Vai al contenuto

World War II Aces


Dave97

Messaggi raccomandati

mkres792hi1.jpg

Il 5 Febbraio del 1942, a 20 miglia da TOBRUCH

La recente, e per me tanto dolorosa, scomparsa del M.llo Marc. Luigi Venuti mi ha riportato alla memoria una drammatica, quanto sfortunata, vicenda da me vissuta con lui nel 1942 e che qui di seguito rievoco in onore di questo valoroso specialista, nonchè, dando un significato emblematico alla sua persona, di tutti gli specialisti della nostra aviazione, preziosi e fidati compagni dei piloti in ogni circostanza e assai sovente accomunati in sublimi olocausti.

Il 15 gennaio dell'anno precedente, la 281° Squadriglia Autonoma Aerosiluranti, al comando del leggendario Cap. Carlo Emanuele Buscaglia, era stata disciolta con assegnazione del relativo personale al 41° Gruppo Autonomo Aerosiluranti, di stanza anch'esso a Rodi e al quale io appartenevo.

In tale occasione ritrovai l'allora Serg. Venuti, da me precedentemente incontrato quando egli era membro dell'equipaggio del Cap. Buscaglia.

Il 5 febbraio, mentre il Gruppo era in attesa dell'arrivo del suo Comandante, il prestigioso Ten. Col. Ettore Muti, mi giunse l'ordine da parte del Comando dell'Egeo, retto dal Gen. Ulisse Longo, di andare ad attaccare una grossa petroliera che, carica di carburante e fortemente scortata, stava dirigendosi verso Tobruch in piena velocità per rifornire d'urgenza le unità inglesi, impegnate in quei giorni in una dura battaglia sulle sabbie della Cirenaica.

Misi immediatamente in moto il mio "S.M. 79" e in un baleno decollai verso l'obbiettivo che mi era stato segnalato.

Membri dell'equipaggio: M.llo Pil.Giovanni Riso, Serg.Mot. Teresio Pavese, Serg. Marc. Luigi Venuti,

1° Av. Fot. Tommaso Di Paolo, Av. Sc. Arm. Carlo Galli.

Contemporaneamente prese il volo, diretto verso lo stesso obbiettivo, un secondo velivolo al comando del Cap. Giuseppe Cimicchi, ma di li a poco, a causa di uno spesso strato di nubi, ci perdemmo di vista.

lncrociai la petroliera a circa 20 miglia da Tobruck.

Di scorta sette Caccia-torpedinieri, di cui quattro sul lato destro, cioè a nord, e tre sul lato sinistro, dalla parte della costa africana, a chiara difesa da eventuali attacchi portati da sommergibili.

E subito fu un infernale fuoco contraereo.

Ciononostante, tenendo bene a mente le parole che il Gen. Longo mi aveva personalmente rivolto nell'ordinare la missione in argomento, precisandomi come da questa poteva dipendere l'esito della battaglia in atto in Cirenaica per potere venire a trovarsi gli inglesi privi di carburante, non ebbi alcuna esitazione e seppure - ovviamente - preso da una forte tensione, puntai deciso verso la petroliera.

Ad un tratto, mentre mi accingevo ad eseguire la manovra d'attacco, vidi schizzare sul parabrezza materia grigia e sangue, sentendo in pari tempo sul collo il caldo di una materia liquida.

Capii subito che cosa ciò significasse e, fatti tacere a viva forza lo sgomento e l'orrore che erano scesi nel mio animo, continuai l'iniziata manovra d'attacco.

Quindi, giunto a distanza ravvicinata dalla petroliera, azionai lo sgancio del siluro.

Maledizione!

Udii il flusso dell'aria compressa che usciva dal circuito pneumatico mediante il quale si comandava lo sgancio del siluro, trasalii; il siluro non era partito e quasi certamente, ritenni, perchè colpito il succitato circuito da qualche proiettile della contraerea.

Appena fuori della rosa del tiro dei caccia-torpedinieri inglesi, Venuti mi si avvicina per confermarmi, con il volto segnato e la voce alterata da una rabbia furente mista ad un lacerante avvilimento, che il siluro non si era staccato per il motivo che avevo supposto.

Due possibilità a questo punto mi si offrivano: riprendere la strada di casa o portarmi ancora contro la petroliera, da sud, e fare ricorso allo sgancio meccanico del siluro.

Ed è quanto feci in mezzo ad un nuovo, e più che mai violento, fuoco di sbarramento.

La sorte, però, fu decisamente contro di me, in quel 5 febbraio del 1942.

Infatti, anche lo sgancio meccanico non funzionò perchè, come Venuti potè osservare e subito riferirmi, l'asta d'apertura dei ganci delle due braghe che tenevano il siluro era stata tranciata da un altro proiettile che il velivolo si era preso.

Sfumato, cosi, anche questo tentativo e non esistendo alcun altro meccanismo di sgancio, mi fu giocoforza - erano le 17,30 e già calava la sera - riprendere tristemente la via del ritorno e, inoltre, con due angosciosi interrogativi:

ce l'avrebbe fatta l'aeroplano, tanto male conciato come esso era, e per di più con la radio in frantumi, ad arrivare a Rodi?

E anche se ciò fosse avvenuto, non esisteva forse il pericolo, assai probabile, stante le condizioni dell'aeroplano, di incappare in un atterraggio fortunoso con la conseguente esplosione del siluro?

Ecco che cosa, intanto, era accaduto a bordo:

il 1° Av. Fot. di Paolo era stato colpito da una raffica di mitragliatrice che gli aveva fatto saltare la scatola cranica con, naturalmente, morte istantanea;

il 2° pilota M.llo Riso si era preso due schegge ad un polmone;

il Serg. Mot. Pavese aveva perduto due dita della mano sinistra;

l'Av. Sc. Arm. Galli era stato gravemente ferito al femore sinistro.

Illesi eravamo solo Venuti ed io.

Fu certamente grazie alla Madonna di Loreto se nella subentrata notte illune, con il cuore in gola ad ogni sobbalzo o scricchiolio del velivolo, fu possibile rientrare a Rodi e ad atterrarvi, tutto sommato, in maniera regolare.

Il mio caro e tanto generoso S.M. 79 aveva bravamente retto.

Non poca la sorpresa al nostro arrivo:

tutti ci avevano dato scomparsi in fondo al mare, non avendo potuto dare io alcuna comunicazione essendo stata la radio ridotta in frantumi.

Quanto mai utili mi furono in tale occasione l'aiuto e il conforto del Serg. Venuti in virtù della sua vivida intelligenza, lunga esperienza di volo, coraggio fisico e morale.

Sono passati da allora tanti anni, ma limpida e rimasta nella mia mente la figura di questo bravissimo specialista e, con una struggente commozione, l'ho rivisto li accanto a me con il suo viso dolce e fiero, con i suoi gesti sempre sicuri sia durante l'attacco e che lungo la tormentata rotta di rientro, la, dentro quell'aeroplano che, sebbene crivellato di colpi, si era quasi intestardito con un ultimo nobile gesto "umano" ( chi dice che gli aeroplani sono solo macchine e, pertanto, senza anima? ) nel riportare a casa due uomini vivi, uno morto e quattro feriti al termine di una missione che il destino aveva fatto fallire.

Dopo la recente perdita del carissimo amico Cimicchi e questa del mio specialista, in pochi siamo rimasti della "pattuglia" di Rodi.

Si possono contare sulle dita delle mani.

Ma per quanto tempo ancora?

 

Giulio Cesare Graziani

Aeronautica , Gennaio 1993

Link al commento
Condividi su altri siti

  • Risposte 183
  • Creata
  • Ultima Risposta

Partecipanti più attivi

Partecipanti più attivi

danymc20515iv1.jpg

Guardo il mio 205 parcheggiato a poca distanza da me, tettuccio aperto, paracadute a cavalcioni del terminale della fusoliera.

E’ pronto per il combattimento, è pronto a portarmi in quota, sui 9000 metri, dove i ragionamenti scompaiono, dove tutto diviene terribilmente semplice: <

tu, il tuo aeroplano, i tuoi cannoncini;

loro, i loro aeroplani, i loro cannoncini.

Se ci sai fare, se hai fortuna, tanta fortuna, torni qui a sederti sul campo, in circolo con i tuoi amici;

se ti va male, gli altri stringeranno il cerchio per illudersi che tu sei ancora presente, ed è l'unico modo per allontanare lo spettro della morte da noi che siamo ad essa predestinati.

Guardo ancora gli aeroplani; ormai sono vecchiotti.

I nostri specialisti, fanno miracoli per darceli sempre efficienti, ma ormai hanno centinaia di ore di volo, sono stati strapazzati violentemente in cento combattimenti.

Quando vai in volo senti che la macchina è stanca, che non arrampica più come prima, che sempre più spesso ha qualche cosa che non va.

