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Aeronautica Lombarda Assalto Radioguidato


Ospite galland

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Se avessi voluto inserire un titolo a sensazione al topic avrei potuto parlare “dei kamikaze italiani” ma avrei certamente peccato di imprecisione; infatti l’analogia tra i velivoli descritti e quelli utilizzati dai piloti del Tokkotai [1]è solo costituita dalla circostanza della distruzione del velivolo contro l’obiettivo. Ma mentre i velivoli giapponesi, come a tutti noto, venivano condotti da piloti che perivano nell’azione, la modalità messa a punto in Italia si basava su un sofisticato (per l’epoca) sistema di radioguida.

Volendo spendere qualche parola sul concetto di aereo e pilota suicida risulta evidente come questo nasca da un ben preciso principio culturale: l’affievolirsi dell’individualità nei confronti del conseguimento di un bene per la comunità. Fondatamente è stato osservato come i piloti impegnati nelle missioni suicide sarebbero potuti essere impegnati con altre modalità e con risultati altrettanto positivi: ma questa oggettività non penetra l’intima concezione filosofica di un popolo, senza dubbio in nessun’altra nazione si sarebbe potuto chiede a dei piloti di mettersi a disposizione per missioni senza ritorno. Basti pensare che né la Germania, né l’URSS nei momenti più disperati della guerra ricorsero a tale mezzo; è ben vero che i piloti di entrambe le nazioni siano ricorsi (i sovietici all’inizio della guerra i tedeschi al termine)alla tecnica dello speronamento dell’aeromobile nemico, ma è altrettanto palese come tale artifizio corrispondesse a un mezzo, invero estremo, per conseguire la vittoria sull’avversario in condizioni di inferiorità ma non implicasse la morte per l’attaccante [2].

A tal proposito può essere utile leggere l’introduzione di Corrado Ricci ad un volume che ormai costituisce un classico sulle operazioni kamikaze [3]:

 

« Il valore della vita, nei confronti dell'assolvimento del proprio dovere, ha il peso di una piuma. » Questo proverbio giapponese potrebbe veramente essere stato il motto dei Kamikazi mentre, rigidi negli abitacoli dei loro velivoli carichi di esplosivo, andavano a sfracellarsi contro le navi americane.

Per la nostra mentalità occidentale è indubbiamente inconcepibile la possibilità di costituire un reparto bellico la cui tattica sia esclusivamente basata sul suicidio. La profonda valorizzazione dell'individuo, della sua vita, della sua essenza spirituale (che indubbiamente ha avuto gran parte delle sue radici nel cristianesimo) non consente a una mente aperta e normale di accettare un tale ordine di idee. L'impossibilità, non tanto di dare pratica attuazione, ma addirittura di giungere a pensare, presso le nazioni occidentali, a programmi del genere, rappresenta forse la differenza più tangibile tra le mentalità dei popoli e indica il differente valore che, presso di essi, viene attribuito alla persona umana e alla sua dignità, al libero arbitrio, alla libertà delle coscienze.

Gli autori giapponesi del libro giustificano il ricorso a tali estremi con la gravità eccezionale della situazione nella quale il Giappone era venuto a trovarsi nel corso della guerra. Questa, una volta decisa, venne condotta secondo una strategia che risultò poi sbagliata, forse perché fondata su una valutazione delle capacità di reazione del grande nemico, scatenato dall'attacco di Pearl Harbor, che non aveva riferimento con la realtà.

Se il concetto di occupare un vasto anello difensivo racchiudente notevolissime sorgenti di materie prime fu indubbiamente giusto, non altrettanto lo fu la previsione delle forze che sarebbero state necessarie per difenderlo e mantenerne il possesso una volta che la macchina bellica americana si fosse messa in moto.

Gli autori hanno giustamente sottolineato che uno degli aspetti più caratteristici di quella guerra fu dato dall'assoluta prevalenza e importanza del fattore aereo. Il Giappone, come del resto anche gli Stati. Uniti, non aveva preso in esame la costituzione di una aeronautica indipendente, con suoi specifici compiti e responsabilità; aveva cioè assegnato alle forze aeree il valore e il posto di forze d'accompagnamento, mentre invece esse hanno poi dimostrato di essere primarie e decisive.

