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"Condottieri & Generali": Arthur Wesley duca di Wellington


Ospite galland

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WELLINGTON il rivale di Napoleone

 

Entra diciottenne nell'esercito e ha in India le prime esperienze di comando.

 

Austero e rigido conservatore, riorganizza l'esercito britannico.

 

In sei anni di battaglie distrugge definitivamente le armate di Bonaparte.

 

 

Nella notte che precedette la battaglia di Waterloo - fradicia, nera, grondante di pioggia fredda benché fosse passata la metà di giugno - il vicecomandante delle forze britanniche, Lord Uxbridge, guazzando nel fango, venne a chiedere al suo capo, Wellington, quali piani avesse per il giorno seguente. Il duca replicò con un'altra domanda: « Ma chi attaccherà per primo domani, io o Bonaparte? ». « Bonaparte », rispose Uxbridge. « Ebbene », ribatté Wellington, « Bonaparte non mi ha dato nessuna idea dei suoi progetti; e siccome i miei piani dipenderanno dai suoi, come potete aspettarvi che vi dica quali sono? » Poi, vedendo l'aria mortificata del suo interlocutore, s'alzò e gli pose una mano sulla spalla, non senza gentilezza. « Ma una cosa è certa, Uxbridge: succeda quello che vuole, voi ed io faremo il nostro dovere. »

 

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ARTHUR WESLEY duca di Wellington nel ritratto dipinto da Thomas Lawrence tra il 1824 e il 1825

 

Tutto Wellington è in questo episodio: con il suo realismo e la sua assenza d'immaginazione, con la sua calma di fronte agli eventi decisivi e la fredda, antiretorica determinazione a compiere fino in fondo ciò che considerava il suo dovere. Sono le qualità tipiche degli inglesi che hanno fatto la storia, attraverso i secoli, e sono quelle che hanno contribuito a salvare l'Inghilterra nei momenti di supremo pericolo. Non sono doti pittoresche; e difatti l'uomo che abbatté Napoleone non aveva - al contrario del suo grande rivale - proprio nulla di pittoresco.

 

Apsley House, la sua dimora in Hyde Park Corner, a Londra (dal 1947 proprietà dello Stato), ne presenta un'immagine maestosa e solenne; ma occorre rammentare che il duca vi abitò nell'ultima parte della sua vita, quando era ormai diventato il monumento di se stesso, e che dimore del genere non erano eccezionali per l'aristocrazia inglese del secolo scorso, prima che i governi laburisti e i successivi giri di vite della politica fiscale falcidiassero i patrimoni. Wellington, ad ogni modo - e questo restituisce al personaggio una dimensione umana - quando l'architetto gli presentò il conto per i lavori d'ingrandimento e di restauro da lui stesso ordinati, e la cifra, come succede, su però di molto il preventivo, prese un'arrabbiatura memorabile: gli amici non l'avevano mai visto « così infastidito e furioso ».

 

Col tempo, le furie passarono e la casa rimase; oggi è un museo, ma senza averne la freddezza impersonale, perché dovunque la presenza del vecchio Duca di Ferro è avvertibile: nelle uniformi (alto sì, in confronto a Napoleone, ma non poi troppo, circa 1 metro e 75); nelle decorazioni, piovute qui da tutta Europa, nelle armi, nei dipinti che illustrano le sue gesta, con una inevitabile aria celebrativa. Gli altri quadri, quelli non celebrativi, furono acquistati o ricevuti in dono dal Duca, e il contingente più notevole risale alla guerra da lui condotta contro i francesi nella penisola iberica. Ma non si tratta di bottino. È una storia che vale la pena di narrare, perché anch'essa dipinge bene il personaggio.

 

Nel 1813, dopo la battaglia di Vitoria, che si risolse in un disastro per i napoleonici, Giuseppe Bonaparte, il re-fantoccio collocato dal fratello sul trono di Spagna, si diede alla fuga, ma la sua carrozza fu bloccata da uno squadrone di ussari, ed egli riuscì a stento a scampare alla cattura. Nel veicolo furono trovati ammucchiati non meno di 165 dipinti provenienti dalle collezioni reali spagnole. Sua Maestà Giuseppe, anticipando i metodi del maresciallo Goering, aveva fatto man bassa sui tesori d'arte del Paese, arrivando a tagliare le tele perché uscissero più presto dalle cornici, ed eliminando tutti i sostegni per stirparne il maggior numero possibile nella carrozza.