Per un pilota il suo aeroplano è tutto e noi soffriamo anche di questo, ma la situazione è quella che è, per cui bisogna « arrangiarsi », come sempre!

Mi alzo e mi avvicino al mio 205, m'appoggio alla sua fusoliera, la tocco con il palmo delle mani per sentire il contatto del metallo, ed è un travaso di reciproca fiducia.

Dopotutto, il Macchi è sempre un bell'aeroplano!

Link al commento
Condividi su altri siti

i336816_SaburoSakaiF9.jpg

Saburo Sakai

Quale più famoso asso degli Zero, Saburo Sakai afferma che la sua più grande impresa della guerra non furono le 60 e passa vittorie riportate, ma il non aver mai perso un solo compagno in più di 200 duelli aerei.

Nato nel 1916 nella Prefettura di Saga da una povera famiglia di agricoltori, questo figlio di samurai si arruolò in marina nel maggio 1933.

Mentre era in servizio come marinaio sulla corazzata Kirishima, Sakai rimase affascinato dagli aerei e decise di diventare un pilota.

Dopo aver fallito per ben due volte l' esame di ammissione, ce la fece al terzo tentativo e fu accettato alla scuola di volo.

Nel novembre 1937 Sakai conseguì il brevetto con la miglior votazione del suo corso, venendo premiato con l'orologio d'argento dell'imperatore.

Come membro del 12° Gruppo aereo, prese parte alla Guerra di Cina, ottenendo la sua prima vittoria aerea nella sua prima missione di combattimento il 5 ottobre 1938.

Sakai si trovava alla guida di uno dei 15 "Claude" imbattutisi negli I-16 nel corso di una missione verso Hankow, e nello scontro che ne seguì violò praticamente ogni regola del manuale e rischiò di morire.

Sakai riuscì probabilmente ad abbattere un velivolo nemico utilizzando l'intera scorta di munizioni, e al suo ritorno alla base il giovane pivellino fu severamente biasimato, piuttosto che elogiato, dal suo comandante a causa del pessimo comportamento in battaglia.

Alla data del 3 ottobre 1939 il sottocapo Sakai era ormai divenuto un pilota esperto, e quel giorno lo dimostrò gettandosi su 12 bombardieri DB-3 che avevano attaccato a sorpresa il campo d'aviazione di Hankow.

Pur essendo stato leggermente ferito, Sakai saltò sul suo "Claude" e si gettò tenacemente all'inseguimento solitario dei nemici.

La sua rincorsa durò più di 150 miglia e culminò nell' abbattimento di uno dei bombardieri.

La notizia della sua temeraria impresa lo precede in Giappone, e al suo ritorno a casa Sakai fu accolto come un eroe.

Nel giugno del 1941 il sergente Sakai fu assegnato al Gruppo aereo di Tainan, col quale più tardi partecipò all'incursione su Clark Field, nelle Filippine, nel primo giorno di guerra nel Pacifico.

Distrusse al suolo due B-17 e rivendicò l'abbattimento del P-40 pilotato da Sam Grashio, che invece riuscì a sfuggirgli, nonostante avesse un grosso foro di proiettile di cannone nell'ala.

Il 10 dicembre Sakai impegnò per la prima volta in un combattimento aereo un B-17C del 14° Bombardment Squadron.

Riuscì ad abbatterlo, pur restando profondamente colpito dalle gigantesche dimensioni della "Fortezza Volante".

Una volta conquistate le Filippine, il Gruppo aereo di Tainan cominciò a operare nelle Indie Olandesi, dove Sakai affronto nuovamente i B-17:

"Il B-17 non aveva un punto debole.

Ogni volta era una dura battaglia.

Ricordo un episodio particolare sopra Balikpapan, in Borneo, nel febbraio 1942, prima che elaborassi un metodo efficace per attaccare quei bombardieri.

C'erano due Zero contro sette B-17

Feci di tutto per abbattere quell'apparecchio, ma non fui fortunato.

Non funzionò niente!"

Il 28 febbraio 1942 Sakai si imbatte in un DC-3 da trasporto nel corso di una solitaria missione di pattugliamento a est di Surabaya, sull'isola di Giava. Dopo aver seguito l'aereo, decise di affiancarlo per un giro di ispezione prima di abbatterlo, e scorse una donna dai capelli biondi con un bambino piccolo che lo osservavano da un finestrino; Sakai risparmiò l' aereo civile, lasciandolo proseguire per la sua strada.

Nell'aprile 1942 il Gruppo aereo di Tainan venne trasferito a Rabaul, e i piloti degli Zero fecero avanti e indietro da li fino a Lae durante lo scontro con le unita americane e australiane di base a Port Moresby.

Sakai condusse anche una guerra personale contro la casta degli ufficiali, i quali consideravano i sottufficiali piloti come merce sacrificabile.

Per rappresaglia, ai suoi uomini vennero serviti pasti sempre uguali e fu negato il tabacco, e cosi ordinò al suo compagno di volo di rubare il cibo dalla mensa ufficiali, dando inoltre ai suoi uomini il permesso di fumare in aperta violazione degli ordini.

Trovatosi di fronte a tali problemi disciplinari e di natura morale, il comandante del gruppo decise finalmente di apportare dei miglioramenti alle condizioni degli uomini.

 

 

 

 

 

 

 

saburo10.jpg

Come pilota anziano della Squadriglia Sasai, Sakai istruì molti suoi camerati (compreso il comandante dell'unim, il sottotenente di vascello Junichi Sasai) nell'arte del duello aereo.

Molti dei suoi allievi in seguito sarebbero divenuti degli assi.

Il 22 luglio 1942 otto Zero intercettarono un solitario Hudson della RAAF (Royal Australian Air Force, aeronautica militare austraIiana), un A16-201 del 32° Squadron, mentre effettuava una missione di copertura caccia sopra Buna.

Prevedendo una facile vittoria, Sakai si lanciò all'inseguimento del bombardiere bimotore, il cui pilota, il sottotenente Warren F. Cowan, invertì la rotta e attaccò frontalmente Sakai.

Numericamente inferiore nell'ordine di otto a uno, Cowan mantenne l'iniziativa, creando grande disordine tra gli Zero e sparpagliandoli, finchè probabilmente Sakai non lo abbattè.

Come unico testimone oculare vivente di quell'azione, Sakai inviò una memoria scritta al ministro della difesa australiano nel 1997, chiedendo che Cowan e il suo equipaggio ricevessero una menzione d'onore per il loro coraggio.

Il riconoscimento fu negato.

Il 7 agosto 1942, nel corso della prima missione a lungo raggio su Guadalcanal, il sergente Sakai abbatte il Wildcat pilotato dal futuro asso del VF-5, il tenente J. I. Southerland, il quale si salvò lanciandosi col paracadute. Quando si riunì alla sua squadriglia, Sakai fu sorpreso da un SBD solitario pilotato dal tenente Dudley H. Adams del VS-71; il pilota americano riuscì a colpire con un proiettile l'abitacolo dello Zero, mancando di un soffio la testa dello stupefatto pilota.

Ormai pronto al duello, Sakai abbatte il Dauntless, uccidendo il mitragliere di coda Harry E. Elliot nell'azione.

Il tenente Adams riuscì tuttavia a mettersi in salvo col paracadute, e fu successivamente decorato con la Navy Cross.

Avendo già eliminato due aerei nemici in quella missione, Sakai individuò a distanza quelli che pensava fossero otto Wildcat; in realta, erano bombardieri in picchiata SBD del VB-6, comandati dal tenente Carl Horenburger.

Ignaro di essere stato scorto a sua volta, Sakai si gettò sulla preda, ritrovandosi però sotto il fuoco incrociato dei mitraglieri di coda nemici con i loro pezzi binati da 7,62 mm, che lo ferirono gravemente.

In un epico volo Sakai fece ritorno alla base dopo essere stato dato per spacciato.

Cieco da un occhio, fu spedito in Giappone per ulteriori cure mediche.

Al termine della convalescenza, Sakai si ritrovò nel frustrante ruolo di istruttore, con un programma d'addestramento sempre più ridotto all'osso e classi di piloti novellini sempre più giovani e numerosi.

Nel giugno 1944 tornò finalmente a volare in prima linea e fu assegnato a Iwo Jima per unirsi al Gruppo aereo di Yokosuka.

Il 24 giugno ingaggiò un feroce combattimento con gli Hellcat dei VF-1,VF -2 e VF-50, distruggendone tre.

Ciò nonostante, la sua unità lamento a sua volta la perdita di 23 Zero.

Senza più alcuna speranza di ribaltare le sorti della guerra contro gli invasori americani, il Gruppo aereo di Yokosuka ricevette l'ordine di convertirsi agli attacchi suicidi kamikaze.

Il 5 luglio Sakai parti con due compagni per una missione di sola andata, in cui nove Zero scortavano otto aerosiluranti in una sortita completamente inutile.

