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Francesco De Pinedo in volo attraverso i continenti


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Le grandi crociere aeree, individuali e collettive che segnarono la storia dell'aviazione italiana tra gli anni 20 e 30 hanno non solo un valore per i primati conseguiti ma anche un profondo significato politico e sociale: italiani attraversavano con mezzi che all'epoca rappresentavano prodigi di modernità gli oceani compiendo imprese sino allora ritenute impensabili. Riscattavano milioni di connazionali che lasciata per miseria la loro terra natale avevano raggiunto lontani lidi , sovente trattati con aperta diffidenza e albagia. Per questo i loro conterranei li accoglievano come eroi e li osannavano.

 

A coloro che attraversano gli oceani da prodi, a coloro che migrano o tornano alle loro case dopo un lungo esilio, all'umanità in cammino dedico questo topic.

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pinedooo0.jpgCOSTEGGIANDO IL BRASILE

 

La nostra sosta, nella prima tappa americana, fu solo di poche ore, che passarono rapidamente tra le visite ufficiali ed un banchetto. Avrei potuto recarmi direttamente da Noronha a Pernambuco, ma la fermata a Natal si rese necessaria perché vi avevo preventivamente dislocate delle casse di materiali, alcuni dei quali da tenersi normalmente a bordo e che avevo sbarcati a Porto Praia, per alleggerire l'apparecchio.

 

Zacchetti, con grandissima gioia, poté imbarcare nuovamente i suoi ferri, che aveva a malincuore lasciati nelle isole Capo Verde, le cappe del motore e dell'apparecchio, nonché tutte le altre sue piccole scorte di bordo.

 

Faceva discretamente caldo e fui ben felice di potere, finalmente, cambiare alcuni capi di biancheria con altri racimolati sul posto ed indossare un abito di tela bianca, che apparteneva al Console italiano di Pernambuco, il quale era venuto espressamente a Porto Natal per salutarmi. La sua corporatura però era notevolmente più rotondeggiante della mia, per cui occorse un gran lavorio di spilli, per acconciarmi indosso i suoi indumenti.

 

Il Governatore dello Stato di Rio Grande do Northe fu estremamente affabile.

 

A Porto Natal c'erano pochi emigrati italiani, dal cuore, però, ardente di patriottismo. Essi vennero a salutarmi prima che io mi imbarcassi per tornare a bordo e mi dissero:

 

— Noi siamo dei poveri emigrati, ma vi vogliamo dire tutta la nostra gioia per l'onore che avete fatto alla nostra terra, che noi qui rappresentiamo. -

 

Nel pomeriggio mi recai a bordo e condussi meco anche il Console italiano. La navigazione fu ottima, il tempo buono, il vento spirava da Est—Nord Est.

 

Quale piacevole sensazione, dopo tanta solitudine sull'Oceano, navigare finalmente in vista di terra, lungo una costa che appariva ricca di rifugi, insenature ed estuari, ottimi per una eventuale discesa!

 

Il Console era alle sue prime armi di volatore. Non so perché, volle levarsi il colletto e la cravatta, forse per essere più libero nei movimenti: in principio non si muoveva dal posto assegnatogli, che era il boccaporto sull'ala, dove di solito si facevano le osservazioni astronomiche. Poi cominciò a prendere un po' di confidenza con l'apparecchio e chiese di fare un giro per l'interno ma, inesperto com'era, cominciò a poggiare i piedi sui rubinetti e sulle tubazioni, con grande scandalo di Zacchetti.

 

Fummo ben presto in vista di Pernambuco, la Venezia brasiliana. Quante Venezie non vi sono nel mondo? Basta qualche canale e qualche ponticello, perché subito una città venga rassomigliata alla regina dell'Adriatico! Ma, a parte ciò, Pernambuco si presentava, dall'alto, graziosa e ridente e ci piacque subito.

 

Era il più grande centro Che incontravamo, dopo la nostra traversata.

 

Era già stato fissato il posto dove avrei dovuto planare: vi erano pronte alcune imbarcazioni, ed era stata anche preparata una boa con bandiera. Sennonché la zona prescelta non mi persuadeva, perché trovavasi all'imboccatura del porto ed era quindi aperta al mare; discesi quindi in altro posto più riparato, di dove fui poi rimorchiato ed ormeggiato ad una boa, generalmente riservata ai bastimenti. Il Console, nell'ultima fase del volo, perse il colletto e la cravatta e quindi sbarcò, con me, in un abbigliamento poco in armonia con le visite che dovemmo fare appena a terra.