L'aviazione giapponese fu impiegata unicamente al servizio delle altre due Forze Armate, mentre invece gli americani, che erano pure partiti con lo stesso concetto iniziale, seppero poi liberarsene mettendo addirittura la loro strategia al servizio delle forze aeree ogni qual volta fu necessario, perché avevano capito che queste erano le uniche capaci di piegare un avversario ferocemente deciso. La magnifica flessibilità d'impiego dell'aviazione americana è stata la vera chiave del successo e sta a testimoniare un'uguale flessibilità delle menti che l'adottarono. Non bisogna tuttavia dimenticare che le Forze Armate americane avevano alle spalle una potentissima industria che forniva loro i mezzi adeguati alla lotta intrapresa.

Tutto questo è mancato al Giappone, nel quale regnava anche una rivalità spinta agli estremi tra Esercito e Marina, della quale si legge agevolmente tra le righe del testo e che infine ha portato gli stessi autori, ufficiali di marina, ad ammettere che questa non dette alla guerra tutta la sua cooperazione. Forse la Marina giapponese si preoccupò di combattere una

« sua » guerra, ma quella stessa Marina, capi in testa, seppe battersi praticamente fino all'ultima nave e al momento della resa poté affrontare la dura capitolazione a fronte ben alta e senza ombre disonorevoli sulla sua bandiera di combattimento.

Si intravedono nel testo una serie di errori nell'impostazione delle operazioni aeronavali o aeree, la cui responsabilità era spesso nelle mani di ufficiali dei massimi gradi, certamente competentissimi nel ramo navale, ma forse non altrettanto competenti in quello aeronautico. Certe missioni, descritte nel libro con notevole precisione o anche soltanto accennate, sarebbero state cancellate, o impostate ben diversamente da un comandante aereo e in questo caso anche gli esiti parziali sarebbero stati, probabilmente, ben diversi. Non sarebbe venuto ugualmente a cambiare l'esito finale, perché questo era il frutto della situazione generale sulla quale i singoli comandanti non potevano influire; dal punto di vista del rendimento puramente militare delle vite e dei mezzi impiegati, i risultati ottenuti avrebbero potuto, tuttavia, rivelarsi migliori.

Il concetto del pilota-suicida non è nato in Giappone durante l'ultima guerra. L'idea di mandare dei velivoli, carichi di esplosivi, a infrangersi contro navi da guerra nemiche era già stata ventilata in Italia nel 1935 quando, all'inizio della guerra d'Abissinia, l'Inghilterra aveva inviato nel Mediterraneo una parte della Home Fleet, a titolo intimidatorio. La nostra Marina riconobbe di non essere in grado di affrontarla e l'Aeronautica pensò allora di organizzare una specie di « Corpo di Velivoli Suicidi » i cui piloti avrebbero dovuto andare a picchiare contro le navi da guerra inglesi con i velivoli carichi di bombe.

Alla richiesta aderì un buon numero di volontari, ai quali venne promesso, quale speciale ricompensa per il sacrificio della vita, una stele-ricordo nella piazza principale del paese natio...

Non sono in grado di giudicare se una tale follia avrebbe potuto avere un principio di attuazione; personalmente, ritengo che le bombe di quei tempi, data la bassa velocità con la quale avrebbero urtato contro le corazzature delle navi, in dipendenza delle scarse velocità dei bombardieri allora disponibili, non avrebbero potuto arrecare danni sostanziali alle navi nemiche. A parte, comunque, i risultati possibili, penso che, per la nostra mentalità occidentale e per i riflessi che gesta del genere, organizzate ufficialmente, avrebbero potuto avere sulla nazione, la tattica suicida non sarebbe mai stata impiegata.

Durante la seconda guerra mondiale, anche quando la lotta contro potenti flotte nemiche divenne d'importanza vitale, tali sistemi non vennero mai riesumati e nemmeno ricordati. Fu sufficiente che i comandanti partissero in testa ai propri stormi o gruppi di aerosiluranti o bombardieri, perché masse di velivoli li seguissero in attacchi disperati ai quali lo stesso nemico ha reso ampio omaggio. [4]

Sporadicamente, però, possiamo trovare alcuni episodi personali di volontario, estremo rischio o addirittura di sacrificio della propria vita, dovuti alla situazione del momento e mai richiesti da comandi o da superiori. Possiamo ricordarne qualcuno.

Nel 1940 il capitano Giorgio Graffer, di Trento, magnifico pilota da caccia addetto alla difesa di Torino, durante una incursione notturna da parte di un velivolo inglese, avendo le armi inceppate, si lanciò col proprio velivolo contro il nemico abbattendolo con l'urto e lanciandosi quindi col paracadute.

