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Picchiatelli alias gli Stuka Italiani


Dave97

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Benchè il nome "Stuka" sia sinonimo di Blitzkrieg ed evochi immediatamente le immagini della Luftwaffe in piena azione, i tedeschi non erano stati i primi ad impiegare lo Ju 87 nel teatro del Mediterraneo.

Gli italiani avevano sviluppato un proprio modello di bombardiere in picchiata alla fine degli anni '30.

Il bimotore Savoia-Marchetti SM 85 era stato progettato in risposta alla richiesta di Mussolini di avere un aereo in grado di spazzar via la flotta britannica nel Mediterraneo da quello che il Duce amava definire come il "mare nostrum".

Al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940,lo SM 85 era in dotazione a un Gruppo, il 96° del capitano Ercolano Ercolani, di base sull'isola di Pantelleria, quasi a meta strada tra la Sicilia e le coste della Tunisia.

Dal punto di vista operativo, la "Banana Volante" (l'aereo era così soprannominato per la caratteristica incurvatura verso l'alto del muso e della coda, se visto di profilo) fu un fallimento totale.

Dopo circa un mese di inattività, il momento di gloria dell'SM 85 venne quando tre aerei persero parecchie ore nella vana ricerca di unità della flotta Inglese segnalate allargo di Malta.

Questo fu il solo contributo della "Banana Volante" ai sogni del dittatore italiano di ripulire il "suo" mare della presenza nemica.

Il clima di Pantelleria ,tremendamente caldo di giorno e umido di notte, aveva fatto i danni peggiori: con i velivoli parcheggiati all'aperto, le strutture in legno degli SM 85 stavano cominciando a deformarsi malamente.

Ancora convinto che le sue forze aeree avessero bisogno di un bombardiere in picchiata, Mussolini si rivolse al suo alleato dell'Asse chiedendo assistenza.

Una missione speciale, condotta dal generale Pricolo, capo di stato maggiore dell' Aeronautica italiana, fu inviata in Germania per negoziare l'acquisto di un numero di Ju 87 sufficiente, almeno all'inizio, per equipaggiare due gruppi completi.

E prima della fine del mese di luglio del 1940, i primi 15 piloti italiani erano arrivati alla Stuka-Schule 2 di Graz-Thalerhof, in Austria, per cominciare l'addestramento; ne giunsero poi altri 15 il mese seguente.

Dato l'espresso desiderio del Duce per un'azione rapida, questi primi corsi di conversione furono condensati e accelerati.

Gli istruttori tedeschi rimasero sorpresi dall' entusiasmo e dal fervore dei loro allievi, e tentarono di insegnare loro quanto più possibile nel limitato tempo a disposizione.

Gli italiani, dal canto loro (tutti accuratamente selezionati, e molti anche ex pi loti da caccia), apprezzarono grandemente le caratteristiche in termini di prestazioni e di manovrabilità degli Stuka, specialmente dopo le recenti e penose esperienze con gli SM 85.

I primi Ju 87 italiani non furono consegnati dalla fabbrica, ma vennero prelevati dalla Luftwaffe, con le insegne di quest' ultima semplicemente ridipinte e rimpiazzate da quelle della Regia Aeronautica.

Non fu la sola "modifica " a cui gli Stuka vennero sottoposti, poichè gli equipaggi italiani diedero subito un nome ai loro nuovi apparecchi.

In italiano la parola che meglio descrive la caratteristica dello Stuka è "picchiata".

E in ogni vocabolario che si rispetti, dopo questo termine viene "picchiatello", nel senso di persona un po' tocca.

Questa felice giustapposizione, che descrive allo stesso tempo la macchina e chi è contento di starci dentro mentre la dirige verso il suolo in una discesa quasi verticale, diede allo Stuka il suo nuovo appellativo.

Risplendente nelle sue insegne italiane dipinte di fresco, lo Ju 87 divenne "il Picchiatello".

Pur ribattezzati con un nome più adatto a un personaggio dei cartoni animati, in mani italiane gli Ju 87 si sarebbero dimostrati un'arma potente.

Ma a causa della loro netta inferiorità numerica, sarebbero sempre rimasti nell'ombra delle loro controparti tedesche.

 

Tratto da Aerei Militari - Assi e leggende

 

FAZIOpicchiatello.jpg

Modificato da Dave97
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Rimasto di base a Lecce, il 97° Gruppo continuò ad effettuare incursioni attraverso il canale di Otranto.

Il 23 marzo i "Vecchi Manici" della 239a sorpresero un convoglio al largo di Corfù, attribuendosi l'affondamento di una nave e il danneggiamento di un'altra.