 

I giornalisti mi assediarono, così pure i fotografi; la popolazione ci accolse simpaticamente, con grida di evviva. Dai giornalisti mi liberai molto presto, poiché li ricevetti all'albergo per soli cinque minuti, mentre cambiavo l'abito. Strano! Quei soli cinque minuti di intervista bastarono loro per scrivere delle intere colonne: vorrei avere, anch'io, la loro fantasia!

 

Il venerdì 25 si annunciò con pioggia dirotta.

 

Portai l'apparecchio, flottando, fino al punto conveniente per la partenza. Ma qui, disgraziatamente, mentre si manovrava l' ancora, cadde in acqua il portello di un boccaporto. Dopo aver perduto un discreto tempo per ricuperarlo, vi si dovette rinunziare. Si adattò, sullo scafo, un portello di legno che Zacchetti accomodò ben presto, valendosi degli utensili e della scorta di legno compensato, che aveva a bordo:

 

– Vede che ho ragione di portare tutto quello che può occorrere?! – mi disse con aria trionfante: ed in quel momento non c'era alcunché da obiettare. risucchi e bisognava passare per uno stretto corridoio tra due file di piroscafi. Ma riuscì bene lo stesso.

 

Il tempo divenne ottimo.

 

La costa tra Pernambuco e Bahia é molto ricca di insenature e di estauri, che rendono molto facile e sicura la navigazione con gli idrovolanti, la quale, certo, sarebbe molto conveniente nel Brasile dove, come si sa, le linee di comunicazione terrestri o non esistono o sono difficili e precarie.

 

Bahia, vista dall'alto, aveva un aspetto assai grazioso e ridente. Un bel porto, molto riparato.

 

L'ormeggio dell'apparecchio, però, portò via molto tempo, perché il posto che mi avevano assegnato non era molto adatto e dovetti quindi far spostare la boa preparatami, smovendo alcune imbarcazioni che erano alla fonda nel porto e che potevano inceppare il giro dell'apparecchio.

 

La manovra non fu molto agevole, poiché il motoscafo che ci rimorchiava, pieno di ammiratori ed entusiasti, non faceva menomamente attenzione ai nostri gesti ed alle nostre grida.

 

Dopo essermi sgolato per un pezzo ed essermi sbracciato per far capire a quella brava gente che seguivano una rotta sbagliata, non ottenendo altro risultato che una recrudescenza di evviva e di battimani, dissi a Del Prete:

 

— Adesso gridi un po' Lei, perché io ho perduto la voce. — E Del Prete si mise a gridare ed a sbracciarsi anche lui.

 

E quelli a sventolare bandiere ed agitare cappelli! Alla fine,

 

quando eravamo sul punto di cozzare contro un veliero alla fonda, tagliai il cavo di rimorchio.

 

Il motoscafo fece un giro e ci venne vicino: io, in modo alquanto concitato, spiegai che stavamo andando di traverso: ciò fece alquanto sbollire gli entusiasmi:

 

Il decollaggio fu difficile, perché c'era vento di traverso, molti – Facciamo quello che Lei vuole – mi dicono – ci dia pure degli ordini. -

 

Allora saltai a bordo del motoscafo e, personalmente, con l'aiuto dei marinai, dopo un paio d'ore di lavoro potei mettere l'apparecchio al sicuro.

 

Appena a terra, provvedemmo ad un altro rifornimento di vestiario.

 

Per alleggerire l'apparecchio, avevamo lasciato a Porto Praia le nostre valigie e portato solamente, ravvolti in un pezzo di tela, un poco di biancheria ed alcuni oggetti indispensabili di abbigliamento, riuniti alla rinfusa.

 

Quando aprimmo questo fagotto, a bordo del «Barroso», lo spettacolo che si offrì ai nostri occhi, fu veramente lacrimevole.

 

Gli oggetti più disparati giacevano insieme: un pettine dentro una camicia, dei colletti dentro una scarpa, un pezzo di sapone in una cravatta, il tutto poi cosparso di pasta dentifricia, che era uscita da un tubetto, per mala sorte, apertosi.

 

E così in fretta e furia, appena possibile, come per esempio ora a Bahia, cercavamo di rimediare, alla meglio, alle deficienze del nostro bagaglio.

