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Raid over Tokio


Dave97

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Raid over Tokio

 

Nella primavera del 1942, l'allora colonnello e asso dell' Aviazione americana James Doolittle fu incaricato di compiere una missione al limite dell'« impossibile »: bombardare Tokyo.

I comandi strategici americani, dato l’esiguo numero di aerei che potevano essere impiegati nell'impresa, non si ripromettevano di ottenere un vero e proprio successo militare, ma piuttosto un vantaggio «psicologico » determinato dall'impressione negativa che un tale bombardamento avrebbe suscitato fra la popolazione e negli ambienti militari nipponici, convinti assertori dell'inviolabilità del territorio giapponese.

Dopo il disastro di Pearl Harbor, si sarebbe trattato di una prima rivincita, anche se soltanto dimostrativa.

Ecco, nelle parole dello stesso Doolittle, il ricordo della straordinaria impresa.

 

Le giornate del dicembre 1941, che seguirono al disastro di Pearl Harbor, furono probabilmente le più buie di tutta la storia degli Stati Uniti.

Era evidente che bisognava fare qualcosa per rialzare il morale della nazione e per dimostrare ai giapponesi che eravamo tuttora abbastanza forti da reagire al loro attacco.

Se ben ricordo, un primo suggerimento venne da un capitano sommergibilista che faceva parte dello Stato Maggiore dell'ammiraglio King.

Si chiamava Francis S. Low.

Egli sottopose all'ammiraglio questo progetto:

mandare sul Giappone dei bombardieri facendoli partire da una portaerei.

L'ammiraglio King discusse la cosa con il generale George Marshall (capo di Stato Maggiore generale) e col generale Henry Arnold, capo della nostra Aviazione e qualche giorno dopo,io a quel tempo ero soltanto colonnello , Amold mi mandò a chiamare.

Era in progetto, mi disse, una «certa missione », per la quale occorrevano aerei con 3.800 chilometri di autonomia, capaci di trasportare una tonnellata di bombe a testa e soprattutto capaci di decollare da una pista cortissima.

Era possibile averne?

Dopo aver riflettuto, proposi il B-25 Mitchell.

Arnold approvò e mi incaricò di adattare sedici B-25 per la misteriosa impresa.

Come ingegnere aeronautico, trovai le soluzioni tecniche abbastanza rapidamente.

Sotto la mia guida, i nostri piloti spogliarono un B-25 di ogni peso superfluo e lo fecero decollare da una portaerei, perché avevo finalmente intuito che cosa intendeva Arnold per «pista cortissima»

Allora la cosa era del tutto insolita; sulle nostre portaerei, a quei tempi, c'erano soltanto caccia.

Riducemmo le dimensioni dell'apparecchio smontando la torretta posteriore; e per aumentare al massimo il raggio d'azione installammo serbatoi supplementari nelle ali, modificando inoltre il « ventre» dell'aereo, in modo che solo la parte inferiore fosse occupata dal carico utile (quattro bombe da 226 chili l'una) mentre quella superiore poteva contenere altro carburante. Per scoraggiare attacchi da parte di caccia giapponesi piazzammo in coda quattro finte canne di mitragliatrice.

Gli aerei erano ancora in fase di trasformazione quando il generale Arnold mi chiese di scegliere gli equipaggi e incominciare gli allenamenti speciali.

E seppi allora in che cosa consisteva la missione: si trattava di bombardare Tokyo!

Le portaerei ci avrebbero accompagnati fino a distanza utile dall'obiettivo, poi sarebbero tornate indietro; noi, effettuata la missione, avremmo dovuto proseguire fino a raggiungere il territorio cinese non ancora occupato dal nemico, dove avremmo potuto sperare di atterrare. Dopo, dovevamo riunirci, avvicinare qualche unità regolare dell'esercito cinese e metterci infine in contatto con le nostre forze armate.

Mi servivano davvero equipaggi d'eccezione.

La mia scelta cadde sui piloti del diciassettesimo gruppo bombardieri, di stanza a Columbia, nella Carolina del Sud.

