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Attacco a Pearl Harbor


Dave97

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Minoru Genda, capitano di fregata della Marina giapponese all'inizio della seconda guerra mondiale, fu incaricato di elaborare il piano di attacco a Pearl Harbor e di organilzare tutta la serie di esercitazioni necessarie all'impresa.

Riportiamo qui la sua viva testimonianza di quei momenti.

 

Nel settembre del 1940 tornai in Giappone dopo un soggiorno di due anni in Gran Bretagna come addetto navale presso la nostra ambasciata di Londra.

Al mio ritorno fui assegnato allo Stato Maggiore della prima squadra di portaerei, che stava partendo per le manovre.

Verso la fine del gennaio 1941, terminate le esercitazioni, la squadra raggiunse la baia di Ariake, ed io ricevetti un messaggio del contrammiraglio Takijiro Onishi; capo di Stato Maggiore dell'undicesima squadra di portaerei, che mi invitava ad andarlo a trovare, solo, alla base di Kanoya:

doveva mettermi al corrente di un affare della massima importanza.

Il contrammiraglio mi aspettava nel suo ufficio, con un'espressione grave sul volto.

«Dia un'occhiata a queste carte», disse, tendendomi alcuni fogli quadrettati, su cui riconobbi facilmente la bella calligrafia dell'ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della nostra flotta.

La lettera descriveva in succinto e senza enfasi quello che si voleva da noi.

Ma io, a mano a mano che leggevo, mi sentivo invadere da un profondo turbamento.

« In caso di guerra con gli Stati Uniti », diceva la lettera, «non abbiamo alcuna speranza di vincere se non distruggeremo completamente la Flotta americana del Pacifico, concentrata nella rada di Pearl Harbor. Anche con questa operazione io non sono affatto certo della vittoria finale: tuttavia l'azione contro Penrl Harbor è assolutamente necessaria.

Penso di gettare contro la flotta americana la prima e seconda squadra di portaerei, e desidero che questo progetto sia messo allo studio. »

Il seguito della lettera era ancora più sconvolgente:

«Contro Pearl Harbor verrà lanciato un solo attacco.

Gli obiettivi saranno le corazzate.

Il responsabile delle forze d'assalto sarò io personalmente ».

Rabbrividii!!!

Certo, un attacco a Pearl Harbor era stato già preso in considerazione, come semplice manovra strategica.

Ma il buon senso aveva sempre impedito alla Marina giapponese di pensare davvero a realizzarlo.

E adesso, invece, lo stesso capo delle nostre forze navali aveva deciso di metterlo in esecuzione!

Terminai la lettura emozionatissimo, e per qualche istante il contrammiraglio Onishi ed io restammo a guardarci senza parlare.

Fu infine lui a rompere il silenzio:

«Come vede, l'ammiraglio è proprio deciso: per questo lei è stato chiamato qui. Metta immediatamente allo studio questo progetto.

Inutile aggiungere che si tratta di un segreto militare di primaria importanza ».

Ma io chiesi:

«Perché bisogna mirare alle corazzate? Mi sembra che il nostro obiettivo principale dovrebbero essere le portaerei. E che cosa intende l'ammiraglio Yamamoto quando dice che ci sarà un solo assalto? ».

Potevo infatti capire che si cercasse di assestare al nemico un unico colpo per mantenere al sicuro le nostre portaerei, che erano poche.

Ma spingere l'ingenuità fino a credere di poter annientare la flotta americana senza subire perdite a nostra volta, sfiorava l'assurdo.

Dissi dunque chiaramente al contrammiraglio che mi sembrava impossibile affondare le corazzate o le portaerei senza lanciare una seconda ondata di bombardieri subito dopo la prima.

Takijiro Onishi mi rispose subito:

«Capisco, e ho fatto anch'io lo stesso ragionamento: ma l'ammirglio ha una logica tutta sua, e mira soprattutto all'effetto psicologico di questo unico e folgorante attacco.