 

Naturalmente, a Bahia non mancò il solito programma, che culminò in 'un ricevimento, al locale Tennis Club, che riuscì molto simpatico ed elegante, sebbene i nostri occhi assonnati non fossero in condizione di ammirare molto lo spettacolo che ci circondava.

 

I buoni fascisti di Bahia curarono la sorveglianza dell'apparecchio nelle ore notturne, ciò che fecero con grande entusiasmo, incuranti dei disagi di una notte all'aperto.

 

Il 26 mattina lasciai Bahia, molto di buon'ora, salutato dal Console e dai bravi connazionali della Colonia.

 

Il tempo si mantenne ottimo durante tutta la traversata, fino a Rio de Janeiro, traversata che potemmo fare senza quasi toccare le leve di comando poichè, con la regolazione meccanica del piano fisso di coda, era possibile bilanciare, con la massima esattezza, il carico in modo da ottenere una stabilità perfetta: il lavoro di pilotaggio si riduceva quindi semplicemente alla sorveglianza degli strumenti.

 

Profittai della calma per mettere un po' in ordine il mio abbigliamento onde arrivare a Rio de Janeiro in condizioni passabilmente presentabili. Esperimentai così la possibilità di radersi, al posto di pilotaggio: il vento, a dire il vero, disturbava un poco e lo specchio di metallo, che avevo con me, era alquanto appannato, ma il radiatore forniva dell'ottima acqua calda e questo era l'essenziale.

 

Alle dodici e trenta arrivai su Rio de Janeiro. Prima di ammarare, eseguii un paio di giri sulla città.

 

Visione meravigliosa!

 

Napoli, Sydney, Rio de Janeiro e San Francisco sono, senza dubbio, le città del mondo che la natura ha maggiormente favorite. Ma Rio de Janeiro ha una caratteristica tutta sua.

 

La natura, selvaggia e prepotente, mostra il suo orrido nelle rupi scoscese sul mare, nei picchi, che si ergono minacciosi come una sfida verso il cielo, in pittoresco contrasto con il verde delle vallate e l'aspetto gaio e mite delle bianche abitazioni, dai tetti rossi, disseminate fra il verde cupo della folta vegetazione tropicale, che ricopre le montagne. Poi l'immensa difesa della città, tutta vivace di colori e mollemente adagiata nelle conche e lungo i bordi del mare. Spettacolo superbo di grandiosità e di splendore, spettacolo che commuove e meraviglia.

 

Il cielo era, qua e là, rotto da cumuli di nubi, che rendevano ancor più vario e singolare il magnifico quadro della rada, che si svolgeva sotto i nostri occhi attoniti.

 

Si credeva che io planassi all'isola del Governatore, lontano dalla città, come era stato stabilito, ma io non ne avevo avuta sicura comunicazione ed ammarai dove vidi la moltitudine raggruppata, col naso per aria, cioè presso l'Arsenale di Marina.

 

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Alle prese con le barche degli ammiratori

Non appena in acqua, fummo circondati da un fantastico numero di barche, velieri, rimorchiatori, pieni di gente, che ci salutava e ci gridava evviva. Noi pure agitavamo le braccia e gridavamo, ma per un'altra ragione, per far segno cioè ai battelli più vicini che si scostassero, essendo la loro vicinanza molto pericolosa per le ali, ma non riuscivamo nel nostro intento, perché credevano che ricambiassimo i loro saluti e raddoppiavano gli evviva ed i battimani. Noi a gridare sempre più, per paura di avarie all'apparecchio.

 

Difatti avvenne che un motoscafo, nella foga dell'entusiasmo, urtò contro un'ala. Meno male che questa fu più resistente della sua asta di bandiera, che venne abbattuta dall'urto.

 

Ormeggiai l'apparecchio e, messolo al sicuro, mi recai a terra, dove per poco non venni schiacciato dal popolo entusiasta.

 

Intravidi, per un momento, il Ministro della Marina e le autorità e potei stringere loro la mano, poi fummo travolti dalla folla e non so neppure come mi trovai in un'automobile, che percorse tutta la città, fra acclamazioni entusiastiche.

 

Ad un certo momento, vidi l'ammiraglio Cago Cutinho, che già conoscevo di fama e lo feci salire a bordo della macchina, ben lieto di conoscerlo personalmente e di potere scambiare con lui qualche impressione.