 

Wellington fece restaurare i dipinti, e poi informò il legittimo re di Spagna, Ferdinando VII di Barbone (restaurato anche lui) della sua intenzione di restituirli; ma il sovrano lo pregò di tenerseli, come testimonianza della sua gratitudine. Così la collezione rimase ad Apsley House. Il « pezzo » favorito di Wellington era un dipinto italiano: « L'Agonia di Gesù nell'Orto » del Correggio. Si dice che soleva spolverarlo personalmente, servendosi d'un fazzoletto di seta.

 

Ma chi era dunque, nella realtà, quest'uomo che entrò nella storia come il Duca di Ferro e il vincitore di Napoleone? I suoi soldati gli dettero un nomignolo molto meno pomposo: Nosey, che si può tradurre « il nasuto » : i suoi ritratti mostrano infatti un fiero profilo aquilino. Sua madre, che non doveva fare spreco di tenerezze, lo definì un giorno in modo ancora più drastico: « carne da cannone ». Era il sestogenito d'una vasta famiglia di nobili inglesi, stabiliti da generazioni in Irlanda: i Wesley, che più tardi modificarono il nome riportandolo all'originaria forma medioevale di Wellesley.

 

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APSLEY HOUSE progettata da Robert Adam per il barone di Apsley e ceduta nel 1817 a Wellington dal fratello, che l'aveva acquistata nel 1805. È stata aperta al pubblico nel 1952. ABITO da cerimonia dell'Ordine della Giarrettiera. Il collare, donato al duca da Giorgio IV, fu usato da Winston Churchill nel 1953, per l'incoronazione della regina Elisabetta. LA PORTICO Room. VESTIBOLO e scalinata di Apsley House, con la statua del Bonaparte scolpita dal Canova.

 

 

Il futuro duca nacque a Dublino, il 10 maggio 1769. Tre mesi e mezzo più tardi, in un'altra capitale isolana, doveva venire al mondo il suo grande avversario, Napoleone. Lo battezzarono Arthur, come il nonno materno e come un fratellino che era morto in fasce; crebbe piuttosto brutto (sempre a detta della madre, decisamente pessimista sul suo conto), di salute gracile, pigro negli studi e del tutto eclissato dai fratelli maggiori.

 

 

Orfano di padre a 12 anni

 

La famiglia cominciò a preoccuparsi per il suo avvenire quando, terminati i corsi elementari, fu iscritto al famoso collegio inglese di Eton, e qui si vide che il giovane Arthur, sebbene notevolmente dotato per la matematica e per la musica, in fatto di lingue classiche non aveva la minima attitudine. Questo provocò un certo allarme: non solo perché il collegio costava caro e i risultati non compensavano le spese, ma soprattutto perché il latino e il greco erano considerati la chiave di volta della carriera ecclesiastica, rifugio naturale dei cadetti di famiglia. Rimaneva un'alternativa: l'esercito.

 

La professione delle armi era fortemente scaduta di prestigio nell'Inghilterra del XVIII secolo, e certo non reggeva il confronto con il « cursus honorum » della Chiesa anglicana; ma insomma era sempre considerata una attività degna d'un gentiluomo. La madre autoritaria (poiché il padre era nel frattempo venuto a mancare, quando Arthur non aveva che 12 anni) decise di ritirare il ragazzo da Eton, dopo un triennio di studi inconcludenti; fece proseguire la sua educazione privatamente, a mezzo d'un precettore, e appena possibile lo iscrisse alla scuola militare di Angers, in Francia.