Bisogna convincere gli americani che sarebbe insensato continuare la lotta con la strategia ordinaria, visto che noi giapponesi impieghiamo metodi del tutto eccezionali.

Forse questo metterà fine rapidamente al conflitto: l'ammiraglio è persuaso che una guerra prolungata porterebbe alla distruzione totale del nostro paese ».

« Ho capito », risposi.

E mi tornò alla mente che l'ammiraglio Yamamoto aveva sempre considerato le corazzate come ornamenti da salotto di cui solo le flotte dei paesi ricchi non sapevano fare a meno, per motivi di prestigio.

Ed ora noi eravamo sul punto di liquidare d'un colpo le corazzate americane. Si poteva provare una soddisfazione più grande?

Il mio turbamento fu sopraffatto da una vivissima eccitazione.

Tornai alla base di Ariake, stabilendo il mio ufficio sulla portaerei Kaga.

Pensavo alla pesante responsabilità che incombeva su di me: ero diventato l'arbitro dei destini della flotta giapponese.

Non potei impedirmi di maledire la mia incapacità.

Per una settimana mi consacrai anima e corpo allo studio dell'impresa.

Una tormentosa fatica resa ancor più penosa dalla necessità di mantenere il più assoluto segreto, lavorando al fianco di colleghi persuasi che si stesse progettando semplicemente una nuova manovra per la nostra squadra.

Quali sarebbero state le principali forze d'attacco e quanti gli effettivi da impegnare?

Lungo quale direttrice muovere su Pearl Harbor, da sud o da nord?

Sarebbe stato possibile organizzare rifornimenti lungo la rotta?

Bisognava rispondere a questi e a molti altri interrogativi.

L'obiettivo, comunque, era unico e preciso: le corazzate.

E l'arma più efficace per colare a picco una corazzata era senza alcun dubbio il siluro.

Ma il siluro, una volta lanciato, scende sott'acqua per sessanta metri prima di risalire, e la profondità massima della rada di Pearl Harbor era di dodici metri.

Difficile dunque prevedere con precisione l'efficacia d'un attacco con aerosiluranti.

 

Yamamoto decide di impiegare le maggiori portaerei

 

Per preparare un piano mi furono di grande utilità i documenti sulle esercitazioni condotte nelle acque di Kashima a cura del Kui Kenkyukai (Gruppo di ricerca sulla potenza delle forze aeree).

Sulla base dei dati di cui venni in possesso stabilii un progetto strategico iniziale dell'attacco, dopodiché tornai dal contrammiraglio Onishi.

Letto e riletto il mio studio, Onishi mi chiese:

«Dunque, la cosa si può fare? ».

«Si può fare », risposi; e in verità, date le circostanze, sarebbe stato difficile concludere diversamente.

« Magnifico », disse il contrammiraglio con un lieve sorriso.

« Il vostro primo gruppo aereo costituirà il nerbo delle forze da impiegare nell'operazione; perciò vi chiedo di inserire, nei programmi di addestramento, tutti gli esercizi preparatori che potranno riuscire utili ai piloti durante l'attacco. »

Seppi più tardi che Onishi, dopo qualche modifica, aveva sottoposto il mio progetto all'ammiraglio Yamamoto, il quale verso il mese di aprile ordinò ufficialmente a tutti i membri importanti dello Stato Maggiore di prendere le misure preparatorie in vista di un possibile attacco a Pearl Harbor.

Il 10 aprile fu apportato un cambiamento rivoluzionario alla formazione di combattimento della nostra flotta: nacque il gruppo operativo incaricato di lanciare il grande assalto.

Le principali unità di questo gruppo operativo sarebbero state le portaerei Akagi, Kaga,Soryu e Hiryu.

Ad esse sarebbe spettato l'onore di colpire a morte la mastodontica flotta da guerra americana.