Il 19 luglio 1943 il tenente Bruno Serotini [5], di Roma, addetto alla difesa della capitale, dopo aver a lungo attaccato una formazione di bombardieri nemici, non vedendo alcun risultato del proprio fuoco ed avendo esaurito le munizioni, si lanciò col velivolo contro uno degli avversari, abbattendolo con l'urto e precipitando anch'esso, ferito a morte e col paracadute stracciato dai colpi nemici, ripetendo così il gesto che Arturo Dall'Oro aveva compiuto nella prima guerra mondiale.

Sono soltanto due episodi, e ne esistono altri dei quali non ho così precisa conoscenza, che rappresentano la decisa volontà dei piloti di raggiungere a qualunque costo lo scopo per il quale erano in volo: la distruzione del nemico.

Diversi però appaiono i ragionamenti che hanno guidato i piloti nell'azione disperata. Il capitano Graffer, freddo e deciso, quando viene a trovarsi impotente di fronte all'avversario per l'inceppamento delle armi, manovra per portarsi all'investimento, pur sotto il fuoco delle armi difensive del nemico, lanciandosi col paracadute nel momento stesso in cui l'urto avveniva. È una decisione presa sul momento.

Il tenente Serotini, trasteverino [6], adorava la sua città natale; riservato, ma deciso, aveva più volte dichiarato che, se gli americani fossero venuti a bombardare Roma, non sarebbe mai tornato a terra senza averne abbattuto qualcuno, a costo magari di investirlo e precipitare con lui. Più sfortunato di Graffer, le paurose ferite riportate negli ultimi metri dell'avvicinamento e gli strappi che le esplosive nemiche gli avevano fatto nel paracadute, non gli permisero di giungere vivo a terra.

Anche nei ranghi dell'Esercito e della Marina: possiamo trovare episodi analoghi di totale dedizione al dovere e di amore per la patria, spinti fino all'estremo sacrificio. Rimangono tuttavia casi singoli, ognuno dei quali rappresenta la personale reazione dell'individuo a situazioni del tutto eccezionali, raramente meditate e studiate in anticipo, più spesso esaminate e risolte lì per lì. Tutto questo pone le gesta dei nostri soldati, degli occidentali in genere, in netto contrasto con il suicidio collettivo dei piloti giapponesi, suicidio che, anche se volontario, è stato indubbiamente il frutto di una evidente forma di imposizione dovuta alla particolare formazione mentale e all'annullamento della personalità dell'individuo, caratteristica dell'istruzione militare e sociale giapponese.

Eppure, anche tra gli stessi attori di quel dramma collettivo si saranno verificati casi, se non proprio di ribellione, almeno di « sensazione di ingiustizia » e indubbiamente appare strano, a noi occidentali, che uno degli autori esprima quasi una certa meraviglia per il fatto che non tutti i piloti « comandati al suicidio » accettassero subito e con entusiasmo l'alto onore di andare a sfracellarsi contro una nave americana.

Indubbiamente, le ribellioni a quegli ordini non erano ammesse e forse nemmeno pensate; ma anche tra le righe delle ultime lettere a casa dei morituri si può agevolmente cogliere, insieme a frasi di eccitazione fanatica (« Per favore, congratulatevi con me: mi è stata offerta una splendida occasione per morire... ») frasi che possono essere interpretate come una protesta. (« Il nostro popolo non deve agire avventatamente sulla base del suo desiderio di morire... »)

Altre possono invece apparire come la necessità sentita dall'individuo di prendere di fronte ad altri un impegno forse sproporzionato alle forze dell'età (ventidue anni, come la maggior parte dei « suicidi » !) (« Era fortificante e incoraggiante, sentire che ognuno di voi voleva ch'io fossi coraggioso. Io voglio esserlo! Lo voglio! ») o come una rassegnazione al riconosciuto fallimento della politica della nazione. (« Un periodo di arretramento nel corso della storia di un popolo non vuol certo significare la sua distruzione. » « Quando penso agli inganni perpetrati a danno di innocenti a opera di qualche astuto politicante mi sento assalire da una profonda amarezza. » « Se, per qualche strana circostanza, il Giappone dovesse improvvisamente vincere la guerra, questo rappresenterebbe una fatale disgrazia per il futuro della nazione... »)