 

Sospinti, soffocati ed intontiti dalle acclamazioni, arrivammo, come Dio volle, all'albergo.

 

Intanto, prevedendo che a Rio de Janeiro avrei dovuto partecipare, certamente, almeno ad un banchetto, avevo telegraficamente ordinato che mi approntassero un abito da sera e, difatti, appena giunsi all'albergo, il sarto era già pronto per la prova.

 

Si vede che doveva avere avuto informazioni molto incerte circa la mia taglia, perché l'abito che mi aveva preparato sarebbe stato troppo agiato per un campione di pugilato, dei pesi massimi: figuriamoci poi per il sottoscritto, verso cui la natura non e stata prodiga di ampie dimensioni!

 

Si era tenuto al vento, si vede!

 

– Non dubiti – mi disse – vedrà che, in due ore, lo mettiamo a posto. -

 

Veramente ne dubitavo molto: ma effettivamente in due ore lo smocking fu pronto. Ma non starò a descrivere quale figura facessi con quel capo di vestiario pur necessario, ma così improvvisato! L'abilità del sarto non era eccessiva; in compenso il conto era molto salato.

 

Quella sera, dopo il banchetto ufficiale, facemmo un giro per le sale dell'albergo, dove si celebrava, in pieno, il carnevale brasiliano.

 

 

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Il carnevale a Rio de Janeiro

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Il carnevale, nel Brasile, è una vera follia. Da mattina a sera e nella notte, fin quasi all'alba, automobili piene di belle fanciulle, acconciate nei costumi più pittoreschi e talvolta più inverosimili, sedute, in alto, sul mantice, lanciando fiori e coriandoli, girano, su e giù, in lunghissime file, per le vie principali della città. I negri sono in preda ad una vera frenesia. Riuniti in squadre, si vedono girare per la città, avanzando adagio ed eseguendo, ritmicamente, una specie di tempo di ballo, che ricorda un poco il black bottom e lo shimmy.

 

Tra la folla che era all'albergo, incontrai alcuni miei amici della Marina americana, che avevo conosciuti in altri tempi, a Costantinopoli: il mondo è veramente piccino!

 

Il giorno successivo, appena potei avere un poco di tregua dai ricevimenti, ebbi un'intervista con il generale Rondon, il quale era il più competente per darmi informazioni circa la traversata che avrei dovuto fare, partendo da Buenos Aires, dell'interno del Brasile. Le notizie che ebbi, furono invero molto scoraggianti, ma io avevo deciso il mio itinerario e non intendevo di cambiarlo.

 

In base però alle notizie che mi dette il generale Rondon, feci un piccolo spostamento di un rifornimento, che avevo mandato sul Rio Paraguay a Corumbà, spostamento che mi permetteva di rendere più corta la tappa più difficile, e precisamente quella attraverso il Matto Grosso. In seguito male me ne incolse, come si vedrà.

 

Il sindaco di Rio de Janeiro, molto gentilmente, mi fece fare una passeggiata, in automobile, sulle alture intorno alla città.

 

Ci fermammo in un poto detto "la tavola di Don Pedro", dove l'Imperatore del Brasile, Don Pedro, si recava appunto a prendere il the ed ammirare il panorama.

 

La tavola di Don Pedro si conserva tuttora, per ricordo.

 

A Rio de Janeiro ebbi gran da fare anche per i numerosi telegrammi di augurio e di saluto che mi pervennero da moltissimi centri del Brasile, dell'America e dell'Italia.

 

Quella larga corrente di simpatia, di cui mi giungeva l'eco da varie parti del mondo, mi era oltremodo gradita e se non affrontavo con entusiasmo il doveroso peso del rispondere, mi ci sottoponevo con buona rassegnazione.

 

Ebbi poi una lunga discussione con alcuni inviati della vicina città di San Paulo, i quali mi invitavano a recarmi a San Paulo, ammarando nel lago di Santo Amaro, dove non aveva mai ammarato alcun idrovolante.

 

Lo strano si è che, mentre molti mi stimolavano ad andare, raccontandomi mirabilia sulle ottime condizioni del lago, altri invece mi sconsigliavano nettamente, affermando che il lago era pieno di ostacoli a fior d'acqua, costituiti da vecchi tronchi di alberi sommersi. Non sapevo a dai dar retta, ma poi decisi di scendere a Santo Amaro, per contentare i miei connazionali, quantunque la cosa non mi garbasse eccessivamente, sia per le poco sicure informazioni che avevo ricevuto, sia perché il lago era situato al di là di un altipiano, dì discreta altezza, che sapevo essere costantemente coperto di nuvole.