Il concentramento delle nostre maggiori portaerei stava a significare l'incrollabile volontà dell'ammiraglio Yamamoto di riuscire nella impresa.

lo fui assegnato al comando della forza aerea; il vice-ammiraglio Nagumo ebbe quello dell'intero gruppo ed il contrammiraglio Ryunosuke Kusaka fu promosso capo di Stato Maggiore.

Raggiungemmo i nostri posti a bordo dell'unità ammiraglia, l'Akagi.

Alcuni giorni dopo, l'ammiraglio Nagumo mi chiamò nella sua cabina, con un altro ufficiale, e a voce bassa ci confidò:

«I capi della Flotta hanno immaginato un'operazione senza precedenti: si tratta di un attacco alle isole Hawaii. Noi dobbiamo renderlo eseguibile: studiamo dunque questo problema ».

Capii allora che il mio progetto era stato approvato.

 

I piloti si allenano a sganciare siluri nei bassi fondali

 

L'ufficiale che era con me fu sbalordito dall'annuncio e io stesso dovetti simulare sorpresa, facendo una faccia di circostanza davanti a Nagumo, il quale ignorava che il piano d'attacco l'avevo preparato io.

Quel tormentoso progetto al quale avevo tanto lavorato due mesi prima, mi tornava finalmente tra le mani.

Quando l'avevo portato al contrammiraglio Onishi, esso conteneva queste fra si:

« Non ci si può affidare ad un attacco con siluri, che si presenta d'incerta efficacia, né ad un bombardamento orizzontale, durante il quale andrebbero a segno pochi colpi: il mezzo più sicuro consiste dunque nel bombardamento in picchiata».

Così avevo concluso.

Invece nel piano che mi tornava sotto gli occhi, si prendevano in considerazione anche gli altri due tipi di attacco aereo.

Non che io li avessi trascurati: sapevo. bene che non si poteva ragionevolmente sperare di affondare delle corazzate con le bombe da 250 chili utilizzate allora negli attacchi in picchiata.

Per squarciare le corazze ci volevano gli ordigni da 800 chili del bombardamento orizzontale.

Ma ben pochi avevano la probabilità di andare a segno.

Quanto ai siluri, lo scarsissimo fondale di Pearl Harbor ne rendeva l'uso assai discutibile.

Comunque bisognava superare tutte le difficoltà, quali che fossero, con approfonditi studi e rigorose esercitazioni.

Era la guerra, e bisognava vincerla.

Ma occorreva sempre tener nascosto che il nostro obiettivo era Pearl Harbor.

Solo pochissimi ufficiali di marina erano al corrente del grande progetto.

Altri avevano cercato certamente di sondare le intenzioni dello Stato Maggiore, ricevendo però risposte canzonatorie:

« Attaccare Pearl Harbor? E' una fantasia da sonnambuli!».

Nel frattempo, il 29 luglio, le truppe giapponesi sbarcarono nella parte meridionale dell'Indocina francese.

Cogliendo a volo il pretesto, gli Stati Uniti congelarono i capitali giapponesi depositati nelle banche americane ed organizzarono ai nostri danni il blocco del petrolio, imitati ben presto dall'Olanda e dalla Gran Bretagna.

Questo voleva dire l'annientamento della nostra forza navale, per mancanza di rifornimenti, entro pochissimo tempo.

Terminai di mettere a punto il piano d'attacco su Pearl Harbor verso la fine di agosto.

Secondo i miei calcoli, l'azione doveva essere condotta da 360 aerei: specificai che questo numero era il minimo indispensabile, e che non bisognava ridurlo neppure di una unità.

Il 6 settembre si riunì il consiglio di guerra alla presenza dell'Imperatore e si decise di non temporeggiare più.

L'apertura delle ostilità con gli Stati Uniti fu stabilita per la fine di ottobre, e i preparativi militari incominciarono immediatamente.

Ma già dal primo settembre io avevo assegnato cinque basi, a sud dell'isola di Kiushu, ai 360 aeroplani della prima e quinta squadra portaerei (la quinta squadra, con le nuovissime Zuikaku e Shokaku, era stata aggregata alla prima).