Prima che potessero raggiungere l'obiettivo, furono respinti da una formazione di Hellcat, e disobbedendo agli ordini di rifiutare il combattimento e restare con i bombardieri, Sakai contrattacco e ne abbatte uno.

Nonostante gli sforzi degli aerei di scorta, tutti gli aerosiluranti furono rapidamente distrutti, lasciando Sakai e i suoi due compagni ad affrontare l'oscurità, il cattivo tempo e lo scarso carburante rimasto per fare ritorno alla base.

Ventiquattr'ore dopo, Sakai e i piloti di Zero superstiti furono trasferiti di nuovo in Giappone, dove egli tornò all'insegnamento per mancanza di un ulteriore incarico operativo.

Trasferito al 343° Gruppo aereo nel dicembre 1944, Sakai addestrò i piloti destinati al nuovo caccia Shiden-Kai "George".

L'ultimo combattimento del grande asso ebbe luogo il 17 agosto 1945, quando (due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio) insieme a due piloti del Gruppo aereo di Yokosuka si scontrò con un B-32 Dominator inviato in missione di ricognizione fotografica su Tokyo.

Tratto da Aerei Militari

Link al commento
Condividi su altri siti

i40237_SaburoSakaiF1.jpg

Battesimo del fuoco

A Kiukiang, nella Cina sud – orientale,nel maggio del 1938, ebbi il mio primo combattimento...

… che non tu certamente un inizio denso di auspici brillanti.

Il comandante dello stormo di Kiukiang non aveva l'abitudine di portarsi appresso i piloti giovani nei suoi voli più lunghi, immaginando che la loro inesperienza li avrebbe resi facile preda dei veterani che volavano nelle file cinesi.

Nel 1938 il caccia Zero, che dovevo in seguito imparare a conoscere così bene, non era ancora stato assegnato ai reparti combattenti e noi volavamo col caccia Mitsubisci 96, battezzato Claude dagli Alleati. Era un velivolo lento e con un raggio di azione alquanto modesto, con il carrello fisso e con l’abitacolo aperto.

I nostri quindici caccia decollarono dunque molto presto dalla base di Kiukiang, il ventidue mattina, prendendo quota in formazione di cinque pattuglie di tre a cuneo.

La visibilità era eccellente e i novanta minuti che impiegammo per giungere su Hankow mi dettero l’impressione di un pacifico volo di addestramento perchè nessun caccia nemico si avvicinò mai alla nostra formazione ne alcun colpo di contraerea venne a macchiare il cielo.

Sembrava persino incredibile che, sotto di noi, infuriasse la battaglia.

 

i40238_SaburoSakaiF10.jpg

Da tremila metri di quota il campo di Hankow aveva un aspetto del tutto illusorio;

l'erba verde scintillava sotto i raggi del sole mattutino e quello che era il più grande aeroporto nemico della zona aveva invece la tranquilla apparenza di un campo di golf molto ben curato.

Ma i velivoli da caccia non usano servirsi di tali attrezzature sportive e i tre puntini che vedevo correre sul terreno per salire poi verso di noi erano proprio caccia nemici.

A un certo momento arrivarono alla nostra altezza. grandi, neri e poderosi.

Senza alcun preavviso, o almeno cosi sembro alla mia mente stupefatta, uno dei tre abbandonò la formazione e si precipitò su di me a tutta velocità.

Di colpo, quei piani che avevo accuratamente elaborato nel mio intimo per il mio primo combattimento aereo svanirono;

sentii tutta la muscolatura contrarsi nervosamente e, sebbene non sia piacevole confessarlo, devo aver tremato sotto l'impressione di servire da bersaglio al pilota nemico.

Ho spesso pensato di essermi comportato stupidamente in quei momenti cruciali e il lettore può ben condividere la mia opinione.

Debbo tuttavia far presente che la reazione mentale, a tremila metri, dopo un volo di novanta minuti a quella quota senza aver fatto uso della maschera dell'ossigeno, è ben poco paragonabile a quella che si ha, invece, a terra.

A quell'altezza una minore quantità di ossigeno raggiunge il cervelIo;

inoltre il rombo del motore nell'abitacolo aperto è assordante e il vento freddo che sibila contro il parabrezza vi aggiunge il suo rumore.

Non avrei dovuto fare altro che cercare di rilassare i nervi; ma invece giravo la testa da tutte le parti tentando disperatamente di vedere nello stesso tempo in tutte le direzioni per evitare di essere colto di sorpresa.

Intanto stavo tentando di coordinare i movimenti dei comandi del velivolo e di controllare gli strumenti del cruscotto.

Ero completamente confuso.

Per mia fortuna mi venne in aiuto un'abitudine instillatami durante il periodo dell'addestramento;

era un avvertimento che veniva continuamente ripetuto ai piloti che si trovavano alle prime armi:

quello•di cercare di attaccarsi sempre alla coda del velivolo del capo-pattuglia.

Con movimenti quasi inconsci della mano strinsi l'allacciatura della maschera per 'ossigeno

(ne avevamo soltanto per due ore e quindi l'adoperavamo esclusivamente in combattimento o nei voli a quota superiore ai tremila metri)

e spinsi in avanti, a fondo, la manetta del gas.

Il motore rispose con un rombo più potente e il mio piccolo caccia fece un balzo avanti;

intorno a me vidi cadere i serbatoi supplementari di carburante, perchè tutti i miei compagni avevano dato uno strappo al comando di sgancio situato nell'abitacolo.

Mi ero completamente dimenticato che la tanica che portavamo appesa all'esterno della fusoliera poteva divenire un terribile esplosivo se colplta;

con mano tremante tirai anch'io la leva e il mio serbatoio fu l'ultimo a cadere.

Avevo però perso completamente la tramontana.

Avevo fatto, è vero, tutto quello che dovevo fare ma nella maniera più trascurata e quasi dimenticando le regole fondamentali per la preparazione a un combattimento aereo.

Inoltre non mi ero più curato di guardarmi attorno alle spalle quindi non avevo più tenuto d’occhio il velivolo nemico che, per quanto ne sapevo, poteva anche avermi sparato e magari colpito;

tutto quello che vedevo era la coda dell'aeroplano del mio comandante e, preso dalla disperazione, mi dondolavo dietro di lui, vicino alla sua coda.

Quando alla fine riuscii a riprendere la mia corretta posizione di gregario, alquanto indietro e di lato, recuperai anche la calma e smisi di agitarmi alla cieca dentro l’ abitacolo.

Tirai un gran respiro e azzardai una rapida occhiata sulla sinistra: appena in tempo!

Due lucidissimi velivoli nemici si precipitavano contro di me.

Erano di tipo russo, due E 16 con carrello retrattile, con un motore molto più potente di quello del nosto Claude, più veloci e più maneggevoli.

Feci ancora altri errori:

in quei pochi attimi avrei potuto perdere la vita per la seconda volta.

Le mie mani esitavano incerte e io non ero capace di fare nulla di quanto avrei dovuto;

invece di spostarmi di lato o prendere quota, mi limitai a continuare il mio volo diritto.

Secondo tutte le regole del combattimento aereo avrei dovuto essere abbattuto ma, all'improvviso, mentre i nemici già mi stavano collimando, eccoli fuggire via con un brusco dietro front, senza che riuscissi a capirne il motivo.

La soluzione del problema era tuttavia molto semplice.

Il mio comandante di squadriglia, prevedendo che avrei potuto comportarmi goffamente, come effettivamente stavo facendo, aveva incaricato uno dei nostri veterani di coprirmi le spalle.

Era stato proprio lui che, buttandosi bruscamente contro i nemici, li aveva costretti a interrompere l'attacco e a mettersi in fuga.

Ma non riuscivo ancora a calmarmi e a combinare qualcosa di buono.

Dopo avere subito il secondo attacco rimasi immobile su i comandi, senza accorgermi che mi ero staccato dalla pattuglia ed ero andato a finire a circa quattrocentocinquanta metri dietro un altro velivolo russo. Me ne stavo seduto nel mio abitacolo, cercando di ragionare e di calmarmi per poter pensare a fare

« qualcosa ».

Alla fine mi svegliai dal mio stato di torpore e balzai avanti.

Collimai esattamente il russo e premetti il comando delle armi, ma non accadde nulla.

Azionai più volte il grilletto maledicendo le due mitragliatrici silenziose finche, con mio grande imbarazzo, dovetti accorgermi che mi ero dimenticato di armarle prima di entrare in combattimento.

Un altro sottufficiale pilota che volava alla mia sinistra cominciò a disperarsi, vedendo la mia agitazione e. poi, il mio modo di sparare sul caccia nemico.

I miei colpi infatti non potevano andare a segno perchè questi si era messo in virata sulla destra e quando potei averlo di nuovo davanti a me era a ormai duecento metri;

ma io gli sparai ancora, sprecando così altre munizioni e perdendo di nuovo una magnifica occasione.

