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World War II - Kamikaze


Dave97

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All’alto Comando Imperiale

Non c’è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori.

Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale, i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche.

Di questo corpo desidero assumere io , il comando.

Comandante della portaerei Chiyoda

Eiichiro Jo

(luglio 1944)

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Contrammiraglio Masabumi Arima

 

Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un'animazione insolita regna all'aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai giapponesi.

Gli animi sono eccitatissimi perché la ricognizione ha avvistato una squadra navale americana al largo dell'isola di Luzon, la maggiore dell'arcipelago.

Senza nemmeno attendere gli ordini specifici, il personale di terra lavora senza sosta attorno agli apparecchi dispersi lungo le piste e nei capannoni per oliare e verificare i motori, per fare il pieno del carburante a tutti i velivoli disponibili, per caricare le bombe e i nastri delle mitragliatrici.

Il contrammiraglio Masabumi Arima, comandante della 26a Flottiglia della Prima Flotta Aerea di Marina, riunisce in seduta straordinaria i suoi subalterni e chiede formalmente allo Esercito - è un fatto senza precedenti - di concedergli tutti gli aerei in grado di combattere affinché, per la prima volta, le squadriglie delle due Armi possano operare insieme in un'unica missione.

L'autorizzazione è senz'altro concessa e Arima decide che l'attacco alla squadra navale americana, il Task Group 38/4 del contrammiraglio Ralph E. Davison, si svolgerà in due ondate.

La seconda ondata sarà costituita da 13 bombardieri in picchiata Suisei, da 16 caccia Zero e da 70 caccia di tipo eterogeneo dell'Esercito.

 

Quando la prima ondata è già in volo, e mentre si allineano sulle piste di cemento gli apparecchi della seconda ondata, Arima in persona scende, sul terreno insieme agli aviatori.

Indossa una tuta qualsiasi e non reca le insegne del suo grado.

Una luce strana brilla nei suoi occhi.

Dice pacatamente: «Comanderò io la seconda ondata ».

E' contrario alle regole che un contrammiraglio rischi la vita per guidare personalmente i suoi uomini in una battaglia.

Inoltre Masabumi Arima è amato da tutti per la sua bontà, la sua modestia e il suo carattere paterno.

Gli aviatori si ribellano, non vogliono che un uomo come lui partecipi a un combattimento nel quale, come avviene ormai da più di un anno, le forze giapponesi saranno decapitate.

Ma Arima è inflessibile: «Non si discute. Vengo con voi ».

 

Sebbene costernati, gli uomini non possono che inchinarsi alla volontà del comandante.

Negli ultimi tempi lo si è visto pregare e meditare a lungo, in raccoglimento quasi estatico.

Da settimane ha lasciato la sua lussuosa residenza per vivere come i soldati più umili, nutrirsi frugalmente e talvolta anche digiunare.

Come se una fede al calor bianco, più che una febbre, lo divorasse.

Ma nessuno sospetta - od osa sospettare - qual è il vero proposito di Arima.

Si preferisce pensare che egli voglia partecipare di persona alla missione, in se stessa rischiosissima, solo per rendersi conto con i propri occhi dei dispositivi di difesa degli americani e delle possibilità offensive che ancora restano ai giapponesi in attacchi di quella specie.

Arima sale a bordo di un bombardiere Suisei e ordina al suo compagno di volo, un sottufficiale, di scendere.

L'uomo è allibito.

Obbedisce. Certo è il primo a intuire che Arima sta per compiere un gesto disperato.

La seconda ondata è in volo verso mezzogiorno.

Tutte le pupille sono puntate sull'aereo di Arima, che dall'esterno non si distingue in nulla dagli altri dodici Suisei.

Gli Zero proteggono i bombardieri in picchiata volando a una quota più alta di un migliaio di metri, i caccia dell'Esercito seguono a gruppi di cinquesette apparecchi.

Nel primo pomeriggio il Task Group 38/4, con anticipo più che sufficiente per far decollare i caccia imbarcati, localizza gli incursori.

Immediatamente alcune squadriglie di Hellcats sfrecciano dai ponti di volo delle portaerei a muso in su, per correre a intercettare i nemici.

I cannoni e le mitragliere contraeree delle navi sono puntati.

Tutto è pronto per accogliere i giapponesi come, del resto, i giapponesi s'aspettano: lo sbarramento sarà infernale.

Cosi è, infatti.

Presto il cielo si riempie di scoppi ed è rigato dalle rotaie luminose dei proiettili traccianti.

Gli Hellcats sono implacabili.

Sparano all'impazzata da lontano con le loro sei mitragliere Colt-Browning da mezzo pollice e subito diversi apparecchi giapponesi, che non hanno i serbatoi corazzati, esplodono letteralmente in volo, dissolvendosi.

Gli Zero, più leggeri e manovrabili, si esibiscono come sempre nelle più ardite evoluzioni, ma sono braccati, azzannati, assaliti da tutte le parti. I Suisei, meno veloci, non riescono neppure a raggiungere le posizioni dalle quali tentare le picchiate sulle portaerei americane.

Cadono come mosche. Tutti, tranne uno.

Il contrammiraglio Arima non è fuggito, s'è semplicemente nascosto in una nuvola per cogliere di sorpresa la grande nave di Davison, la portaerei Franklin.

Eccolo gettarsi dritto in quella direzione e scendere come una meteora. Ecco la Franklin ingigantire davanti agli occhi di Arima.

E' un attimo.

Un vivido bagliore color rosso-arancio, una nuvola di fumo denso e di fuoco.

Il Suisei, con il suo carico di tre quintali di bombe, si è polverizzato sul ponte della Franklin.

Esterrefatti, angosciati, ma anche entusiasti, gli aviatori giapponesi scampati alla furia degli Hellcats hanno assistito al sacrificio supremo del loro comandante.

Intanto, sotto ai loro sguardi, una serie di deflagrazioni si succede sulla portaerei ferita.

L'incendio seguito allo scoppio delle bombe e dei serbatoi del Suisei ha raggiunto un deposito di munizioni.

Fortunatamente per gli americani, non il principale.

Le squadre di soccorso lottano freneticamente per salvare la nave, e alla fine ci riescono.

Ma la Franklin, malconcia, inclinata su un fianco, per il momento inservibile, dovrà raggiungere una base di riparazione e resterà lontana per qualche tempo dai teatri di guerra.

 

Arima ha dimostrato che l'attacco suicida «paga > assai più di quello convenzionale, purché sia sferrato in modo astuto e al momento giusto.

Rientrando all'aeroporto Clark, i testimoni del gesto del contrammiraglio - non molti, più della metà sono caduti - riferiscono ai compagni, emozionatissimi, tutti i dettagli dello stupefacente episodio.

Esso vola di bocca in bocca per tutte le Filippine, e da lì rimbalza a Formosa.

Prima di sera è già conosciuto a Tokyo, e avrà un peso determinante nelle risoluzioni che saranno prese nei giorni immediatamente successivi.

 

I Kamikaze , Mondatori 1973

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Le origini

Già nei primi mesi della guerra del pacifico numerosi aviatori giapponesi ricorrono al sacrificio estremo,per essere ben certi di colpire il nemico.

In molte occasioni i marinai americani hanno visto abbattersi sulle loro navi, come bolidi, gli aeroplani con le insegne del Sol Levante.

Ma sono state, improvvisazioni individuali, eroiche secondo alcuni e soltanto fanatiche secondo altri; non esclusive del resto, come metodo-limite di lotta, dei giapponesi.

Alla fine del 1943 un pensiero insinuante ha cominciato a farsi strada nelle menti degli aviatori di Marina del Tenno, a serpeggiare lentamente fino a diventare una fissazione.

Da diverso tempo essi hanno constatato di combattere contro gli americani in condizioni di avvilente inferiorità.

Il famoso caccia Zero è stato surclassato dall'Hellcat, più veloce, più robusto, miglior incassatore e capace di un assai maggiore volume di fuoco.

Gli aviatori americani non venivano inviati in missione senza prima aver completato tutti i turni di un severo addestramento, mentre per loro, i giapponesi, mancava quasi il tempo di andare a scuola, poiché non si poteva sciupare una goccia di carburante in più dello stretto necessario.

Il nemico era dunque superiore in modo schiacciante, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo.

Le sue risorse industriali sembravano senza fondo.

La somma di queste avversità confluiva in un crudo schema statistico, nelle battaglie aeree andava perduto il 40, il 60, talora addirittura l'80 per cento degli apparecchi giapponesi impiegati, mentre nelle incursioni agli obiettivi navali, ferma restando una così insostenibile percentuale di abbattimenti, non si riusciva quasi più a centrare un bersaglio, tanto fitto, preciso e concentrato era lo sbarramento difensivo delle unità della U. S. Navy.

 

Ed ecco nascere il pensiero insinuante, la fissazione.

Se la morte in combattimento era ormai diventata un'eventualità fatale senza che neppure servisse a rallentare l'avanzata del nemico di isola in isola , quasi nessuno sopravviveva a più di due o tre missioni a fuoco , perché non estendere deliberatamente a tutti il principio, fino ad allora casuale e improvvisato, del suicidio volontario per la Patria? Non avevano forse lo spirito e il cuore degli antichi Samurai, gli aviatori del Giappone moderno?

E allora, se gli attacchi aerei convenzionali alle navi alleate non offrivano alcun risultato positivo, e per di più si moriva ugualmente, cosa aspettava l'Alto Comando Imperiale a chiedere ai nuovi Samurai, se non ad imporre, di spingere fino alle estreme conseguenze il Jibaku, il tuffo in picchiata sulle navi del nemico?

Non c'era che un modo per fermare quei mostri d'acciaio: speronarli dal cielo, con una bomba innesenta sotto il ventre degli aerei.

Le bombe che piovevano senza guida dall'alto finivano tutte in mare.

 

Già una volta nella storia del Giappone un evento straordinario aveva capovolto all'ultimo minuto una situazione che appariva disperata. Nell'anno 1281 , verso la metà di agosto, un uragano di eccezionale violenza aveva disperso la flotta cino-mongola di Kublai Khan, forte di 3.500 giunche e di centomila guerrieri, che si apprestava a invadere il Giappone.

I giapponesi, grati al Dio del Vento, Ise, per il suo, provvidenziale aiuto, chiamarono Vento Divino (Kamikaze) quella tempesta, e da allora il culto di Ise assunse un significato particolare nel cosmo della mitologia shintoista.

Quasi sette secoli più tardi, nel 1944, non c'è giapponese che non invochi da Ise un nuovo Vento Divino.

L'Impero è in gravissimo pericolo, e stavolta a minacciarlo non sono delle fragili giunche, ma immense navi d'acciaio che nessuna bufera può affondare.

Se ci sarà salvezza, sarà dovuta alla superiorità spirituale dei giapponesi, che credono con fervore mistico nei valori e nelle virtù della loro tradizione millenaria.

 

Per mesi e mesi, nel 1944, i piloti della Marina confabulano e perfezionano il loro disegno.

