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il raid Roma-Tokio di Ferrarin


Ospite galland

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FERRARIN: DA ROMA A TOKIO

UN’IMPRESA TRA LE PIU’ STRAORDINARIE DELLA STORIA AERONAUTICA: QUELLA DEL GRANDE RAID COMPIUTO NEL 1920 DA UN AUDACE PILOTA ITALIANO.

DOPO TRE MESI E MEZZO DI VIAGGIO SI POSAVA SUL CAMPO DI TOKIO REALIZZANDO IL PRIMO VOLO DALL’EUROPA AL GIAPPONE

 

Alle undici del mattino del 14 febbraio 1920, due biplani SVA decollavano dall'aeroporto romano di Centocelle. Questo campo, che ancora esiste, è oggi completamente circondato dall'abitato, e vi possono operare soltanto elicotteri; ma era, a quell'epoca, il maggior aeroporto militare della capitale. Ciononostante soltanto un piccolo gruppo di persone assisteva a quella partenza: due o tre ufficiali di servizio, un paio di borghesi, l'ambasciatore giapponese presso lo Stato Italiano.

Prima del decollo era stata stappata una bottiglia di champagne e si era brindato rapidamente alle sorti del volo: perché i due animosi piloti, Arturo Ferrarin e Guido Masiero, avevano intenzione di arrivare in volo fino a Tokio.

L'aeroplano da me pilotato, racconterà Ferrarin, « era vecchio e malandato. L'originale motore da 220 CV era stato sostituito con uno a compressione ridotta, che non sviluppava più di 180 CV. Ciò era stato ottenuto coi semplice espediente di collocare uno spessore tra il basamento del carter ed i cilindri. La regolarità di funzionamento era stata così aumentata, mia i decolli, a potenza ridotta, apparivano più rischiosi. Inoltre i serbatoi dell'aeroplano non potevano portare più di 330 litri di benzina, invece dei 440 dei modelli più moderni, per cui la normale autonomia dello SVA ne risultava ridotta da dieci ore, e mezza di volo a sole otto. Per di più l'aeroplano, per uno svergolamento della cellula, pendeva a destra. Bisognava dunque pilotarlo tenendo costantemente la cloche poggiata sulla sinistra, per compensare questo difetto. Ciò feci tenendola agganciata con un elastico alla parete di sinistra dell'abitacolo per tutta la durata del volo. »

Ma come mai un raid così impegnativo veniva affrontato in una maniera tanto avventurosa? Eppure l'allora Direzione Generale d'Aeronautica aveva stanziato, per organizzarlo, ingenti spese, tanto da provocare una interrogazione parlamentare pochi giorni dopo la partenza dei piloti.

In realtà Ferrarin e Masiero, i piloti dei due SVA decollati il 14 febbraio da Centocelle, non avrebbero dovuto, nelle previsioni degli organizzatori, raggiungere Tokio. A loro era riservato soltanto il compito di fare da staffette ai partecipanti veri e propri, che sarebbero partiti. con una squadriglia di cinque SVA, nuovi e perfettamente a punto, l' 11 marzo successivo. L'idea base era quella, infatti, che l'intera formazione di cinque aeroplani compisse la traversata fino in Estremo Oriente, e che si presentasse al completo nei cieli del Giappone. A questi 5 SVA si sarebbero infine dovuti aggiungere, lungo il percorso, quattro plurimotori Caproni decollati, sempre da Centocelle, in epoche diverse.

L'idea del volo era nata in un gruppo di piloti militari rimasti inattivi dopo , la guerra. Alcuni l'attribuiscono allo stesso D'Annunzio e al giapponese Shimoi, che del Poeta fu un fedelissimo. Comunque D'Annunzio si fece portavoce della proposta, che trovò l’immediato consenso nell'industria aeronautica italiana. Questa, infatti, stava cercando mercati per collocare la crescente produzione di macchine e motori. Quanto all'interesse governativo si dice che, essendoci già nell'aria i prodromi dell'impresa fiumana, furono date disposizioni di accontentare al più presto D'Annunzio, in modo da « spedirlo » lontano dall'Italia.