A questa punto giurai che lo avrei abbattuto a costo di dovermi scontrare con lui.

A tutto motore abbreviai le distanze mentre il nemico virava, faceva dei loopings e delle spirali con manovre violente, ottenendo sempre di sfuggire costantemente alle raffiche che gli sparavo.

Le sue virate strette e i tentativi che faceva per prendermi a sua volta in coda rivelavano poca abilità di pilotaggio e le sue pallottole traccianti rigavano l'aria a vuoto, esattamente come le mie.

Il mio avversario era, effettivamente, piuttosto poco fortunato:

senza che io me ne accorgessi diversi miei compagni stavano adesso girando in quota tenendosi esattamente sopra di noi pronti a intervenire qualora il russo fosse riuscito a mettermi in una brutta situazione; lui invece era completamente solo.

Egli però se n'era accorto e da quel momento non fece che cercare una via di scampo invece che tentare di abbattermi:

proprio quel che non avrebbe mai dovuto fare.

Al termine di uno stretto looping mi trovai l'E 16 davanti, a centocinquanta metri e potei sparargli una raffica nel motore.

Subito un fumo nero cominciò a uscire dal muso del velivolo che precipitò poi verso terra.

Soltanto quando lo vidi ridotto a un piccolo ammasso di rottami fumanti mi accorsi che avevo esaurito le munizioni, cosa che avrei ben dovuto guardarmi dal fare:

un pilota deve assolutamente conservarsi i colpi per il volo di ritorno, nella eventualità di essere sorpreso da qualche caccia nemico.

Mi guardai d'intorno freneticamente cercando gli altri Mitsubisci e quando mi accorsi che ero solo sentii un colpo al cuore.

Avevo perduto di vista la mia formazione!

La mia stessa vittoria era poco meno di una beffa perchè mi era stata servita su un piatto d'argento dal pilota veterano che mi aveva accompagnato, quello stesso che poi avevo perduto mentre stavo seguendo il russo.

Mi sentii umiliato per il mio deplorevole comportamento e fui quasi sul punto di mettermi a piangere.

E questo fu proprio quel che feci quando, dopo essermi guardato ancora d'intorno, vidi alla fine quattordici Claude circolare lentamente in formazione molto in quota aspettando con molta pazienza che mi decidessi a raggiungerli.

Credo di aver urlato per almeno cinque minuti per la vergogna che provavo.

Dopo l'atterraggio a Kiukiang uscii esausto dall'abitacolo.

Il mio comandante di squadriglia piombo su di me col viso rosso per la collera e urlando

«Sakai! Per tutti i diavoli! Sei un dannato fesso.

E' un miracolo che tu sia ancora vivo!

Non ho mai visto nulla di più maldestro e ridicolo in tutta la mia vita di pilota!

Tu ... »

Ma non potè continuare.

Io ero Immobile incollato al suolo, dolente e confuso.

Sperai disperatamente e pregai tra me fervidamente che il mio comandante sfogasse la sua collera prendendomi a cali.

Ma era troppo arrabbiato per ricorrere alla violenza fisica.

Fece invece quanto di peggio avrebbe potuto fare.

Mi voltò le spalle e si allontanò…

 

Saburo Sakai

Samurai

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

B_legend_360pxl.jpg

Il terzo giorno di guerra dovrò ricordarlo sempre perchè fu proprio il dieci dicembre che abbattei il mio primo B 17;

era anche la prima «Fortezza Volante» che gli americani perdevano in combattimento e, dopo la guerra, seppi che era pilotata dal capitano Colin P. Kelly, Junior, eroe dell'aeronautica statunitense.

Partimmo da Tainan in ventisette e, sull'aeroporto di Clark, non trovammo alcun bersaglio; girammo per una mezz'ora nel cielo della base distrutta senza avvistare velivoli, ne in volo ne a terra.

Il gruppo riprese la via del ritorno, puntando a nord, per coprire un convoglio giapponese che sbarcava truppe a Vigan.

Un incrociatore leggero da quattromila tonnellate, del tipo Nagara e sei caccia scortavano i quattro trasporti.

Un resoconto americano, basato su quanto riferito dai superstiti dell'equipaggio del capitano Kelly, esagerò enormemente il numero delle nostre navi in quanto parlava di una nave da battaglia, l'Haruna da ventinovemila tonnellate, sei incrociatori, dieci caccia e quindici o venti trasporti.

Stavamo scortando il convoglio da venti o venticinque minuti, tenendoci a circa 5.500 metri di quota, quando vidi tre grandi anelli formarsi nell'acqua presso le navi;

eravamo troppo alti per poter vedere le colonne d'acqua sollevate dalle bombe.

Ma non c'era da sbagliare su quanto stava avvenendo.

Nessun bersaglio venne colpito, benchè gli americani abbiano invece scritto che la nave da battaglia aveva ricevuto un colpo in pieno e due nelle vicinanze e che era stata lasciata avvolta nel fumo e con perdite di nafta.

I miei compagni e io eravamo rimasti meravigliati dal fatto che nonostante la nostra scorta, il nemico avesse attaccato ugualmente il convoglio:

non eravamo nemmeno riusciti a vedere il bombardiere!

Pochi momenti dopo però, riuscii ad avvistare un solitario B 17, a circa duemila metri sotto di noi, diretto verso sud;

Lo indicai agli altri e continuai a guardarmi in giro per vedere se ve ne fossero ancora:

non avevamo mai sentito parlare di attacchi condotti da un solo bombardiere senza scorta, su zona difesa come lo era quella dove ci trovavamo.

Incredibilmente vero però, il B 17 era solo e aveva bombardato proprio sotto i nostri, occhi: quel pilota aveva del fegato!

Il nostro comandante ci ordinò con i segnali di andare ad attaccarlo e tutti, meno una pattuglia di tre che rimase dl scorta al convoglio,

ci mettemmo a rincorrere il nemico.

Il B 17 era veloce in modo sorprendente ,soltanto col motore in pieno ci fu possibile raggiungerlo, all’incirca a cento chilometri a nord della base di Clark.

A un tratto però tre Zero fecero un'inaspettata comparsa e si lanciarono sulla « Fortezza Volante »:

si trattava evidentemente di velivoli dello stormo di Kaohsiung, che proprio nelle prime ore delle stesso giorno avevano attaccato la base di Nichols.

Noi non eravamo ancora arrivati a distanza di tiro quando i tre caccia di Kaohsiung,cominciarono a sparare, mentre il bombardiere continuava tranquillamente la sua strada come se gli Zero fossero stati innocue zanzare.

Sette di noi riuscirono finalmente a raggiungere gli attaccanti e cominciarono a loro volta a sparare raffiche, con una serie di manovre che non era possibile coordinare e che si ridussero alla fine a una successione di puntate che ogni Zero dovette fare da solo seguito dagli altri, a distanze variabili.

Questo fatto mi irritava perchè occorreva molto tempo prima di poter arrivare a sparare e, per di più, sembrava che il B-17 non avesse ricevuto nemmeno un colpo di tutti quelli che gli erano stati sparati.

Questa era la nostra prima esperienza con il B 17;

le cui dimensioni, molto fuori del normale, ci inducevano in grave errore nel giudicare le distanze.

La sua notevole velocità ci allontanava inoltre sempre di più dalla base, facendo sorgere il problema dell'autonomia.

Durante tutti i nostri attacchi i mitraglieri della « Fortezza Volante» ci tennero. continuamente sotto tiro, ma la loro mira era, evidente mente, degna della nostra….

Dopo un'altra puntata mi accorsi che stavamo passando su Clark e pensai che certamente il pilota nemico doveva aver chiesto l'aiuto dei suoi caccia.

Bisognava perciò abbatterlo subito altrimenti saremmo caduti in una trappola;

con il nostro sistema degli attacchi ripetuti non avremmo però ottenuto nulla e allora decisi di andare a sparare alla minima distanza, tanto più che quel B 17 era sprovvisto della torretta di coda altrimenti non avrei certo potuto pensare di scamparla.

Mi precipitai a tutto motore sul bombardiere, seguito da altri due caccia che mi si misero in pattuglia accanto.

Il pilota della «Fortezza» muoveva la coda del velivolo a sinistra e a destra per permettere ai suoi mitraglieri laterali di spararci ma, nonostante tutte le loro manovre, non fummo colpiti e io potei, a mia volta, aprire il fuoco.

Vidi saltare via pezzi dall’ ala destra e quindi formarsi una sottile scia biancastra.

Concentrai allora la mira nella zona già colpita per cercare di piazzare qualche colpo di cannoncino in un serbatoio.

A un tratto la scia sottile divenne un vero getto, mentre i mitraglieri nemici .sospendevano il tiro e mi parve che si sviluppasse un incendio nella fusoliera.

In quel momento esaurii le munizioni e dovetti interrompere l'attacco.