Ma la nota più accorata, e forse la più stridente per noi occidentali, affiora dall'ultima lettera alla madre scritta da un pilota « allevato nella religione cristiana ». È un figlio che forse è disperato di dover morire, ma che non vuole apparirlo, che vuole incoraggiare la madre, aiutando probabilmente se stesso con le frasi a volte slegate che le scrive durante la lunga agonia di un volo ormai comandatogli e più volte rinviato. Nella lettera si nota una certa confusione di idee vagamente religiose, mescolate ad accenti di ricordi dolcissimi, di amore infinito per la madre: è uno scritto che fa soffrire, che fa sentire profondamente la disumana ferocia di quel sistema di guerra.

I sentimenti che questo libro suscita nel lettore spingono alla meditazione: quel senso di ribellione e di avversione che provoca si estende pian piano e passa dalla tattica specifica del suicidio al più vasto sistema che l'ha originata, per affrontare poi il concetto stesso della guerra.

 

Dopo queste opportune premesse passo alla consueta trattazione.

 

CARATTERISTICHE

motore Fiat A.80 RC.41

potenza cv. 1.000 a 4.100

apertura alare mt. 17,00

lunghezza totale mt. 14,00

altezza totale mt. 3,40

superficie alare mq. 38,00

peso a vuoto kg. 3.600

peso a carico max. kg. 6.000

velocità massima km/h. 360

velocità minima km/h. 150

carico bellico kg. 2.000

equipaggio 1 (2 nella fase dimessa a punto)

pilota collaudatore Nello Valzania

primo volo prototipo MM. Il 13 giugno 1943

località Venegono (Varese)

 

DESCRIZIONE TECNICA

Velivolo biposto in tandem (monoposti quelli di serie) radioguidabile « a perdere » per distruzione contro l'obiettivo.

Cellula monoplana monolongherone pura, in un sol pezzo, in legno, imbullonata e incollata alla fusoliera; superfici di comando con struttura in legno e rivestimento in tela, aste di comando rigide recuperate da velivoli Savoia Marchetti; coefficiente di robustezza a rottura : 5.

Fusoliera lignea a semiguscio, ricoperta in compensato; sezione ;maestra costituita dall'unione di fianchi rettilinei con due semicerchi, inferiore e superiore, di 65 cm. di raggio, per un'altezza totale di 160 cm., costante per -la lunghezza dei vano-bombe e degradante verso la coda ed il muso; struttura inferiore interrotta sul ventre dal vano-bombe, a chiusura permanente tramite portelloni avvitati ed incollati. Efficienza aerodinamica in galleria : 16. Nei velivoli di serie, fusoliera divisa in due parti (anteriore con ala, posteriore con impennaggi) dopo il vano-bombe per l'inoltro in ferrovia o su strada, incoIlabili tramite correntini bisellati ad incastro e per copertura in compensato delle superfici di contatto; botola inferiore priva di portello e con appositi scivoli per il paracadutamento del pilota.

Gruppo motopropulsore completo, indifferentemente destro o sinistro, di recupero dai Fiat BR. 20 e comprendente: castello-motore, impianti di lubrificazione, di alimentazione, elettrico, anti-incendio, cappottature, elica ecc.; motore trimmato sull'asse di momento nullo al variare della potenza.

Carrello sganciabìle, per il recupero ed il reimpiego, con semicarrelli principali ammortizzati sostenuti posteriormente da spinotti ed anteriormente da un gancio la cui apertura anticipata, prima dello sgancio, permette la rotazione dei semicarrelli all'indietro evitando così rimbalzi al momento dell'impatto con il terreno.

Impianto freni (manca nei velivoli di serie) ad aria compressa con comando a pulsante sulla cloche e deviatore collegato alla pedali era.

Abitacolo dei pilota con strumentazione essenziale e autodirezionale (autopilota) con radiocomando a due canali per il controllo laterale e longitudinale; comandi alettoni e timone di direzione accoppiabili meccanicamente: al decollo la pedaliera è libera. Per ridurre le reazioni di barra, al timone di direzione è applicata un'aletta servomotrice.

Carico bellico costituito da due bombe da 1.000 Kg. prive degli impennaggi.