 

Questa scelta oggi apparirebbe sorprendente; ma nel Settecento era senz'altro molto oculata. I francesi godevano d'una solida riputazione in campo militare, fondata su gloriose tradizioni; mentre in Inghilterra esisteva soltanto l'Accademia di Woolwich, per formare ufficiali del genio e dell'artiglieria. I brevetti d'ufficiale, tutti riservati a giovani della nobiltà e dell'alta borghesia, 'si compravano per moneta sonante o si sollecitavano a mezzo di raccomandazioni.

 

Quando Arthur Wesley rientrò in patria dopo un soggiorno di circa due anni ad Angers, il primo dei suoi fratelli, Richard, succeduto al padre nel titolo di conte di Mornington, scrisse al Lord Luogotenente d'Irlanda: « C'è un mio fratello minore, che voi siete stato così gentile da prendere in considerazione per un brevetto di ufficiale nell'esercito. In questo momento si trova qui, in completo ozio. Per me è una questione del tutto indifferente quale brevetto ottenga, purché lo ottenga presto ». La sperata « commissione » non si fece attendere: il 7 marzo 1787 il cadetto Arthur Wesley fu nominato alfiere nel 730 Reggimento di Fanteria. Non aveva ancora diciotto anni; e persino sua madre dovette ammettere che, rivestito della giubba rossa dell'esercito di Sua Maestà Giorgio ÍII, faceva un'ottima figura.

 

Ebbe inizio così, per lui, la routine delle guarnigioni e degli scatti di grado, quasi tutti motivati, inutile dirlo, dai suoi appoggi nelle alte sfere. In altre parole il giovane Wesley era un raccomandato di ferro, prima di diventare un Duca di Ferro. Tuttavia la sua innata serietà gli impediva di conformarsi al solito modello degli ufficialetti dell'epoca « troppo preoccupati della moda - come scrisse lo storico George M. Trevelyan - o troppo ubriachi per attendere ai loro doveri ». Wellington disse di sé più tardi: « Non ero così giovane da non rendermi conto che, visto che avevo iniziato una professione, avrei fatto bene a cercare di comprenderla ».

 

A 19 anni era sottotenente, a 22 capitano - in diversi reggimenti, ora a piedi ed ora a cavallo, il che gli procurò un'esperienza preziosa -; infine, nell'aprile 1793, mentre divampava in Francia la Rivoluzione, ottenne il brevetto di maggiore nel 33° Fanteria, quello che ancor oggi è detto « il Reggimento del Duca di Wellington »; e nel settembre dello stesso anno ne divenne tenente-colonnello. Tutti questi avanzamenti portavano con un certo lustro, ma le prospettive ,finanziarie erano modeste. Per tenere il passo con la gioventù alla moda, l'ufficialetto cominciò per tempo a fare dei debiti: un ricordo che più tardi, in vecchiaia, l'avrebbe messo a disagio.

 

Quanto precaria fosse in realtà la sua situazione, si vide quando Wesley, dopo vari vagabondaggi sentimentali, pensò seriamente a sposarsi. Era allora capitano, e s'innamorò della sorella di Lord Longford, che aveva grosse proprietà terriere in Irlanda. Il nome di lei era Catherine Pakenham; in casa la chiamavano Kitty; aveva lineamenti delicati e grandi occhi chiari. Nobiltà, distinzione, parentele non potevano essere meglio armonizzate; ma purtroppo il capitano non possedeva che la sua paga e un certo numero di debiti; e il Lord latifondista non era affatto disposto a largire una dote che traesse la giovane coppia dagli impicci.

 

I due innamorati si giurarono fedeltà, sperando nel futuro per appianare gli ostacoli e ammansire i parenti. Da quel momento in poi, Arthur s'immerse, anima e corpo, nella sua professione. Non mirava alla conquista del potere o della gloria (che già ossessionavano, in Francia, l'anima d'un altro ufficiale, Bonaparte) ma semplicemente ad assicurarsi quella « rispettabile agiatezza » che doveva consentirgli di sposare Kitty Pakenham. Fu in quest'epoca che rinunciò al gioco delle carte e persino al suo prediletto svago, la musica, - bruciando il violino che suonava così bene - per non sottrarre tempo prezioso allo studio delle discipline militari e tattiche.