Essi sognano ormai di raggiungere gli antenati gloriosi nel tempio venerato di Yasukuni e di cantare con loro l'inno eroico Umi Yakaba. Ma l'Alto Comando fa orecchie da mercante.

Per quanto disperatamente compromessa sia la situazione strategica del Giappone, nemmeno gli ufficiali più fanatici, fra coloro che occupano i posti di più alta responsabilità, si sentono ancora di avallare una concezione bellica fondata all' origine sulla morte necessaria dei combattenti: sarebbe un fatto senza precedenti, e di portata incalcolabile, anche per un Paese tradizionalmente guerriero e dalla cultura originalissima com'è il Giappone.

Ma, fra il 18 e il 20 giugno, la Marina Imperiale subisce una catastrofica disfatta nella battaglia aeronavale delle Marianne.

Il capitano di vascello Eiichiro Jo, comandante della portaerei Chiyoda, si fa portavoce dei sentimenti dei suoi aviatori e, ai primi di luglio, indirizza all' Alto Comando un drammatico messaggio:

«Non c'è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori.

Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche. Di questo corpo desidero assumere io il comando ».

L'appello di Eiichiro Jo, uomo che gode di un prestigio senza macchia, ha un'eco impressionante a Tokyo.

Egli non sarà nominato comandante dei primissimi kamikaze della storia - gli uomini del nuovo Vento Divino - solo perché la burocrazia non gliene darà il tempo.

Ma, sulla Chiyoda colpita a morte dai suoi implacabili nemici, colerà a picco proprio il giorno in cui si immoleranno i kamikaze dei primi Corpi Speciali: il 25 ottobre 1944, nella. tragedia di Leyte.

Prima che venga quel giorno, il Giappone continua a collezionare sconfitte negli stessi luoghi dove due anni prima aveva trionfato.

Le squadriglie di apparecchi, sia della Marina che dell'Esercito, sono puntualmente decimate al suolo, negli aeroporti delle Filippine, da massicce formazioni di bombardieri in picchiata, decollati dalle portaerei americane che infestano il Pacifico.

Il 9 e il 10 settembre la grande base di Davao è sconvolta.

Il 12, il 13 e il 14 sono devastate le basi di Cebu, Legaspi e Tacloban.

Attorno a Manila le attrezzature aeroportuali sono addirittura annientate nel corso di due terribili incursioni, il 21 e il 22.

Nella seconda, centinaia di velivoli giapponesi vengono distrutti in meno di un' ora.

 

Bisogna difendere le filippine a tutti i costi

 

Questo accanimento contro le Filippine fa supporre all' Alto Comando Imperiale che proprio quel vasto arcipelago sarà il prossimo obiettivo del generale MacArthur e dell'ammiraglio Nimitz.

Ma la conservazione delle Filippine è assolutamente vitale per l'Impero.

Le Filippine non costituiscono soltanto, per la loro collocazione geografica, uno scacchiere strategico di straordinaria importanza.

Esse sono il polmone stesso del Giappone, la fonte delle materie prime indispensabili alle industrie e dei rifornimenti essenziali all'economia del Paese.

Le Filippine vanno dunque salvate a qualunque costo, e i comandanti militari ammoniscono soldati, marinai e aviatori senza un'ombra di retorica: per le Filippine si deve morire fino all'ultimo uomo, prima che gli americani vi mettano piede.

Negli animi dei combattenti si accende la scintilla di un'esaltazione delirante, ai limiti del fanatismo, del tutto inconsueta perfino per gli spiriti giapponesi.

Ma essa non si dimostra sufficiente ad arginare la montante marea alleata.

Il 15 settembre 1944 i marines sbarcano a Peleliu, nelle Palau, a metà strada fra le Marianne e le Filippine.

Il 6 ottobre Vyacheslav Mikhailovic Molotov, ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, confida sibillinamente all'ambasciatore giapponese a Mosca che l'inizio dell'invasione delle Filippine è previsto per il 20 dello stesso mese.

(E' un perfido tiro di Stalin ai suoi alleati occidentali. La volpe del Cremlino intende, sì, attaccare a sua volta il Giappone, ma da sciacallo, quando del Giappone non resterà che il cadavere.

E che gli americani si dissanguino il più possibile!).

L'Alto Comando Imperiale, a questo punto, decide di intraprendere uno sforzo gigantesco per difendere le Filippine.

In fretta e furia - anzi, forse con troppa fretta e con poco cervello: ma il tempo stringe, non c'é scelta - viene varato lo Sho-go (Piano della Vittoria), che consiste nel lanciare nella mischia, coordinatamente, l'intera flotta giapponese, con l'appoggio di tutti gli aeroplani imbarcati e di quelli che ancora si trovano negli aeroporti delle Filippine, di Formosa e delle isole oceaniche non ancora riconquistate dagli Alleati.

Praticamente tutto il potenziale giapponese disponibile per la metà di ottobre sarà scagliato contro le forze degli invasori.

l combattenti sentono profondamente che il Piano Sho non fallirà lo scopo: fanatismo, disperione e illusione sono sempre stati compagni. Tutti si arrovellano per cercare, studiare, proporre nuovi metodi di lotta, i più bizzarri, che facciano da panacea contro la strapotenza convenzionale del nemico.

Per gli aviatori il metodo non può essere che uno, gettarsi a capofitto sulle navi americane.

Non c'è altra possibilità per arrestare le flotte d'invasione.

Gli aviatori sono ossessionati soprattutto dalla necessità di distruggere le portaerei, perché è da questi giganti del mare che viene ogni giorno la morte.

Le più grandi portaerei americane portano quasi cento aerei ciascuna. Se sono caccia, le forze di una portaerei sola bastano a liberare il cielo da almeno trecento Zero, poiché è ormai assodato che un Hellcat vale per tre Zero.

Se sono bombardieri, in una missione possono cancellare dalla faccia della Terra tutto quanto esiste in un grandissimo aeroporto.

Obiettivo primario, dunque, le portaerei.

Ma gli ufficiali dei gradi più alti ordinano di impegnarsi a fondo anche contro le navi da trasporto e le petroliere, altrettanto necessarie agli invasori.

Essi non suggeriscono però come impegnarsi a fondo: la strategia suicida, auspicata con triste ma ferma consapevolezza da Eiichiro Jo, non è stata ancora ufficialmente approvata dall' Alto Comando.

Perciò, le direttive del Piano Sho sottintendono che le forze aeree continuino a essere impiegate in modo tradizionale.

E' a questo punto che il contrammiraglio Arima rompe ogni indugio e offre il sacrificio della propria vita per convincere con l'esempio l'Alto Comando Imperiale a costituire i Corpi Speciali suicidi.

 

**********

 

Forze anfibie americane si attestano nelle piccole isole Suluan, presso il Golfo di Leyte, il 17 ottobre 1944.

Contemporaneamente, da direzioni diverse, le squadre navali giapponesi convergono sull'arcipelago delle Filippine per dare vita al Piano Sho.

Lo stesso giorno giunge a Manila il vice-ammiraglio Takijiro Onishi, nominato da poco comandante della Prima Flotta Aerea di Marina.

E' uno dei più valorosi e capaci ufficiali del Tenno.

In gioventù è stato il primo militare giapponese a praticare il paracadutismo, nel 1941 ha dato più di un consiglio allo scomparso Isoroku Yamamoto nell' elaborazione dell' attacco-sorpresa a Pearl Harbor.

Ora i tempi sono cambiati in peggio.

Il 18 ottobre l'ex-comandante della Prima Flotta, l'ammiraglio Kimpei Teraoka, gli passa le consegne.

Onishi non perde tempo.

Nel tardo pomeriggio del 19 si fa condurre in auto sul campo d’aviazione di Mabalacat, centodieci chilometri a nord di Manila, e chiede di recarsi dal comandante della 201a Squadra.

La flotta d'invasione alleata è alle porte.

Nella palazzina del comando di base, convocati all'improvviso da Onishi, sono presenti, oltre a lui, il suo ufficiale d'ordinanza Chikanori Moji, il capitano di fregata Asaichi Tamai - comandante in seconda della 201a - il sottocapo di Stato Maggiore della Prima Flotta Aerea

Rikihei Inoguchi, l'ufficiale di Stato Maggiore della 26a Flottiglia Yoshioka e due comandanti di squadriglia, Yokoyama e Ibusuki. L'atmosfera è tesa, nervosa.

Nessuno si spiega il perché della visita del vice-ammiraglio a quell'ora insolita.

Gira fra gli ufficiali una bottiglia di saké, ma nessuno beve.

Onishi passeggia su e giù per la stanza, in silenzio, per qualche minuto, poi si passa stancamente una mano sulla fronte, sembra raccogliersi un'ultima volta e comincia:

«Signori, non c'è bisogno che io vi dica che, se il Piano Sho dovesse sventuratamente fallire, la nostra situazione militare precipiterebbe di colpo.

E' indispensabile che tutte le forze della Prima Flotta Aerea assicurino il successo alla missione dell'ammiraglio Kurita, sul quale grava il peso principale del Piano Sho.

La Prima Flotta Aerea farà da copertura, dunque, alle navi di Kurita in avvicinamento ».

Un istante di sospensione. Onishi è affranto.

Ma presto si riprende:

«Purtroppo noi non siamo più abbastanza forti per poterci misurare con il nemico nei combattimenti aerei.

Ci resta tuttavia una grossa carta da giocare.

Dovremmo impedire agli apparecchi americani di decollare dalle loro portaerei almeno per la prossima settimana ».

Gli astanti hanno i nervi a fior di pelle. Onishi conclude:

« Sono persuaso che il solo mezzo attuabile per conseguire questo scopo consista nel caricare delle bombe da 250 chilogrammi sotto ai nostri aerei da caccia, e di mandarli a fracassarsi direttamente sugli obiettivi.

Cosa ne pensate, signori? »

Tutti sono paralizzati dallo stupore.

Un comandante non ha mai chiesto il suicidio certo ai suoi uomini; se mai sono stati gli aviatori a spargere la voce che sono pronti a sacrificarsi spontaneamente per il bene della Patria.

Lo stesso contrammiraglio Arima ha scelto di morire, ma non ha indotto nessuno, a parole,a comportarsi come lui.

E' Asaichi Tamai a rompere il silenzio di ghiaccio che è calato sulla riunione.

Rivolto a Yoshioka, gli domanda: « Quali effetti pratici possono avere su una portaerei di 20 o 30.000 tonnellate l'impatto di un piccolo caccia e l'esplosione di una bomba da 250 chilogrammi? »

La risposta di Yoshioka è pronta: «La portaerei non affonderà, questo è quasi certo. Ma la si può mettere fuori combattimento per più giorni, forse per più settimane.

E comunque, se la si colpisce prima che i suoi apparecchi siano riusciti a decollare, essi non decolleranno più.

Se la si colpisce dopo, decolleranno solo una volta, poiché al ritorno non troveranno un ponte di volo intatto sul quale posarsi, cioè finiranno in mare ».

Tamai chiede rispettosamente a Onishi di consultarsi in privato con Ibusuki.