Uno dei piloti più anziani del 97° Gruppo, il capitano Giuseppe Cenni, aveva da poco elaborato una nuova tecnica di attacco contro il naviglio di superficie.

Preso atto del fatto che i "Picchiatelli" disponibili probabilmente non sarebbero mai stati in numero sufficiente per permettere alla Regia Aeronautica di condurre attacchi nel classico stile Stuka perfezionato dalla Luftwaffe (ovvero, una successione continua di aerei che si tuffavano in una ripida picchiata da alta quota e da ogni punto cardinale per confondere e sopraffare le difese nemiche), Cenni opta per una picchiata poco angolata ad alta velocità fino a quota molto bassa.

La bomba doveva essere quindi sganciata in volo orizzontale, in modo che la spinta inerziale in avanti la facesse "rimbalzare" sulla superficie dell'acqua (in maniera simile a un sasso piatto lanciato su uno stagno) prima di urtare contro lo scafo del bersaglio ed esplodere.

In effetti, ciò che Cenni aveva fatto era stato di anticipare di molti mesi sia la tecnica dei "bombardamenti a rimbalzo" adottata allo stesso scopo dagli americani nel Pacifico sud-occidentale, sia quella ancor più famosa (e senz'altro più sofisticata) sviluppata da Barnes Wallis per l'incursione dei "Distruttori di dighe" del maggio 1943.

Una delle prime vittime accertate del metodo d'attacco "Cenni" fu il mercantile greco Susanna da 932 tonnellate, affondato dallo stesso Cenni al largo di Corfù il 4 aprile con un centro pieno.

Ammettendo la perdita, i greci (ingannati dall'attacco a bassa quota) la attribuirono a "un siluro aereo"!

E in un'analoga azione durante il terzo e ultimo attacco contro navi nemiche lo stesso giorno, la 239° Squadriglia colpì la nave della marina militare greca Possa, sostenendo fosse un cacciatorpediniere, benchè in realtà si trattasse di una piccola cannoniera da 240 tonnellate circa dei tempi della I Guerra Mondiale!

Questi affondamenti rappresentarono in effetti il canto del cigno dei "Picchiatelli" come protagonisti autonomi nel teatro di guerra del Mediterraneo, poichè meno di 48 ore dopo, le truppe di Hitler invadevano i Balcani.

Inclusi nell' armata aerea di supporto della Luftwaffe vi erano più di 250 Stuka.

Senza essere mai in grado di mettere in campo più di una frazione delle forze a disposizione dei Gruppen tedeschi, e continuando ad essere totalmente dipendenti dall' alleato dell' Asse per parti di ricambio e attrezzature, i "Picchiatelli" si ritrovarono relegati a un ruolo subordinato per la maggior parte della loro restante carriera operativa.

 

 

Tratto da Aerei Militari - Assi e leggende

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I modelli a disposizione della Regia erano del tipo 'C' e 'D'
:blink:

 

Con la Regia

 

Nei primi mesi del 1939 una commissione della Luftwaffe venne inviata a Guidonia per uno scambio di conoscenze e materiale. I piloti collaudatori tedeschi ebbero occasione di provare gli apparecchi italiani e gli italiani poterono provare in volo lo Stuka. In Italia la specialità del bombardamento in picchiata era scarsamente evoluta, per questo motivo il governo italiano inviò una richiesta al Ministero dell'Aeronautica tedesco per almeno un centinaio di Ju 87B2, il quale accettò di fornirli in due lotti da 50 apparecchi ciascuno.

 

I piloti italiani che dovevano essere preparati per questa specialità vennero inviati presso la Stukaschule di Graz in Austria, dove frequentarono un ciclo addestrativo abbreviato, a causa del fatto che erano piloti militari già formati per la specialità di caccia. Infatti gli istruttori tedeschi rimasero colpiti dalle capacità degli allievi italiani. Al termine del corso gli allievi tornarono con i propri apparecchi in Italia.

 

Dopo una breve riorganizzazione i 50 Stuka italiani del primo lotto vennero schierati sui campi di volo siciliani nel settembre del 1940. L'obbiettivo era Malta ed i convogli navali britannici. Successivamente altri gruppi vennero assegnati al teatro greco-albanese, sui Balcani ed in Africa settentrionale.

 

I 50 Stuka del secondo lotto erano quasi tutti nella versione Ju 87R2 a grande autonomia, dotata anche di due serbatoi subalari da 300 litri. Questi aerei vennero inoltre ben presto aggiornati alla versione R5 con materiale di sopravvivenza nelle ali ed in cabina.