Dapprima chiesi dei volontari, ma poiché tutti si offrivano, bisognò fare una cernita degli equipaggi più preparati, più competenti e più affiatati.

Il giorno dopo tornai con sedici equipaggi alla base di Eglin, vicino a Valparaiso in Florida.

E l'allenamento incominciò subito.

Il punto essenziale stava nell'abituare i piloti a decollare da un ponte di una nave lunga 150 metri invece che da una pista di almeno 700

Poi c'erano le esercitazioni di volo radente, di bombardamento, di navigazione aerea.

Nulla fu la¬sciato al caso, e tutto si svolse nel massimo se¬greto.

Ci rendavamo perfettamente conto che la nostra incursione su Tokyo, dati gli scarsi mezzi di cui disponevamo, sarebbe stata tutt'altro che una mazzata per il Giappone: perciò bisognava almeno scegliere con astuzia gli obiettivi, per scuotere il morale del nemico.

Mi venne, fortissima, la tentazione di bombardare il palazzo dell'imperatore.

Ma scartai quella idea, ricordando che la Luftwaffe tedesca, attaccando Buckingham Palace, aveva solo ottenuto il risultato di forgiare l'unione sacra di tutti gli inglesi intorno alla corona.

E così scegliemmo obiettivi di carattere militare: officine, raffinerie di petrolio, installazioni portuali.

 

Siamo stati avvistati: è necessario anticipare il decollo

 

Gli artificieri ci fornirono bombe dirompenti di grosso calibro, o grappoli di spezzoni incendiari, secondo l'obiettivo che ciascun aeroplano si prefiggeva di colpire.

Ogni B-25 aveva un equipaggio di cinque uomini: primo e secondo pilota, navigatore, bombardiere e meccanico - mitragliere, sistemato in coda.

Il meccanico era responsabile della manutenzione dell'apparecchio fino al momento della partenza, nonché del buon funzionamento dei motori e degli altri dispositivi durante il volo. Sorvolando il Giappone, invece, il meccanico avrebbe dovuto trasformarsi in mitragliere per

« respingere » , termine alquanto ottimistico , gli assalti della caccia nipponica.

La missione era stata decisa nel gennaio del 1942.

Gli allenamenti e le prove si protrassero fino a metà marzo.

Intanto i giapponesi avevano avuto il tempo di invadere le Filippine, Hong-Kong, Singapore, le Indie Olandesi e l'isola di Wake.

A Bataan la battaglia era perduta, e la caduta di Corregidor sembrava imminente.

Noi, ripeto, partivamo senza illuderci di ottenere risultati spettacolari.

Si era ancor ben lontani dall'epoca in cui l'aviazione americana avrebbe potuto mandare su Tokyo cinquecento B-29 alla volta, ciascuno con dieci tonnellate di bombe.

Tuttavia i capi giapponesi, i signori della guerra, andavano proclamando che l'arcipelago nipponico era al sicuro da ogni offesa nemica; e a noi, in quel momento, bastava incrinare il mito della loro invincibilità.

Verso la fine di marzo lasciammo la nostra base della Florida a bordo dei B-25 e raggiungemmo Sacramento sulle coste del Pacifico, dove i bombardieri furono imbarcati sulla nuovissima portaerei Hornet.

Il giorno 2 aprile 1942, scortati da altre unità, eravamo in navigazione.

Una volta in alto mare non trovammo davvero il tempo di annoiarci.

Alla partenza avevo fatto distribuire ai piloti i singoli piani di volo durante la navigazione perfezionammo lo studio dell'impresa e ci tenemmo in forma facendo ginnastica sulla pista, nel poco spazio che ti lasciavano gli aerei.

L'ammiraglio Halsey, comandante della squadra navale che ci portava verso il Giappone, promise di farci arrivare il più vicino possibile al territorio nemico, compatibilmente con le sue esigenze di sicurezza; se i giapponesi non si facevano vedere in mare, egli pensava di far decollare gli aerei quando fossimo a 750 chilometri da Tokyo.