Poco più tardi, con voce alterata dall'emozione, riferisce:

«lo sono soltanto il comandante in seconda della 201a Squadra, ma credo di poter parlare a nome del capitano di vascello Sakae Yamamoto, assente questa sera.

Assumo interamente la responsabilità dei miei atti.

lo e Ibusuki siamo dell'avviso che il viceammiraglio Onishi sia nel giusto, e lo preghiamo di attribuire alla 201 a Squadra l'onore di organizzare la prima unità destinata agli attacchi speciali ».

Onishi è commosso fino alle lacrime.

Tutti sono profondamente scossi.

In verità, è accaduto un fatto di eccezionale gravità durante quella riunione.

Fino a oggi i suicidi hanno avuto una motivazione individuale, un carattere individuale.

D'ora in poi saranno pianificati nell'ambito di una esatta strategia d'offesa.

Gli uomini che si sacrificheranno, lo sapranno con giorni e settimane di anticipo.

 

Saranno dei volontari, è vero, ma quale soldato giapponese rifiuterebbe di offrirsi, in un mometo storico di suprema emergenza come questo?

Onishi ha detto: «Abbiamo bisogno che gli apparecchi delle portaerei nemiche non decollino per una settimana»

In altri termini, le unità speciali suicide dovrebbero operare solo quella volta, a titolo straordinario e provvisorio, in connessione con il Piano Sho.

Vero anche questo.

Ma, una volta instaurato il principio, come si può ragionevolmente pensare che esso non sarà generalizzato?

Sia come sia, la decisione è stata presa.

Una decisione tutta giapponese, inconcepibile per qualsiasi occidentale.

Domani sarà un giorno nuovo della storia.

Prima che scenda la notte, ventitré giovani piloti della 201 a Squadra sono convocati da Tamai.

Nessuno di loro sa cosa abbia da dire il vicecomandante, ma forse qualcuno ne ha il presentimento.

Tamai parla a lungo, illustrando la disastrosa situazione strategica e non nascondendo che il Piano Sho, quand'anche riuscisse, non risolverebbe una volta per tutte gli angosciosi problemi del Giappone. Ma il Piano Sho deve riuscire a qualunque prezzo.

Dopo, se ogni giapponese saprà continuare a lottare fino allo stremo delle forze, l'Impero potrà forse essere salvato.

I ragazzi, il capo chino come innanzi a una predicazione religiosa, ascoltano muti e assorti.

 

E qui accade una cosa straordinaria, più che mai al di fuori della portata mentale di ogni uomo dell'Occidente.

Tamai non riesce neppure a finire il discorso perché, tutti e ventitré, i ragazzi della 201 esplodono in un formidabile Tenno Banzai

Isteria collettiva? No.

E' il frutto di duemila anni di shintoismo, di dedizione totale e assoluta alla tradizione gloriosa degli antenati, della convinzione radicata di essere i depositari della più alta - anzi, dell'unica vera - civiltà mondiale, e della certezza che morire per il Giappone significa rivivere in un mondo epico popolato di Eroi, venerati e osannati dai mortali che resteranno.

Sono uomini in carne e ossa. Anch'essi hanno dei sensi, sanno cos'è la felicità e l'infelicità terrena. Non sono indifferenti alla vita corporea. Hanno tutti, più o meno, dei problemi quotidiani che non riguardano lo shintoismo né l'Imperatore né gli antenati né il Giappone.

Però, da sempre, posseggono una carica emotiva e passionale che supera e cancella i valori dell'esistenza comune e lo stesso spirito di conservazione.

Un europeo di oggi e di ieri non può capire, o almeno non può accettare l’ entusiasmo.

Nemmeno un filosofo storico dell'antichità classica, ignaro del cristianesimo, pagano e scettico fino all'osso, potrebbe capire.

Anzi, non capirebbe proprio perché pagano e scettico.

Tamai stringe la mano a tutti e ventitré, uno per uno.

Piange e li ringrazia.

Poi li prega di mantenere il segreto più assoluto su quanto è stato detto.

 

I Kamikaze , Mondadori 1973

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25 Ottobre 1944

Gli Zero Affrontano la Flotta Americana

Fin dalle prime battute della battaglia i giapponesi si rendono conto, con disperazione, che il Piano Sho non funziona.

I bombardieri in picchiata, gli aerosiluranti e i caccia della Prima Flotta Aerea sono immediatamente sopraffatti dagli Hellcats e dalla cortina di fuoco delle navi nemiche, mentre gli apparecchi americani compiono autentiche stragi sulle unità giapponesi.

Per il Sol Levante la battaglia di Leyte non è una semplice sconfitta: è un disastro di proporzioni inaudite, nel quale la Flotta Oceanica Imperiale cessa quasi di esistere.

La prima azione dei kamikaze, prevista per il 23 ottobre, è rinviata al 25 poiché i piloti, decollati dopo essersi cinti il capo con

l' hacimaki (la fascia di panno bianco, simbolo dello spirito di sacrificio per la Patria), sono rientrati alla base di Cebu, avvilitissimi per non essere riusciti a trovare il nemico.

Si può morire una volta - e la certezza della morte imminente è più terribile, forse, della morte stessa, - ma non la seconda!

Questo dovrebbe oltrepassare i limiti della più fanatica (o mistica) spiritualità giapponese.

Non è così, invece.

I medesimi uomini, all'alba del 25 ottobre, bevono saké nell'assistere al rito simbolico del loro funerale, cantano inni guerreschi, si riannodano l’ hacimaki e ripartono.

Alle 7,30 del mattino, in un punto dell'Oceano situato allargo della costa settentrionale di Mindanao, a una quarantina di miglia dall'isola Siargao, i 6 Zero della Sezione Yamato scoprono il Taffy Group 1 del contrammiraglio Thomas L. Sprague, forte di quattro portaerei di scorta e di sette cacciatorpediniere.

Il primo Zero si tuffa alle 7,40 sulla portaerei Santee.

La sua traiettoria è tesa.

Quand'è a cinquecento metri dalla nave lo Zero spazza il ponte con una breve, secca raffica di mitragliatrice.

Questione di tre, quattro secondi.

L'esplosione sulla parte anteriore del ponte di volo apre un cratere di 9 metri per 5.

L'aereo si è completamente disintegrato, del pilota non è rimasto nulla. Sulla Santee divampa un violento incendio.

La nave si salverà, ma dovrà abbandonare la zona delle operazioni.

Un altro Zero, il secondo, spunta da una nuvola come un'apparizione diabolica.

Il suo pilota ha scelto per bersaglio la Sangamon, ma un proiettile sparato dalla Suwannee lo centra a mille metri di quota e l'apparecchio precipita in vite.

Il kamikaze fa appello a tutte le sue forze per raddrizzarlo e non cadere in mare inutilmente, ma è colpito di nuovo da una granata da 127 millimetri.

I brandelli dello Zero cadono fiammeggiando a 150 metri dalla Suwannee.

 

Il terzo Zero picchia deciso sulla Petrof Bay, accolto da una fittissima ragnatela di proiettili traccianti.

Si dissolve in una rosa di lapilli incandescenti.

Il quarto Zero è abbattuto dal tiro della Suwannee.

La stessa unità è presa di mira dal quinto Zero, e anche questo viene colpito.

Ma il kamikaze riesce a controllarlo fino all'ultimo.

Un boato: la Suwannee è centrata e le sovrastrutture cominciano a bruciare. Si ritirerà dalla scena, come la Santee.

Del sesto Zero della Sezione Yamato non si sa nulla.

Scomparso, certamente abbattuto.

Yukiho Seki guida personalmente la Sezione Shikishima e localizza il Taffy Group 3 del contrammiraglio Clifton A.F. Sprague a circa 170 chilometri da Leyte.

Questo Gruppo ha subito qualche perdita nel corso della recentissima battaglia di Samar, ma consta ancora di quattro portaerei di scorta e di sei cacciatorpediniere.

I suoi radar segnalano la squadriglia di Seki, e il giovane capitano di vascello è costretto a una fuga momentanea per evitare la sicura distruzione dei suoi aerei da parte di una quarantina di Hellcats, prontamente levatisi in volo.

Ma alle 10,40 le navi americane sono nuovamente individuate e Seki comunica ai ragazzi nell'interfono:

«Portaerei a 90 miglia est di Samar. Si va all'attacco. Banzai! ».

Trascorrono dieci minuti.

Gli Zero, per celarsi ai radar del nemico, volano a pelo d'acqua.

Quando le portaerei sono in vista, cabrano simultaneamente fino a 1.600 metri, da dove cominciano la picchiata mortale, il Jibaku.

Il primo Zero fila sulla Kitkun Bay, mitraglia perdutamente e sembra vicino al successo, quando una granata gli esplode sotto il ventre a un centinaio di metri dall'obiettivo.

La bomba si stacca e scoppia vicinissima alla nave, recando qualche danno.

L'aereo, sfasciato, finisce tra i flutti.

Contemporaneamente due Zero sono distrutti dal fuoco rabbioso della Fanshaw Bay.

Uno di essi, probabilmente, è quello di Yukiho Seki.

Si lanciano altri due Zero, entrambi contro la White Plains.

Uno, benché ridotto al puro scheletro dai proiettili incendiari delle batterie nemiche, si porta così vicino alla nave che, nel momento in cui esplode in volo, la ferisce malamente in più punti.

L'altro, scoraggiato dal troppo denso sbarramento della White Plains, compie una deviazione in piena picchiata e va a schiantarsi sulla St. Lo.

Lo scoppio è terrificante.

Le squadre di soccorso non riescono a circoscrivere le fiamme ed esse raggiungono un deposito di sette siluri, che esplodono a loro volta.

E' un inferno.

Frammenti d'acciaio e pezzi di carne umana volano per ogni dove, assieme a carcasse di aeroplani. La St. Lo è condannata senza scampo.

Il suo comandante, capitano di vascello MacKenna, ordina all'equipaggio di abbandonare l'unità, che s'inabissa alle 11,25.

 

Le Sezioni Asahi e Yamazakura cercano e inseguono le navi statunitensi in quella e in altre zone di mare.

Alcuni Zero attaccano di fronte la Kitkun Bay, già leggermente danneggiata, ma sono dispersi dal concentratissimo tiro antiaereo.

Uno di essi, colpito, manca lo scafo per un soffio.

Altri quattro Zero picchiano insieme sulla Kalinin Bay.

Tre cadono, sbranati dalle schegge delle granate.

Il quarto coglie nel segno, giusto a metà del ponte di volo.

I danni sono gravi.

Alle 11,30 il cielo è sgombro di kamikaze.

Anche molti Zero di scorta, privi perciò di bombe, hanno compiuto il Jibaku per accompagnare gli amici destinati al sacrificio.

Pochi si sono salvati.

Tre Zero di scorta rientrano a Cebu alle 12,20 e i tre piloti, esaltati da quello che hanno visto, si precipitano a rapporto.

Non solo i comandanti, ma tutti i piloti, tutti gli uomini del personale di terra vogliono conoscere in ogni particolare l'andamento della prima missione kamikaze della storia.

I piloti, in gran parte volontari suicidi, fanno ovviamente centinaia di domande.