 

Col protrarsi della guerra la Regia Aeronautica ricevette altri esemplari, complessivamente 159 apparecchi tra le versioni B2, R2-5 e D3. (Wiki)

 

Spledido link dove si può osservare il manuale Della Regia Sul Ju 87 ;)

 

ju87_formazione.jpg^_^

Modificato da Blue sky
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  • 3 mesi dopo...

UN GIORNO DELL'ESTATE DEL 1943

 

Ultimata la scuola di secondo periodo di pilotaggio, venni trasferito all'aeroporto di Lonate Pozzolo, agli Stuka.

Vi giunsi il 16 giugno 1943 e il giomo successivo, dopo due voli dimostrativi con il «Cr. 42», decollai con lo Stuka, il tuffatore tedesco,venendo conquistato a poco a poco da questo aeroplano.

Feci un addestramento intensissimo, con lancio di bombe da esercitazione sul poligono e, dopo venti giorni, venni assegnato alla 237a squadriglia tuffatori distanza all'aeroporto di Ampugnano (Siena).

Cominciavo ad avvicinarmi alla zona di combattimento e ne ero felice.

Vi giunsi il 7 luglio, e il 10 mattina feci il passaggio sullo Junker 87 D3, detto "Dora" .

Ero sceso da poco dal nuovo aereo quando giunse l'ordine in linea di volo di trasferimento della squadriglia a Gioia del Colle (Bari).

Gli anglo-americani avevano iniziato, infatti, l'attacco alla Sicilia.

La mia squadriglia faceva ora parte del 121° Gruppo tuffatori, al comando del Maggiore Orlandini.

 

Giorno 12 luglio 1943.

Il Maggiore Orlandini scelse cinque piloti oltre a se stesso; ricordo il Tenente Marcoccia, il Sottotenente Poggioli, il Maresciallo Galletti.

Essendo disponibile un settimo apparecchio, mi offrii di partecipare all'azione di attacco al naviglio nemico che si trovava nella rada di Augusta.

Venni accettato.

Il comandante ci indicò la rotta, il metodo di attacco alle navi e alle ore 11.55 partimmo, diretti verso l'Etna per l'appuntamento con la caccia di scorta, che però non si vide.

Lo spettacolo dell'isola siciliana, immersa in un mare verdastro, era meraviglioso e dalla quota di oltre quattromila metri si ammirava la costa verso Palermo e Catania e lo stretto di Messina, che si incuneava come un grande fiume fra le estreme propaggini della costa calabra e la zona di Capo Faro.

Benché senza scorta, ci metteremmo in rotta verso Augusta.

Pilotavo l'ultimo aereo della formazione, e mi beccai subito e in pieno l'attacco della caccia avversaria che proteggeva la flotta d'invasione, la quale stava mettendo in mare centinaia di zatteroni da sbarco.

Virammo verso il centro della rada, e, seguendo la squadriglia, mi gettai in tuffo su una grossa nave mercantile, senza azionare i freni aerodinamici per rimanere il minor tempo possibile sul bersaglio.

Tolsi la sicura alla bomba e alle mitragliatrici in caccia e mi misi a sparare sul ponte della nave, alla quale mi avvicinavo e che ingrandiva a vista d'occhio.

Quelli di sotto sparavano come indiavolati con un tiro molto preciso, perché vedevo che i proiettili mi esplodevano intorno, e sempre alla mia quota.

Traguardavo la nave al centro del collimatore e sparavo durante il tuffo a novanta gradi. Pensavo: questa non mi può sfuggire.

Le vampe prodotto dalle mie mitragliere alari mi rincuoravano, dandomi un senso di protezione.

A un certo momento sentii suonare la sirena; l'altimetro segnava duemila metri di quota, al di sotto dei quali si innalzavano i palloni frenati.

Sganciai la bomba e iniziai la richiamata; avevo raggiunto nel tuffo una velocità di oltre cinquecento chilometri e mi parve di essere addirittura schiacciato dalla accelerazione di gravità

Sei «Spitfire» mi si misero alle costole, decisi a farmi fuori.

Venni preso da una rabbia cieca, sentendomi tallonato come un ladro dai cani poliziotti.

Un caccia mi attaccava dalla destra a non più di cento o duecento metri di distanza; scorsi il pilota quasi in viso; gli virai addosso e sparai.

Non posso dire se lo colpii o no; l'inglese mi si gettò sotto e sparì nel gran vuoto che avevo sotto di me.

Intanto, da dietro, mi sparavano e, oltre che sentirle, vedevo le raffiche avversarie colpire le ali; la carlinga dietro all'armiere, il timone, i piani di coda erano già ridotti peggio di un colabrodo.