Mi trassi di lato per permettere anche agli altri Zero di sparare, benchè ormai il massimo danno fosse già stato arrecato e il bombardiere stesse picchiando verso terra;

pareva però che planasse regolarmente e il velivolo avrebbe forse potuto tentare un atterraggio di fortuna su Clark.

Nel frattempo mi ero portato alla sua stessa quota e, da una certa distanza, mi misi a fare fotografie con la mia Leica.

Riuscii a farne tre o quattro poi, a duemila metri, tre uomini si lanciarono e, mentre i loro paracadute si aprivano, il B 17 scompariva in un'esplosione.

Seppi in seguito che gli americani avevano detto che noi avevamo mitragliato gli uomini appesi al paracadute, ma questa era tutta propaganda;

io ero l'unico caccia vicino a loro e, completamente privo di munizioni, mi limitavo a fare fotografie.

Nessun altro giapponese vide precipitare il B 17 e, sul momento, l'abbattimento non mi venne nemmeno riconosciuto.

Il coraggio dimostrato dal pilota che, da solo, aveva osato effettuare il bombardamento, fu oggetto di molte discussioni nei nostri alloggi.

Era la prima volta che un aeroplano isolato rischiava in tal modo la sicura distruzione, sfidando le forze da caccia nemiche pur di effettuare l'attacco, ne le esagerazioni da parte di coloro che si erano salvati intaccavano l'eroismo del comandante.

Quando rientrammo a Formosa ci accorgemmo che le ali di due Zero erano crivellate di colpi di mitragliatrici, sparati dai difensori della «Fortezza Volante».

Tredici anni dopo questo combattimento incontrai il colonnello Frank Kurt, dell'aviazione degli Stati Uniti, che aveva pilotato a Tokio il famoso Swoose e che mi disse:

«Nel giorno in cui Colin fu abbattuto io ero nella torre di controllo della base di Clark;

vidi avvicinarsi la 'Fortezza';

lei aveva ragione di pensare a un tentativo di atterraggio di fortuna da parte sua.

Poi tre paracadute spuntarono dalle nuvole, che mi parve fossero a circa settecento metri di altezza, seguiti da altri cinque ombrelloni; per lo meno, dal posto ove mi trovavo, mi parve che fossero cinque.

Colin, naturalmente, non si era lanciato».

 

Samurai

Saburo Sakai

Link al commento
Condividi su altri siti

225px-Lentaja.jpg

Il quindici maggio un acquazzone torrenziale ci obbligò a terra, ma il riposo fu di breve durata perchè all'indomani mattina prima dell'alba diversi B 25 si precipitarono sul campo a bassissima quota bombardando la pista e mitragliando la base.

Anche quel giorno fummo obbligati a rimanere a terra, dato che occorrevano molte e molte ore per riempire le buche e spianare il campo.

Eravamo seduti negli alloggi, mentre qualcuno dormiva, parlando del continuo succedersi degli attacchi nemici, quando un pilota del bombardamento venne a unirsi a noi.

Aveva atterrato a Lae per rifornirsi di carburante ed era rimasto bloccato dall'attacco.

Ascoltò con grande interesse le nostre descrizioni dei combattimenti con i bombardieri nemici, fissando intensamente gli Zero fermi oltre la pista.

Ad un tratto disse:

«Sapete, la mia più grande ambizione sarebbe quella di pilotare un caccia e non sempre questi barconi con i quali ci mandano in giro.

Sarà stupido » aggiunse poi come parlando tra sè «ma siccome ogni volta che andiamo in volo molti di noi vengono abbattuti, quasi tutti riteniamo che non vedremo mai più la nostra patria; anch'io la penso così»

«Tutto sommato », continuò « sarei soddisfatto se potessi fare una certa cosa ».

Aspettammo in silenzio che continuasse.

«Mi piacerebbe fare un looping con quel barcone sul quale volo. »

Sorrise come per scusarsi, poi aggiunse:

«Potete immaginarvi un affare simile che riesce a fare una gran volta completa? »

Uno dei piloti della caccia gli disse lentamente:

«Se fossi in te non ci proverei nemmeno; anche se ti riuscisse di farglielo fare, il velivolo si spaccherebbe nella fase di richiamata, all'uscita. e non potresti certo cavartela ».

«Lo credo anch'io », rispose il pilota del bombardiere.

Lo vedemmo poi traversare il campo e salire nell' abitacolo di un caccia, dove sedette per studiarne i comandi.

In quel momento a nessuno di noi passò per la testa che il ricordo di lui sarebbe rimasto impresso nella nostra mente finchè fossimo stati vivi.

 

Il giorno finì rapidamente e a sera Niscizawa, Ota e io andammo al centro radio per ascoltare le musiche trasmesse dalle stazioni australiane, oltre al nostro solito notiziario.

Ad un tratto Niscizawa chiese:

« Ascoltate questa musica, non è la Danza macabra, la danza della morte?»

Annuimmo.

Niscizawa era eccitato.

«Mi suggerisce un'idea.

Sapete che domattina dobbiamo attaccare Moresby.

Perchè non vi facciamo sopra una 'Danza macabra' di nostra invenzione?»

«Di che diavolo stai parlando?» chiese Ota «Mi sembri pazzo!»

Niscizawa ribatte.

«Tutt'altro!

Voglio dire questa, dopo che avremo finito e ci saremo rimessi in rotta per rientrare, noi tre dovremmo tornare a Moresby per fare qualche looping esattamente sul campo nemico.

Potremmo eseguirli addirittura a terra!»

« Bisogna essere matti », disse Ota con cautela;

«ma come ce la caviamo col comandante? Non ci lascerebbe mai fare una cosa simile. »

«E con ciò?» fu la risposta.

«Chi dice che debba essere messo al corrente », chiese Niscizawa ridendo allegramente.

Uscimmo dagli alloggi e tutti e tre ci mettemmo a parlare sottovoce per organizzare il piano da eseguire all'indomani.

Non avevamo alcun timore di presentarci su Moresby da soli perchè tra noi tre avevamo abbattuto un totale di sessantacinque apparecchi nemici;

io ventisette, Niscizawa venti e Ota diciotto.

Andammo su Moresby con tutta la nostra forza disponibile, che era di diciotto Zero, guidati personalmente dal comandante dello stormo, Tadasci Nakajima.

Niscizawa e io eravamo suoi gregari.

 

L'attacco fu un fallimento:

tutti i bombardieri erano stati accuratamente mimetizzati e nascosti ai nostri sguardi, ma in aria le cose furono ben diverse.

Tre formazioni nemiche ci piombarono addosso nel cielo del campo;

virammo verso la prima e l'attaccammo di muso.

Nel combattimento velocissimo che ne segui sei P 39 vennero abbattuti in fiamme, due dei quali per opera mia.

Diversi Zero lasciarono la mischia per andare a mitragliare il campo, ma questa iniziativa si tradusse in una rovina per loro perchè due caccia, gravemente colpiti, non poterono rientrare a Lae e dovettero atterrare fuori campo, nelle gole degli Owen Stanley.

Dopo il combattimento ci rimettemmo in formazione.

Appena le pattuglie si furono ricostituite segnalai al comandante Nakajima che mi sarei abbassato per inseguire un velivolo nemico;

ricevuta l'autorizzazione mi buttai giù con una larga virata in picchiata.

Fui di ritorno su Moresby in pochi minuti, circuitando a tremilacinquecento metri;

la contraerea non sparò e nessun velivolo apparve nel cielo.

Vidi poi arrivare due Zero alla mia stessa quota e subito ci mettemmo in pattuglia;

Niscizawa e Ota mi sorrisero e io ricambiai il saluto.

Stringemmo la formazione fino a portarci con le ali a brevissima distanza le une dalle altre;

aprii il tettuccio, tracciai un cerchio verticale, con un dito, sulla mia testa e alzai poi tre dita;

ambedue i piloti risposero assentendo:

avremmo fatto tre loopings di seguito, stretti insieme.

Un ultimo sguardo in giro per vedere se ci fossero velivoli nemici: nessuno!

Allora picchiai per prendere velocità, con Niscizawa e Ota stretti accanto.

Tirai la leva e lo Zero rispose magnificamente, descrivendo una Curva perfetta e ricadendo poi all'indietro, mentre gli altri due mi seguivano esattamente

Andammo su e giù altre due volte, picchiando e tirando poi il looping.

Da terra non venne sparato nemmeno un colpo e il cielo rimaneva sempre sgombro di nemici.

Quando ebbi finito le tre gran volte, Niscizawa ridendo felice mi fece segno di continuare ancora;

mi voltai a sinistra e, visto che anche Ota rideva approvando col capo, non potei resistere alla tentazione.

Picchiammo fino a meno di duemila metri sul campo nemico e ripetemmo i tre loopings in perfetta formazione.

La contraerea anche questa volta non sparò.

Avevamo quasi l'impressione di trovarci sul nostro stesso campo e forse destavamo ,a terra un grande interesse;

pensai che molto probabilmente tutto il personale di Moresby si fosse messo a guardare e questo pensiero mi fece scoppiare in una grossa risata.