Ma sono domande tecniche.

Non si preoccupano della vita - in pratica, l'hanno già immolata -, vogliono invece sapere tutto sul Jibaku per poterlo compiere efficacente quando verrà il loro turno.

A sera Radio Tokyo nasconde al popolo giapponese la funesta verità sulla battaglia di Leyte, nella quale la Flotta Imperiale (un tempo la terza del mondo) ha perso 26 navi tra cui la corazzata gigante Musashi, le corazzate Yamashiro e Fuso, la portaerei pesante Zuikaku, le portnerei leggere Chiyoda, Zuiho e Chitose, 6 incrociatori pesanti, 4 incrociatori leggeri e 9 cacciatorpediniere, oltre a 391 aeroplani, senza contare le unità danneggiate più o meno gravemente.

Radio Tokyo diffonde poi un comunicato del Gran Quartiere Generale Imperiale in cui si fa cenno alla « grande vendetta» compiuta dal Corpo Speciale dei kamikaze e si esaltano le gesta dei piloti suicidi.

L'entusiasmo si propaga in tutto il Giappone, ignaro del fallimento integrale del Piano Sho.

Il numero già elevato dei volontari della morte si decuplica, e il vice-ammiraglio Onishi si convince a costituire altri Corpi Speciali e a prolungame l'attività operativa ,originariamente prevista solo in appoggio al Piano Sho.

 

D'altra parte la strategia kamikaze sembra davvero l'unica, per il momento, che possa fruttare qualche vantaggio al Giappone.

Nella battaglia di Leyte le navi di Kurita, e gli apparecchi impiegati negli attacchi convenzionali, sono stati in grado di affondare solo 5 unità americane: la portaerei leggera Princeton, la portaerei di scorta Gambier Bay, i cacciatorpediniere Johnston, Heel e Samuel B. Roberts. Mentre i pochi Zero della prima missione kamikaze hanno affondato la portaerei di scorta St. Lo e ne hanno danneggiate diverse altre.

In proporzione, i kamikaze hanno fatto assai più degli altri.

Il 26 ottobre l'ammiraglio Fukudome, comandante della Seconda Flotta Aerea, avvilito per gli insuccessi dei suoi bombardieri e dei suoi caccia, segue l'esempio di Onishi e decide di formare a sua volta dei Corpi Speciali suicidi.

Per unificare i Comandi, gli Stati Maggiori della Prima e della Seconda Flotta si fondono in un solo organismo chiamato «Flotta Combinata del Teatro Sud-Ovest ». Fukudome, più anziano di Onishi, è nominato comandante in capo, mentre Onishi stesso diventa Capo di Stato Maggiore.

Il giorno successivo. vengono battezzate quattro nuove squadriglie di kamikaze, costituite da effettivi della 701a Squadra.

Le comanda Tatsuhiko Kida.

Si chiamano Chuyu, Seichu, Junchu, Giretsu.

E' l'inizio del principio kamikaze generalizzato, appena otto giorni dopo la fulminea improvvisazione di Onishi.

Sarà impossibile, da questo momento in avanti, seguire passo passo tutte le vicende dell'epopea kamikaze.

All'indomani della prima missione, passata l'eccitazione frenetica delle ore immediatamente successive alla battaglia, i commenti restano favorevoli.

A mente serena si giudica infatti che i risultati ottenuti dai piloti suicidi della 201a Squadra sono stati, più che buoni, eccellenti.

Ma il 27 ottobre Onishi - non soltanto perché stravolto a causa del rovescio di Leyte - ha una grave crisi di coscienza, che manifesta a Inoguchi nel momento in cui altri kamikaze decollano per andare ad attaccare le navi da trasporto dirette a rifornire di armi e materiali i marines già sbarcati.

« Il fatto stesso che noi siamo stati costretti a usare questo nuovo metodo di guerra » dice Onishi « dimostra la nostra impotenza e mette a nudo tutti gli errori strategici che abbiamo commesso dopo Pearl Harbor. Gli attacchi suicidi sono mostruosi! »

 

Lo stesso giorno operano per la prima volta le squadriglie della 701a Squadra di Fukudome, ma l'unica unità danneggiata è l'incrociatore leggero Denver.

In serata c'è una riunione tecnica fra i principali responsabili dell'iniziativa kamikaze, con la consulenza dei piloti dei caccia di scorta che sono tornati vivi dalle missioni fin qui effettuate.

Le esperienze del primo giorno hanno dimostrato che, a parte il colpo fortunato della St. Lo, sono necessari almeno due o tre impatti kamikaze ben centrati per danneggiare seriamente una portaerei di medio tonnellaggio, salvo usare apparecchi più grandi degli Zero e bombe più pesanti di quelle da 250 chilogrammi.

Si è anche stimato che il gruppo ideale d'attacco dev'essere piccolo; tre aerei d'assalto e due di scorta.

Quanto al modo migliore di attaccare, due tesi prevalgono.

Secondo alcuni bisogna avvicinare le navi nemiche a bassissima quota per non essere localizzati dai radar ,come hanno fatto i kamikaze di Seki al largo di Samar -, poi impennarsi fino a 600-800 metri per iniziare una picchiata improvvisa.

Questa tecnica offre il vantaggio di sorprendere l'avversario, sia pure non del tutto, e di ridurre al minimo gli interventi degli Hellcats eventualmente in volo, impossibilitati a manovrare a pelo d'acqua. Secondo altri è preferibile volare ad alta quota, sui 6.000-7.000 metri, dove il tiro contraereo è assai meno pericoloso, anche perché da lassù si può scegliere meglio il bersaglio.

Anche questo sarebbe un sistema valido, ma ha il grave inconveniente di esigere che i kamikaze siano piloti esperti.

E invece è già chiaro per tutti che bisogna economizzare al massimo i piloti esperti, e accettare come kamikaze solo i novellini.

In pratica entrambe le tecniche saranno adottate nelle missioni successive, spesso congiuntamente, e così si otterrà , qualche volta , di disorientare le difese del nemico e di realizzare una più efficace penetrazione nello sbarramento.

A tutti i livelli della gerarchia militare giapponese, prescindendo dal momentaneo sconforto di Onishi, si ripongono grandi speranze nei kamikaze.

Alcuni ufficiali vagheggiano già in creazione di apparecchi e di altri mezzi appositamente studiati in funzione delle missioni suicide, più adatti degli aerei di tipo classico.

Verranno, ma troppo tardi, e si dimostreranno perfettamente inutili.

 

I Kamikaze , Mondadori 1973

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ECCO IL BERSAGLIO:

MA I BOMBARDIERI "GINGA" NON HANNO PIU' BENZINA

 

Con effettivi della Quinta Flotta Aerea si forma il Gruppo Speciale Azusa, comprendente 9 ricognitori e 24 kamikaze, al quale è affidata una missione particolarissima che prende il nome di Piano Tan: colpire la lontanissima base di Ulithi, dove sono in riparazione alcune delle più grandi portaerei americane.

Il progetto è allettante, ma, data la distanza da percorrere - oltre 3.000 chilometri da Kyushu -, non si possono certo utilizzare gli Zero. Il generale Teraoka mette perciò a disposizione del Gruppo Azusa i modernissimi e veloci bimotori Ginga, armati finalmente con le bombe da 800 chilogrammi.

Se parecchi di essi andranno a bersaglio, il colpo per la Marina americana sarà veramente duro, stavolta.

Il Gruppo Azusa decolla da Kanoya l'11 marzo, di buon mattino, e subito punta a sud.

Il cielo è limpido, l'oceano è increspato solo da una leggera brezza.

Ma presto si verificano i primi contrattempi.

I piloti di alcuni apparecchi segnalano agli altri equipaggi che il funzionamento dei loro motori è imperfetto.

Maledicendo la sorte che, almeno per il momento, toglie loro la possibilità di immolarsi, diversi kamikaze devono interrompere la missione.

Atterrano a Okinawa e a Miyakojima.

Intanto le condizioni atmosferiche subiscono un brusco mutamento. Sulla verticale della piccola isola di Okinotori Shima i Ginga sono investiti da rabbiose raffiche di vento, mentre all'orizzonte si formano banchi di nuvole dense, gravide di pioggia.

I piloti si consultano l'un l'altro via ra¬dio.

Affrontare la depressione ciclonica o aggirarla con il rischio di spendere anzitempo il carburante necessario per arrivare a Ulithi?

Si decide di allungare il percorso, ma serve a poco.

Il maltempo sembra estendersi a tutto il Pacifico occidentale.

I Ginga finiscono nel bel mezzo del fortunale e, per ore, sono in balia degli elementi.

Si disperdono, si disuniscono, ognuno è costretto a pensare a se stesso.

Alle 14,30 i ricognitori gettano la spugna e prendono la via del ritorno

Completamente smarriti, prigionieri dell'impenetrabile massa di nuvole, i Ginga errano alla cieca nel ciclo di pece mentre il tempo scorre e il livello del carburante diminuisce.

Qualche pilota, ritenendo ormai impossibile raggiungere Ulithi, chiede al navigatore se c'è ancora un fazzoletto di terra, nell'Oceano, dove scendere prima che sia troppo tardi.

Così gli altri Ginga atterrano a Minami Daitojima e a Yap, ma due si inabissano.

Restano in lizza 11 Ginga che, ostinati, continuano il loro viaggio a regime ridotto, per risparmiare carburante.

Sono in volo ormai da dodici ore, i serbatoi sono quasi vuoti.

Ed ecco, improvviso, uno squarcio di sereno davanti alle loro prue.

Si intravedono delle luci che brillano nella notte.

E' Ulithi.

Gli americani, matematicamente certi di essere al riparo dal pericolo di qualsiasi incursione nemica, hanno rinunciato ad ogni cautela, cominciando con l'ignorare le norme dell'oscuramento.

Gli equipaggi giapponesi, ora che la meta è vicina, sono più che mai angosciati.

Il carburante è agli sgoccioli, i motori cominciano a tossire, qualche apparecchio ha esaurito le ultime riserve e procede veleggiando, mantenuto in aria dal pilota a prezzo di uno sforzo tremendo.

Ulithi è là, dritta a prua, a pochissime miglia.

E i Ginga, dopo un volo che i numerosi dirottamenti hanno allungato a più di 4.000 km, precipitano uno ad uno nella laguna!

Un solo apparecchio regge all’ultimo strappo.

Come un aliante, con le eliche presumibilmente ferme, scivola silenzioso sulle navi americane all'ancora nella baia.

L'equipaggio della portaerei Randolph ha già cenato ed è ora riunito nell' hangar principale, dove si pro¬ietta un film poliziesco.

Improvvisamente la nave è scossa da una violentissima deflagrazione. Tutti balzano in piedi, esterrefatti, si urtano , si calpestano nell'oscurità, gridando.

Nessuno immagina cos'è accaduto.

Le squadre di soccorso impiegano almeno dieci minuti per organizzarsi: quando intervengono, sul ponte della Randolph divampa già un incendio di prima grandezza.

 

Solo all'alba del giorno dopo, fra i rottami, si trova qualche minutissimo resto del Ginga.