 

Nel frattempo era scoppiato il conflitto tra la Francia rivoluzionaria e la coalizione europea, che doveva trascinarsi, con pause illusorie, per oltre vent'anni, e che proprio quell'oscuro ufficialetto, Arthur Wesley, doveva condurre alla soluzione finale. Quasi simbolicamente, il suo battesimo del fuoco ebbe luogo nello stesso paese che avrebbe visto un giorno il suo massimo trionfo: il Belgio.

 

Ci sono nella vita di ogni uomo curiosi ritorni di luoghi e di date. Il. mese in cui sbarcò nel continente era giugno: lo stesso mese di Waterloo, a 21 anni di distanza. A Boxtel, vicino a Bosco Ducale, si distinse per la prima volta sul campo, bloccando un contingente francese che stava per ricacciare gli alleati. Seguitò a combattere negli oscuri mesi che seguirono, di ritirata in ritirata fino alla foce del Weser, base d'imbarco per l'esercito stremato. Quella campagna nei Paesi Bassi era stata un cumulo d'errori e un tragico sciupio di vite umane. Tuttavia gli fu utile. « Ho imparato di più », soleva dire più tardi, « vedendo i nostri sbagli e i difetti del nostro sistema militare nella campagna d'Olanda che in qualsiasi altro luogo. »

 

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WATERLOO. La casa dove Wellington passò la notte precedente la battaglia.

 

 

L'anno seguente il suo reggimento fu spedito in India. Con pochissimo entusiasmo (poiché aveva sperato, e brigato, per ottenere cariche politiche in Irlanda, in vista della sospirata sistemazione) Arthur dovette adattarsi a far vela per Calcutta; ma le prospettive migliorarono alquanto alla notizia che suo fratello Richard era stato nominato Governatore Generale del paese. Questo intraprendente capo della famiglia era, inoltre, cresciuto di grado: da Lord Mornington, era divenuto il marchese di Wellesley. A partire da quell'epoca, anche Arthur modificò il suo nome secondo questa grafia.

 

I fratelli Wellesley (come i fratelli Bonaparte) si aiutavano fra loro. Il giovane colonnello divenne una specie di consigliere per il. governatore. Doveva rimanere in India quasi dieci anni, dal 1796 al 1805, mentre l'orizzonte europeo s'incendiava dei riflessi della meteora napoleonica. Il soggiorno indiano fu di una decisiva importanza per Arthur: un vero e proprio corso d'addestramento, sia in campo militare come in campo amministrativo. Si batté contro il leggendario Tippu Sahib, divenne governatore di Seringapatam e poi amministratore dello stato di Mysore, alla. cui invasione aveva preso parte; disfece e ricacciò il filibustiere Dhundiah, che aveva assalito il suo territorio; ebbe la sospirata nomina a maggior-generale; tornò a battersi in una sanguinosa campagna contro le tribù ribelli dei Maharatti e inflisse loro delle pesanti sconfitte ad Assaye, Argaum e Gawilghur, negoziando poi personalmente i trattati che posero fine alla campagna.

 

Piacerebbe pensare che durante queste imprese dall'aria vagamente salga-nana l'intrepido comandante fosse confortato dalle lettere e dal ricordo della sua fedele Kitty. In realtà (come ella rivelò candidamente più tardi alla regina d'Inghilterra) non si scrissero neppure una volta, ed Arthur negoziatore subordinato agli ordini dei miei superiori ».

 

 

Le sconfitte di Napoleone cominciano in Portogallo

 

Ma intanto il comando del corpo di spedizione in Portogallo passò a John Moore, che lo tenne energicamente per pochi mesi, finché trovò una gloriosa morte nella battaglia di Corufia. Wellesley, che si era ritirato in Irlanda, fu reintegrato nel comando. La cabala organizzata contro di lui aveva perso terreno. Egli s'imbarcò dunque, nuovamente, alla volta del Portogallo; e poco mancò che non lo raggiungesse mai, perché la nave che lo trasportava andò a un pelo dal naufragare. Nel colmo della tempesta uno dei suoi aiutanti, sconvolto, si precipitò da lui ad annunciare che tutto era perduto. « In tal caso », ribatté sir Arthur che stava per coricarsi, « non c'è bisogno che mi tolga gli stivali. » Contro ogni aspettativa, la nave rimase a galla, e il 22 aprile 1809 entrò nella baia di Lisbona.