Secondo l'interrogazione presentata al Parlamento, per il raid era stata prevista una spesa di 20 milioni e 80 mila lire, così suddivisa:

a) acquisto degli aeroplani occorrenti (11 apparecchi SVA, 2 Caproni GA 3, 2 Caproni CZ 5 e un triplano) più 60 motori: tre milioni 130 mila lire;

b) acquisto dei motori, dell'attrezzatura e del materiale di riserva: 1 milione di lire;

c) spesa per il personale addetto al raid, composto da 200 ufficiali e militari lungo la rotta e da 50 tra piloti, motoristi e tecnici vani al seguito della formazione: dodici milioni di lire;

d) impianto di campi d'atterraggio nuovi ed adattamento di campi preesistenti: due milioni di lire;

e) carburante per gli aerei e trasporto del medesimo fino alle località sedi delle tappe: 500 mila lire;

f) noleggio di due piroscafi per il trasporto dei materiali: 1 milione 400 mila lire.

Quando i giornali - si era intorno al 25 marzo 1920 e il raid era già iniziato - resero nota la cifra, si gridò allo scandalo. Furono perfino effettuati curiosi calcoli a sostegno della tesi: «17.000 chilometri », scrisse un quotidiano romano, « al costo di 20 milioni di lire, quindi più di una lira al metro! ». Il volo di un solo DC-8 sulla stessa rotta aerea costa oggi, da Roma a Tokio, qualche milione in più di quanto fu speso nel 1920.

Secondo i dati forniti dalla Direzione Generale d'Aeronautica gli aerei acquistati furono 15: undici biplani SVA, tre biplani ed un triplano Caproni. Di questi 15 aeroplani, cinque SVA costituivano la formazione diretta a Tokio insieme ai 4 Caproni; altri 4 SVA vennero dislocati nelle località più importanti dei percorso per costituire una riserva destinata a rimpiazzare quelle macchine che non fossero state eventualmente in grado di pro- seguire; i due restanti, infine, erano le « staffette » di cui si è parlato, pilotate da Arturo Ferrarin e Guido Masiero. Furono solo questi due aeroplani a giungere a Tokio, o meglio i loro equipaggi: Ferrarin, infatti, cambiò macchina a Calcutta e Masiero a Calcutta e Shangai. Tuttavia, avendo percorso il tratto Canton-Shangai in piroscafo, Masiero non può essere considerato più in gara, dopo questa tappa.

Non bisogna mai dimenticare quali fossero, a quell'epoca, le difficoltà del volo, specialmente in zone così lontane e disagiate. Gli organizzatori le avevano previste, ma soltanto in parte; non avevano pensato, infatti, che il calore eccessivo e le tempeste di sabbia avrebbero corroso i motori; che la stagione delle piogge, ai suoi inizi, avrebbe reso impraticabili molti dei terreni predisposti per gli atterraggi; che l'umidità delle notti tropicali avrebbe inzuppato la tela del rivestimento degli aeroplani; che, infine, una cieca fatalità si sarebbe accanita contro gli equipaggi in gara.

Il destino fece subito la sua prima vittima, non appena si cominciò a parlare del volo Roma-Tokio. Designato come capo squadriglia della formazione, che originariamente avrebbe dovuto essere composta solo di aerei del tipo SVA, era il capitano Natale Palli; valoroso combattente, aveva pilotato l'aeroplano di D'Annunzio durante il volo su Vienna, nell'agosto 1918. D'Annunzio voleva andare in Giappone con lui, e tutti gli altri piloti lo riconoscevano come capo indiscusso.

