Antalya.

Dalla Porta di Adriano, non molto lontano dalla piazza principale, osservo i luoghi dove ho vissuto per quaranta giorni in attesa della definizione del mio "status".

La Turchia per tutta la durata della guerra era rimasta neutrale.

Oggi tutto è cambiato.

Le case, le strade ed anche la gente mi sembrano diverse.

E le cicogne non nidificano più sui tetti come accadeva allora.

Un'infinità di ricordi affollano la mia mente, stringono il mio cuore.

Ricordi vivi, come se da quei giorni non fossero trascorsi cinquanta anni.

E, tra di essi, ecco riapparire ai miei occhi i volti di Inneguale, Mezzabotta e Fusco.

Li rivedo con il loro luminoso sorriso.

Giovani cui un avverso destino ha concesso solo di vivere una breve stagione…

 

Aeronautica dicembre 1993

Edited by Dave97
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Croci rosse, fiaschi e cannonate

Il 25 Novembre 1941, alle ultime luci serali e senza gregari, silurai una navicella ferma fuori del porto di Tobruch.

Era illuminata in modo che io ritenni necessario ad agevolare le sue operazioni di scarico.

Non la colpii, perché forse il siluro si guastò o forse le passò sotto, tanto era piccina.

Fu una fortuna perché, dopo il lancio del siluro, il mio marconista Aldo Becatti si accorse che era una nave ospedale, perché era illuminata e perché le luci stesse gli consentirono di scorgere una croce rossa dipinta su una sua fiancata. Chiesi scusa per radio, in italiano e su una frequenza internazionale, spiegando che non mi ero accorto che era una nave ospedale.

L'episodio è riferito dal Generale Giuseppe Santoro, già Sotto capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica, nel suo libro sulla storia dell'Aeronautica in guerra.

Quella prima croce rossa, apparsa tra le fortuite circostanze del mio racconto, e il fallito siluramento della nave ospedale, mi portarono veramente fortuna, come vedremo.

Ma l'incontro con un'altra nave ospedale, pochi giorni dopo, fu più strettamente connesso col finale del mio racconto.

Un'altra circostanza casuale, più divertente, accadde negli ultimi giorni di novembre, quando un mattino incontrai un Ufficiale della "Luftwaffe" che, insieme ad un interprete, gironzolava incuriosito intorno a un mio aeroplano dotato di siluro.

Mi presentai ed invitai i due a colazione.

Si trattava del Tenente Colonnello Christ, che in quei giorni sostituiva temporaneamente il Comandante della Luftwaffe in Libia, come mi riferì l'interprete Dottor Fuchs, che prima e dopo la guerra diresse a Roma un importante istituto italo-germanico di cultura.

Passando accanto alla baracca della mensa Christ adocchiò un mucchio di fiaschi vuoti e me ne chiese un certo numero, per mettervi dentro del caffè crudo che voleva spedire alla moglie, ed evitare, così, che il caffè ammuffisse.

Aderii di buon grado alla sua richiesta e gli regalai anche una cassa di fiaschi di buon Chianti.

Dopo il brindisi Christ mi domandò come poteva contraccambiare i miei doni ed io gli chiesi il cifrario e la frequenza radio dei suoi ricognitori, in modo da poterne utilizzare tempestivamente i segnali di scoperta di navi.

Christ aderì alla mia richiesta e il giorno dopo mi mandò un Tenente con quanto desideravo. Insomma, col Chianti avevo corrotto, o se volete convinto, un rigido e potente Ufficiale Superiore germanico, che in quei giorni sostituiva nientemeno che il Generale Kesserling . Avvertii subito il Generale Raffaelli della mia iniziativa e misi il bravo marconista Becatti in ascolto sulla frequenza dei ricognitori tedeschi.

Così, il 1° dicembre, verso le undici del mattino, sapemmo dai ricognitori germanici che, poco prima, quattro navi da guerra britanniche erano passate a sole dieci miglia a nord di Derna, con rotta est e a gran velocità.

Bisognava dunque raggiungerle, prima che fossero protette dai caccia.

Solitamente frettoloso e nervoso, quella volta lo divenni come non mai, e concitatamente telefonai al Colonnello Capo di Stato Maggiore del Comando di Settore, per avere subito l'autorizzazione al decollo con due gregari.

Lui mi rispose, con molta flemma, che

il Generale Raffaelli era fuori sede e che era difficile trovarlo telefonicamente, per chiedergli il permesso da me richiesto.

Allora feci finta di non capirlo a causa di un immaginario guasto telefonico, e decollai in fretta e furia con gli indimenticabili gregari Aligi Strani e Pinotto Coci.

Assunta rotta est, sul traverso di Tobruch avvistammo un grosso piroscafo, che con rotta sud andava verso il porto, in pieno giorno, ora insolita per le navi dirette alla piazzaforte assediata. Era un obiettivo facile ed importante, per ostacolare i rifornimenti a Tobruch.