 

Cominciava ora la .grande stagione di Wellesley. I suoi primi successi furono il passaggio del Duero e la disfatta dell'armata di Soult a Oporto. Varcò quindi il confine spagnolo e con l'aiuto dei patrioti locali, ribelli a Bonaparte, batté nuovamente i francesi a Talavera. Queste vittorie fecero di lui un Pari del regno con i titoli di Barone Douro di Wellesley (Douro è il nome portoghese del fiume Duero) e Visconte Wellington di Talavera.

 

A fronteggiarlo fu mandato uno dei migliori generali di Napoleone, Massena, alla testa, di nuove forze francesi. Wellington fu respinto dietro le linee trincerate di Torres Vedras, fuori Lisbona, dopo aver disfatto Massena alla battaglia di Bussaco. Massena, a corto di rifornimenti, e trovando le linee troppo forti per un attacco, dovette a sua volta ripiegare, tallonato da Wellington. Vi furono scontri a Pombal, Redinha, Cazal Nova, Foz d'Arouce e Sabugal: quest'ultimo segnò la fine dell'invasione francese del Portogallo, e l'inizio della ritirata delle loro truppe su Salamanca.

 

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UNIFORME da maresciallo generale dell'esercito portoghese e da colonnello delle Grenadier Guards. CANNOCCHIALI e spade sopra il Mule Box, sorta di scrittoio trasportato a dorso di mulo (da cui il nome), su cui il condottiero stilava ordini e dispacci indirizzati ai suoi ufficiali.

 

 

Wellington, ormai assurto al rango di eroe nazionale, si preparava ora a scacciare il nemico dall'intera penisola. Ci riuscì, ma a prezzo di tre altri durissimi anni di lotta. Non è tanto importante seguirne le varie fasi tappa per tappa, quanto piuttosto soffermarsi a considerare lo strumento di cui egli si servì per costruire tenacemente e inflessibilmente la vittoria finale: l'esercito inglese. Infatti il mas-imo merito di Wellington non consistette nell'abbattere Napoleone, ma nell'essere riuscito a farlo con le truppe che si trovava a condurre e che trasformò da una disordinata accozzaglia di falliti e di semi-briganti in un'armata efficiente, disciplinata ed orgogliosa.

 

All'inizio delle guerre napoleoniche, lo stato dell'esercito britannico era deplorevole. In proposito G. M. Trevelyan, autore di una famosa « Storia sociale d'Inghilterra » dice: « L'esercito di Wellington non era la nazione in armi, come lo era invece l'esercito di coscritti francesi contro il quale si batteva. Consisteva di aristocratici al comando di soldati estratti dai ranghi più bassi della società... Le principali cause d'arruolamento erano l'ubriachezza, la disoccupazione, o il trovarsi nei guai a motivo di qualche donna o della legge. La dura disciplina della frusta, considerata necessaria per tenere in rispetto simili individui, scoraggiava i membri più onesti della società dall'entrare nell'esercito. Nei primi anni della guerra peninsulare, i soldati inglesi si davano al saccheggio nonostante tutti gli sforzi di Wellington, benché mai così sfrontatamente come i francesi, che Napoleone stesso incoraggiava a vivere a spese delle regioni conquistate ».

 

Wellington non trovò mai nulla da eccepire sull'uso della frusta, e si servì a volte, parlando dei suoi soldati, di espressioni estremamente dure, quali « feccia » e « schiuma della terra » (che del resto rispondevano alla realtà). Ma dopo anni di sforzi poté osservare orgogliosamente, lui così parco di lodi: « L veramente magnifico che siamo riusciti a fare di loro i bravi ragazzi (fine fellows) che ora sono».