Tutti gli ufficiali e tuttii soldati furono sottoposti ad un allenamento severo.

I risultati di queste esercitazioni furono così riassunti:

«Aerei da caccia: molto bene; bombardamento in picchiata: efficace; aumenta anche l'efficacia del bombardamento orizzontale ».

Tra le buone notizie che ricevevo, e che facevano crescere di giorno in giorno le nostre probabilità di successo, l'unica zona d'ombra restava l'aerosiluramento.

Proprio come avevo previsto.

Gli aviatori continuavano ad esercitarsi sganciando siluri su acque profonde pochi metri, senza capire perché mai lo Stato Maggiore avesse dato ordini tanto stupidi.

Verso il 20 settembre si svolse presso la scuola navale di Tokyo, alla presenza dei più alti comandanti della Flotta, una esercitazione figurata con modellini di navi e di aerei.

I risultati della finta battaglia furono questi: noi avevamo perduto due portaerei e 127 apparecchi, ma la flotta americana era stata annientata.

Ma non tutti i problemi potevano dirsi risolti dopo la battaglia coi modellini.

Agire di sorpresa era un imperativo categorico; ma in pratica si poteva realizzarlo?

E sarebbe stato possibile organizzare un rifornimento lungo la rotta, condizione essenziale per il buon esito dell'operazione?

L'atmosfera della riunione incominciava a farsi pessimistica; lo Stato Maggiore generale esprimeva, nel complesso, parere contrario.

Già qualcuno incominciava ad alzarsi per abbandonare la seduta, quando un vecchio ufficiale, Naoto Kuroshima, gridò con voce tonante: « Se i militari discutono la guerra, significa che non la fanno! ».

Era un modo di dire molto diffuso tra i marinai.

Mi fermai col respiro mozzo.

Il vecchio ufficiale aveva detto bene: le snervanti discussioni prima della battaglia, di solito portano a concludere che non vale la pena di battersi.

Più tardi venni a sapere quale furibonda reazione ebbe l'ammiraglio Yamamoto, di solito così calmo e sorridente, quando gli riferirono l'esito di quella riunione.

«Chi, chi l'ha proposta? », gridò.

«Chi è che sogna di poter sbarcare in Malesia o nelle Filippine senza prima aver distrutto la Flotta americana del Pacifico? »

Gli obiettarono che l'operazione Pearl Harbor appariva troppo rischiosa, un vero gioco d'azzardo.

«Non è affatto un gioco d'azzardo », replicò Yamamoto, « perché se noi non attacchiamo Pearl Harbor non potremo fare la guerra; e se l'attacco non riesce vuol dire che il Cielo ci è contrario. In questo caso dovremo rinunciare alla guerra per sempre! »

Ad ogni modo, il 7 ottobre io insistetti presso il vice-ammiraglio Nagumo sulla necessità di rivelare agli alti ufficiali della nostra Aviazione navale ed ai comandanti delle squadriglie il vero obiettivo dell'azione.

Così avrebbero potuto allenarsi consapevolmente all'attacco con siluri.

Non dimenticherò mai l'espressione di quegli ufficiali quando appresero dalla viva voce di Nagumo, a bordo della Akagi, che si progettava di assaltare Pearl Harbor.

Per qualche istante rimasero paralizzati dallo stupore, e poi esplosero tutti insieme in un "oh!" di ammirazione; una specie di grido contenuto, grave e profondo, che sembrava esprimere il senso di potenza da cui si sentivano pervasi.

Shiegaru Murata, un fanatico del siluramento, commentò:

«Questa sì che è una impresa! ».

E quando poi discutemmo della scarsa profondità della rada di Pearl Harbor, che rendeva problematico il lancio dei siluri, essi conclusero:

«Ci sono buone probabilità di riuscire egualmente, ma dovremo allenarci con molto impegno in una zona che abbia caratteristiche simili a quelle di Pearl Harbor».