Fu quindi Palli che prese ì primi contatti con la Ansaldo, ditta costruttrice dello SVA e cominciò a studiare il percorso. Aviatore coscienzioso non trascurava di allenarsi al raid, effettuando voli di lunga durata. Nel corso di uno di questi voli, il 23 marzo 1919, incappò in una bufera di neve al disopra delle Alpi. Pilota espertissimo, riuscì ad atterrare indenne in alta montagna; ma visse due giorni soltanto. I soccorritori lo trovarono, assiderato, accanto al suo fedele SVA. Non aveva potuto sopravvivere alla temperatura bassissima.

Dopo la morte di Palli l'organizzazione del raid fu presa in mano dalla Direzione Generale d'Aeronautica, allora branca del Ministero dei Trasporti, che curava gli affari della nascente aviazione civile e si occupava delle missioni commerciali (aeronautiche) all'estero, Considerata la situazione economica dell'epoca, i fermenti sociali, gli scioperi, c'è da meravigliarsi che la Direzione d'Aeronautica riuscisse a mettere in opera un meccanismo complesso come l'organizzazione del raid Roma-Tokio. Alla fine del 1919 quasi tutto il personale addetto alle tappe risultò dislocato sul posto e si giunse quindi alla vigilia della partenza. Gli equipaggi prescelti erano i seguenti:

I. Tenente Edoardo Scavini e sottotenente Carlo Bonalumi su biplano Caproni Ca 3 (tre motori da 150 CV ciascuno);

2. Tenente Luigi Garrone, tenente Enrico Abba, motorista Alfredo Momo e motorista Alfredo Rossi su triplano Caproni Ca 4 (tre motori da 300 CV ciascuno);

3. Tenente Leandro Negrini, sottotenente Giovanni Origgi e motorista Dario Cotti su biplano Caproni Ca 3

( tre motori da 150 CV ciascuno);

4. Tenente Virginio Sala, tenente Innocente Borello e motorista Antonio Sanità su biplano Caproni Ca 5 (tre motori da 200 CV ciascuno).

Seguivano gli equipaggi dei sette SVA, così composti:

5. Tenente Guido Masiero e motorista Roberto Maretto;

6. Tenente Arturo Ferrarin e motorista Gino Cappatmini;

7. Pilota Giuseppe Grassa e capitano Mario Gordesco;

8. Capitano Umberto Re e operatore cinematografico Bixio Alberini;

9. Capitano Ferruccio Ranza e motorista Brigidi;

10. Tenente Amedeo Mecozzi e tenente Bruno Bilisco;

11. Tenente Ferruccio Marzarie motorista Giuseppe Damonte.

Ci dicono le cronache dell'epoca che non fu facile arrivare a comporre gli equipaggi. Infatti Gabriele D'Annunzio - come temeva l'autorità d'allora - aveva preferito correre a Fiume, e la sua rinunzia fu subito seguita da quella di numerosi piloti, tra i più esperti. Rinunciarono al raid nomi gloriosi come Locatelli (che nell'agosto del 1919 aveva compiuto il primo volo transcontinentale dell'America del Sud, volando dal Pacifico all'Atlantico senza scalo e superando le Ande); Granzarolo, che aveva partecipato al volo su Vienna; Casagrande, medaglia d'oro al valor militare, il pilota che planava a motore spento dietro le linee austriache per portarvi sabotatori o raccogliere informatori; il valoroso Ancillotto, altra medaglia d'oro, che era passato con il suo aeroplano attraverso un draken, un pallone austriaco in fiamme; Keller, singolare figura di aviatore, e altri tra cui un Ferrarin, Francesco, cugino di quello che sarebbe stato il trionfatore del raid.

Anche per la scelta degli aeroplani ci furono difficoltà. I primi piloti che ebbero l'idea del volo pensavano solo allo SVA. Questa sigla indica i progettisti dell'aeroplano, gli ingegneri Savoia e Verduzio, e la ditta costruttrice, l'Ansaldo. Era, lo SVA,l'aereo forse più prestigioso uscito nel corso del conflitto da una fabbrica italiana; italiano in ogni suo particolare, dal progetto all'esecuzione, dalla cellula al motore che era, nelle macchine di serie, uno SPA da 220 CV. Originariamente monoposto da ricognizione, fu costruito successivamente in varianti a due posti, sia per l'addestramento che per la ricognizione.