Seguito dai gregari lo puntai, ma poi... vidi una croce rossa dipinta sulla sua fiancata. "Ancora una croce rossa, questa è una persecuzione", pensai. Desistetti dall'attacco, accostai un poco a sinistra, passammo tutti e tre dietro la poppa della nave e proseguimmo verso est.

Poco dopo avvistammo le quattro unità segnalateci dai tedeschi: erano due incrociatori con due cacciatorpediniere ai loro lati, molto accostati tra loro e in linea di fronte, ad alta velocità, come risultava dalle loro scie spumeggianti.

A tutto motore ci avvicinammo alle navi salendo un po' in quota ed entrando e uscendo da un banco di nuvolette esteso alla loro destra.

Arrivato alloro traverso virai a sinistra e picchiai a capofitto per scendere rapidamente alla quota di cento metri, necessaria per il lancio del siluro.

Lo mollai a breve distanza dalla prima unità a destra della formazione, mentre le navi concentravano i loro tiri contro il mio velivolo, che era in testa alla pattuglia.

Subito dopo il lancio effettuai un'elegante virata a destra, in cabrata, ma il velivolo fu subito colpito all'estremità dell'ala destra, poi al carrello che venne fuori dal suo alloggiamento gravemente lesionato (come accertarono i miei specialisti di bordo), infine furono colpiti i serbatoi della benzina, che miracolosamente non si incendiò.

Tuttavia ne perdevo un grosso flusso, nebulizzato in una scia fumosa.

Fino all'atterraggio temetti l'esaurimento del carburante.

Dopo il mio lancio la formazione navale si allargò e si scompigliò, tanto che Strani riuscì a silurare il mio stesso obiettivo sul lato destro e Coci su quello sinistro.

Poi ambedue mitragliarono le altre navi, prima di sorvolarle.

In questi casi alcuni serventi delle mitragliere delle navi scappavano in cerca di riparo e la massa di fuoco diminuiva sensibilmente.

Pertanto anche io, dopo il lancio del siluro, avrei dovuto fare altrettanto, anziché esibirmi in una piroetta, sotto il fuoco nemico.

Dopo essermi tanto celebrato, un po' di autocritica non guasta.

Ma quell'esperienza mi servì in altre occasioni.

Nel parapiglia successivo al mio lancio un solo siluro colpì, a poppa, il cacciatorpediniere "Jackal".

Dio solo sa chi di noi tre lo abbia colpito, perché credo che in quella confusione neanche gli inglesi lo abbiano realizzato.

Mentre ci allontanavamo a tutto motore dalle navi, inseguiti dalle loro cannonate, in coda ai velivoli i nostri equipaggi videro che la nave colpita aveva la prua fuori dall'acqua e così credemmo che stesse affondando. Ma poi, dopo la guerra, si seppe che i suoi locali poppieri allagati furono isolati prontamente e che essa potette tornare ad Alessandria.

Col carrello lesionato ero sicuro di fare un atterraggio pericoloso.

A causa del blocco degli indicatori del livello del carburante non sapevo se avevo la benzina bastante a raggiungere l'aeroporto e una quota sufficiente al lancio in paracadute su di esso. Perciò rinunciai a salire in quota e, come Dio volle, raggiunsi l'aeroporto a bassa quota e a motori ridotti, per economizzare benzina.

Decisi di atterrare lungo il limite nord del campo, per evitare che la carcassa del mio velivolo ostacolasse poi l'atterraggio di altri aeroplani.

Come avevo previsto, appena toccato terra cedette il carrello, già sconquassato dai colpi dei fieri britanni, e il velivolo strusciò la terra con la fusoliera, sobbalzando.

Temevo che una scintilla potesse scoccare per lo sfregamento della fusoliera stessa sul terreno sassoso.

Ad ogni buon conto, per scendere in fretta dal velivolo appena fummo fermi, col carissimo secondo pilota Sergente Gioacchino Arcarisi sganciammo il tettuccio sovrastante i posti di pilotaggio, saltammo sulla ala e poi in terra, dove affondai le gambe fino al polpaccio in un laghetto di benzina, che in caso di scintilla avrebbe prodotto un micidiale falò.

Intanto gli altri quattro dell'equipaggio erano già usciti ruzzolando dalla porta della fusoliera, ancor prima che il velivolo si fermasse.

Per la soddisfazione di essere tornati tutti incolumi, di avere finalmente operato di giorno e di aver preso delle iniziative tanto pericolose quanto fortunate, ringraziai Dio, e tuttora lo ringrazio per avermi concesso di servire per tanti anni la Patria, nella buona e nella avversa sorte.

Quale esempio di buona sorte ricordo la giornata del 1° dicembre 1941 come la più bella nella mia vita di combattente, al tempo ormai lontano della giovinezza.

 

Aeronautica Ottobre 1989

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