 

Fu alla testa di questi fine fellows che egli effettuò contro i marescialli napoleonici - Massena, Marmont, Soult - e in condizioni di costante inferiorità numerica, la lunga, aspra e faticosa avanzata che doveva condurre alla liberazione della penisola iberica. Per giungere a questo, Wellesley dovette modificare profondamente non solo la disciplina e l'addestramento dei soldati, ma la stessa tradizionale organizzazione dell'esercito. Dice il più celebre soldato inglese vivente, il maresciallo Montgomery: « Prima della guerra peninsulare l'unità fondamentale dell'armata inglese era stata normalmente la Brigata o il Reggimento. Ma Wellington stabilì il sistema divisionale. La Divisione era una formazione completa d'ogni tipo di armi e di servizi, autosufficiente e distacca-bile, se necessario, dal grosso delle truppe, capace di estese manovre. Per aumentare le sue forze nella penisola, Wellington incorporò reparti portoghesi nelle Divisioni, solitamente in ragione di una Brigata portoghese, che includeva alcuni ufficiali britannici, per ogni due Brigate inglesi. Occasionalmente costituiva dei Corpi d'armata, ma questo era eccezionale: l'unità fondamentale rimaneva la Divisione ».

 

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LA TOMBA del cavallo prediletto da Wellington, Copenhagen, nel giardino di Stratfield Saye.

 

 

Grande cura era dedicata anche all'intelligence work, ossia alla rete d'informatori operante al di là delle linee nemiche. Wellington ebbe a dire più tardi che molta parte dei suoi successi era dipesa dallo studio di quanto avveniva « dall'altro lato del colle ». Finanze, trasporti e rifornimenti dipendevano da un abilissimo commissario-generale, di nome Kennedy: grazie a lui, i soldati non rimasero mai senza adeguate scorte di cibo, vestiario, coperte, tende, stivali: la paga arrivava regolarmente. A parte alcuni episodi iniziali di saccheggio, di cui si è detto, gli uomini di Wellington pagavano i prodotti requisiti, a differenza dai francesi: questa era una norma intelligente, perché evitava il crearsi di pericolosi rancori nella popolazione locale e l'incoraggiava a fraternizzare con le truppe.

 

Benché lenta e logorante, diversa da una guerra-lampo quant'è possibile esserlo, la campagna peninsulare fu costellata di brillanti vittorie, che riportarono in Inghilterra un'atmosfera d'entusiasmo quale non s'era più avuta dal tempo dei successi navali di Nelson, caduto a Trafalgar nel 1805.

 

Le vetture postali che recavano le notizie dell'avanzata entravano nei paesi inghirlandate d'alloro e adorne di bandiere. Ad ogni nuova vittoria, nuovi onori piovevano sul comandante: dopo Ciudad Rodrigo, divenne conte nella sua patria e duca in Spagna; dopo l'entrata in Madrid fu elevato al titolo di marchese ed ebbe dal Parlamento un omaggio di centomila sterline-oro: omaggio che fu portato a 400.000 quando rientrò dalla vittoriosa campagna di Francia del 1814, quella che portò alla prima abdicazione di Napoleone. Nella medesima occasione fu creato marchese Douro e duca di Wellington. Ne aveva fatta della strada da quando, oscuro capitano dei dragoni, si era visto rifiutare la mano della ragazza che amava per mancanza di una, « rispettabile agiatezza ».

 

Nella illusoria tregua che seguì la partenza di Napoleone per l'Elba, Wellington fu nominato ambasciatore in Francia, e poi destinato a prendere il posto di Lord Castlereagh al congresso di Vienna, che doveva restaurare la vecchia Europa legittimista. Ma i lavori del Congresso furono interrotti dalla notizia della fuga di Bonaparte e del suo sbarco ad Antibes. Il 28 marzo, il duca assumeva il comando supremo delle forze congiunte di Gran Bretagna, dei Paesi Bassi e dell'Hannover, con base a Bruxelles: all'inizio di giugno, insieme con i prussiani del vecchio generale Blucher, teneva un fronte di novanta miglia, immediatamente al di qua del confine belga.