 

PRODUZIONE:

MM. - prototipo (in configurazione biposto)

MM. - n. 5 (serie in costruz. nell'agosto 1943)

 

TRATTAZIONE

L'idea di impiegare contro le navi nemiche un aereo privo di equipaggio e carico di esplosivo, è formulata nella estate del 1940 dal gen. Ferdinando Raffaelli. Il prof. Algeri Marino, l'eminente studioso che coordina il lavoro dei giovani ingegneri elettrotecnici del Centro Sperimentale di Guidonia, esamina la proposta e l'affida per la parte radioelettrica al cap. G.A.r.i. Emilio Montuschi. Per questo ciclo di esperienze è messa a disposizione una coppia di velivoli SM.79 ormai radiati dai reparti per le loro pessime condizioni di efficienza: uno è destinato a fungere da guidatore, l'altro sarà la vera « bomba volante ». Fin dall'inizio viene scartata l'idea di dare all'aereo una radio-guida totale per l'impossibilità (almeno con la tecnica del momento) di riprodurre tutta quella serie di operazioni, alcune addirittura istintive, che il pilota compie normalmente. Ci si dedica ad un obiettivo più limitato adottando un autopilota sul velivolo guidato, per limitarsi a mandare « ordini » al giroscopio di questo apparato. Fortunatamente esiste già un ottimo autopilota per l'SM.79, peraltro non adottato di serie, dovuto al Cerini. Ma questa soluzione si rivela subito complessa in quanto a bordo del « guidatore » bisogna, volta a volta, calcolare in quale misura far precessionare il giroscopio dell'aereo guidato al fine di ottenerne una certa manovra nella condotta del volo: si risolve l'inconveniente montando un ripetitore dell'autopilota, sull'aereo-guida, in modo che i tecnici abbiano un riferimento diretto. Inizialmente i segnali sono trasmessi su quattro differenti canali (per picchiare, cabrare, virare a destra, virare a sinistra) ma poi per evitare che un eventuale disturbo venga a