 

Rientrammo a Lae venti minuti dopo che ghi altri erano già a terra e non raccontammo a nessuno quello che avevamo fatto.

Appena però Potemmo riunirci, ci mettemmo a sfogare la nostra soddisfazione, tutti contenti, gridando e dandoci gran colpi nella schiena.

Ma il nostro segreto non doveva rimanere tale per lungo tempo;

quella sera stessa, subito dopo le nove, un piantone venne a cercarci negli alloggi, dicendoci che il capitano Sasai voleva vederci immediatamente.

Ci guardammo l'un l'altro piuttosto preoccupati, perchè avremmo potuto ricevere una seria punizione per quel che avevamo fatto.

Appena entrati nell'ufficio di Sasai, il capitano si alzò in piedi urlando:

«Guardate qua, sciocchi bastardi che non siete altro! Guardate questo! »

Aveva il viso rosso e riusciva a malapena a controllarsi mentre agitava davanti alle nostre facce una lettera scritta in inglese.

«Sapete di dove mi arriva questa cosa? No?

Ve lo dico io, stupidi che non siete altro;

E’ stata lanciata pochi minuti fa sulla pista da un velivolo nemico!»

 

La lettera diceva:

"Al comandante di Lae:

siamo rimasti molto impressionati dalla visita fattaci oggi da tre dei suoi piloti e ci sono molto piaciuti i loopings eseguiti sul nostro aeroporto.

E’ stata un'ottima esibizione e saremmo molto grati ai tre piloti se volessero tornare ancora, portando ciascuno una sciarpa verde attorno al collo.

Siamo dispiaciuti di non aver potuto dedicare loro soverchia attenzione, quest'oggi;

ma cercheremo di preparare loro un'accoglienza migliore per la prossima volta ».

 

Tutto quel che avevamo ottenuto era stato di farci prendere in giro;

la lettera era firmata da un gruppo di piloti della caccia di Moresby.

Il capitano ci tenne rigidamente sull'attenti e ci ammonì severamente per il nostro «comportamento idiota ».

Ci ordinò poi di non fare mai più, nella maniera più assoluta, acrobazie sui campi nemici Tutto sommato, era stato però un bello scherzo e, ricordandolo, ci godevamo ogni minuto della nostra Danza macabra sulla base di Moresby.

 

Non potevamo tuttavia ancora sapere che il giorno dopo, ci sarebbe stata una vera danza della morte eseguita senza scopi di esibizionismi aerei.

Sette dei nostri Zero andarono a scortare otto bombardieri sulla base nemica; l'avevamo appena raggiunta che almeno diciotto caccia americani ci piovvero addosso da tutte le direzioni.

Fu la prima battaglia difensiva in cui mi trovai, e lnoltre dovevamo anche difendere gli otto bombardieri dai velocissimi attacchi nemici.

Ne allontanai diversi dalle loro spalle,ma non riuscii a farne cadere nemmeno uno;

tre caccia alleati vennero però incendiati da altri piloti.

I nostri bombardieri riuscirono a sganciare le loro bombe, anche se non troppo accuratamente, poi virarono alla meno peggio per tornare a casa.

Vedemmo allora un P 39 picchiare a tutta velocità in mezzo alla loro formazione, senza che potessimo intervenire per stornare l'attacco:

in un dato momento il cielo era libero e, un attimo dopo, l'Aircobra stava sputando fuoco da tutte le sue armi contro l'ultimo bombardiere della pattuglia, virando poi e picchiando per portarsi fuori tiro.

Il velivolo colpito si era incendiato e, quando gli arrivai vicino, mi parve di riconoscerlo:

era infatti quello stesso Mitsubisci che aveva atterrato a Lae , il suo pilota era quello col quale avevamo parlato nei nostri alloggi.

Le fiamme aumentavano mentre il bombardiere picchiava e acquistava velocità:

perdeva quota rapidamente e sembrava che precipitasse senza controllo;

poco sotto i duemila metri le vampe lo avvolsero completamente.

Di colpo, sempre ardendo terribilmente, il muso del velivolo si alzò per cominciare una cabrata;

lo guardavo a bocca aperta e lo vidi tirare un looping, manovra quasi impossibile per un povero Betty.

Il pilota, lo stesso che ci aveva detto che avrebbe voluto poter fare un looping con un caccia, lo stava facendo.

Il bombardiere si rovesciò, rimase appeso a metà manovra, poi scomparve in una palla di fuoco che lo nascose completamente alla nostra vista.

La massa incendiata cadde e, poco prima che toccasse terra, il cielo fu scosso dalla violenta esplosione dei serbatoi.

 

Samurai

Saburo Sakai

Link al commento
Condividi su altri siti

i338214_pappyboyingtonf2.jpg

Gregory "Pappy" Boyington

 

Finalmente a destinazione

Rangoon, verso la meta di novembre 1941.

Fummo felici di tornare a terra, perche eravamo aviatori, non marinai.

Lasciammo la Bosch Fontein con grandi abbracci e saluti all'equipaggio con il quale eravamo stati in ottimi rapporti.

Giurarono che sarebbero tornati a prenderci al termine del nostro lungo contratto di lavoro.

Pieni di emozione, cercammo di ottenere informazioni sulle attività dell'AVG, parlando tutti contemporaneamente ai pochi rappresentanti del gruppo che si trovavano a Rangoon in quel momento.

Ne cavammo ben poco.

Il nostro centro di istruzione, o come lo chiamavano, si trovava nel centro della Birmania, a meta strada per Mandalay.

Saremmo partiti in treno quel pomeriggio.

I libri di geografia che descrivono l'Oriente di solito tralasciano il capitolo sugli odori.

Rangoon, ad esempio, era calda, sporca e puzzolente e molti degli abitanti si trascinavano per le strade affetti da elefantiasi.

Lo giuro, vedemmo un’ indiano cosi malamente colpito da avere le parti intime tanto gonfie da farci pensare che avrebbe fatto bene a procurarsi un carretto per portarsele appresso.

 

Major%20Boyington%20screenshot-medium.jpg

Il nostro piccolo distaccamento aveva ordine di te nersi unito fino all'ora della partenza, nel pomeriggio.

E così non mi ero ancora liberato del colonnello Smith, come speravo.

Pensai che in fondo potevo sopportare la sua disciplina ancora per un po'.

Nell' A VG avrei incontrato altri due Smith, perchè è un nome molto comune.

Tutti e due i nuovi Smith erano tipi formidabili; molto più giovani di quello che mi aveva fatto da bambinaia.

E la differenza tra i due Smith era già stata organizzata prima che arrivassi:

uno veniva chiamato Bob e l'altro R.T.

Mentre aspettavamo il treno restammo rinchiusi al Silver Grill, requisito dai piloti.

Uscimmo sol tanto per procurarci abiti tropicali, giacche e shorts.

Il Silver Grill era un ristorante o meglio l'unico cosiddetto night club della grande citta.

Finì col diventare il luogo di ritrovo dell'AVG, quando fummo finalmente trasferiti a Rangoon.

 

Finalmente arrivammo nella zona centrale della Birmania, in un piccolo villaggio chiamato Toungoo.

A Toungoo trovammo soltanto capanne di sterpi e la pista che aveva costruito la RAF.

Ma c'erano i nostri apparecchi e gli altri membri del gruppo, arrivati in Oriente nel maggio e nel giugno 1941.

Ci assegnarono delle baracche col tetto di paglia e pavimenti di legno, senza vetri alle finestre.

L'aria era la cosa più importante.

Ma ogni notte, migliaia di squadriglie di zanzare ci attaccavano.

Quegli infernali insetti incominciavano al tramonto e lavoravano coscienziosamente fino all'alba del giorno seguente.

Il calore era così snervante che, ad esempio, non riuscii a trovare la forza di alzarmi dalla cuccetta mentre alcuni degli altri piloti erano occupati a uccidere un cobra nella baracca vicina.

Il morso di uno scorpione non è mortale, ma può essere terribilmente doloroso.

Un mattino, dimenticai di scuotere la camicia prima di indossarla e per due giorni mi portai sulla schiena un bozzo grosso come un melone.

Non c'e da stupirsi se alcuni dei componenti del primo gruppo se ne tornarono a casa disgustati.

Sei mesi di attesa.

Niente da fare.

I monsoni dovevano sfogarsi, prima che i piloti potessero volare.

Ci informarono che il nostro distaccamento si componeva di cento piloti e di circa altri duecento addetti ai servizi a terra.

 

Finalmente, nella prima settimana di dicembre i nostri apparecchi furono pronti per l'azione.

Erano dei p 40, equipaggiati sul posta con mitragliatrici, serbatoi che si risigillavano automaticamente e corazze in modo da trasformarli in apparecchi da combattimento.