 

L'intenzione di Napoleone era d'incunearsi tra Wellington e Blucher e batterli separatamente, prima che le truppe degli alleati austro-russi potessero giungere in loro soccorso. La Grande Armata attaccò il 16 giugno i prussiani a Ligny, vittoriosamente; ma il ritardo di Ney nell'attaccare la posizione di Quatre-Bras, tenuta da Wellington, sulla rotabile di Bruxelles, permise al duca di ripiegare con le sue forze su Waterloo, per consentire a Blucher di ricongiungersi più facilmente con lui. E nella « tetra pianura » di Waterloo, battuta dalla pioggia, ebbe luogo lo scontro che doveva decidere per un secolo le sorti d'Europa.

 

Volumi interi sono stati scritti su questa battaglia. I più loquaci, nelle loro memorie, furono i vinti, come spesso accade. Durante gran parte dell'Ottocento la propaganda napoleonica si accanì a sminuire i meriti di Wellington, arrivando ad accreditare la leggenda secondo cui la battaglia sarebbe stata non già vinta dal duca, ma persa dall'Imperatore. In altre parole, Wellington avrebbe saputo semplicemente trarre partito da una serie di fortunate circostanze, che scompigliarono i piani dell'avversario.

 

La critica moderna ha fatto giustizia d'una simile interpretazione, come pure dell'eccessivo peso attribuito all'intervento di Blucher, che fu decisivo solo agli effetti di trasformare la disfatta dei francesi in vera e propria rotta. Wellington fu presente sul campo sino alla fine, in sella al suo prediletto cavallo, che portava il curioso nome di Copenaghen. Vari suoi subordinati caddero uccisi o feriti a due passi da lui; tra questi, Lord Uxbridge, il suo vice, che ebbe fratturato un ginocchio.

 

Il duca rimase incolume. Quando gli presentarono l'elenco degli ufficiali caduti, pianse, e non riuscì a riprendere sonno per quella notte, benché fosse rimasto in sella per quasi diciotto ore. Fu udito mormorare: « Non c'è nulla di così malinconico come una battaglia vinta, se non una battaglia perduta ». Ma le sue concessioni al sentimento si fermarono qui: odiava ogni effusione. L'indomani mattina dettò il suo comunicato da Waterloo in uno stile così arido e secco che all'arrivo del documento " a Londra il rappresentante degli Stati Uniti si domandò, perplesso, se si trattava proprio d'una vittoria, oppure no. Gli risposero i clamori delle folle di Londra.

 

Dopo avere partecipato ai negoziati di pace e aver comandato per tre anni le truppe d'occupazione in. Francia, il duca rientrò nella vita politica, a cui aveva preso parte saltuariamente negli intervalli della sua carriera militare. Questo non significa che fosse dotato per le arti di governo. Solo molto di rado i buoni generali risultano buoni politici: esempi di tutti i tempi lo provano. Wellington non fece eccezione alla regola. Era fin dalla sua giovinezza un tory, ossia un conservatore; e rimase tale nella maniera più miope.

 

Negli anni di profonda irrequietudine sociale che seguirono la fine delle guerre napoleoniche, il duca non comprese nulla delle aspirazioni delle classi lavoratrici: vide soltanto lo spettro del giacobinismo. Il suo ideale, disse Maurois, sarebbe stato di non cambiar mai nulla nell'assetto del Paese, anche quando il cambiamento significava l'introduzione di riforme improrogabili e da troppo tempo rimandate, quali l'emancipazione dei cattolici o l'allargamento del suffragio elettorale.

 

Forse era vissuto troppo a lungo lontano dalla patria, sui campi di guerra. Ma siccome, per l'appunto, era un cattivo politico e perdeva regolarmente le sue battaglie parlamentari, questa imperizia tornò a vantaggio degli avversari - gli odiati whig o liberali - e le riforme si fecero ugualmente, a suo dispetto.

