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cia voleva x mas per sconfiggere giappone


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Per battere il Giappone, la Cia voleva gli incursori di Taranto.

 

Lo rivela un dossier che è rimasto coperto dal segreto per cinquantasei anni e che ora, desecretato, è stato pubblicato su www.foia.cia.gov, archivio Internet della Cia. Dopo l'armistizio e malgrado il nostro Paese non fosse in guerra con i nipponici, venne richiesto l'impiego operativo di Luigi Durand de la Penne, dei suoi uomini e degli speciali armamenti del gruppo Mezzi d'Assalto

Bari- Dopo l’armistizio e prima di optare per la bomba atomica, l’America individuò nei valorosi incursori di Taranto la «chiave di volta» per la disfatta del Giappone. Malgrado il nostro Paese non fosse in guerra con i nipponici, venne richiesto l’impiego operativo di Luigi Durand de la Penne (eroe nazionale decorato con la medaglia d’oro al valor militare), dei suoi uomini e degli speciali armamenti del gruppo Mezzi d’Assalto.

La notizia è contenuta in un dossier che è rimasto coperto dal segreto per cinquantasei anni e che ora, desecretato, è stato pubblicato su www.foia.cia.gov, archivio Internet della Central Intelligence Agency, cioè la Cia. Vi si legge che «tra il 31 gennaio e il 5 febbraio 1945», presso la Baia di San Vito (Taranto), gli ufficiali Kelly O’Neall e Louis P. Zelenka effettuarono una indagine per conto dei servizi segreti americani (allora si chiamavano Office of Strategic Services, in sigla O.S.S.). Lo scopo era quello di valutare se uomini ed equipaggiamenti dei Mezzi d’Assalto potevano essere di supporto alla Marina statunitense o all’Oss per operazioni da condurre lungo le coste asiatiche. I due ufficiali fecero il loro lavoro con scrupolo e misero nero su bianco che non esistevano uomini più preparati e mezzi più efficaci. Due le possibilità: usare gli italiani come istruttori di unità americane o impiegarli direttamente. Considerando incompatibili con le necessità belliche i tempi lunghi di un addestramento, O’Neall e Zelenka puntarono senza alcun dubbio sulla seconda opzione. Gli italiani, del resto, pare fossero entusiasti all’idea.

L’unico grosso ostacolo era che l’Italia era in guerra con la Germania ma non col Giappone e, quindi, militari italiani non potevano assolutamente prender parte a quel conflitto. Nel dossier della Cia si legge che «il Ministro italiano della Marina (l’ammiraglio Raffaele De Courten; ndr) ha ufficiosamente approvato la cessione temporanea, in blocco o parzialmente, del personale dei Mezzi d’Assalto, a fini di addestramento nell’Estremo Oriente». E così O’Neall e Zelenka «suggeriscono con molta convinzione che vengano condotte trattative tra O.S.S. e Ministero al fine di ottenerne l’impiego operativo». «In effetti il Ministero non sembrava opporre resistenza - dice Marco Amatimaggio, noto pubblicista e storico della Marina Militare (MM) italiana - Quando parliamo di Forze Speciali si entra sempre in un limbo dove sono sfumati i confini tra il non lecito e il lecito». «Non stupisce che gli americani abbiano pensato ai nostri Mezzi d’Assalto - continua l’esperto pugliese - perché le loro gesta alterarono il rapporto di forza tra le Marine in battaglia. Erano riusciti ad affondare navi nemiche, come i britannici “Valiant” e “Queen Elisabeth”, per l’equivalente di 273.000 tonnellate». «Infatti, soltanto quattro mesi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 - dice Amatimaggio - gli uomini dei Mezzi d’Assalto, al comando del capitano di vascello Ernesto Sforza, erano stati già usati per complessive 250 missioni speciali. Nel ‘44, nella base navale di La Spezia, che era in mano tedesca, vi fu la prima azione congiunta con gli inglesi per forzare il porto e affondare in banchina le navi italiane catturate». «Dal rapporto della Cia scoperto dalla “Gazzetta” - afferma lo storico - si evince che gli Alleati avevano grande rispetto per le capacità operative degli italiani ed erano ammirati dagli equipaggiamenti che avevano messo a punto. Come gli Mtm, che erano motoscafini molto veloci condotti da un solo uomo. Questo, quando riusciva a superare le ostruzioni di reti poste a difesa del porto, entrava nella base e si lanciava a gran velocità contro il bersaglio. Giunto a 100 metri, bloccava il timone del motoscafo e si buttava in acqua, così che il mezzo continuasse la sua corsa ed esplodesse, avendo una carica cava. O l’Mtsm, un motoscafo un po’ piu grande con due uomini di equipaggio che imbarcava a poppa un tubo lanciasiluri. Quindi loro entravano in azione a distanza utile dal bersaglio, si giravano, sganciavano il siluro e scappavano». «Più famoso però - precisa Marco Amatimaggio - era il “Maiale” o “siluro lenta corsa”, ovvero un grosso siluro su cui sedevano a cavalcioni due operatori che disponevano di sistemi di comando del mezzo. Di notte, si avvicinavano in emersione alla base, passavano le ostruzioni e si immergevano per compiere, in immersione, l’ultima parte dell’azione. Giunti sotto la nave, sganciavano la parte anteriore del siluro, in cui c’era la carica esplosiva, e l’attaccavano alla carena per poi, dove possibile, allontanarsi». La tradizione di quegli uomini eccezionali è stata ereditata dagli odierni «baschi verdi» del Comando Subacquei ed Incursori - Comsubin.

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