Lo SVA, negli anni successivi al primo conflitto mondiale, era stato il protagonista delle maggiori imprese sportive, come il volo Torino-Parigi senza scalo, compiuto valicando le Alpi o come la già citata trasvolata dell'America meridionale compiuta da Locatelli. Macchina incredibilmente robusta, costruita in base ai più severi principi della scienza aeronautica, conobbe un eccellente successo di esportazioni grazie anche alla rinomanza acquisita con queste imprese.

Tuttavia alla Direzione d'Aeronautica vollero affiancare agli SVA anche alcuni plurimotori Caproni, la cui notorietà era salita alle stelle durante il conflitto. I grandi bombardieri Caproni costituivano le uniche macchine degli Alleati che potessero svolgere azioni in profondità dietro le linee avversarie, ed erano stati perciò usati su tutti i fronti. Al momento dell'armistizio gli Stati Uniti ne stavano approntando su licenza diverse centinaia di esemplari.

Nonostante i successi dei suoi velivoli, l'ingegner Gianni Caproni, il fondatore della celebre azienda, non volle sentir parlare, sulle prime, di far partecipare i suoi aeroplani al raid. Spiegò che erano macchine che avevano bisogno di lunghe piste per i decolli e gli atterraggi e quindi non idonee ad operare su campi di fortuna. Alla fine, cedendo alle insistenze, acconsentì; ma ormai i materiali di riserva erano già stati inviati ai posti-tappa, per cui i Caproni decollarono senza speranza di sostituire i motori avariati dai lunghi voli. Ciò, come era previsto, causò la loro progressiva eliminazione dal raid.

Secondo quanto era stato stabilito, furono i Caproni a partire per primi. Iniziò il Ca 3 di Scavini e Bonalumi l'8 gennaio; pochi giorni dopo il suo volo aveva termine a causa di un atterraggio fuori campo in Siria, nel mezzo di una tempesta di sabbia. Il 18 gennaio decollava da Centocelle il Ca 4 di Abba e Garrone, che effettuava un magnifico volo senza scalo da Roma a Salonicco. Successivamente un incendio a bordo ne causava il ritiro mentre volava verso Smirne.

Il 27 gennaio ed il 2 febbraio partivano rispettivamente il Ca 5 e l'altro Ca 3: entrambi terminavano il volo in Asia Minore a causa di avarie riportate durante atterraggi particolarmente duri. Il 14 febbraio era la volta delle « staffette », Masiero e Ferrarin. In che cosa consistesse il loro compito, probabilmente non lo sapeva nessuno: dovevano genericamente aprire la marcia degli altri SVA fino ad un certo punto, e poi aspettare la formazione. La loro preparazione e la loro partenza avvennero all'insegna dell'improvvisazione e non mancarono spunti umoristici.

Per esempio, quando Ferrarin seppe che sarebbe partito (e lo seppe sette giorni soltanto prima dell'inizio del raid) si preoccupò di trovare carte delle zone da sorvolare; e scoprì che il secondo di Mecozzi, Bilisco, aveva portato da Parigi delle buonissime carte, abbastanza dettagliate. Chiese quindi di esaminarle e, con il metodo sbrigativo che gli era abituale, le trattenne per sé. Ma Bilisco pretese di riaverle. Allora Masiero e Ferrarin « requisirono » un atlante presso la Direzione Generale d'Aeronautica; senonché dal Ministero mandarono addirittura un carabiniere a riprenderlo. L'atlante fu riconsegnato, ma non prima che Ferrarin strappasse le pagine che gli interessavano, mentre Masiero intratteneva il carabiniere con la storia delle loro difficoltà.