Ma lo «Stuka», apparecchio particolarmente robusto, volava ancora.

Per cercar di evitare questo tiro al bersaglio, mi tuffai nuovamente, sino a una quota bassissima, sull'acqua, mentre il mio armiere, il bravo Rimoldi, rispondeva al fuoco nemico con le armi in torretta.

Vedevo lontano il massiccio grigio-scuro dell'Enta, e puntavo verso nord, con l'intenzione di atterrare a Reggio Calabria.

A un tratto sentii una raffica sulla testa; mi entrò in fusoliera attraverso la capottina e mi ruppe vari strumenti, ma il motore funzionava ancora, e io continuavo la corsa quasi disperata con gli occhi fissi al mare.

Sentii la voce dell'armiere che, per mezzo dell'interfonico, mi avvertiva che le sue mitragliatrici si erano inceppate.

Gli risposi di cercare di disincepparle al più presto, altrimenti ci avrebbero certamente fatto fuori.

Vi riuscì, sentii sparare una raffica contro uno Spitfire che si era messo in coda troppo vicino. Si incendiò e con la maggiore velocità ci oltrepassò sulla destra, infilandosi in mare d'ala.

Il nostro grido di gioia venne, però, subito stroncato da un colpo di cannoncino che, attraversando letteralmente il motore, colpì il circuito dell'olio e dell'acqua.

Lasciavamo un fumo nerastro in coda; la pedaliera si mise a vibrare pazzamente, il motore a scoppiettare, i giri a diminuire.

Era la fine del nostro magnifico apparecchio!

Vidi una fiammata sotto la manetta del gas, e un principio d'incendio sulle ali pericolosamente vicino ai serbatoi della benzina.

Il mare, intanto, si avvicinava, e forse era la nostra sola salvezza, non essendovi più la quota disponibile per il lancio con il paracadute.

Ordinai all'armiere di sganciare la capottina e di slacciarsi le bretelle.

lo pure con la sola mano disponibile, cercai di fare altrettanto.

La quota era di circa cento metri e planavo irrirnediabilmente sul mare.

Impugnai la cloche con la mano sinistra, mi puntellai con la destra sul bordo anteriore della carlinga; l'acqua era lì, sganciai tirando la leva di comando alla pancia; sentii un violentissimo colpo all'occhio sinistro e mi trovai capottato sott'acqua dentro la carlinga.

Il mare si tingeva di rosso per il sangue che mi sgorgava copioso dalle ferite all'occhio.

Lottai disperatamente contro il salvagente che mi teneva a galla a testa in giù nell'interno della fusoliera e contemporaneamente avevo la pretesa di prestare soccorso al mio armiere, credendo che fosse rimasto intrappolato nella carlinga.

Quando già stavo per rimanere senza aria, riuscii a liberarmi e con violenti colpi di tallone venni alla superficie.

Il cielo era stupendamente azzurro, e il mare leggermente mosso.

Feci appena in tempo a respirare profondamente e l'aeroplano, riempitosi di acqua, si inabissò producendo un gorgo di spuma con infinite bolle d'aria che continuarono a venire alla superficie.

Mi sentii tirare per i piedi ma rimasi a galla; ora il salvagente era provvidenziale.

A dieci metri circa di distanza da me, il mio armiere, con un solo graffio insignificante in fronte, stava armeggiando intorno al battellino pneumatico per aprirlo, battellino che era volato in mare insieme con lui nel momento della cappottata dell'aereo.

Raggiunsi con alcune bracciate il battellino aperto e vi salimmo entrambi.

Erano esattamente le ore 13.26, segnate dal mio cronometro, che si era fermato al contatto dell'acqua salata.

Distanza dalla costa circa trenta chilometri ed eravamo vivi.

Ci medicammo, fumammo, mangiammo qualche biscotto col cioccolato e a turno remammo per ore e ore.

La costa si ingrandiva, ma rimanendo sempre lontana.

Vedemmo delfini a branchi, navi e combattimenti aerei.

Quando il cielo fu tutto nero per la notte vicina, ci raggiunse una motozattera tedesca che aveva visto un nostro razzo e ci prese a bordo.

Il ponte ci sembrava estremamente solido, e l'accoglienza fu fraterna.

Dopo tre giorni per viaggi in mare, autoambulanza e treno, raggiungemmo il nostro Gruppo che continuava a spostarsi di aeroporto in aeroporto.

Qui l'accoglienza per noi due, considerati morti più che dispersi, fu calorosissima.