Intanto per l'attacco era stata scelta la data del 17 novembre: non ci restavano perciò che quaranta giorni.

Tutte le esercitazioni successive ebbero come punto di partenza la base di Kagoshima, situata in una regione la cui topografia ricorda quella dell'isola di Oahu, nelle Hawaii, dove si trova Pearl Harbor.

Gli aerei decollavano, poi si mettevano immediatamente in formazione di battaglia sopra le colline di Shiroyama; quindi scendevano ad angolo acuto fino alla valle di Iwasaki.

A questo punto viravano bruscamente, sboccavano sul litorale e si gettavano sul mare fino a sfiorare le onde ad un'altezza inferiore ai dieci metri.

Gli equipaggi puntavano i siluri sui bersagli e li sganciavano.

Questo era l'incredibile tour de force a cui si sottoponevano continuamente, giorno per giorno, i nostri aerosiluratori.

 

All'improvviso lo Stato Maggiore cambia programma

 

Un brutto mattino di metà ottobre, tuttavia, ci giunse una notizia che sconvolgeva completamente tutti i nostri piani.

Lo Stato Maggiore della Marina aveva preso una decisione sorprendente: quella di richiamare a sud, per i progettati sbarchi nelle Filippine e in Malesia, le portaerei Soryu, Hiryu ed Akagi.

Non solo : era stato anche stabilito uno scambio di equipaggi, cosicché il contrammiraglio Jamon Yamaguchi , sostenitore entusiasta dell'azione su Pearl Harbor avrebbe dovuto condurre a sud le sue portaerei con a bordo piloti nuovi e scarsamente allenati, mentre i suoi piloti, quelli destinati a Pearl Harbor, avrebbero compiuto l'azione agli ordini di un altro comandante.

Mentre io spiegavo all'inviato dello Stato Maggiore della Marina che con tre portaerei in meno non avrei potuto attaccare la base americana, Yamaguchi m'interruppe e gridò:

«Qualunque cosa mi si venga ad ordinare, io morirò soltanto davanti a Pearl Harbor, non altrove. Che le mie navi vadano pure al sud: io, costi quel che costi, andrò ad attaccare le Hawaii con i miei vecchi piloti ».

Poi, in tono addolorato, quasi supplichevole, continuò rivolto all'inviato dell'alto comando:

«Signor ufficiale dello Stato Maggiore, forse la decisione è stata presa perché le mie navi, la Soryu e la Hiryu, hanno un'autonomia inadeguata rispetto alla distanza che ci separa da Pearl Harbor?

E allora mi si dia soltanto il carburante che occorre per il viaggio di andata. Per il ritorno mi arrangerò; andrò alla deriva, sfrutterò le correnti. Che importa quello che accadrà dopo l'attacco? Signor ufficiale dello Stato Maggiore: io non posso separarmi adesso dai miei piloti, davvero, non posso ».

Queste parole mi addoloravano profondamente, ma non potevo fare nulla per Yamaguchi, e cercavo perciò di sfuggire i suoi sguardi imploranti.

Il vice-ammiraglio Nagumo e il capo di Stato Maggiore addetto alla spedizione, Kusaka, si rassegnarono a metà, perché non c'era altro da fare: ma Yamaguchi non ci riusciva.

Poco dopo, però,l'ammiraglio Yamamoto inviò un messaggio che ci riempì di gioia:

« Conformemente ai desideri delle squadre, l’operazione su Pearl Harbor sarà effettuata da sei portaerei, come deciso anteriormente ».

A rischio di vedersi togliere il comando, Yamamoto era riuscito ad imporre la sua volontà.

 

Ormai l'azione è decisa per il 7 dicembre

 

Sempre in quei giorni apprendemmo che l'inizio delle ostilità con gli Stati Uniti era stato ancora rinviato.