La rivelazione che un kamikaze - ma non è stato solo uno! - è arrivato fin lì, paralizza gli americani.

Ma Ulithi non ha più nulla da temere.

L'esito disastroso e beffardo del Piano Tan induce Teraoka a non ritentare l'impresa.

I Kamikaze , Mondadori 1973

 

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Modificato da Dave97
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300px-Japanese_Ohka_rocket_plane.jpgLA PRIMA MISSIONE DELLE "BOMBE VOLANTI"

 

Il 21 marzo, per la prima volta, entra in azione un nuovo mezzo kamikaze, la bomba volante Ohka, il cui nome gentile significa Fiore di Ciliegio.

E' un razzo pilotato, a forma di piccolo aereo, che dev'essere trasportato fino in prossimità dello obiettivo da un bombardiere-madre bimotore, il Mitsubishi G4M (chiamato Betty dagli Alleati).

L'Ohka è un mezzo disperato, affidato a uomini disperati.

La sua prima missione ha un esito ancora più catastrofico di quello dei Ginga inviati su Ulithi.

Partono dunque da Kanoya, alle 11,35 del 21 marzo 1945, un paio di Betty battistrada (senza Ohka a bordo), 16 Betty con le rispettive bombe volanti e 30 Zero di scorta.

Una possente formazione navale americana è stata segnalata a 590 miglia da Kyushu, in direzione sud-est.

Ad assistere al decollo c'è, di persona, l'ammiraglio Matome Ugaki, da poco nominato Comandante in Capo di tutte le Forze Aeree di Marina di Kyushu, che inglobano anche la Quinta Flotta.

Ugaki è tenacemente convinto che l'Ohka sia l'arma risolutiva, in mano ai kamikaze.

Grazie alle sue dimensioni ridotte e alla altissima velocità di caduta, prossima se non superiore agli 800 chilometri orari, difficilmente sarà arrestata dal tiro contraereo.

La sua potente carica d'esplosivo - 800 chilogrammi -, sommata alla velocità di impatto, basterà finalmente ad affondare una grande portaerei anche senza bisogno che salti il deposito delle munizioni. Magnifica teoria, ma solo teoria.

L'attacco del 21 marzo, organizzato dal capitano di vascello Motoharo Okamura, è guidato dal capitano di corvetta Goro Nonaka.

L'imponente formazione giapponese è in volo, sui grossi bombardieri Betty volteggiano gli agili Zero.

Fino alle due del pomeriggio, tutto procede nel migliore dei modi.

I kamikaze, prima di calarsi negli angusti abitacoli degli Ohka, fraternizzano con gli

equipaggi, per niente rattristati dalla sorte che li attende.

Ignorano che un tragico destino attende tutti, kamikaze e non kamikaze.

Quando i giapponesi sono a meno di 100 chilometri dall'obiettivo, ecco profilarsi nel cielo una formazione di 50 Hellcats.

I Betty, impacciati nelle manovre dal peso degli Ohka, sono letteralmente falciati in meno di un minuto, senza che gli Zero riescano a far nulla per difenderli.

Anzi, gli stessi Zero sono schiacciati dalla massa degli Hellcats che li tormentano da ogni lato.

Cadono 15 Zero, tra i quali quello pilotato da Goro Nonaka, e nessun Hellcat.

La strage è pressoché totale.

Rientrando a Kanoya danneggiati, altri Zero si fracassano nell'atterraggio.

La missione-incubo è compiuta.

Ugaki scoppia a piangere come un bambino.

I Kamikaze , Mondadori 1973

 

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Lo Yokosuka MXY7 o "Ohka" era un velivolo per attacchi suicidi che venne sviluppato presso l'arsenale di Yokosuka in collaborazione con l'istituto di ricerche aeronautiche dell'università di Tokyo.

Si trattava di una macchina di piccole dimensioni capace di trasportare 1.200 Kg. di esplosivo e destinata ad essere portata a circa trenta chilometri dall'obiettivo agganciata al ventre di un bombardiere G4M2, una volta sganciata alla quota ottimale di 5.000 metri essa accelerava grazie alla spinta di tre razzi tipo 4 Mk. 1 Model 20 utilizzabili sia insieme che separatamente nel caso fosse desiderato il massimo raggio d'azione.

Il primo volo coi motori in funzione avvenne nel novembre 1944 e complessivamente furono prodotte 155 "Ohka" Model 11 ad opera dell'arsenale di Yokosuka ed altre 600 da quello di Kasumigaura.

Per fungere da velivoli-madre furono inizialmente adattati alcuni "Betty" G4M2 ribattezzati G4M2e mentre in seguito alcuni velivoli furono trasformati direttamente sulla linea di produzione con modifiche che riguardavano soprattutto la stiva bombe privata dei portelloni e munita di attacchi per l’aggancio dell’ordigno.

Per l’impiego operativo furono appositamente costituiti due reparti della marina imperiale, i Kokutai 721 e 722, ma sin dall'inizio il programma subì pesanti contrattempi, il più grave si ebbe il 29/11/44 con l'affondamento ad opera di un sommergibile americano della grande portaerei "Shinano" che stava trasportando un gran numero di "Ohka" sulle basi avanzate.

Anche alla prova dei fatti l'idea si rivelò deludente ed i pesanti G4M2 caddero facilmente preda dei caccia statunitensi assai prima di giungere a distanza utile dalle navi alleate, cosi quando il 21/3/45 diciotto G4M2e del 721° Kokutai decollarono per la loro prima azione bellica, furono intercettati a ben 90 chilometri dalle portaerei venendo abbattuti tutti.

Il primo successo delle "Ohka" ebbe luogo ad Okinawa 1//4/45 quando fu danneggiata la nave da battaglia "West Virginia", seguì il 12 aprile il cacciatorpediniere "Mannert L. Abele" che però fu affondato.

Poichè i bombardieri erano costretti a sganciare i loro ordigni anticipatamente, le uniche vittime che furono registrate fino alla fine del conflitto furono solo le unità minori che costituivano la rete di picchetti radar assai all' esterno del grosso della flotta.

Dell' "Ohka" furono sviluppate numerose varianti sperimentali:

K 1 da addestramento, senza razzi, con pattino retrattile e zavorra per bilanciare la mancanza della testata esplosiva; ne vennero costruiti 45 esemplari.

Modello 21, progetto non realizzato; versione ridotta del Model 11 con carico bellico di 600 Kg e trasportabile da velivoli Yokosuka "Ginga".

Modello 22 derivato dal Model 21 ma propulso da un primitivo motore a getto Tsu-11; ne furono costruiti 50 esemplari

Modello 33, progetto non realizzato spinto da un turbogetto Ne-20 con carico bellico di 800 Kg. e destinato ad essere trasportato dal quadrimotore Nakajima "Renzan".

Modello 43A progetto non realizzato simile al Model 33 ma ingrandito e destinato ad essere lanciato da sommergibili in emersione.

 

Le principali dimensioni e caratteristiche del Model 11:

apertura alare m. 5,11;

lunghezza m. 6,06;

altezza m. 1,15;

superficie alare mq. 6,34;

peso a vuoto Kg. 440;

peso totale Kg. 2.140;

velocità max Km/h 648 a 3.500m;

velocità finale Km/h 926;

raggio Km. 37.

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L’avventura del pilota che non riuscì a morire

 

Nel suo libro L'eclisse del Sol Levante (Le Scienze Mondadori 1971), lo storico John Toland racconta la straordinaria avventura di un kamikaze miracolosamente sopravvissuto al tuffo suicida:

 

« Il guardiamarina Yasunori Aoki, nato a Tokyo ventidue anni prima, credeva nel motto dei kamikaze:

"Un aereo, una nave da guerra".

L'amore per la natura lo aveva spinto a iscriversi alla scuola di agraria di Formosa e quando venne richiamato alle armi s'arruolò nella Marina Imperiale "per il suo fascino", imparò a volare e, agli inizi del 1945, divenne istruttore a Koichi, nell'isola di Shikoku.

Lì venivano richiesti volontari per i corpi di attacco speciale.

Ogni pilota, istruttore come allievo, venne invitato a scrivere il proprio nome su una striscia di carta; quelli che si offrivano volontari dovevano segnare un cerchietto sopra al proprio nome, gli altri un triangolo.

Non essendoci ancora coercizione, parecchi, senza esitare, disegnarono il loro triangolo, ma ad Aoki parve una vigliaccheria. Inoltre, visto che nessuno sarebbe sopravvissuto alla guerra, preferiva morire da pilota, magari affondando una corazzata nemica.

 

I volontari vennero addestrati al volo radente, fino all'altezza di dieci metri, e poi a cabrare e ad aprire il fuoco contro una torre di controllo. Pilotavano uno Shiragiku (crisantemo bianco), un apparecchio da addestramento lento, grosso, con due piloti.

Come comandante del proprio apparecchio, Aoki ne divenne anche l'ufficiale di rotta, sebbene, secondo lui, un solo uomo fosse più che sufficiente; ma senza un superiore nel sedile posteriore forse il pilota sarebbe stato tentato a tornare indietro.

Le settimane passarono rapidamente.

L'addestramento lo teneva occupato quasi tutto il giorno e la missione in sé era così lontana nel futuro da sembrare quasi irreale.

Ma una volta terminato l'addestramento, Aoki cominciò a sentirsi condannato a morte; il senso della condanna, poi, aumentò quando gli apparecchi vennero adattati alla loro speciale missione.

Sotto la carlinga venne aggiunto un serbatoio di carburante supplementare e sotto le ali vennero fissate due bombe da 250 chilogrammi.

Mentre seguiva i lavori di adattamento al proprio apparecchio, Aoki non poté fare a meno di pensare: con questo apparecchio partirò per un viaggio di sola andata.

Il 25 maggio il suo gruppo venne trasferito da Knoya a Kyushu, una base da cui sarebbe partito per l'ultimo volo fino a Okinawa.

A questo punto, Aoki fu travolto dalla definitività del proprio destino.

L’ apparente calma dei suoi compagni gli comunicava un senso di inferiorità.

Al tramonto, vide decollare, diretta verso Okinawa, una squadriglia di kamikaze; la prossima volta sarebbe toccato al suo gruppo.

Rientrò sconsolato negli alloggii, una scuola elementare, dove con sua meraviglia trovò una dozzina di piloti che lui credeva appena pertiti.

Il loro rifiuto di partire calmò il suo senso di vergogna: lui non sarebbe mai stato tanto vigliacco.

Il giorno dopo, a mezzogiorno, stava steso sull'erba e guardava gli apparecchi del suo gruppo che venivano tirati fuori dagli hangar e approntati per la missione.

Improvvisamente, tutt'intorno a lui ci furono furono delle esplosioni.

Gli americani stavano bombardando la base.

Non si mosse.

Non importa morire, si disse; sperava infatti di tornare a vivere e di conoscere, nella sua reincarnazione, un'epoca più tranquilla e piena di pace.

Ma mentre ritornava verso gli alloggi di corsa, la vita, che fino a qualche attimo prima gli era sembrata priva di vero valore, gli divenne più preziosa che mai: un giorno in più di vita non aveva prezzo, anche un'ora di più, un minuto, un secondo.