In cambio, io gli feci un'altra promessa.

Se aerei nemici avessero attaccato la squadra navale, noi avremmo immediatamente decollato, qualunque fosse la distanza dal Giappone, per lasciar libera la pista agli aerei da caccia destinati a difendere le navi.

In questo caso, noi avremmo puntato sul Giappone anche da una distanza che richiedesse tutto il nostro carburante, lanciandoci poi in territorio nemico col paracadute dopo aver gettato le bombe.

Se al momento del decollo di emergenza la distanza dal Giappone fosse stata invece proibitiva, allora, invece di dirigerei su Tokyo, avremmo puntato sulla base americana più vicina, le Midway o le Hawaii.

Per nostra disgrazia, all'alba del 18 aprile incontrammo due pescherecci giapponesi, armati malissimo, ma dotati di potenti stazioni radio.

Furono affondati ma ebbero il tempo di segnalare la nostra presenza.

Fedele alla promessa di sgombrare il ponte di volo al primo segnale di pericolo, ordinai immediatamente il decollo dei sedici bombardieri: ma eravamo a 1.200 chilometri da Tokyo, non a 750.

 

Riesco a sfuggire all’inseguimento di cinque caccia

 

E questo fatto provocò una serie di conseguenze.

Se fossimo partiti a minor distanza dall'obiettivo, i primi a decollare avrebbero poi aspettato gli altri, in modo che tutta la formazione arrivasse insieme su Tokyo.

Ma a quella distanza non potemmo più seguire il metodo classico: occorreva un'ora per far decollare tutti gli aerei, e non si potevano costringere i primi a volare in cerchio sulle navi per tanto tempo, aspettando gli ultimi.

Il carburante doveva adesso servirei per coprire almeno 400 chilometri in più.

Ricordo i drammatici momenti del decollo.

I marinai della portaerei fecero miracoli.

Uno di essi scivolò e un'elica gli tagliò di netto un braccio.

La nostra situazione, a causa di questa partenza anticipata, era francamente preoccupante. All'ultimo momento ciascun aereo aveva imbarcato altri sei bidoni di benzina da venticinque litri l'uno: durante il volo, il meccanico di bordo avrebbe pensato a travasare questa benzina dai fusti nei serbatoi.

Nonostante ciò, non eravamo affatto sicuri che saremmo arrivati fino alla costa cinese, dopo aver bombardato Tokyo.

Il vento contrario avrebbe potuto costringerei a scendere in mare, soluzione che non ci sorrideva affatto, ma che eravamo comunque pronti ad accettare.

Del resto sapevamo che due sommergibili americani operavano nei paraggi; non restava che sperare di poter ammarare nelle loro vicinanze e di essere ripescati.

I nostri sedici bombardieri rappresentavano tutto quello che l'America poteva mandare in quel momento sul territorio nemico; e, sparpagliati com'erano su una linea di centocinquanta chilometri d' aria, avrebbero dovuto attaccare in ordine sparso, ognuno per conto suo.

lo pilotavo il bombardiere di testa.

L'aereo che seguiva il mio , e che ci raggiunse qualche tempo dopo il decollo , era pilotato da un certo Travis Hoover.

Secondo il piano d'operazione ogni apparecchio, dopo aver sganciato le sue bombe, doveva dirigersi dapprima verso sud, e poi virare decisamente ad ovest.

In nessun caso, però, avrebbe dovuto cercare di tornare verso la squadra navale americana; al contrario, bisognava fare ogni sforzo per trascinare lontano dalle nostre navi eventuali inseguitori nemici.

Abbordammo la costa giapponese a volo radente, cioè ad una altezza che ci consentiva appena di non urtare negli alberi.

I nostri aeroplani, allora, erano contrassegnati da una stella bianca in campo azzurro, con al centro un disco rosso.

Quel disco rosso in pratica si rivelò assai utile: somigliava infatti allo stemma giapponese del «Sol Levante», e tutti i nostri equipaggi poterono vedere, a terra, sulle strade e nei campi, viandanti e contadini che salutavano con le braccia.