 

Ad ogni modo, decisi di fare solo una breve fermata a Santo Amaro, ritornando poi a Santos per il rifornimento, per poi ripartire di là per Porto Alegre e Buenos Aires.

 

E così, al lunedì 28 per tempo, mi levai in volo dall'isola del Governatore, dove era stato ricoverato l'apparecchio durante il soggiorno a Rio de Janeiro.

 

Trovai, arrivando a San Paulo, tempo nuvoloso. Sorvolai la città, facendovi sopra un paio di giri e poi ammarai nel lago di Santo Amaro, di fronte ad una moltitudine d'italiani, accorsa da ogni parte dello Stato. Defilai, con l'apparecchio, innanzi alla folla schierata sulla banchina Sud del lago.

 

Dovetti constatare come il desiderio di avermi sul lago di Santo Amaro, avesse fatto sì Che quelli che mi avevano invitato fossero stati portati ad alterare un po' la realtà delle cose.

 

Mi era stato detto che il lago era a trecento metri sul livello del mare, ed invece era ad ottocento, come potei constatare con il mio altimetro; che era situato in una vallata, mentre invece era a livello dell'altopiano, che si protendeva fino al mare.

 

Mi recai a terra, per scambiare un breve saluto con le autorità e quindi ripresi il volo, tornandomene a Santos. A Santos quella volta i rifornimenti andarono molto male, perché, mentre tutti si scalmanavano per offrirci i loro servigi, all'atto pratico poi nessuno si occupava di nulla. Così Del Prete e Zacchetti restarono, fino a notte inoltrata, sull'apparecchio, per attendere la benzina, che non veniva.

 

Dopo qualche ora di questa inutile e snervante attesa, sotto il sole scottante, si presentò un signore il quale domandò, ignaro del loro stato d'animo, come andavano le cose. Ebbe naturalmente un'accoglienza alquanto aggressiva, essendo il primo essere su cui l'equipaggio poteva sfogare il suo giustificato malumore. L'innocente vittima si eclissò immediatamente, pensando che è meglio girare al largo dagli aviatori, che traversano gli oceani.

 

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Le accoglienze che ricevette il manager della benzina a Santos

Mentre i miei compagni accudivano al rifornimento, io mi recai, in automobile, a San Paulo, per visitare le autorità e la Colonia. La strada, nel primo tratto, si svolgeva attraverso boschi di lussureggiante vegetazione fra il cui verde, qua e là, facevano capolino delle magnifiche orchidee, e si arrampicava sull'altipiano con svolte rapidissime, tagliate nella montagna. Ad una di esse, lessi su di un cartello le seguenti testuali parole: «Qui vicino è un cimitero per gli automobilisti imprudenti. » Fortunatamente, il mio conducente era abilissimo e conosceva bene la strada.

 

A metà cammino, dovetti cambiare automobile, perché tutti si disputavano l'onore di portarmi.

 

A San Paulo venni ricevuto dal Governatore. Problema arduo fu giungere fino alla Residenza, perché l'automobile non riusciva ad avanzare nelle vie, stretto da tutte le parti da una grande folla entusiasta. Le strade e le piazze erano gremite. La povera macchina che mi portava, aveva almeno una dozzina di persone, per parte, sui predellini ed io non mi rendo ancora conto come facessero a ìarci. Il mio passaggio era salutato dappertutto da grandi ovazioni.

 

Dopo la visita al Governatore, che mi ricevette con tutti i membri del Governo, fui condotto in un albergo, da una terrazza del quale fui invitato a parlare alla folla plaudente.

 

Il ritorno costituì anch'esso una non indifferente fatica. Essendo, come ho detto, l'epoca del carnevale, mi gettarono coriandoli e confetti, di cui tutti erano muniti e per poco non ebbi un occhio spaccato da un confetto, che pure mi era stato gettato con intenzione benevola.

 

Come Dio volle, me ne tornai a Santos, quella sera stessa.

 

Il conducente della macchina era il medesimo e, neppure quella volta, il cimitero degli automobilisti imprudenti ci ebbe.