Appresi che avevamo affondato un grosso mercantile di ottomila tonnellate, e che l'affondatore dovevo essere stato io perché il maresciallo Galletti che mi precedeva nel tuffo, e che aveva sganciato la bomba sugli zatteroni da sbarco, dichiarò che, dopo lo sgancio dei primi cinque, non aveva visto nessuna nave colpita.

Mi venne poi concessa una Medaglia d'argento.

Desidero ricordare alcuni nomi di giovani colleghi piloti per onorame la memoria.

Il Sottotenente Poggioli di Modena, abbattuto nella mia azione, e il Sottotenente Calzoni di Bologna, abbattuto fra altri nell'azione del 13 luglio.

Aeronautica Settembre 1992

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Ospite galland

UNA TRAGICOMICA MISSIONE DEI SM.85

Gli SM.85 dislocati a Pantelleria nel giugno del 1940 dovrebbero in qualche modo intervenire su Malta e contro unità in navigazione. Il primo evento non può tuttavia materializzarsi per la manifesta inadeguatezza del mezzo al tipo di azione. In quanto al secondo capita un episodio tragicomico alla prima uscita operativa. Ricevuta la segnalazione di navi nemiche, decollano tre velivoli che debbono poi rientrare al termine di una lunga e infruttuosa ricerca. Prima dell’atterraggio, i piloti si liberano su mare delle tre bombe da 500 kg. che non possono riportare a terra causa la congenita debolezza strutturale del carrello. Il lancio è effettuato non lungi dall’isola… a fini gastronomici: se non si sono trovate le navi inglesi, almeno le bombe serviranno a rifornire di pesce la mensa dell’aeroporto. Purtroppo, nonostante il preavviso di rientro, i tre incauti pescatori di frodo sono inquadrati da un violentissimo fuoco dal Personale della contraerea indigena certo non ancora avvezza a riconoscere la nazionalità degli aeromobili ed allarmata dallo sgancio di bombe, apparentemente incomprensibile. Per quasi un’ora i tre SM.85 sono costretti a temporeggiare l’atterraggio fino a quando i colleghi del 96° gruppo non hanno potuto chiarire la situazione placando le locali batterie antiaeree.

Così finì la vita operativa di questo velivolo…

 

 

UNA GIORNATA DI GUERRA DEI VELIVOLI DELLA 207 SQUADRIGLIA

Nella primavera del 1943 affluiscono presso i reparti operativi della Regia Aereonautica gli Junker Ju. 87D “Dora”; si tratta dell’ultima versione del celebre bombardiere in picchiata tedesco, rispetto alla precedente versione B risulta incrementata la potenza motrice, i pesi a vuoto ed a pieno carico, la velocità massima, l’autonomia, la tangenza. L’armamento brandeggiabile per la difesa posteriore risulta potenziato: dalla singola MG15 da 7,92mm (versione B) ad un complesso binato Mauser MG81Z con 1000 colpi per arma, restando invariato l’armamento alare con due mitragliatrici MG17 da 12,7mm, il carico bellico sale da 1000 a 1800 kg., con differenti possibilità di combinazioni sub alari o ventrale. Risulta variato il tettuccio ed il seggiolino del pilota maggiormente blindato.

Non appena si profila lo sbarco nemico in Sicilia anche il 103° gruppo è mobilitato operativamente. Sei Ju.87 D-3 della 207° squadriglia (cap. Cesare Zanazzo, ten. Dino Balduin, ten. Umberto Tito, tre sottufficiali piloti) del pomeriggio del 10 luglio lasciano il campo sardo di Chilivani e si portano a Decimonannu. La mattina successiva essi giungono a Palermo – Boccadifalco ove due aerei si incidentato in atterraggio per le buche causate da un recente bombardamento. Alle ore 12,45 il capitano Zanazzo decolla alla testa dei superstiti quattro velivoli, quindi sorvola Trapani – Chinisia per essere agganciato da sette Macchi del 51° stormo che debbono garantire la scorta in quota: gli Ju. 87D volano invece bassissimi per sfuggire al rilevamento radar e non effettuano comunicazioni radio. Sulla rotta si presentano improvvisamente circa 50 caccia avversari che, nell’impegnare i Macchi, non si avvedono i tuffatori che così possono procedere indisturbati, guadagnare quasi tremila metri di quota e presentarsi, controsole, sulla baia di Licata pullulante di navi e di mezzi da sbarco. La reazione contraerea è tardiva ma di eccezionale violenza. I quattro velivoli sganciano sulle navi da 350 metri di quota 8 bombe da 250 kg. quindi tagliano la linea di costa raso terra mitragliando le truppe e gli automezzi appena sbarcati sulla spiaggia. Per superare le colline circostanti, la formazione cabra in una stretta vallata. L’atterraggio a Trapani – Chinisia avviene alle 15,20 e qui si constatano squarci nelle ali, serbatoi bucati, alettoni inefficienti, tanto che i velivoli vengono considerati non più in grado di compiere azioni belliche. La brillante azione, che ha danneggiato una nave da guerra, un piroscafo di medio tonnellaggio, un mezzo da sbarco, viene citata nel Bollettino di Guerra.