Non più metà novembre: l'offensiva sarebbe stata scatenata ai primi di dicembre.

Il rinvio, in fondo, ci faceva comodo, permettendoci di completare l'addestramento dei piloti e la scorta di bombe.

Del resto, non eravamo ancora giunti a conclusioni positive per quanto riguardava la possibilità di usare i siluri.

Ad ogni modo, nei giorni 2 e 3 novembre eseguimmo grandi esercitazioni preparatorie per l'assalto alle Hawaii, basandoci sui piani di volo ideati da me.

Il coordinamento dell'azione riuscì bene, i piloti si comportarono magnificamente, la precisione del tiro risultò soddisfacente.

Ero fiero del successo, ma rimaneva da dissipare una nube d'incertezza: non avevamo ancora scoperto il modo di superare la considerevole difficoltà creata ai siluri da quei miseri dodici metri del fondale di Pearl Harbor.

Il caposquadriglia Murata, con la testa fra le mani, gemeva:

« Niente, niente, non si può fare affidamento che sui bombardieri».

E intanto il giorno dell'attacco si avvicinava inesorabilmente.

Lo Stato Maggiore generale lo aveva fissato in modo irrevocabile per il 7 dicembre 1941, tempo delle isole Hawaii: 8 dicembre per il Giappone, tenuto. conto della linea di cambiamento di data che attraversa il Pacifico.

Per essere pronti l'8 dicembre era indispensabile mettersi in rotta per le isole Hawaii entro l'ultima decade di novembre.

Nel programmare l'esecuzione dei piani, decidemmo di contare a rovescio i giorni a partire dall'8 dicembre.

La prima squadra di portaerei raggiunse il porto di Sasebo, la seconda quello di Tokuyama, la terza quello di Kure e si fecero gli ultimi preparativi.

 

Superato l’ostacolo dei dodici metri

 

E verso la metà di novembre ero a bordo della Akagi ancorata davanti a Sasebo , mi giunse finalmente un telegramma da Kagoshima, dove i piloti degli aerosiluranti continuavano i loro esercizi.

Diceva semplicemente:

« Abbiamo superato l’ostacolo dei dodici metri ».

A quella notizia non potei fare a meno di urlare: «Banzai!».

Potevo facilmente immaginare la gioia dei miei ufficiali a cominciare dal caposquadriglia Murata: usando siluri modificati erano riusciti a metterne a segno 83 su 100, in una zona dove l'acqua era alta dodici metri, precisamente come a Pearl Harbor.

Da quel momento ebbi la certezza che tutto sarebbe stato perfettamente pronto al momento dell'attacco e respirai più liberamente.

Ma subito dopo mi venne da piangere: era la prima volta che mi capitava da quando lavoravo al progetto.

Quel piano era una specie di atto di ringraziamento a tutti coloro che avevano compiuto sforzi sovrumani per giungere al grande risultato.

Il 17 novembre, comandanti ed ufficiali del nostro gruppo operativo si riunirono a bordo della Nagato alla fonda nella baia di Saheki.

Parlò l'ammiraglio Yamamoto:

«lo penso» disse, « che molti di voi siano contrari a questa operazione. Ma senza attaccare Pearl Harbor non potremmo fare la guerra, né aspirare ad un ruolo di grande nazione.

La Marina americana è l'avversario più potente che la nostra flotta abbia mai dovuto affrontare nel corso della sua storia.

Dal successo di questa impresa dipende l'esito di tutta la guerra.

Signori: gli americani sono avversari degni di voi ».

Il 23 novembre, mentre le trentadue navi che complessivamente formavano il gruppo operativo erano ormai riunite nella baia di Nossapu, ci fu un'altra riunione di comandanti ed ufficiali a bordo della portaerei Kaga.

Fu distribuito il piano d'attacco elaborato da me.

Poi parlò il vice-ammiraglio Nagumo.