 

Il mattino seguente, per tempo, tentai il decollaggio, ma a causa della temperatura molto elevata e del radiatore, che scaldava in modo anormale, dovetti ritardare la partenza. Dopo un primo decollaggio, vedendo che l'acqua del radiatore bolliva e non riuscendo neppure con la riserva a raffreddarla, ammarai nuovamente.

 

Alle dieci, finalmente, ripresi il volo. Probabilmente, la elevata temperatura dell'acqua dipendeva anche dal fatto che, non essendo stata inviata la nostra usuale benzina a Santos, dove non era previo che mi fermassi, ero stato obbligato a rifornirmi di una benzina poco adatta.

 

La traversata fu buona nel primo tratto, ma in vicinanza di Porto Alegre e precisamente quando si doveva attraversare una estesa zona di terra, per entrare nell'estuario del Rio Guahyba, sulle cui rive si trova Porto Alegre, ci sorprese una pioggia dirotta che impediva qualsiasi visibilità e dovemmo andare, per qualche tempo, quasi alla cieca, regolando la nostra direzione sulla spuma delle onde, che si frangevano sulla riva.

 

Eravamo nei paraggi di Capo Catharina, il quale, mi dissero di poi, era abbastanza mal famato per le condizioni del tempo, normalmente cattive.

 

A Porto Alegre non sapevo dove scendere; feci un paio di giri e finalmente ammarai in prossimità del molo, in un punto dove vedevo brulicare la folla, in attesa del nostro arrivo.

 

Varie imbarcazioni ci vennero attorno; dopo aver assicurato l'ormeggio dell'apparecchio, mi recai a terra, dove fui quasi letteralmente schiacciato dalla folla che si stringeva intorno, per festeggiarmi. Fortunatamente, mi venne l'ispirazione di dire ai vicini di andare ad aiutare i compagni che erano a bordo, ciò che era molto più utile, per noi, degli applausi. Così, a malincuore, una parte di essi si allontanò.

 

Porto Alegre è uno dei pochi posti in cui mi riuscì di declinare l'invito ad un banchetto ufficiale. Ciò suscitò qualche malumore. In compenso ci volevano condurre a teatro, ma mi opposi energicamente e finalmente tutti si decisero a lasciarci in pace e permetterci di dormire.

 

Cominciavamo a sentire la stanchezza.

 

Il mercoledì 22, di buon'ora, lasciammo Porto Alegre e fummo accompagnati, nella nostra corsa verso il Sud, da un tempo veramente superbo. Gran fastidio ci dette però il vento contrario, tanto che, non avendo imbarcato un carico sufficiente di benzina, ci furono dei momenti in cui credevo di non poter arrivare a Buenos Aires. La cosa non sarebbe stata molto piacevole. In Argentina ci attendevano ansiosamente da varii giorni.

 

Ma, fortunatamente, il vento, a poco a poco, scemò di intensità e potei proseguire senza ulteriori preoccupazioni.

 

Lungo la coffa dell'Uruguay si vedevano qua e là numerosi branchi di cavalli, che pascolavano. Noi volavamo assai basso, forse a non più di venticinque metri e quindi il rumore possente dei notri motori, su quella massa di bestie ignare, suscitava vivo panico, spettacolo molto divertente a vedersi.

 

Incontrammo varie automobili che, in mancanza di strade, correvano sulla sabbia, sull'orlo del mare, dove essa offriva una maggiore compattezza.

 

A mezzogiorno passai su Montevideo, che salutai con un largo giro e, senza arrestarmi, proseguii per Buenos Aires. Dopo un giro di saluto, sulla città, ammarai nell'interno del porto, alle dodici e quarantacinque.

 

Sui moli, sulle banchine del porto, nelle strade vicine, sulle terrazze e sui tetti, si addensava una brulicante moltitudine nera.

 

I bastimenti avevano issato la gala di bandiere e le sirene urlavano a distesa. Per tutto il tempo che durò l'ormeggio dell'apparecchio, continuò la fantastica sinfonia.

 

Secondo il protocollo, dovevamo andare immediatamente alla Casa Rosata, dove ci attendeva il Presidente della Repubblica, dopo un breve ricevimento a bordo di un bastimento argentino, dove ricevemmo il saluto del Ministro della Marina, dell'Ambasciatore italiano e delle altre autorità.