 

 

UN VELIVOLO DIMENTICATO

Nel settembre del 1942 la Savoia Marchetti definisce un monomotore biposto per il bombardamento a tuffo caratterizzato da una peculiare soluzione di guida: quella della posizione prona.

Il velivolo è a struttura interamente lignea, come il fallimentare SM. 85, e propulso dal Daimler Benz DB605 RC. 58, l’armamento consiste in un cannone Mauser da 20 mm con tiro attraverso il mozzo dell’elica, due mitragliatrici da 12,7 mm alari ed un arma dorsale, d’identico calibro, per la difesa posteriore. Viene prevista la realizzazione di due prototipi, nessuno dei quali giunge completo alla data dell’armistizio.

Successivamente le Autorità tedesche di vigilanza permettono il completamento del primo prototipo, in avanzato stato di completamento, tanto da poter essere ultimato alla fine del gennaio 1944. Il collaudatore della Ditta Fernando Rosei viene chiamato compiere i voli di collaudo dell’apparecchio che reca insegne tedesche. Il 30 gennaio egli effettua alcuni rullaggi per familiarizzarsi con le inconsuete disposizioni di comandi e pedaliera ed il giorno successivo compie il primo decollo. Questo ed i successivi dimostrano una macchina con un regolare comportamento di volo e sono richieste esclusivamente una serie di migliorie per rendere meno gravosa la posizione del pilota: sono predisposte imbottiture sul lettino che ha sostituito il seggiolino ed un poggia mento che consente di mantenere la testa eretta senza una continua tensione muscolare del collo; per evitare che nelle affondate il pilota sia proiettato nell’estrema prua, sono anche predisposti appositi ancoraggi per le gambe. Ma anche con questi accorgimenti rimane innaturale e gravosa la posizione del pilota che svolge il suo lavoro a bordo a prezzo di notevoli sacrifici. Soddisfacente il comportamento dell’aereo, manovriero, dotato di buoni comandi, sufficientemente stabile; anche le caratteristiche di velocità e salita (542 km/h. a 7.000 mt., 5’40’’ a 4000 mt.) si rivelano adeguate al tipo di macchina. Vengono effettuate diverse prove di affondata con buon esito, sia nella fase di tuffo che in quella di richiamata: nella prima sono raggiunte velocità nell’ordine dei 900 km/h. in alcuni voli Rosei è accompagnato dal motorista della Ditta Giuseppe Ceratti. Entro il 29 marzo 1944 il collaudatore ha compiuto 16 voli per un totale di 6 ore e 40 minuti. In tale data la Commissione tedesca fa sospendere i voli all’SM.93, non ritenendo il velivolo di proprio interesse. Mancano così dati sperimentali sull’armamento previsto per tale aereo, non essendo state effettuate prove di tuffo e tanto meno di sgancio con le bombe ventrali e sub alari.

Interessante rilevare che il pilotaggio prono venne previsto anche dai progettisti tedeschi. Il Gotha P60, un velivolo ala volante spinto da due turboreattori e rimasto allo stato di progetto. Il pilota ed il navigatore erano infatti allocati nell’estrema prua del velivolo in posizioni affiancate, appunto in tale posizione.

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  • 12 anni dopo...
Il 13/6/2008 in 22:45 , Dave97 ha scritto:

UN GIORNO DELL'ESTATE DEL 1943

 

Ultimata la scuola di secondo periodo di pilotaggio, venni trasferito all'aeroporto di Lonate Pozzolo, agli Stuka.

Vi giunsi il 16 giugno 1943 e il giomo successivo, dopo due voli dimostrativi con il «Cr. 42», decollai con lo Stuka, il tuffatore tedesco,venendo conquistato a poco a poco da questo aeroplano.

Feci un addestramento intensissimo, con lancio di bombe da esercitazione sul poligono e, dopo venti giorni, venni assegnato alla 237a squadriglia tuffatori distanza all'aeroporto di Ampugnano (Siena).

Cominciavo ad avvicinarmi alla zona di combattimento e ne ero felice.