Poche pagine d'atlante, e una bussola che Ferrarin si era portato indietro dall'Olanda - dove si era recato nel 1919 per una serie di esibizioni aeronautiche - costituivano tutto l'apparato per la navigazione del pilota. Quanto a Masiero, secondo i patti, avrebbe seguito Ferrarin, volando con lui in formazione. Va subito detto che questo proponimento non poté essere mantenuto, e infatti i due piloti volarono generalmente per proprio conto.

Seguiamo ora l'incredibile viaggio di Arturo Ferrarin e del suo motorista Gino Cappannini.

La prima tappa fu l'aeroporto di Gioia del Colle (Bari), dove decisero di fermarsi a causa di un guasto al motore dello SVA di Masiero. Corse voce, negli ambienti ministeriali, che in realtà questa tappa non fosse stata neanche toccata, ma che Ferrarin e Masiero, appena decollati da Roma, si recassero a Fiume per salutare Gabriele d'Annunzio. Fatto sta che alla Direzione d'Aeronautica stettero col fiato sospeso fino a quando un dispaccio da Salonicco non segnalò la loro presenza in quella città. Era il 16 febbraio. I due piloti dichiararono di aver fatto scalo intermedio a Valona, ma per molto tempo ci fu chi restò in dubbio circa l'effettivo percorso compiuto tra il 14 ed il 16 febbraio.

Da Salonicco decollarono per Smirne, ma ancora una volta il motore dello SVA dì Masiero cominciò a surriscaldarsi, -per cui i due piloti effettuarono un atterraggio di fortuna in un acquitrino nei pressi del fiume Meandro. A pochi chilometri da loro greci e turchi stavano combattendo, e fino a quando, grazie all'aiuto di aviatori greci, non riuscirono a decollare nuovamente verso Smirne sentirono il crepitio delle fucilate.

Da Smirne ripartirono il 19 febbraio per Adalia, dove incontrarono un tempo terribile: temperatura sotto zero e vento tanto violento da dover scavare dei solchi in cui infilare le ruote degli aeroplani. Ad Adalia scoppiò, per congelamento dell'acqua, il radiatore dell'aereo di Masiero, e Ferrarin decise di proseguire il viaggio da solo, mentre l'amico Si attardava per le necessarie riparazioni. Durante una bufera lo SVA di Ferrarin era stato legato con corde che lo tenevano ancorato al suolo. Solo quando fu in aria il pilota si accorse che erano rimasti legati i piani di coda, per cui dovette governare fino ad Aleppo con i comandi parzialmente. bloccati. Ad Aleppo l'atterraggio fu effettuato tra il turbinare della neve.

Partenza il giorno successivo, dopo aver tolto la neve accumulatasi sulle ali dell'aereo e volo fino a Bagdad con atterraggio sul locale campo di calcio dove due squadre di soldati inglesi stavano disputando una partita: tra il fuggi fuggi generale, l'aereo andò a fermarsi davanti a una porta.

Dopo aver ricevuto raccomandazioni di tenersi alto, per evitare le fucilate dei ribelli nella zona, il 23 febbraio Ferrarin decollò da Bagdad per Bassora. Dopo aver atteso qui Masiero per due giorni, visto che avanzava rapidamente la stagione delle piogge, si rimise in volo verso Bushir, nel Golfo Persico, dove arrivò fortunosamente attraverso nebbia e piogge, guidato fino a terra dal lancio di razzi. Da Bushir nuovo salto fino a Bander Abbas, sempre in mezzo al maltempo, che però andò a mano a mano sparendo fino a stemperarsi in un caldo soffocante, provocato dal monsone.

Da Bander Abbas a Ciaubar, nel Pakistan, sempre un caldo violentissimo a causa del quale dovettero togliere la cappotta al motore dell'aereo per farlo raffreddare più rapidamente. Se non ché spruzzi di olio provenienti dal motore stesso continuarono a tormentare per tutta la durata del volo pilota e motorista, specialmente questi, che occupava il posto anteriore dell'aeroplano.