Successivamente i piloti posero allo Stato Maggiore una domanda difficile:

«Per impedire che la flotta possa essere localizzata dalle stazioni di ascolto americane, è stato deciso di non usare la radio durante l'attacco.

Che cosa dovranno fare gli equipaggi degli aeroplani, in caso di ammaraggio forzato, per invocare soccorso?».

Fu il capitano Takehiko Chihaya a troncare gagliardamente la questione:

«In quel caso non invocheremo soccorso: moriremo in silenzio».

Nel pomeriggio del giorno 25 novembre, tre sottomarini di pattuglia lasciarono il porto di Nossapu.

Il cielo prometteva neve.

Il 26 uscì la squadra di incrociatori destinata a sorvegliare i mari durante l'operazione.

Infine, tutto il grosso delle nostre forze mise la prua in direzione delle Hawaii.

Navigammo dritti verso est mantenendo la nostra rotta sui quaranta gradi di latitudine nord.

Durante i primi giorni di traversata mi colse una profonda crisi di smarrimento e di dubbio: pensavo alle tremende difficoltà dell'impresa, ero atterrito dalle responsabilità e il mio stato d'animo divenne pietoso. Allora decisi di dedicarmi con accanimento a lavori senza importanza, tanto per riempire le lunghe giornate e le notti insonni che logoravano i nervi.

Il giorno 2 dicembre il vice-ammiraglio Nagumo ricevette dall'ammiraglio Yamamoto il messaggio cifrato che confermava l'ordine di attacco:

« Niitaka Yama Nobore », che significava: «Scalate il monte Niitaka ».

Il dado era tratto.

Il Giappone scatenava la guerra.

 

Minoru Genda

 

L’attacco a Pearl Harbor , Mondatori 1973

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  • 2 settimane dopo...

Dal discorso radiofonico del presidente Roosevelt

10 dicembre 1941

 

L'improvviso e criminale attacco perpetrato dai giapponesi nel Pacifico apre le porte a un decennio di immoralità internazionale.

Una banda di gangsters potenti e pieni di risorse si è organizzata per muover guerra all'Intera razza umana.

Ora la loro sfida è stata rivolta agli Stati Uniti d'America.

I giapponesi hanno proditoriamente violato la lunga pace che esisteva tra noi.

Molti soldati e marinai americani sono stati uccisi dall'azione nemica; navi americane sono state affondate, aeroplani americani distrutti.

Il Congresso e il popolo degli Stati Uniti hanno raccolto la sfida; al fianco di altri popoli liberi noi ora stiamo combattendo per difendere il nostro diritto di vivere tra gli altri popoli liberi e rispettati senza tema di aggressione.

La linea seguita dal Giappone negli ultimi dieci anni è stata parallela a quella di Hitler e Mussolini in Europa e in Africa.

Oggi è divenuta più che parallela; si tratta di una collaborazione cosi ben calcolata che tutti i continenti del mondo e tutti gli oceani sono ora considerati dagli strateghi dell' Asse come un unico gigantesco campo di battaglia.

Ieri, nel mio discorso al Congresso, ho dichiarato che faremo di tutto perché questa forma di tradimento non ci colga più alla sprovvista.

Per essere sicuri di raggiungere questo scopo dobbiamo por mano al grande compito che ci sta di fronte abbandonando una volta per tutte lillusione che possiamo ancora isolarci dal resto dell'umanità.

In questi ultimi anni e, soprattutto, in questi ultimi giorni abbiamo imparato una terribile lezione.

E’ per noi un sacrosanto dovere, contratto di fronte ai nostri morti e ai loro, ai nostri figli, non dimenticare mai ciò che abbiamo imparato e cioè in un mondo regolato dalle leggi del gangsterismo non c'è sicurezza nè per una nazione nè per un individuo, non c'è sicura difesa contro potenti aggressori che strisciano nel buio per colpire senza preavviso.

Abbiamo imparato che il nostro emisfero non è immune da duri attacchi e che non possiamo misurare la nostra sicurezza in termini di miglia o di carta geografica.