« coprire » la emissione di uno di questi « ordini » compromettendo la conduzione del volo, si adottano segnali codificati che possono essere trasmessi coll'impiego dello stesso canale: anche l'eliminazione dei disturbi richiede una procedura inconsueta a causa delle modeste potenze di trasmissione che i nostri tecnici hanno a disposizione. Un altro intervento è previsto sulla bussola ` dell'aereo guidato al fine che i parametri della direzione siano noti a bordo del « guidatore » nel caso che condizioni di tempo cattivo impediscano il contatto visivo tra i due velivoli. A questa serie di modifiche e di applicazioni, Montuschi si dedica con grande impegno in un lavoro che non conosce giorni festivi o di licenza. Tuttavia il vero problema non è nella difficoltà della ricerca quanto nella realizzazione pratica ove ci si deve avvalere di componenti fabbricati con materiali autarchici di pessima qualità che non garantiscono sicurezza e costanza di funzionamento. Durante l'affinamento del sistema di radio-guida Montuschi si alterna sui due velivoli per controllare su uno le modalità di trasmissione e sull'altro il comportamento durante la ricezione degli «ordini ». Egli prende posto con Raffaelli sul radio-guidato, decollano, indi inseriscono autopilota e radio-guida per essere così condotti dall'altro aereo: rimangono pronti ad intervenire solo in caso di emergenza. Senza che essi tocchino i comandi, il loro aereo sale, esegue virate corrette, vien fatto scendere a pochi metri dall'acqua e a quella quota mandato avanti per molti chilometri. A Guidonia, dopo violente piogge, il gruppetto dei protagonisti ha una sgradita sorpresa: uno degli SM.79 continua a grondare acqua dai piani di coda, più del previsto. Si decide una ricognizione all'aereo, « stappando » il vano delle superfici di coda: viene giù acqua frammista a schegge di legno perché l'SM.79 ha le parti strutturali in avanzato stato di marcimento. L'economia imposta dalle gravi condizioni di guerra costringe ad arrischiare apparecchiature di complessa realizzazione e tecnici ancora più preziosi su aerei che dovrebbero essere stati demoliti già da molti mesi. Dopo questo abbandono, il ruolo di « guidatore » è assunto da un Cant. Z.1007bis E finalmente il grande giorno dell'uscita operativa. Il 12 agosto 1942, l'SM.79 ed il CZ.1007 decollano dall'aeroporto sardo di Villacidro: il primo ha il dorso delle ali e della fusoliera dipinti in giallo per poter essere meglio distinto sulla superficie marina. Dopo aver effettuato tutti i controlli, il maresciallo pilota Mario Badii si lancia con il paracadute lasciando il compito della guida a Ferdinando Raffaelli che, con il marconista Palmieri è a bordo del Cant. Z. pilotato dal ten. Giulio Rosoigliosi. I 1.000 kg. di esplosivo a bordo dell'SM.79 sono destinati ad una importante nave inglese nell'ambito della cosiddetta « battaglia di mezz'agosto ». Dopo 200 km. di volo al momento di effettuare un piccolo ritocco alla rotta del velivolo, avviene improvvisamente un guasto: a bordo del « guidatore » un condensatore va in corto circuito e rende inoperante il survoltore. Nonostante tutti i tentativi di riparare l'apparato, non è più possibile trasmettere «ordini » all'SM.79 che così non può essere scagliato contro il nemico. Dopo altri 600 km. di volo, l'aereo si andrà a schiantare contro una montagna algerina a 1.800 metri di quota, spargendo i propri rottami su un raggio di 500 metri. E' una grossa amarezza per i fautori dell'iniziativa che hanno visto naufragare l'azione all'ultimo momento perché il Paese in guerra, non avendo possibilità di impiegare la mica come materiale isolante nei condensatori, deve ricorrere a surrogati di dubbio affidamento. Si continua comunque a perfezionare il piano, duplicando gli apparati di radio-guida in modo da avere un sistema di riserva in caso di avaria e si porta a 2.000 kg. la carica esplosiva dell'SM.79. Ma l'aspetto più importante è nell'adozione di caccia Macchi C.202 come « guidatori ». Il lavoro di adattamento di questo velivolo presenta gravi difficoltà per il modesto spazio che si ha a disposizione. Alla fine gli apparati sono collocati dietro all'abitacolo del pilota ma per montarli si deve far ricorso a Tancredi. Questo è un ragazzo che, grazie alla sua limitata corporatura, inferiore a quella del più piccolo specialista in servizio con la Regia Aeronautica, riesce ad infilarsi nella fusoliera del C. 202 e attraverso le istruzioni ricevute dall'esterno, montare supporti, apparati ecc. Il suo contributo è risolutivo e così bene eseguito che il C.202 funziona perfettamente. Nel frattempo Raffaelli prende piena dimestichezza con la radio-guida anche da bordo del monoposto da caccia. Alla conduzione dell'SM.79 sono destinati due Macchi, in condizioni di scambiarsi le funzioni di guida e di protezione. Infatti il pilota impegnato nella condotta dell'SM.79 e del proprio caccia non può contemporaneamente controllare l'eventuale sopraggiungere di aerei avversari. In attesa che venga realizzata la piccola serie di Ambrosini A.R., ossia dei monomotori monoplani destinati a funzionare da radio-bombe, si continua l'esperienza con l'SM.79 allestendone due esemplari. A inizio settembre 1943, essi ed un C.202 sono pronti sul campo di Guidonia. Si decide di impiegarli contro le navi americane dinanzi a Salerno, ma l'armistizio dell'8 settembre impedisce l'attuazione della seconda uscita operativa.

L’Aeronautica Lombarda Assalto Radioguidato è, quindi la risultante di queste ricerche ed esperienze: installato, come abbiamo visto, il sistema di controllo su un meno vulnerabile monomotore da caccia, si tratta di impiegare come radio-guidato un aereo appositamente concepito in luogo dei vecchi e ben più complessi e costosi trimotori SM.79.

Si incarica della impostazione di questo particolarissimo mezzo bellico il ten.col. G.A.r.i. Sergio Stefanutti mentre la realizzazione esecutiva è effettuata dall'ing. Ermenegildo Preti. L'A.R. (assalto radio-guidato) è un monomotore di grosse dimensioni impiegante un propulsore Fiat A.80 da 1.000 cv. La struttura, molto semplice, si avvale della costruzione lignea ed è decisamente rustica come si conviene ad un velivolo destinato ad avere minimi costi di produzione ed impiego concentrato in un'unica azione bellica: caratteristici il disegno squadrato degli impennaggi e l'ala, di notevole apertura, realizzata per dare alla macchina buona stabilità nonostante le modalità della missione da eseguire. Alla fine del 1942 è passato un ordine all'Aeronautica Lombarda, con stabilimento a Cantù, per la realizzazione di una piccola serie di 6 velivoli A.R.: essendo tale ditta di proprietà di Romolo Ambrosini, fratello dell'ing. Angelo titolare degli omonimi stabilimenti di Passignano sul Trasimeno, il velivolo viene comunemente compreso nella più vasta produzione di questo secondo complesso industriale.