Decollano da Ciaubar, il 1° marzo, in, mezzo ad una furiosa tempesta di sabbia: poco dopo il motore comincia a dare segni di cattivo funzionamento, alla fine Ferrarin è costretto ad atterrare in mezzo alla tempesta. Si accingono a riparare il motore, danneggiato da infiltrazioni di sabbia, quando vengono assaliti da indigeni armati che li sequestrano per alcune ore. Solo grazie a una fortunata coincidenza - vengono scambiati per bulgari, alleati dei tedeschi dai quali avevano ricevuto armi durante il conflitto - riescono a riparare il motore e a ripartire. Giungono così a Karachi dove si concedono un po' di riposo.

Le tappe si susseguono alle tappe, quasi tutte con atterraggi imprevisti o episodi movimentati. Da Karachi a Delhi, atterraggio forzato per rottura di un tubo della benzina; decollo, poi ancora un atterraggio difficile, di notte, a Delhi. Risultato: rottura del carrello. Nuova partenza per Calcutta dove Ferrarin arriva regolarmente. Il motore dell'aereo è ormai allo stremo, ma a Calcutta esistono tre SVA di riserva e si può cambiare apparecchio. Arriva nel frattempo anche Masiero, ma in treno, perché ha sfasciato l'aereo nella tappa di Delhi.

A Calcutta i due piloti sono pronti a ripartire per proseguire il raid, ma arriva un ordine da Roma: attendere la squadriglia dei cinque SVA partiti quella mattina dall'aeroporto di Centocelle. É l'11 marzo. Ferrarin e Masiero aspetteranno fino al 6 aprile, invano.

Che cosa era accaduto agli altri aeroplani? A Valona il capitano Re si era ritirato. Ad Adalia, il 26 marzo, Marzari e Ranza erano venuti a collisione, danneggiando gravemente, durante l'atterraggio, i rispettivi aeroplani. Con le due macchine se ne fa una, e Marzari prosegue come secondo di Ranza. Gli SVA sono dunque ridotti a tre.

Il 4 aprile Mecozzi urta in decollo contro un ostacolo nascosto nell'erba (tappa di Aleppo) e sfascia l'aeroplano. Nel frattempo, in volo da Adalia ad Aleppo, Ranza e Marzari sono abbattuti dalla fucileria di un gruppo di ribelli arabi, poi fatti prigionieri. Saranno liberati da un drappello di soccorritori dopo alcune ore di prigionia. Infine, il 13 aprile, la tragedia: a Bushir, in decollo, lo SVA di Grassa e Gordesco urta contro un edificio per un guasto al motore. La macchina si incendia ed i due valorosi ufficiali restano carbonizzati nel rogo.

Nel frattempo Ferrarin e Masiero, all'oscuro di. tutto, tempestavano Roma di telegrammi chiedendo di riprendere il volo. Alla fine si decidono, ed il 6 aprile, senza autorizzazione, partono da Calcutta. Volo movimentato per le condizioni atmosferiche non buone fino ad Akyab in Birmania, tappa e ripresa del volo verso Rangoon. Proprio in fase di atterraggio il tubo dell'acqua del radiatore dell'aereo di Ferrarin esplode. Il motore grippa e il pilota riesce a fare un atterraggio planato in un ippodromo. Masiero prosegue il volo mentre Ferrarin è attardato dalle riparazioni; il 14 aprile riesce a decollare per Bangkok dove arriva mentre si scatena un temporale violentissimo. A Bangkok iniziano i festeggiamenti, con ricevimento da parte del re del Siam.