Vi giunsi il 7 luglio, e il 10 mattina feci il passaggio sullo Junker 87 D3, detto "Dora" .

Ero sceso da poco dal nuovo aereo quando giunse l'ordine in linea di volo di trasferimento della squadriglia a Gioia del Colle (Bari).

Gli anglo-americani avevano iniziato, infatti, l'attacco alla Sicilia.

La mia squadriglia faceva ora parte del 121° Gruppo tuffatori, al comando del Maggiore Orlandini.

 

Giorno 12 luglio 1943.

Il Maggiore Orlandini scelse cinque piloti oltre a se stesso; ricordo il Tenente Marcoccia, il Sottotenente Poggioli, il Maresciallo Galletti.

Essendo disponibile un settimo apparecchio, mi offrii di partecipare all'azione di attacco al naviglio nemico che si trovava nella rada di Augusta.

Venni accettato.

Il comandante ci indicò la rotta, il metodo di attacco alle navi e alle ore 11.55 partimmo, diretti verso l'Etna per l'appuntamento con la caccia di scorta, che però non si vide.

Lo spettacolo dell'isola siciliana, immersa in un mare verdastro, era meraviglioso e dalla quota di oltre quattromila metri si ammirava la costa verso Palermo e Catania e lo stretto di Messina, che si incuneava come un grande fiume fra le estreme propaggini della costa calabra e la zona di Capo Faro.

Benché senza scorta, ci metteremmo in rotta verso Augusta.

Pilotavo l'ultimo aereo della formazione, e mi beccai subito e in pieno l'attacco della caccia avversaria che proteggeva la flotta d'invasione, la quale stava mettendo in mare centinaia di zatteroni da sbarco.

Virammo verso il centro della rada, e, seguendo la squadriglia, mi gettai in tuffo su una grossa nave mercantile, senza azionare i freni aerodinamici per rimanere il minor tempo possibile sul bersaglio.

Tolsi la sicura alla bomba e alle mitragliatrici in caccia e mi misi a sparare sul ponte della nave, alla quale mi avvicinavo e che ingrandiva a vista d'occhio.

Quelli di sotto sparavano come indiavolati con un tiro molto preciso, perché vedevo che i proiettili mi esplodevano intorno, e sempre alla mia quota.

Traguardavo la nave al centro del collimatore e sparavo durante il tuffo a novanta gradi. Pensavo: questa non mi può sfuggire.

Le vampe prodotto dalle mie mitragliere alari mi rincuoravano, dandomi un senso di protezione.

A un certo momento sentii suonare la sirena; l'altimetro segnava duemila metri di quota, al di sotto dei quali si innalzavano i palloni frenati.

Sganciai la bomba e iniziai la richiamata; avevo raggiunto nel tuffo una velocità di oltre cinquecento chilometri e mi parve di essere addirittura schiacciato dalla accelerazione di gravità

Sei «Spitfire» mi si misero alle costole, decisi a farmi fuori.

Venni preso da una rabbia cieca, sentendomi tallonato come un ladro dai cani poliziotti.

Un caccia mi attaccava dalla destra a non più di cento o duecento metri di distanza; scorsi il pilota quasi in viso; gli virai addosso e sparai.

Non posso dire se lo colpii o no; l'inglese mi si gettò sotto e sparì nel gran vuoto che avevo sotto di me.

Intanto, da dietro, mi sparavano e, oltre che sentirle, vedevo le raffiche avversarie colpire le ali; la carlinga dietro all'armiere, il timone, i piani di coda erano già ridotti peggio di un colabrodo.

Ma lo «Stuka», apparecchio particolarmente robusto, volava ancora.

Per cercar di evitare questo tiro al bersaglio, mi tuffai nuovamente, sino a una quota bassissima, sull'acqua, mentre il mio armiere, il bravo Rimoldi, rispondeva al fuoco nemico con le armi in torretta.

Vedevo lontano il massiccio grigio-scuro dell'Enta, e puntavo verso nord, con l'intenzione di atterrare a Reggio Calabria.

A un tratto sentii una raffica sulla testa; mi entrò in fusoliera attraverso la capottina e mi ruppe vari strumenti, ma il motore funzionava ancora, e io continuavo la corsa quasi disperata con gli occhi fissi al mare.

Sentii la voce dell'armiere che, per mezzo dell'interfonico, mi avvertiva che le sue mitragliatrici si erano inceppate.

Gli risposi di cercare di disincepparle al più presto, altrimenti ci avrebbero certamente fatto fuori.