Ci scambiavano per giapponesi!

D'improvviso ci arrivò addosso la caccia nemica.

Seppi dopo che molti dei nostri aerei furono sforacchiati dai suoi proiettili benché nessuno riportasse gravi danni.

Quanto a me, stavo volando bassissimo sugli alberi quando scorsi cinque caccia in.alto sulla mia sinistra.

Anch'essi dovettero vedermi nello stesso momento perché rallentarono bruscamente.

Forse aspettavano che io gli passassi sotto per aggredirmi in picchiata.

Portai i motori al massimo, a costo di sacrificare qualche litro di preziosa benzina, poi eseguii una virata di 180 gradi, un mezzo giro completo.

I caccia fecero altrettanto, ma la mia manovra ebbe un esito fortunato.

Mi trovai di fronte due colline; imboccai la valle che le separava, girai intorno ad una di esse

in una specie di fantastico rimpiattino a bassa quota.

Quando rimisi l'areo in linea, i caccia giapponesi, sconcertati, filavano in un'altra direzione.

Mi ero svincolato, e ripresi la via di Tokyo.

Quando dovevamo sorvolare un abitato facevamo un largo giro,in modo da evitare palazzi, serbatoi d'acqua e antenne della radio.

Poi, arrivando su Tokyo, fummo costretti a salire un po' di quota, se non altro per sfuggire agli effetti delle esplosioni delle nostre stesse bombe.

Portai il mio aereo a 300 metri di altezza.

La difesa contraerea fu subito fastidiosa, ma il suo tiro apparve largamente impreciso.

D'altra parte volavamo ancora tanto bassi da comparire improvvisamente « sopra i cannoni », senza lasciare ai serventi il tempo di prendere la mira.

Per sorvolare tutta l'immensa città occorsero, alla velocità di 330 chilometri orari, ben sei minuti.

Il mio obiettivo si trovava circa nel centro di Tokyo e i punti di orientamento non mi mancavano.

Lo riconobbi facilmente.

Sorvolammo la zona senza fretta, in modo da sganciare con precisione le nostre bombe; e subito dopo puntammo decisamente a sud.

Dovevamo raggiungere al più presto il mare dove, volando a pelo d'acqua, saremmo stati pressoché al sicuro dalla caccia nemica.

Quando fummo abbastanza lontani dalla costa giapponese virammo ad ovest, verso la Cina, che in quel momento ci sembrava terribilmente lontana.

Anche il vento era contrario, sicché dovemmo mettere ogni cura nell'economizzare il carburante.

A 1.700 chilometri dalla costa, fortunatamente, il vento contrario si indebolì; a 800 aveva completamente cambiato di direzione, e addirittura ci sospingeva.

Solo allora fummo certi che avremmo raggiunto la terra ferma, e il nostro morale si risollevò di colpo.

 

Impossibile atterrare: ci gettiamo col paracadute

 

Dovevamo andarci a posare in una piccola valle di quattro chilometri per 17, dove i cinesi avevano improvvisato per noi un aerodromo di fortuna.

Ma quando ci mettemmo a cercarla incominciarono i veri guai.

Il campo doveva essere dotato di radio per guidare il nostro avvicinamento alla zona: dopo un volo di 3.800 chilometri era inevitabile che arrivassimo con un certo scarto rispetto alla rotta prevista.

Chiamammo quell'aeroporto, ma in risposta, nelle cuffie di ascolto, non ci giunsero che vaghi ed insignificanti fruscii, provenienti da chissà dove...

L’ aerodromo restava muto.

Solo più tardi venimmo a sapere che non aveva nessuna radio, perché l'aereo incaricato di portargliela era precipitato durante la missione e nessuno dell'equipaggio si era salvato. Sicché, arrivando sulla Cina, trovammo questa drammatica situazione: nessuna radio a guidarci, una notte assolutamente buia, un tempo pessimo.

Alcuni dei miei bombardieri preferirono ammarare subito nei pressi di qualche spiaggia, agli ultimi barlumi del crepuscolo.