 

 

La regina Vittoria ascolta i suoi consigli

 

La popolarità del duca, così vasta dopo Waterloo, ci scapitò di parecchio. I livelli più bassi furono raggiunti durante il triennio in cui fu capo del governo - dal gennaio 1828 al novembre 1830 - e nel periodo che seguì la caduta del suo ministero, quando egli si oppose con tutte le sue forze all'approvazione della legge per la riforma parlamentare. Un quadro famoso lo ritrae nell'atto di volgere sdegnosamente le spalle alla Camera dei Comuni riformata. Ma molto più istruttive furono le scene che ebbero luogo davanti a casa sua: per ben due volte la folla inferocita si radunò rumoreggiando intorno ad Apsley House, e i vetri delle finestre furono infranti dalle sassate. La reazione del duca fu caratteristica: fece mettere alle imposte un'armatura di ferro; e una rivista umoristica lo soprannominò « il duca di ferro-battuto ».

 

Con la vecchiaia, e con l'allentarsi della sua presa sugli affari politici, la popolarità ritornò. Si citavano i suoi detti, veri o inventati; la sua generosità verso i mendicanti (ce n'erano a volte delle bande, accampate alle soglie della sua dimora); si copiavano all'infinito le mode lanciate da lui, gli abiti e gli stivali che gli piaceva inventare. Faceva testo il suo atteggiamento nei riguardi del progresso tecnico: fu - ampiamente reclamizzato il fatto che era stato uno dei primi ad adottare un rasoio di sicurezza e ad installare in casa un sistema di caloriferi; ma si sapeva, per contro, che nei riguardi delle ferrovie la sua diffidenza era ostinata: preferiva le carrozze o i calessi, di cui era egli stesso uno spericolatissimo guidatore. I treni gli apparivano pericolosi, oltre che per l'incolumità dei viaggiatori, per la virtù delle viaggiatrici: nessuna signora, a suo giudizio, avrebbe dovuto arrischiarvisi « se non accompagnata da un gentiluomo ».

 

Quando sul trono britannico salì la giovane regina Vittoria, il duca divenne una specie di consigliere e padre confessore della famiglia reale. I diari di lei sono pieni di riferimenti ammirativi e devoti al gran vecchio, una delle « figure paterne » di cui Vittoria, orfana all'età di pochi mesi, doveva subire l'influsso per tutta la vita. Il principe consorte, Alberto, condivideva la medesima infatuazione. Consultavano Wellington in tutte le crisi della loro vita: domestica o pubblica. Con l'età, era diventato molto sordo, e non era semplice fargli capire la portata di ogni questione: cionondimeno, i suoi responsi venivano accolti come quelli d'un oracolo.

 

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IL CARRO funebre, nella cripta di San Paul. Alle esequie, svoltesi a Londra il 18 novembre 1852, fecero ala 20.000 personalità ed un milione e mezzo di inglesi. LA MASCHERA mortuaria, da un calco effettuato da R. Adam. LA TOMBA, in St. Paul, massiccia struttura di porfido e granito disegnata da F.C. Penrose.

 

 

Quando mori, molto quietamente, senza malattia di sorta, al castello di Walmer nel Kent, il 14 settembre 1852 (aveva ottantatre anni), la regina pianse. Il principe Alberto insistette perché avesse « un funerale araldico »: l'ultimo che fu celebrato in Inghilterra. Lo stesso Alberto esaminò i vari progetti presentati per il carro funebre e finì con l'approvare un monumentale baraccone, a sei ruote, lungo sette metri ed alto quasi altrettanto, con lo stemma del duca, e una profusione di elmi, lance, corazze, scudi, intercalati a ghirlande d'alloro con i nomi delle vittorie.

 

Dodici anni prima, Napoleone era stato riportato da Sant'Elena agl'Invalidi con una messinscena di altrettanto cattivo gusto. L'epoca era propizia a questo genere di parate. Così i due grandi avversari di Waterloo, oltre all'anno di nascita, all'origine isolana e alla squattrinata giovinezza, ebbero quest'altro punto in comune: un orribile funerale.

 

 

"Ho passato tutta la mia vita a cercare d'indovinare cosa ci fosse dall'altra parte della collina."

Arthur Wesley duca di Wellington

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