Questi P .40 erano stati prestati all'Inghilterra e poi restituiti.

Erano cento.

E fu tutto quel che l'AVG riuscì ad avere.

Sul muso dei P .40 vennero dipinti dei musi di pescecane a colori vivaci, un idea presa da una fotografia di rivista, di un P 40 nel Nordafrica.

Poichè non avevo mai volato con un motore raffreddato a liquido, non sapevo niente della loro manovra e ancora meno della manovra di quei congegni corazzati dietro il seggiolino del pilota, con armi e munizioni, e tutte le modifiche che non erano state prese in considerazione quando avevano progettato il velivolo.

I piloti che avevano gia volato, dicevano che queste «Pinne di pescecane» avevano la spiacevole abitudine di andare in vite con quelle impreviste modifiche, e che se non si era a una quota sufficiente, diventava praticamente impossibile uscire dall'avvitamento.

A sostegno delle loro affermazioni, c'erano parecchie lapidi.

Un giorno, dopo un controllo da parte di un pilota qualificato, feci il mio primo volo.

Il P 40 revisionato non mi sembrava troppo strano, considerando che non ne avevo mai pilotato uno e che non volavo da tre mesi.

Tutto andò bene fino a quando non mi presentai per l'atterraggio.

Ero abituato ad effettuarlo «seduto» e perciò cercai di mettere a terra il P 40 sulle tre ruote contemporaneamente, nonostante mi avessero impartito istruzioni diverse.

Per colpa della mia testardaggine presi un «bum» colossale, rimbalzando fuori pista.

Detti di colpo tutto motore, e la violenza della manovra fece saltare in pezzi il manometro dell'alimentazione, il cui vetro si ruppe.

Quando mi ripresentai per il secondo tentativo di atterraggio seguii le istruzioni ricevute e tutto andò bene.

Quando arrestai il velivolo al parcheggio mi venne detto che «non si può manovrare così brutalmente quella maledetta manetta del gas, come si fa con quei maledetti velivoli della marina i cui motori sono raffreddati ad aria ».

 

Dopo colazione Jim Cross andò in volo con lo stesso P 40 ed il motore piantò secco.

Jim riuscì a portarlo in una risaia dove cappottò.

Non si fece nulla di male, ma io mi sentii piuttosto avvilito perchè l'unico uso ancora possibile della macchina fu quello di fornire parti di ricambio.

Questa sensazione mi abbandonò ben presto, quando seppi che non ero il solo e che anche il comandante di squadriglia aveva sfasciato tre P 40 in modo tale che non erano stati più utilizzabili che come forniture di parti di ricambio.

Un pilota aveva cinque bandiere americane dipinte sul suo apparecchio perchè aveva sfasciato cinque P 40, e questo faceva di lui un asso giapponese.

In fondo, era l'unico modo per procurarsi pezzi di ricambio perchè dagli Stati Uniti non ne arrivavano.

E in definitiva era abbastanza umano augurarsi che questi pezzi li fornissero altri e non noi stessi.

Le squadriglie erano tre, composte di venti apparecchi l'una.

Alla fine della prima settimana di dicembre rimanevano intatti sessanta piloti e sessanta P 40.

Le squadriglie si chiamavano prima, seconda e terza nel limitato lavoro d'ufficio che il gruppo doveva sbrigare.

Ma per noi piloti erano Adamo ed Eva, i Panda e gli Angeli dell'inferno.

Il nostro distaccamento composto di ventisette elementi fu suddiviso in tre gruppi di nove, assegnati ciascuno a una delle tre squadriglie.

La mia era la Adamo ed Eva, la prima squadriglia caccia, e, tra parentesi, la prima caccia della quale si sappia.

Poco dopo il mio arrivo a Toungoo, incominciai a provocare una certa costernazione nel cosiddetto comando del gruppo, anche se Chennault non mi disse mai nulla.

Secondo me, la maggior parte del personale a terra rifilato a Chennault erano fresconi asiatici di prima scelta.

Quando si rese conto che non avremmo accettato ordini da quell'accozzaglia, Chennault dovette riunire tutti noi piloti e raccontarci la triste storia:

«Mi avevano promesso un personale militare competente ma tutti quelli decenti sono fossilizzati in America.

Devo fare quel che posso con quel che sono riuscito a procurarmi qui.

E vi chiedo soltanto di capire e di aiutarmi a tirare avanti ».

Il suo discorsetto mi colpì a fondo, ma non riuscivo a digerire il fatto che il personale del comando a terra superasse quello dei piloti combattenti.

Forse, pensavo, ce ne volevano tanti perchè in dieci riuscivano a fare il lavoro normale di uno solo.

Per il momento non avevo ancora scoperto che cosa facessero, a parte il presentarsi puntuali all'ora dei pasti.

Harvey Greenlaw, l'autodidatta ufficiale comandante, si faceva chiamare colonnello Greenlaw, anche se nessuno voleva saperne.

La sua abitudine di tirar fuori continuamente la corte marziale per minacciare un gruppo di civili, mi dava impressione che, ai suoi tempi, dovesse esserci passato per un pelo.

Il poveretto dava l'impressione di odiare tutti.

Chissà, forse aveva le sue ragioni.

Harvey voleva addirittura mandare davanti alla corte marziale per comportamento indegno Frankie Croft e me perchè tornammo dal villaggio indigeno di Toungoo tirandoci dietro due ridacchianti birmani nei loro risciò.

Li avevamo pagati parecchio per convincerli.

In fondo Harvey avrebbe dovuto rendersi conto delle difficoltà che avevamo affrontato, nella quasi impossibilità di capirci a vicenda, a convincere quei due a lasciarci fare la gara di risciò con loro a bordo.

Naturalmente questo avvenne prima che entrassimo in azione e immagino che Harvey ci tenesse a sentirsi importante.

E in seguito ce ne furono di occasioni nelle quali avrebbe ,potuto fare la faccia feroce.

Ma in quei momenti, riuscivo sempre a convincere Harvey a cambiare idea, con una delle mie adeguate espressioni.

Una, che usai spesso, era: «Squaglia, Greenlaw, o ti ripiego la dentatura ».

E, occupato a meditarci sopra, dimenticava la corte marziale.

Molto spesso aerei giapponesi passavano sopra di noi a considerevole altezza, probabilmente per fare fotografie.

Non si avvicinarono mai abbastanza da permetterci di dar loro una buona occhiata.

Secondo me, ridevano e pensavano ai danni che pochi piccoli apparecchi avrebbero potuto causarci.

Non volavamo mai fuori della zona di Toungoo e non avevamo modo di sapere quel che accadeva nel territorio occupato dai giapponesi nella vicina Tailandia o nell'Indocina francese.

 

E finalmente s'incomincio a fare qualcosa: la guerra per gli Stati Uniti.

Tutti dormivano sodo nelle baracche coperte di paglia.

Poi, nell'oscurità, ci furono i bagliori nelle lanterne in movimento.

Sentii la voce eccitata di Harvey che gridava:

«Pearl Harbor è stata attaccata! Pearl Harbor è saltata in aria! Sveglia! Presto! Decollate appena possibile ».

«A Harvey gli ha dato di volta il cervello! » pensai, e cosi pensarono gli altri.

Ma eravamo svegli.

Tanto valeva alzarsi e probabilmente ero curioso di vedere dove avrebbero rinchiuso il povero Harvey.

Ma non era uno scherzo.

Era tutto vero. La guerra. La radio diffondeva la notizia.

Ci ordinarono di decollare appena possibile.

Santo Dio, che cosa potevamo fare? Era buio pesto. Quel campo non aveva neanche installazioni luminose.

In seguito seppi che volevano levare da terra gli apparecchi, nel caso i giapponesi avessero in programma un attacco simultaneo.

(La ragione dell'oscurità era la differenza oraria tra Pearl Harbor e Toungoo).

Un certo numero di piloti decollò con i motori Allison che tossivano e sputacchiavano perchè non li avevane riscaldati abbastanza.

Alcuni apparecchi non ne vollero addirittura sapere di alzarsi da terra e andarono a fermarsi con grandi rumori di ferri sfasciati, con il carrello scassato e le eliche con torte, in fondo alla pista.

A questo punto, nella confusione più selvaggia, quanti tra noi non erano ancora in movimento ricevettero l'ordine di spegnere i motori e quelli già in aria, di scendere.

Avevano deciso che era meglio correre il rischio di un bombardamento giapponese dall'aria piuttosto di perdere tutti i, velivoli nell'oscurità.

E fu una saggia decisione perchè, in quella zona oscurata e in una notte come quella sarebbe stato un miracolo ritrovare la strada del ritorno e atterrare senza scassare.

Durante quella nera notte di confusione, nessuno dormì.

La mattina seguente ci trovò ancora in uno stato completo sbalordimento, ma finalmente incominciammo a rendercene conto:

quel che eravamo venuti a fare, i nostri programmi, tutto, era stato cambiato dai giapponesi.