A me, giunto sulla Cina un'ora e mezzo dopo il calar del sole, non era possibile fare altrettanto. Così, ci mettemmo a cercare il nostro campo di atterraggio.

Il tempo si faceva sempre più brutto,la visibilità si poteva stimare in duecento metri o poco più.

Avvicinandoci alle alture, fu chiaro che non potevamo restare sotto le nuvole senza correre il rischio di sfracellarci contro qualche cocuzzolo.

Salimmo dunque fino a ma tremila metri.

Per la verità le carte non segnalavano montagne più alte di 1.700 metri nella regione, ma nessuno di noi si fidava completamente di quelle carte.

Era notte fonda ormai, e procedevamo in mezzo a banchi compatti di nuvole.

Guardavamo disperatamente in giù, ogni tanto s'apriva uno squarcio, ma tutto quel che si vedeva era qualche lumino, perduto nella campagna.

La valle sembrava introvabile e un atterraggio alla cieca non era certo da calcolare fra le soluzioni possibili.

Intanto la pioggia infittiva, diventava torrenziale.

Qualcuno dei miei piloti lanciò dal suo aeroplano una serie di potenti bengala, nella speranza di poter almeno scoprire qualche pianura sufficientemente estesa.

Invece non si intuivano che montagne, rocce, corsi d'acqua.

In mezzo a quella maledetta valle doveva esserci anche una cittadina, ma non riuscivamo a vedere neppure quella.

Non potevo far altro che dare ai miei uomini l'ordine di gettarsi con il paracadute.

Si lanciò dapprima il meccanico-mitragliere, che stava in coda, poi il bombardiere, quindi il navigatore e il secondo pilota.

Lo aspettai ancora che i serbatoi fossero completamente vuoti di carburante; poi mi gettai a mia volta nel vuoto.

Durante la discesa ci sparpagliammo per un raggio di molti chilometri.

L'aeroplano planò lentamente nella notte e andò a sfasciarsi lontano, contro un cucuzzolo.

Tre dei miei uomini fecero un brusco atterraggio e uno di essi si fratturò una caviglia. L'indomani mattina constatai che solo il mio meccanico ed io eravamo in grado di camminare. Per fortuna eravamo scesi in territorio amico, nei pressi di Tien Mu Shen, centoventi chilometri a nord della vallata che ci aspettava.

Incontrai un cinese che portava a spalla, su un bilanciere, due sacchi di concime.

Ci guardava esterrefatto e non sapeva una sola parola d'inglese.

Tuttavia ci accompagnò ad una caserma, dove parlai con l'ufficiale più elevato di grado, che conosceva abbastanza l'inglese.

Ma era sospettosissimo, e la conversazione incominciò male.

togliermi la pistola d'ordinanza; ma io replicai che eravamo alleati per una stessa causa e che non mi sembrava il caso di perdere tempo a disarmarci a vicenda.

Finalmente rinunciò a quella stravagante pretesa e si decise ad ascoltare il mio racconto; gli dissi di far cercare nella zona dov'ero disceso, perché avrebbe potuto rintracciare il mio paracadute, come prova della verità di quanto gli dicevo.

L'ufficiale cinese diede subito gli ordini, ma sfortunatamente il mio paracadute non fu ritrovato. Allora incominciò a guardarmi con palese diffidenza, e in cuor mio non mi sentivo di dargli torto.

 

Tre compagni fucilati dai giapponesi

 

Per fortuna due dei soldati ebbero l'idea di frugare la casa vicino al luogo del mio atterraggio e alla fine, misteriosamente, il mio paracadute fu ritrovato nel solaio.

L'ufficiale cambiò di colpo atteggiamento, e da allora tutto fu facile.

Dopo una buona dormita andai a vedere i resti del mio apparecchio caduto.

Non era più che una pietosa carcassa: gli abitanti del posto l'avevano spogliato di tutto ciò che ai loro occhi poteva offrire un minimo di interesse.