Vi riuscì, sentii sparare una raffica contro uno Spitfire che si era messo in coda troppo vicino. Si incendiò e con la maggiore velocità ci oltrepassò sulla destra, infilandosi in mare d'ala.

Il nostro grido di gioia venne, però, subito stroncato da un colpo di cannoncino che, attraversando letteralmente il motore, colpì il circuito dell'olio e dell'acqua.

Lasciavamo un fumo nerastro in coda; la pedaliera si mise a vibrare pazzamente, il motore a scoppiettare, i giri a diminuire.

Era la fine del nostro magnifico apparecchio!

Vidi una fiammata sotto la manetta del gas, e un principio d'incendio sulle ali pericolosamente vicino ai serbatoi della benzina.

Il mare, intanto, si avvicinava, e forse era la nostra sola salvezza, non essendovi più la quota disponibile per il lancio con il paracadute.

Ordinai all'armiere di sganciare la capottina e di slacciarsi le bretelle.

lo pure con la sola mano disponibile, cercai di fare altrettanto.

La quota era di circa cento metri e planavo irrirnediabilmente sul mare.

Impugnai la cloche con la mano sinistra, mi puntellai con la destra sul bordo anteriore della carlinga; l'acqua era lì, sganciai tirando la leva di comando alla pancia; sentii un violentissimo colpo all'occhio sinistro e mi trovai capottato sott'acqua dentro la carlinga.

Il mare si tingeva di rosso per il sangue che mi sgorgava copioso dalle ferite all'occhio.

Lottai disperatamente contro il salvagente che mi teneva a galla a testa in giù nell'interno della fusoliera e contemporaneamente avevo la pretesa di prestare soccorso al mio armiere, credendo che fosse rimasto intrappolato nella carlinga.

Quando già stavo per rimanere senza aria, riuscii a liberarmi e con violenti colpi di tallone venni alla superficie.

Il cielo era stupendamente azzurro, e il mare leggermente mosso.

Feci appena in tempo a respirare profondamente e l'aeroplano, riempitosi di acqua, si inabissò producendo un gorgo di spuma con infinite bolle d'aria che continuarono a venire alla superficie.

Mi sentii tirare per i piedi ma rimasi a galla; ora il salvagente era provvidenziale.

A dieci metri circa di distanza da me, il mio armiere, con un solo graffio insignificante in fronte, stava armeggiando intorno al battellino pneumatico per aprirlo, battellino che era volato in mare insieme con lui nel momento della cappottata dell'aereo.

Raggiunsi con alcune bracciate il battellino aperto e vi salimmo entrambi.

Erano esattamente le ore 13.26, segnate dal mio cronometro, che si era fermato al contatto dell'acqua salata.

Distanza dalla costa circa trenta chilometri ed eravamo vivi.

Ci medicammo, fumammo, mangiammo qualche biscotto col cioccolato e a turno remammo per ore e ore.

La costa si ingrandiva, ma rimanendo sempre lontana.

Vedemmo delfini a branchi, navi e combattimenti aerei.

Quando il cielo fu tutto nero per la notte vicina, ci raggiunse una motozattera tedesca che aveva visto un nostro razzo e ci prese a bordo.

Il ponte ci sembrava estremamente solido, e l'accoglienza fu fraterna.

Dopo tre giorni per viaggi in mare, autoambulanza e treno, raggiungemmo il nostro Gruppo che continuava a spostarsi di aeroporto in aeroporto.

Qui l'accoglienza per noi due, considerati morti più che dispersi, fu calorosissima.

Appresi che avevamo affondato un grosso mercantile di ottomila tonnellate, e che l'affondatore dovevo essere stato io perché il maresciallo Galletti che mi precedeva nel tuffo, e che aveva sganciato la bomba sugli zatteroni da sbarco, dichiarò che, dopo lo sgancio dei primi cinque, non aveva visto nessuna nave colpita.

Mi venne poi concessa una Medaglia d'argento.

Desidero ricordare alcuni nomi di giovani colleghi piloti per onorame la memoria.

Il Sottotenente Poggioli di Modena, abbattuto nella mia azione, e il Sottotenente Calzoni di Bologna, abbattuto fra altri nell'azione del 13 luglio.

Aeronautica Settembre 1992

Splendido racconto; ho sentito quaqlcosa di molto simile raccontatomi da mia madre che fu fidanzata con il Sergente Isacco Giudici 121° Tuffatori Ju 87 Picchiatelli, morto il 18/08/43 sul mare di Siracusa. Qualcuno ne sa qualcosa? Sarei infinitamente grato.

Ivano Ceribelli

ivano.ceribelli@gmail.com

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