 

La marcia dell'automobile, attraverso la città, non fu facile. Due macchine correvano a destra ed a sinistra della nostra, per proteggerci dall'entusiasmo popolare, ma la cosa era molto pericolosa, perché minacciavano di schiacciare i passanti.

 

Al Palazzo del Governo, fummo presentati al Presidente della Repubblica, dottor Marcello de Alvear, il quale ci accolse con grande effusione, inneggiando all'amicizia delle due Nazioni

 

latine.

 

La prima parte della missione, affidatami da S. E. il Capo del Governo, aveva, con l'arrivo a Buenos Aires, raggiunto il suo scopo.

 

Il «Santa Maria» aveva assolto magnificamente il suo compito, nonostante la fortunosa traversata e giungeva alla sua prima meta, in ottime condizioni di efficienza.

 

 

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Il percorso sudamericano di De Pinedo

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Guest galland

Galleria fotografica

 

 

 

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L’arrivo …

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…. A Rio de Janeiro

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Rio de Janeiro: il “Botafogo”

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La Baia di Rio de Janeiro

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San Paolo. Gli italiani ci salutano dalle sponde del lago di Santo Amaro

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A San Paolo

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Toilette di volo

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Ormeggiando l’apparecchio a Santos

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A Santos

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Zacchetti e le sue creature

 

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Guest galland

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Ancora foto dell'impresa...

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Santos. Attendendo i rifornimenti che non arrivano ….

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…. i rifornimenti non vengono ancora ….

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…. finalmente arrivano

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Tramonto a Santos

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Profilo e vista di pianta superiore dello S.55 (MM. 45043) utilizzato da De Pinedo per la trasvolata dell'Atlantico del sud

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Guest intruder

Ottimo topic, Galland, complimenti. L'impresa di De Pinedo resta affascinante anche per chi, come me, odia il fascismo che la sfruttò. Buffo, tragico e farsesco, il Paese che seppe fare di queste imprese, rimediò poi la figura che sappiamo nella Seconda Guerra Mondiale.

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Guest galland
Ottimo topic, Galland, complimenti. L'impresa di De Pinedo resta affascinante anche per chi, come me, odia il fascismo che la sfruttò. Buffo, tragico e farsesco, il Paese che seppe fare di queste imprese, rimediò poi la figura che sappiamo nella Seconda Guerra Mondiale.

 

Ritengo invece che tutto il percorso dell'Italia nella prima metà del 900 sia spiegabile con una lettura molto particolare e, mi azzardo a ritenere, originale. Sono al lavoro e, spero tra qualche giorno di poter rendere conto del mio lavoro. Vedremo, more solito con saldi dati alla mano la nostra realtà dell'industria aeronautica e vedremo con un originale paragone storico il perchè del dissastro cui accenna Intruder.

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  • 2 weeks later...
Guest intruder

Sai come la penso: in un Paese dove qualcuno è ancora convinto che Pietro Badoglio fosse un genio incompreso e che la guerra si poteva vincere, nessuna meraviglia che sia avvenuto quel disastro. Ciò che meraviglia è che non lo si analizzi seriamente. Non mancò la fortuna, con buona pace di chi lo ha scritto sulla porta di un cimitero, mancò TUTTO: armi, munizioni, carburante, viveri, medicinali... e soprattutto la mentalità.

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Mi sono sempre chiesto , nonostante qualche libro letto , come fu possibile che un Esercito , uscito dalla 1^ G.M. forte , decisamente ben strutturato ( e questo con governi liberali parlamentari non saldissimi ) , dopo 20 anni di regime totalitario con marcati aspetti militaristici , desse di se nella 2^ G.M. una prova " Brancaleonica" di quella portata.

Certo la Monarchia e la classe industriale non aiutarono , ma l' entita' della regressione mi lascia perplesso.

Qui siamo OT , ma mi piacerebbe si provasse ad analizzare la cosa.

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Guest intruder

È argomento sul quale si dibatte da almeno ventanni. L'unica cosa che posso dire, per evitare l'OT (e quindi il taglio dei gioielli di famiglia ad opera dei feroci mod), è invitare il nostro Storico Ufficiale, Galland, nella cui biblioteca il materiale non dovrebbe mancaer, ad aprire un topic sull'argomento postando qualcposa di quel materiale per dare avvio alla discussione. Io ho le mie idee, ma non sono sicuro siano quelle esatte per iniziare.

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