Intanto i membri degli altri equipaggi s'erano a loro volta riuniti alla bell'e meglio, e tutti insieme ci dirigemmo verso la cittadina, raccogliendo altri sbandati lungo la strada.

In quattro giorni ci trovammo quasi al completo.

Le nostre perdite umane erano state, nel complesso, assai modeste.

Uno dei piloti era rimasto ucciso durante il lancio col paracadute, non riuscimmo a capire come.

Ci portarono il suo corpo (anch'esso completamente spogliato come la carcassa dell'aereo) sospeso ad una lunga canna di bambù portata a spalle da due cinesi.

Gli demmo onorata sepoltura.

Non potemmo fare altrettanto per due compagni che erano affogati durante l'ammaraggio di un bombardiere nei pressi della costa.

Tre, dunque, i morti accertati, ma alcuni aviatori mancavano ancora all'appello.

Che era accaduto di loro?

Lo seppi molto tempo dopo.

Uno dei nostri B-25, guidato dal tenente Edward York, era andato ad atterrare in Russia, e l'equipaggio, ritrovato dai sovietici, rimase per tredici mesi in un campo d'internamento.

Altri due equipaggi, più sfortunati, erano andati a finire in una zona controllata dai giapponesi. Furono catturati; tre uomini vennero fucilati sul posto, un quarto morì di fame e di scorbuto, gli altri riuscirono a sopravvivere.

Tornato a Washington, mi presentai al generale Arnold, e gli feci il mio rapporto.

Mi condusse subito dal generale Marshall, e qualche giorno dopo fui ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Roosevelt, il quale, alla radio, aveva potuto annunciare il bombardamento di Tokyo, senza però dire che gli apparecchi erano decollati da una portaerei; annunciò ironicamente che erano partiti dalla base di Shangri-la, il paradiso perduto che un romanziere americano ha situato in una valle sconosciuta della catena himalayana.

Poi mi dettero un periodo di vacanze, che per me furono piene di amare riflessioni.

Pensavo che la missione si era risolta in un fallimento completo; per gettare poche bombe su Tokyo avevo perduto tutti i bombardieri che mi erano stati affidati.

Il mio meccanico, il sergente Paul Leonard, mi faceva coraggio continuando a dirmi:

«Vedrete, colonnello, che vi faranno generale e avrete anche la medaglia »

Oggi, a distanza di tempo, il mio giudizio su quella missione è parzialmente modificato.

Oggi penso che fu un mezzo successo, soprattutto per il sensibile effetto psicologico che provocò.

Ma sinceramente non credo che si possa parlare della «Operazione Tokyo» come di un successo realmente completo.

 

James Doolittle

Attacco a Pearl Harbor Mondatori 1972

Modificato da Dave97
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non sapevo che i B-25 avessero incontrato caccia nemici e contraerea...

…Anche io, prima di leggere l’articolo in questione. :P

Benché un minimo di immaginazione mi portava sicuramente ad escludere comitati di benvenuto di persone in festa e con tante bandierine U.S.A. ;):P

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  • 3 settimane dopo...
  • 1 anno dopo...
…Anche io, prima di leggere l’articolo in questione. :P

Benché un minimo di immaginazione mi portava sicuramente ad escludere comitati di benvenuto di persone in festa e con tante bandierine U.S.A. ;):P

 

 

 

In realta' la reazione giapponese fu modesta e mal coordinata : Non avendo esperienze precedenti di incursioni aeree e credendosi

 

 

 

al sicuro sia la marina che l'esercito avevano riservato la grande maggioranza delle rispettive forze aeree ai teatri d'operazione

 

 

oltremare lasciando in Giappone solo poche unita' in maggioranza da addestramento

 

 

 

Solamente 2 caccia type 97 ( ki-27 ) intercettarono 2 b-25 causando qualche danno .

 

 

 

Anche 2 type 3 ( ki-61 ) prototipi erano in volo , uno riusci' ad aprire il fuoco da lunga distanza prima di dover atterrare per rifornirsi

 

 

 

gianpaolo

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