Nuova, partenza per Hanoi, con tappa intermedia ad Ubon, campo di fortuna ricavato in mezzo alla giungla e presidiato da un gruppo di soldati italiani arrivati fin quaggiù con un ufficiale. Gli aviatori pernottano su di un carretto, mentre le belve sono tenute lontane da grandi fuochi accesi intorno al campo. Ad Ha- noi si incontrano nuovamente Ferrarin e Masiero: sono i primi aviatori giunti in volo in Indocina. Festeggiamenti anche qui e pranzi di gala.

Ma Ferrarin è impaziente di riprendere il volo ed il 21 aprile, sotto l'imperversare di una fitta pioggia, decolla per Canton dove però non riesce a giungere in giornata. Al cader della notte è costretto ad atterrare su di una spiaggia, incontra dei soldati che gli prestano assistenza. La mattina le ali dell'aereo, ricoperte di tela, sono gonfie di acqua penetratavi durante la notte: Cappannini deve fare dei buchi nella tela per far uscire l'acqua. Partenza ed arrivo a Canton sotto la pioggia. Momenti drammatici: il campo di atterraggio è allagato e Ferrarin gira intorno alla città mentre la benzina sta esaurendosi. Alla fine si decide e compie un atterraggio rischiosissimo in una piazza della città, tra la folla. Riesce a fermarsi in pochi metri, senza danni per nessuno.

A Canton grandi onoranze a tutti (Masiero era arrivato il giorno prima), ma molte preoccupazioni per la partenza. Viene infine scelto il pendio di una collinetta, sul quale sono portati gli aerei. La distanza è brevissima, per cui Ferrarin e Masiero scaricano gli aerei di tutto il superfluo. Decolla Ferrarin e riesce per miracolo ad alzarsi sfiorando gli alberi che circondano la collina; dopo di lui Masiero fallisce e sfascia l'aeroplano.

Tappa a Foochow (con atterraggio e successivo decollo da un campo semi inondato dalla pioggia) e poi a Shangai. Il volo è tormentoso, in mezzo all'imperversare di un tifone, fino a Tsingtao, primo territorio sotto la sovranità giapponese. Qui i due aviatori cominciano ad avere sentore dell'interesse con il quale il Giappone segue il raid: vengono decretati quattro giorni di festa e navi da guerra giapponesi sparano salve di cannonate in onore degli italiani. Da Tsingtao lo SVA prosegue fino a Tientsin, poi a Pechino : inutile parlare delle accoglienze tributate. Con una cerimonia solenne il primo ministro cinese accomuna Ferrarin a Marco Polo: il primo italiano venuto in Cina via terra ed il primo venuto in volo.

La trasvolata diventa un trionfo. Le successive tappe vengono richieste per poter festeggiare Ferrarin ed il suo motorista. Fanno così altre soste a Kowpangtze e Shingishu in Manciuria, a Seul in Corea, infine a Taiku. Di qui inizia il balzo verso il Giappone. Navi da guerra nipponiche sono state dislocate ad intervalli regolari per guidare l'aereo di Ferrarin, ma il maltempo impedisce di vederle. Finalmente si scorge Osaka, una delle maggiori città industriali del nuovo Giappone: ed è sul terreno della piazza d'armi di Osaka che Ferrarin discende, il 30 maggio 1920.

Una folla immensa circonda gli aeroplani di Ferrarin e di Masiero, agitano piccoli tricolori; alti dignitari, autorità politiche, ufficiali, diplomatici, tutti sono presenti per l'occasione.

I1 31 maggio alle 10, nonostante pioggia e cattivo tempo, i due aeroplani decollano per Tokio, dove giungono a distanza di un'ora l'uno dall'altro, dopo 450 km di volo. Il grande balzo è compiuto.

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  • 4 mesi dopo...
Ospite intruder

Trovato pure un sito americano che ne parla http://www.earlyaviators.com/eferrar1.htm

 

Intanto vedo se trovo una mappa del volo, visto che quella postata da iscandar è sparita.

 

 

EDIT: trovata questa, sperando non sparisca (la qualità non è granché, purtroppo):

 

percorso_vecchio.jpg

Modificato da intruder
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