Si fermò a osservare il volo di una mosca. "Come sei fortunata a essere viva", disse ad alta voce.

Dopo cena il gruppo si radunò per il rapporto sulla missione del giorno seguente.

Ogni equipaggio doveva scegliere la sua quota e la sua rotta.

La maggioranza scelse una rotta indiretta da est a ovest.

Aoki propose di puntare direttamente su Okinawa.

Il suo pilota, un diciassettenne di nome Y okoyama, si disse d'accordo.

Andarono a letto presto e Aoki si svegliò calmissimo, poco prima dell'alba.

Mi sento bene, pensò.

Il 27 maggio, il suo ultimo giorno su questa terra, era limpido e sereno e lui si sentiva eccezionalmente riposato e pieno di energia.

Aveva già messo da parte una ciocca di capelli per la sua famiglia; ora scrisse una cartolina a ognuno dei genitori, alle quattro sorelle minori e al fratello più piccolo.

"Il nostro divino paese non sarà distrutto" scrisse, quindi pregò perché il Giappone sopravvivesse alla sconfitta completa.

 

Nel tardo pomeriggio di quel giorno al suo gruppo venne offerta una cena cerimoniale.

Un ufficiale dell'amministrazione propose un brindisi.

Aoki buttò giù il suo saké d'un sorso solo, notando che invece i suoi compagni lo sorseggiavano.

Un operatore del cinegiornale chiese ai giovani di posare per lui. Infilarono le cuffie di pelle con l’ emblema del Sol Levante e sopra di essi alcuni cinsero l' hacimaki.

Tenendosi sottobraccio, cantarono allegramente Dokino Sakura

All'ultima ispezione, un capitano si fermò davanti ad Aoki e gli chiese perché fosse rosso in viso. "Non ti senti bene?"

Era per via del saké, spiegò Aoki.

"Se non ti senti bene", disse il capitano, sollecito, "puoi restare e aggregarti in seguito a un altro gruppo".

"Mi sento benissimo, signor capitano".

I quindici equipaggi montarono su un auto carro e furono seguiti dai compagni che volevano vederli partire.,

Giunti al campo infilarono le cinture di salvataggio che recavano grossi emblemi del Sol Levante.

In tasca Aoki aveva soltanto una foto della sua famiglia e due piccoli omamori di legno,portafortuna, che sperava lo avrebbero aiutato a portare a termine la sua missione.

Poco prima dell’imbrunire vi fu una cerimonia d'addio presieduta da un contrammiraglio.

Durante il discorso di quest'ultimo Aoki udì un gruppo di ufficiali dello Stato Maggiore seduti lì accanto chiacchierare e ridere e ne fu amareggiato

Come potevano comportarsi con tanta disinvoltura in un momento simile?

L'istruttore capo augurò loro, solennemente, il successo nell'impresa. "A Okinawa c'è un posto di osservazione che confermerà i risultati della vostra missione" disse.

"Stanotte c'è la luna piena. Essa vi guarderà, dunque non sarete soli.

lo vi raggiungerò più tardi ; vi prego di aspettarmi".

I trenta uomini piansero senza vergona

Sapevano che desiderava sinceramente di andare con loro e gli furono grati per aver spogliato di ogni banalità i loro ultimi momenti di vita.

Mentre i quindici apparecchi raggiungevano la loro posizione di decollo ci fu un agitar di fazzoletti, berretti e bandierine tra la piccola folla al lato della pista.

Al di sopra del rombo dei motori a un certo punto Aoki udì qualcuno chiamare: "Aoki! Aoki!".

Si voltò a guardare e lì, dietro all'apparecchio, correndo e gesticolando e piangendo, vide uno dei piloti che si era rifiutato di decollare con il gruppo precedente.

Provò imbarazzo e insieme risentimento.

Tuttavia sorrise e gridò: "Seguici!", proprio mentre il vecchio apparecchio acquistava velocità e si staccava da terra.

La sua ascesa nel cielo prolungò l'ormai fievole tramonto.

Com'è bello! pensò Aoki.

 

Cacciatorpediniere in vista: « Pronti al tuffo»

 

A 1000 metri d'altezza il giovane pilota puntò quasi direttamente a sud, verso Tori Shima , situata a 60 miglia marine a ovest di Okinawa. Lì avrebbero virato a sinistra puntando sulla zona dov'erano raccolti i trasporti americani.

Davanti a loro un solo apparecchio stava allontanandosi nella sua rotta indiretta.

Giù di sotto, una luce verde segnava Sada Point: era l'ultima luce della loro patria, e Aoki la guardò fisso e intento, finché non svanì.

Poi si sporse a guardare una piccola isola sotto di loro.

Se ne levavano strisce di fumo bianco. Fili arricciati.

Uno strato di nubi costrinse Yokoyama a scendere a quasi 700 metri, ma giù di sotto l'aria era così turbolenta che dovette abbassarsi fino a 300 metri circa di quota.

Per ore e ore volarono rombando monotonamente.

L'ora prevista per l'arrivo a Tori Shima era passata.

Aoki fece segno a Yokoyama di continuare e controllò l'ora al suo orologio: le 23,30.

L'attacco sarebbe dovuto cominciare a mezzanotte; non ce l'avrebbero fatta in tempo.

Dopo cinque minuti ordinò a Yokoyama di virare a est e di cominciare a scendere; poi sparpagliò nell'aria pezzetti di stagnola per ingannare il radar nemico, quindi tirò il pulsante che innestava la spoletta delle due bombe, che erano ora armate e sarebbero esplose al contatto.

La cortina di nubi sopra di loro s'era dispersa e Aoki vide i riflessi della luna sull'acqua.

Ci fu un lampo.

Poi un altro.

No, era una nave nemica che stava sparando contro di loro.

Yokoyama portò l'apparecchio a 100 metri di quota e Aoki si sforzò di vedere la nave, ma era accecato dai lampi abbaglianti del fuoco della contraerea forse a neppure due chilometri di distanza.

Ci sarebbe voluto un minuto per raggiungere la nave e il fuoco della contraerea stava diventando sempre più preciso.

"Piega a destra!" ordinò.

Vivide strisce di fuoco schizzavano verso di loro.

Traccianti!

Ci fu un rombo e quel che sembrava un Grumman gli passò accanto vicinissimo.

Shimatta, pensò Aoki: maledizione!

A bordo non avevano neppure una pistola per sparargli contro e se Yokoyama avesse virato avrebbero presentato un bersaglio più facile all'apparecchio nemico.

Spinse indietro la calotta, s'alzò in piedi e si guardò intorno.

Il Grumman era scomparso.

Disse al pilota di puntare di nuovo verso Okinawa.

Quasi immediatamente avvistarono un cacciatorpediniere che navigava tranquillamente davanti a loro, diretto verso sud.

"Affonda!" gridò Aoki.

Yokoyama era stato addestrato ad affondare in senso antiorario per evitare di andare a sbattere contro qualche apparecchio amico, ora invece doveva andare in senso orario, cioè qualcosa che lui non aveva mai fatto prima.

Mentre gli si avvicinavano, da poppa dal cacciatorpediniere non partì neppure un colpo.

Aoki stava ancora in piedi li sul suo sedile, con le braccia poggiate sulla le calotta e il mento sulle mani, fissando dritto il cacciatorpediniere. Era sereno mentre aspettava l'esplosione .

Erano ora così vicini che anche se gli e americani avessero aperto il fuoco sarebbe stato troppo tardi.

Si e sentì felice: la sua morte avrebbe avuto un senso.

 

Né lui né Yokoyama pronunciarono una sola parola mentre il lento e vecchio apparecchio rombava verso il cacciatorpediniere.

Ci fu uno schianto quando colpirono l'acqua, e Aoki si ritrovò ancora nell'apparecchio: per una duplice coincidenza, ancora vivo.

Non avendo mai puntato prima contro un bersaglio mobile, Yokoyama se l'era lasciato sfuggire.

Ma perché le bombe non erano esplose al contatto ?

“Buntaicho (comandante)! Vieni qui!"

Yokoyama stava in piedi sopra la carlinga dello apparecchio che stava affondando.

Aoki se ne tirò fuori appena qualche attimo prima che l'apparecchio s'inabissasse a muso in avanti sotto le onde e gonfiò la cintura di salvataggio che gli era sembrata cosi inutile.

Erano soli, nel buio: niente navi, niente aerei.

"Cosa facciamo?" chiese Yokoyama.

Ora che la vita era salva, Aoki non seppe cosa rispondere.

Non provava nessuna gioia a essere vivo. All'alba, scorsero lontano una striscia di terra: doveva essere Okinawa.

Aoki propose di raggiungerla a nuoto, ma si trovarono improvvisamente davanti un cacciatorpediniere nemico.

Si stesero immobili sulla schiena, come se fossero morti, tenendosi sottobraccio.

Quando il cacciatorpediniere accostò, chiusero gli occhi e spalancarono la bocca.

Una gaffa afferrò la gamba del pantalone di Yokoyama.

"Liberati!"

Gli gridò Aoki, ma il pilota non riuscì a svincolarsi e fu tirato su come un pesce, tirandosi dietro il compagno ancora aggrappato al braccio. Aoki s'arrampicò su per il cavo che pendeva dal fianco della nave: va bene, era stato preso ma sarebbe fuggito o si sarebbe ucciso.

"Stai salendo a bordo!" esclamò Yokoyama, incredulo.

In seguito furono trasferiti su una nave più grande e quando fu chiaro che la fuga era impossibile, Aoki cercò di strangolarsi con un pezzo di corda.

Una sentinella si precipitò dentro proprio mentre stava venendo meno. Alla fine concluse che era suo destino vivere e divenne un prigioniero modello».

 

I Kamikaze , Mondadori 1973

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L’ultimo volo dell’ ammiraglio Ugaki

 

A mezzogiorno del 15 agosto 1945, ai microfoni di Radio Tokyo, l'imperatore del Giappone in persona annuncia a tutto il mondo che l'Impero del Sol Levante accetta di arrendersi senza condizioni agli Alleati.

E' la prima volta nella sua storia millenaria che il Giappone conosce la sconfitta in una guerra.

Anche se, in un certo senso, l'aver dovuto subire il diktat del commodoro Perry nel 1853 in merito alla cessazione dell'isolazionismo è equivalso a una sconfitta.

Per la maggior parte dei giapponesi l'idea di avere perduto è insopportabile, ma con il tempo il popolo vi si adeguerà.

Per gli aristocratici e i militari, l'onta è troppo grande.

A migliaia si suicidano con il rito dell' harakiri, taluni davanti ai Palazzi Imperiali in segno di umile, rispettosa sottomissione.

Anche molti civili, uomini e donne, si sopprimono nelle ore che seguono la resa incondizionata.

E' il momento più funesto e drammatico che il Giappone abbia mai conosciuto.