Un grosso vano nella parte ventrale è destinato ad alloggiare la carica esplosiva costituita da una o due bombe da 1.000 kg.: esattamente al di sopra, è l'abitacolo del pilota ove è alloggiato il complesso radio-ricevente, vero protagonista di tale mezzo offensivo. Infatti il pilota è destinato ad effettuare il decollo dell'aereo, quindi sganciarne il carrello ormai inutile penalizzazione aerodinamica e di carico, predisporre la ricezione per il volo in crociera, finalmente abbandonarlo lanciandosi con il paracadute. Tornano dunque molti concetti già espressi dall'unica uscita operativa dell'SM.79 radio-guidato nella giornata del 12 agosto 1942. E' incaricato dei collaudi Nello Valzania, lo sfortunato pilota che dovrà poi perire nelle prove dell'anfibio post-bellico FN.333. Il primo volo viene compiuto sul vicino aeroporto di Venegono (13 giugno 1943) quindi il primo A.R. è trasferito a Guidonia. Nell'agosto è pronto per il collaudo il secondo esemplare, mentre i rimanenti quattro sono ancora in allestimento presso l'Aeronautica Lombarda. Anche i complessi riceventi della radio-guida, fondamentali per l'impiego bellico, non sono ancora pronti al: momento dell'armistizio.

Un modellino, realizzato dall'Aeronautica Lombarda, è verificato nella galleria aerodinamica di Guidonia mentre un settimo esemplare è impiegato presso la Ditta in prove statiche fino alle condizioni di rottura. Il secondo abitacolo presente sul prototipo è per consentire un tecnico a bordo nella fase dei voli di messa a punto.

La formula costruttiva, lignea e di grande semplicità, integrata a parti di recupero da velivoli radiati (l'intero complesso-motore dai Fiat BR. 20, i comandi di volo dai trimotori Savoia Marchetti) fa dell'A.R. un'arma di ridottissimo costo, ma ciononostante pericolosa per le sue inedite modalità d'impiego.

 

[1] Abbreviazione giapponese di “Kamikaze Tokubetsu Kogekitai”, ovvero: “Corpo speciale d’attacco del Vento Divino”

 

[2] Per una più ampia considerazione del fenomeno kamikaze si può utilmente consultare:

Emiko Ohnuki-Tierney “La vera storia dei kamikaze giapponesi“ Bruno Mondadori, 2004, Milano

Leonardo Sacco “Kamikaze e Shaid “ Bulzoni Editore, 2005, Roma

In particolare il secondo volume costituisce una comparazione storico-religiosa di alto profilo tra il fenomeno dei piloti giapponesi e degli attentatori suicidi islamici.

 

[3] Rikihei Inoguci, Tadasci Nakajima “Vento divino Kamikazi!” Longanesi & C., 1961, Milano.

 

[4] Fra tutte degno di ricordo è il sacrificio degli SM.84 del 36° Stormo intervenuti quali siluranti contro il convoglio scortato“Halberd”, salpato da Gibilterra e destinato a rifornire Malta. Il 27 settembre 1941 l'attacco contro le navi da battaglia inglesi, con il conseguimento del siluramento della corrazzata HMS Nelson costava la perdita, a seguito della violentissima reazione antiaerea e dell’intervento dei caccia levatesi dalla portaerei di scorta, di ben sei trimotori e trentadue uomini degli equipaggi. L’eroica azione viene ricordata dalla Medaglia d’Oro al Valor Militare che onora la bandiera del reparto.

 

[5]Al fine di una precisa cognizione del fatto si tenga con che Serotini era pilota nella squadriglia comandata da Ricci, che pertanto doveva ben conoscere le qualità del suo dipendente.

 

[6] Trastevere (trans Tevere = oltre il Tevere) è uno dei quartieri storici e popolari di Roma, con abitanti – all’epoca – di antica residenza nell’Urbe.

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un'altra immaginedell'Aeronautica Lombarda A.R., notare gli abitacoli biposti in tandem muniti di frangivento e l'impennaggio cruciforme e squadrato atto a conferire grande stabilità al velivolo.

Altre interssanti notizie si possno desumere da questo link:

 

http://www.giemmesesto.org/settori/aerei/A...mbardaAR/AR.htm

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