Dobbiamo riconoscere che il proditorio attacco dei nostri nemici è stato un'azione brillante, perfettamente organizzata e abilmente attuata.

Un'azione disonorevole; ma dobbiamo affrontare il fatto che la guerra moderna, condotta alla maniera dei nazisti, è uno sporco affare.

La cosa non ci piace, non l'abbiamo voluta noi; ma ora ci siamo dentro e la combatteremo con ogni mezzo.

Penso che nessun americano possa avere qualche dubbio sul fatto che sapremo infliggere la giusta punizione agli autori di questi crimini .

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«Nel 1946 il Congresso americano ha pubblicato i risultati di un'inchiesta straordinaria.

Vennero esposti, nei loro particolari, tutti gli avvenimenti che portarono alla guerra fra Stati Uniti e Giappone e appurate le ragioni della mancata diramazione da parte dei ministeri militari di moniti precisi a tenersi pronti alle squadre navali e ai presidi che si trovavano in posizioni avanzate.

Ogni particolare, compresi i testi decifrati e in cifra di telegrammi giapponesi segreti,venne fatto conoscere al mondo in una serie di quaranta volumi.

La forza degli Stati Uniti poteva permettere loro di sottoporsi a questa dura prova, ad essi imposto dallo spirito della Costituzione americana.

In queste pagine non intendo cercar di pronunciare un giudizio su questo tremendo episodio della storia americana.

Sappiamo di certo che tutti gli americani che circondavano il Presidente e godevano della sua fiducia, si rendevano conto, non meno chiaramente di me, del terribile pericolo che i giapponesi attaccassero i possedimenti britannici od olandesi nell'Estremo Oriente, evitando con cura di toccare gli Stati Uniti, e che proprio per ciò il Congresso non approvasse una dichiarazione di guerra americana.

I dirigenti americani comprendevano che ciò avrebbe potuto consentire al Giappone di compiere vaste conquiste, le quali, se contemporanee ad una vittoria tedesca in Russia e ad una successiva Invasione della Gran Bretagna, avrebbero lasciato l'America sola di fronte o una coalizione soverchiante di aggressori trionfanti.

Non solo i grandi principi morali che erano in gioco sarebbero stati sacrificati, ma avrebbe potuto essere compromessa l'esistenza stessa degli Stati Uniti e quella del suo popolo, ancora non pienamente consapevole dei pericoli che correva.

Il Presidente e i suoi amici fidati avevano da lungo tempo compreso i gravi rischi di una neutralità americana nella guerra contro Hitler e contro tutto ciò per cui questi combatteva ed avevano assai sofferto delle limitazioni imposte da un Congresso, la cui Camera dei rappresentanti alcuni mesi prima aveva approvato con un solo voto di maggioranza l' indispensabile proroga della legge sul servizio militare obbligatorio; eppure senza tale legge il loro esercito sarebbe stato quasi completamente smobilitato proprio nel momento in cui la crisi mondiale era al culmine.

Roosevelt, Hull, Stimson, Knox, il generale Marshall, l'ammiraglio Stark e, collegamento tra tutti loro, Harry Hopkins, sentivano tutti allo stesso modo.

Le future generazioni di americani e di uomini liberi in ogni paese ringrazieranno Iddio per la loro chiaroveggenza.

Un attacco giapponese contro gli Stati Uniti avrebbe enormemente semplificato i loro problemi e i loro doveri.

Come possiamo noi meravigliarci che essi considerassero la forma effettiva dell'attacco, ed anche le sue dimensioni, cose incomparabilmente meno importanti del fatto che l'intero popolo americano si trovasse compatto come non mai a difendere la propria esistenza con la coscienza di battersi per una causa giusta?

Ad essi, come a me, sembrava che un'aggressione contro gli Stati Uniti costituisse per il Giappone un gesto suicida".

 

Winston Churchill

La seconda guerra Mondiale - Mondadori 1948

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