Nella palazzina del Comando dell'aeroporto di Oita, a Kyushu,

l'ammiraglio Matome Ugaki, capo di tutte le Forze Aeree di Marina dell'isola, ordina ai suoi ufficiali di preparare d'urgenza i piani per un attacco kamikaze, l'ultimo, alle navi americane alla fonda a Okinawa. Un piccolo attacco, da effettuarsi con tre soli bombardieri in picchiata Suisei.

Gli ufficiali sono perplessi.

L’imperatore ha chiesto la resa, la guerra è finita, non si può continuare a combattere.

Informano il sottocapo di Stato Maggiore, Takashi Miyazaki, delle intenzioni di Ugaki, e Miyazaki, allarmatissimo, si precipita dall'ammiraglio per convincerlo a ritirare l’ordine relativo a quella missione.

« Voglio parteciparvi di persona » replica Ugaki sorridendo.

«Intendo quindi che il mio ordine sia eseguito senza indugio ».

«E io le chiedo di pesare attentamente una simile decisione» insiste Miyazaki, «perché non credo che quest'ordine si possa eseguire ».

Ugaki si spazientisce: « Le ripeto per l'ultima volta che si tratta di un ordine dell'ammiraglio. Lo trasmetta immediatamente! ».

Ma nemmeno di fronte a una determinazione così ferma Miyazaki capitola.

Corre in¬ece a confidarsi con il suo diretto superiore, contrammiraglio Toshiyuki Yokoi, che è a letto febbricitante.

Yokoi balza dal suo giaciglio e si fa condurre alla presenza di Ugaki.

«La scongiuro» gli grida, «rinunci a partire! ».

Ugaki è sereno e disteso, adesso.

Chiede soltanto: «Perché non volete danni l'occasione di morire? » Aggiunge: «Devo morire da Samurai. Nessuno m'induca più a non compiere il mio dovere. Il mio successore è già stato scelto e sa cosa dovrà fare ».

Non si può più insistere.

Il tenente di vascello Tatsuo Nakazuru organizza in breve il piano di volo Oita-Okinawa di tre bombardieri biposti Suisei.

Nello stesso tempo Ugaki riunisce tutti i membri dello Stato Maggiore per una semplice cerimonia d'addio.

Così parla loro:

«Sono molto avvilito di avere constatato che gli attacchi suicidi, da me ordinati, non hanno dato quei risultati concreti che ci aspettavamo. Tuttavia vi domando di continuare a fare il vostro dovere, obbedendo scrupolosamente a colui che prenderà il mio posto ».

Nel primo pomeriggio, in un'uniforme senza gradi, Ugaki si presenta sulla pista principale dell'aeroporto di Oita.

E ha motivo di stupirsi.

Non tre, ma undici Suisei sono pronti a decollare.

Il tenente Nakazuru presenta gli equipaggi, ventidue uomini sull'attenti.

Ugaki, con lo sguardo velato di lacrime, osserva uno ad uno quegli uomini dagli occhi di sfinge.

In tono paterno, domanda: «Dunque, voi volete davvero morire con me? tutti? ».

Si ode un coro di « Sì! ».

Nakazuru sale sul primo Suisei, al posto di pilotaggio.

Ugaki si pone dietro a lui, sul seggiolino dell'osservatore.

Ma all'ultimo momento, quando già l'apparecchio comincia a muoversi, l'osservatore titolare di quell'aereo, Akiyoshi Endo, balza su un'ala, s'insinua nell'abitacolo fra i due uomini ed esclama allegramente:

«Lei mi ha rubato il mestiere, Ammiraglio! Ma eccomi qui !»

Uno dopo l'altro i Suisei rullano sulla pista.

Non tutti potranno seguire Ugaki fino in fondo.

Sono apparecchi in cattivo stato.

Quattro di essi accusano dei guasti meccanici e, con immenso rincrescimento, otto uomini devono rinunciare alla missione volontaria. Vanno ad atterrare nei primi isolotti che incontrano sulla loro strada.

 

Gli altri sette Suisei proseguono.

Verso le 18,30, a Oita, giunge un messaggio radio di Ugaki:

«lo rivendico tutta intera la mia responsabilità se i Corpi Speciali kamikaze non sono riusciti ad annientare il nemico.

Non sono stato capace di salvare la Patria, malgrado il coraggio e l'eroismo dei miei uomini in questi mesi di lotta all'ultimo sangue.

Tra pochi minuti io stesso andrò a sfracellarmi su una nave nemica. Vado a cercare, a Okinawa, una degna tomba.

E' là che tanti aviatori si giapponesi si sono sacrificati, puri come fiori di ciliegio.

Formulo il voto che tutti coloro che mi ascoltano ,comprendano il mio gesto e dedichino il loro cuore affinché la Patria rinasca e viva eternamente. Banzai! »

Alle 19,24 un secondo messaggio, brevissimo, giunge alle orecchie del personale della base di Ota.

Per l'ultima volta si ode la voce dell'ammiraglio Ugaki:

«Noi picchiamo! »

Poi, il silenzio.

Nessuno saprà mai in quale angolo di mare sono caduti gli ultimi Samurai del XX Secolo.

Non nelle acque prossime a Okinawa, certamente.

Nessuna nave americana è colpita, in quel giorno di festa per gli Alleati vittoriosi, né alcun apparecchio giapponese, kamikaze o no, è stato avvistato nella zona.

E' lecita una supposizione, che forse è anche la sola possibile.

Negli ultimi istanti della sua vita terrena, Ugaki deve avere capito che non avrebbe reso un buon servizio al Giappone colpendo ancora il nemico.

Non solo avrebbe disobbedito all'imperatore - una

mancanza assolutamente imperdonabile, anzi, inconcepibile per un alto ufficiale giapponese - ma, compiendo una estrema azione di guerra dopo che l'imperatore stesso aveva offerto la resa, avrebbe solo ottenuto di causare indirettamente altre sciagure al Giappone.

I Kamikaze , Mondadori 1973

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Alcune delle ultime lettere dei volontari

 

Sottufficiale Isao Matsuo 701° Gruppo Aereo

 

Cari genitori,mi è stata offerta una splendida opportunità per morire. Questo è il mio ultimo giorno di vita.

La sorte della nostra patria è affidata tutta alla battaglia decisiva che ci attende sui mari del sud, in cui io cadrò come cade un fiore da uno smagliante ciliegio.

Sarò uno scudo per Sua Maestà e così morirò, semplicemente, assieme al capo della squadriglia e agli altri amici.

Vorrei essere nato sette volte, ogni volta per sconfiggere il nemico.

Con quale gratitudine accetto questa possibilità che mi è data di morire da uomo!

Vi sono profondamente riconoscente per avermi allevato con tanto amore e con tanta cura.

E non solo a voi sono grato, ma anche al mio caposquadra e ai miei ufficiali superiori, che mi hanno trattato come un figlio e mi hanno addestrato con la massima cura.

Grazie, cari genitori, per i 23 anni durante i quali mi avete seguito con il vostro amore e i vostri consigli.

Spero che l'azione che sto per compiere vi ripaghi almeno in piccola parte di tutto quanto avete fatto per me.

Il mio ultimo e unico desiderio è che voi pensiate di me tutto il bene possibile e sappiate che il vostro Isao è morto per la patria.

Tornerò in spirito ad assistervi durante le vostre visite al Tempio di Yasukuni.

Abbiate cura di voi.

Isao

 

********************************

 

Cadetto Jun Nomato Gruppo Aereo Himeji

 

Genitori carissimi, vogliate scusarmi se detto queste mie ultime parole a un amico.

Non c'è più tempo per scrivere.

Non ho niente di particolare da dirvi; soltanto voglio che sappiate che, in questi ultimi momenti che mi restano, sto benissimo.

Considero un grande onore essere stato scelto per questa missione.

I primi aerei del mio gruppo sono già in volo, mentre un amico sta scrivendo queste parole appoggiandosi alla fusoliera del mio aereo. Non provo rimpianti, né tristezza.

Fermo nel mio proposito, adempirò con animo sereno al mio dovere.

Che la mia ultima azione sia all'altezza dell'eredità lasciataci dai nostri antenati!

Addio!

Jun

 

**********************************

 

Sottotenente Nohuo Ishibashi dei Corpi Speciali

 

Padre amato, la primavera si fa sentire presto nel Kyushu meridionale: la natura in fiore offre uno spettacolo meraviglioso.

Eppure, questi luoghi in cui sembrerebbero regnare la pace e la tranquillità sono un vero e proprio campo di battaglia.

L'ultima notte ho dormito bene, senza sogni.

Oggi la mia mente è serena e la salute eccellente.

Mi fa bene pensare che in questo momento siamo sulla stessa isola.

Ricordati di me, quando andrai al Tempio, e salutami tutti gli amici.

Nohuo

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I Kamikaze Tedeschi

 

Germania, 7 aprile 1945.

L'esercito tedesco tenta l'ultima resistenza mentre l'Armata Rossa è a pochi chilometri da Berlino, e da ovest avanza quella americana del generale Patton.

Sono passati più' di due mesi da quando si è consumata la tragedia del bombardamento di Dresda, che la Luftwaffe, ridotta ai minimi termini, non ha potuto impedire.

La guerra è praticamente finita.

Ogni mattina, formazioni di bombardieri americani Boeing B 17 e Consolidated B 24 si alternano sugli ultimi focolai di resistenza.

Berlino è letteralmente martellata, ed è là che è diretta per l'ennesima volta una grande formazione dell' 8a Air Force schierata nel Sud dell'Inghilterra.

I mitraglieri delle postazioni dorsali, caudali e ventrali sono in massima allerta.

Sanno che qualche caccia Messerschmitt Bf 109 o Focke-Wulf FW 190 superstite può sempre spuntare da qualche parte.

È vero, ci sono i caccia di scorta, i North American P 51D Mustang che, con i loro serbatoi ausiliari sotto le ali, possono tenere compagnia fino su Berlino.

Ma l'esperienza insegna che "a chi si fa pollo tirano il collo", e prima che quelli comincino il loro carosello difensivo, qualche quadrimotore va sempre giù.

Le dita tormentano il grilletto delle Browning da 12,7; i nervi sono tesi allo spasimo; gli occhi frugano il cielo lattiginoso.

La formazione sta sorvolando la città di Magdeburgo, alla confluenza tra l'Elba e il Mittelkanal che lo congiunge al Reno, quand'ecco, d'improvviso, si vedono spuntare dalle nubi alcune decine di Bf 109. Per la precisione sono 78.

Piccoli, velocissimi.

 

Non sparano: perché?

 

"Crucchi a ore 6", annuncia un mitragliere di coda, il primo a vederli.

E subito dai quadri motori, come obbedendo alla bacchetta di un direttore d'orchestra, si scatena una reazione terrificante.

Gli americani non hanno problemi di munizioni: i mitraglieri sparano a saturazione.

I caccia tedeschi virano, si sparpagliano, cambiano quota e direzione, poi attaccano in massa.

Si infilano coraggiosamente nell'uragano di fuoco - i primi vengono frantumati - e si avvicinano a tutta velocità al proprio bersaglio, ma - incredibilmente - non sparano.

Gli equipaggi dei B 17 non ci capiscono un gran che: possibile che decine di mitragliatrici e di cannoncini Mauser si siano inceppati tutti insieme?

Oppure che i tedeschi non abbiano più munizioni e attacchino così, soltanto per consumare preziosa benzina?

Che cosa significa quello strano comportamento?

Pochi istanti e arriva la spiegazione.

Un Bf 109 centra in pieno un B 17 e i due aerei , il grande e il piccolo, precipitano assieme in un groviglio di lamiere e di corpi umani.

Un secondo caccia si abbatte sulla coda di un altro bombarardiere, gliela stacca di netto, e il quadrimotore precipita , girando su se stesso come una trottola, mentre l'attaccante va in pezzi.

Un terzo caccia si schianta sull'ala sinistra piena di benzina, l'esplosione del B17 è immediata e terribile.

Il comportamento dei piloti tedeschi non lascia dubbi: si tratta di un attacco suicida simile , anche se diversissimo nella tattica, a quelli messi in atto dai kamikaze giapponesi.

Per quelli, infatti, l'azione suicida obbediva a un calcolo di tipo "ragionieristico": un solo aereo e un solo pilota perduti infliggono a una grande nave da battaglia nemica danni gravissimi: danni per i quali un'azione non suicida avrebbe richiesto l'impiego e la perdita di decine di piloti e di aerei; quindi un'operazione conveniente.

In questo caso invece l'immensa capacità produttiva dell'industria americana poteva sopportare senza problemi la perdita di qualche aereo (se ne producevano quasi 6.000 al mese!) mentre per la stremata Luftwaffe ogni caccia perduto rappresentava un disastro.

La mossa tedesca è pertanto priva di ogni contenuto utilitaristico: è il bel gesto che illustra l'onore militare e suscita l'ammirazione del nemico, come la carica della cavalleria polacca contro i panzer della

Wehrmacht.

 

Una sola missione

 

L'azione era stata realizzata dal Raubvoegel Gruppe del Sonderkommando Elbe comandato dal colonnello Hermann.

Essa nasceva come unità non propriamente suicida, ma comunque finalizzata ad azioni con scarsissime probabilità di salvezza.

Fra il 1943 e il 1944 un gruppo di FW 190 aveva attaccato con buon successo le formazioni alleate, infiltrandosi coraggiosamente nel loro fuoco difensivo e ponendosi poi in rotta di scampo (quelli che ce l'avevano fatta...) solo pochi istanti prima della collisione.

Da questo modo di combattere per così dire "ardito", caratterizzato dall'80 per cento e oltre di perdite, al vero e proprio attacco suicida il passo era stato breve e conseguente.

Con l'autorizzazione di Heinrich Himmler, capo delle SS (Adolf Hitler non ne sapeva niente), si diede inizio al reclutamento di piloti volontari che si sarebbero addestrati per missioni "speciali e particolarmente pericolose".

Si presentarono in trecento; gli si spiegò di che cosa si trattava; nessuno si tirò indietro.

A Praga si svolse l'addestramento per i "volo senza ritorno".

Primo e unico esempio fu la missione del 7 aprile sopra descritta. Appena ne fu informato, Hitler pose il suo veto, dichiarando che al pilota tedesco doveva comunque essere concessa la possibilità di salvezza.

L'iniziativa del colonnello Hermann ,con spreco di preziosi aerei e piloti , era già stata fortemente criticata dalle alte gerarchie della Luftwaffe. Il generale Baumbach, comandante dei bombardieri, per i quali i caccia servivano come l'aria, la definì vollig idiotisch (estremamente idiota).

Venti giorni più tardi, l'Armata Rossa entrava in Berlino.

 

Volare, Agosto 1998

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bp20.jpg BA 349A Natter

 

Il NATTER Ba.349 venne progettato dall'Ing. Erich Bachem e realizzato a Waldsee presso il lago di Costanza.

Si trattava di un velivolo completamente ligneo con ala e timoni a pianta perfettamente rettangolare caratterizzato dalla mancanza di alettoni propriamente detti; infatti le ali non avevano superfici mobili Ie cui funzioni erano svolte dall'uso differenziato dei timoni di profondità.

Le ali avevano profilo simmetrico e struttura monolongherone.

La fusoliera era divisa in tre sezioni che si distaccavano al termine

della missione; una anteriore che comprendeva l'armamento di razzi (24 Fohn da 73 mm o 33 R4M da 55 mm) e la cabina di pilotaggio, una centrale con due serbatoi di carburante sovrapposti (quello superiore di T-Stoff formato da perossido di idrogeno ed uno stabilizante; quello inferiore di C-Stoff di una miscela di idrato di idrazina con metanolo e acqua ed il nucleo principale del motore razzo Walter HWK 509-1 da 2.000 Kg. di spinta), infine la sezione di coda con gli impennaggi e la camera di combustione del razzo.

La cabina era fortemente protetta e praticamente racchiusa in una pesante serie di corazzature.

Eccezionale era la semplicità ed economicità della costruzione che poteva essere eseguita anche da personale non specializzato.

La tecnica di impiego prevedeva un decollo verticale dalla rampa di 24,50 m. scorrendo sulle estremità delle ali e della pinna ventrale e con l'assistenza di quattro razzi ausiliari sganciabili da 500 Kg. di spinta ciascuno.

Nelle prime fasi del volo l'aereo era sotto il controllo di un primitivo pilota automatico Patin PDS su tre assi che veniva disinserito solo in prossimità dell'obiettivo quando il pilota sganciava la cupoletta dell'estremita del muso e sparava i razzi in una sola letale raffica. Quindi il Natter doveva cercarsi un "angolino tranquillo" per dare il via alla complessa operazione di rientro; il muso, fino al sedile escluso si distaccava ed il pilota era così libero di lanciarsi col paracadute.

Anche i pezzi del caccia discendevano a terra affidati a grossi paracadute ed una volta recuperati potevano essere nuovamente impiegati.

L'idea dell'lng. Bachem non era cattiva ed in effetti il NA TTER si dimostrò il migliore dei cosiddetti caccia della disperazione rivelandosi tecnicamente privo di gravi difetti.

I grossi ostacoli sorsero invece a causa del motore di modesta potenza e breve autonomia e del pilota automatico praticamente inefficente.

Il momento più critico del volo risultava il decollo quando il NATTER lasciava la sua rampa affidato ai quattro razzi ausiliari tutt'altro che sicuri e che davano solo 10 secondi di spinta lasciando l'aerorazzo ad una velocità estremamente critica; in quella fase infatti le superfici aerodinamiche non avevano ancora piena efficacia ed anche il loro successivo ingrandimento migliorò solo di poco la situazione.

Unica soluzione rimaneva quella di un sistema di orientamento del getto difficilmente attuabile per le elevate temperature allo scarico.

Dopo numerosi lanci senza pilota a bordo la Luftwaffe volle, contro il parere dello stesso Ing. Bachem, che fosse tentato un primo volo con equipaggio.

L 'esperimento avvenne il 28/2/1945 ed il NATTER dopo un ottimo decollo perse il tettuccio della cabina e al termine di un mezzo looping si fracassò uccidendo il coraggioso volontario Lothar Siebert.

L'incidente non fermò il programma e nei successivi collaudi furono eseguiti altri sei voli pilotati tutti coronati da successo.

La Luftwaffe decise quindi che il velivolo era pronto per l'impiego operativo e ordinò la realizzazione di una prima batteria di Ba.349A a Kirchleim vicino a Stuttgart; questi esemplari non vennero mai impiegati in combattimento e caddero nelle mani delle forze terre stri alteate.

Una versione migliorata col motore munito di camere di combustione per il volo in crociera, ricevette la designazione Ba.349B ma ne furono realizzati solo tre esemplari utilizzando altrettanti Ba.349A.

Complessivamente furono costruiti solo 36 NATTER, ed ecco le dimensioni e caratteristiche principali:

apertura alare m. 4;

lunghezza m. 6,02;

altezza m. 2,25;

superficie alare m. 4,70;

peso a vuoto Kg. 880;

peso totale al decollo Kg. 2.232;

velocita mas a 5.000 m. Km/ h 998;

rateo iniziale di salita 190 m/sec.;

autonomia 4'36".

 

JP4 , Novembre 1974

Modificato da Dave97
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Mistel.jpg Mistel

 

Un progetto che, se non proprio suicida, offriva comunque ben poche possibilità di scampo fu quello denominato Mistel (vischio).

L'idea era stata dell'ingegner Holzbauer, capo collaudatore della Junkers;

un caccia Messerschmitt Bf 109 o Focke-Wulf FW 190 veniva montato sul dorso di un bombardiere Junkers Ju 88 pieno di esplosivo; il caccia fungeva da modulo di comando e il pilota radiocomandava il bombardiere che lo sosteneva fino sulla verticale dell'obiettivo; qui avveniva la separazione per mezzo di un comando elettrico.

Lo Ju 88 precipitava sul bersaglio, mentre il caccia tentava di mettersi in salvo.

In realtà, il volo accoppiato era lento e poco manovrabile, quindi vulnerabilissimo alla caccia e all'antiaerea.

Vennero prodotti soltanto una quindicina di Mistel, che furono impiegati durante lo sbarco in Normandia, e furono tutti distrutti, a fronte dell'affondamento di un paio di mercantili e del Courbet, un vecchio incrociatore francese.

Altri Mistel avrebbero dovuto essere utilizzati per la distruzione dei ponti sul Reno e sull'Oder, nella speranza di bloccare l'avanzata degli Alleati.

Ma non se ne fece nulla, anche a causa del definitivo sbandamento dell'industria aeronautica tedesca.

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Il mistel non era "pieno d'esplosivo". Aveva solo una testata esplosiva a carica cava, ed era concepito per attacchi donto bunker e navi da guerra. L'impiego contro i ponti era frutto solo della disperazione. Galland apostrofò Hajo Hermann come "pazzo", e rise di gusto quando seppe che Hermann aveva diretto le operazioni da terra.

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Caratteristiche del Mistel

Anno : 1944;

Apertura alare : 20 m;

Peso al decollo : 14815 Kg;

Velocità massima : 482 Km/h;

Autonomia : 770 Km;

Armamento : carica cava di esplosivo da 3800 Kg;

Equipaggio : 1 persona

 

Pieno di esplosivo, è semplicemente un modo di dire, vista la quantità di esplosivo a bordo :rolleyes:

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Per la precisione, la testata bellica aveva un peso nominale di 3500Kg (3600-3800 effettivi) in grado di perforare uno spessore in cemento di 18,5m; l'esplosivo, pari al 50% del peso totale, era una miscela di Hexogen (70%) e tritolo (30%). Ne sono riportate due tipi, SHL 3500B ed SHL 3500D (SHL, Sonderhohlladung, carica cava speciale), oltre ad una più piccola da 1500Kg per il Mistel 3b. Infatti non esisteva solo il Mistel con lo Ju.88, ma anche altri con Me.262, He.177, Ju.188, Ta.154 più una serie di aerorazzi prodotti dalla Siebel. Rimando all'articolo apparso su Aerei nella Storia N°53.

Modificato da Kometone
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