In breve , questo voleva dire la fine del nostro piano di addestramento, ancora prima che cominciasse.

Eravamo in allarme.

Invece dell’offensiva gloriosa che avevamo in programma eravamo semplicemente sulla difensiva

 

L'asso della bottiglia

Gregory "Pappy" Boyington

Link al commento
Condividi su altri siti

pilots.jpg

La nostra prima squadriglia caccia era divisa in due gruppi di dieci, perchè i nostri P 40 sarebbero stati a corto di carburante all'arrivo a Rangoon e non volevamo mettere tutte le uova nello stesso cesto.

I due gruppi partirono a venti minuti l'uno dall'altro e il secondo doveva arrivare al tramonto.

Toccò a me di portare questa metà della nostra squadriglia perchè Sandell stava a molte miglia davanti a noi e non lo si vedeva più.

Pensavo al personale di terra e ai pochi rimasti del comando che ci avevano salutati al decollo.

Per la maggior parte, il saluto voleva dire:

«Spero che torniate vivi ».

Altri invece pensavano:

«Spero che non torniate mai più ».

Andassero all'inferno. Andassero tutti all'inferno.

Tuttavia il mio dovere, passati i venti minuti di attesa, era di condurre l'altra metà della squadriglia a Rangoon.

Sapevo di dover preparare minuto per minuto il mio piano di navigazione e il tempo di rifornimento a Lashio, per riuscire ad arrivare a Rangoon poco prima del tramonto.

Non dopo.

Nelle basse latitudini, il crepuscolo non esiste.

Quando il sole tramonta, si ha l'impressione che qualcuno l'abbia coperto di colpo con un secchio.

In quei luoghi, c'e un fattore senza dubbio favorevole ai navigatori inesperti, come sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove avevo quasi sempre volato.

La declinazione della bussola è zero gradi, grazie a Dio.

Insomma, atterrammo al campo di Mingaladon poco prima del tramonto il 2 febbraio 1942.

Dopo l'atterraggio e il rifornimento, disperdemmo i nostri velivoli intorno nel campo; trascorremmo la serata nella mensa ufficiali della RAF, al campo.

Bevemmo, tutti insieme, RAF e AVG, cercando di raccogliere tutte le informazioni possibili dai piloti che erano stati in azione, qualsiasi cosa sapessero dei metodi degli aviatori giapponesi contro i quali avremmo combattuto.

Più parlavamo e bevevamo, più diventava chiara l'importanza di queste informazioni, perchè soffitto e pareti della mensa erano lì ad attestare che non si trattava di un giochetto.

I nipponici facevano sul serio.

La mensa, risparmiata dalle bombe, era perforata da pallottole di mitragliatrici.

Al bar, si doveva stare attenti ai gomiti perchè c'era il rischio di buscarsi una scheggia di legno.

Quando domandai come annunciavano l'allarme, un allegro pilota dell' A VG disse: «Molto tempo prima che la RAF si decida a segnalare l'allarme, vedrai due Brewster che decollano diretti a occidente, senza badare alla manica a vento. E' il segnale ».

I giapponesi venivano da est.

E in fondo non potevo biasimare i due piloti inglesi dei Brewster superstiti, poichè quegli apparecchi avevano già dimostrato la loro inefficacia.

Prodotto in America, e prestato all'Inghilterra, il Brewster si era rivelato del tutto negativo in combattimento.

Capita spesso che un velivolo renda meglio di quanto non fosse previsto sulla .carta, come spesso capita l'opposto.

La mia comprensione aumentò ancora in seguito quando scoprii che un'intera squadriglia di Brewster dei miei vecchi compagni del corpo dei marines alle Midway, aveva un solo superstite.

In quella squadriglia avrei potuto essermi trovato anch'io.

Questo solitario superstite, il mio amico Slim Erwin, aveva detto:

«i giapponesi hanno sforacchiato il mio Brewster con tante raffiche che mi hanno creduto morto, altrimenti non sarei tornato neanch'io ».

Un altro pilota dell'AVG, evidentemente anestetizzato dall'ottimo scotch, disse:

«I giapponesi manovrano meglio, ma nessuno riesce a star dietro a un P 40 quando si mette in picchiata ».

Questo era vero e, finche non entrarono in lizza i Messerschmit 109E, un pilota del P 40 poteva andarsene in picchiata quando voleva.

I P 40, lenti a cabrare usarono questa manovra evasiva fin quando un pilota di un ME 109E non mostrò sportivamente quel che poteva fare il nuovo apparecchio, apparso per la prima volta nel Nordafrica.

La storia me la raccontò di prima mano il pilota sudafricano che, mentre scendeva diritto in picchiata, si era visto superare dal pilota tedesco che sollevò due dita della sinistra nel V della vittoria.

C'era il grosso Gunverdal con il sorriso sulla faccia simpatica, con tutta l'aria di un porco che guarda il truogolo pieno di sbobba.

Gunny disse qualcosa che non dimenticherò mai:

«Non credevo che fosse umanamente possibile infilare tutti i miei cento chili sotto uno di quegli elmetti di latta. Ma ti assicuro che ci sono entrati, quando i giapponesi hanno bombardato il campo, a Natale ».

Più tardi seppi che Gunverdal, lasciato l'AVG, aveva ottenuto il posto di pilota collaudatore negli Stati Uniti ed era morto durante il collaudo di un nuovo velivolo.

Dopo aver bevuto tutto lo scotch che osai bere, mi accompagnarono agli alloggi della RAF dove avrei dormito per un po' di tempo.

La mensa sembrava la terra di nessuno, ma le baracche erano ancora peggio.

Oltre alla ventilazione da mitragliatrice, una bomba inesplosa aveva attraversato il tetto, i due piani dell’edificio e riposava infilata nella terra al di sotto.

Dormimmo con in casa un cartello che diceva: ATTENZIONE BOMBA INESPLOSA.

L'indomani scoprii che c'erano molte zone vietate, dove la RAF non aveva ancora trovato il tempo per disinnescare le bombe.

Sul campo di Mingaladon giacevano qua e là alla rinfusa gli scheletri degli apparecchi bruciati e di alcuni capannoni restavano soltanto mucchi nerastri.

In molte occasioni l'AVG aveva tentato di inseguire i bombardieri giapponesi durante la notte, ma in seguito tutti i voli notturni furono sospesi.

Una di quelle notti, alcuni piloti aspettavano seduti in automobile che un P 40 atterrasse dopo uno di questi tentativi.

Un altro pilota dormiva sui sedile posteriore della stessa macchina.

Un altro, rendendosi conto che il P 40 stava per atterrare fuori pista, urlo: « Fuori! » e poco dopo, ripulendosi gli abiti dalla terra, ridevano e si complimentavano a vicenda di averla scampata bella:

l'elica del P 40 aveva affettato l'automobile, ormai vuota.

Pochi minuti dopo, gli stessi piloti domandarono agli inservienti della RAF se l'automobile dalla quale erano saltati fuori così tempestivamente era stata rimossa dal campo.

E ricevettero una risposta che li lascio sbalorditi.

«Già fatto, ma che cosa dobbiamo fare del cadavere che c'e dentro?»

Ho dimenticato il nome del pilota che dormiva sul sedile posteriore.

 

L'asso della bottiglia

Gregory "Pappy" Boyington

Link al commento
Condividi su altri siti

boyingtonavg.jpg

I primi giorni a Rangoon trascorsero senza avvenimenti di particolare importanza. Dovevamo procurarci i lasciapassare della RAF, con le solite fotografie e impronte;

andammo alla garitta, all'ingresso del campo di Mingaladon e ci trovammo un indigeno, raggomitolato in modo grottesco, morto, perchè non aveva capito l'ordine delle sentinelle all'ingresso.

In quella zona erano tutti molto nervosi.

Poi, un mattino, verso le dieci, dopo tre giorni di calma relativa, vidi i due Brewster decollare verso ovest.

Pochi minuti dopo ci fu l'allarme perchè il radar di controllo della RAF aveva localizzato un aereo non meglio identificato.

Oh, era proprio quel che avevo aspettato per tanto tempo.

Salimmo con dieci dei nostri P 40, otto in formazione stretta, con uno dei veterani di Jack Newkirk come guida e Cokey Hoffman e un altro pilota di copertura a trecento metri al di sopra.

Gli occhi di una formazione, devono essere quelli del capo perchè gli altri stanno attenti all'apparecchio che vola accanto.

Nessuno di quella formazione era mai stato in combattimento;

seguivamo alla cieca, fiduciosi che il nostro capo sapesse dove ci portava.

Dalla cuffia uscì il confuso annuncio « quaranta o sessanta banditi» e la posizione approssimativa, che cambia va man mano.

Poi il capo formazione annuncio: «Li vedo. Quaranta o cinquanta I-97».

L'I-97 giapponese era un velivolo monoposto, molto maneggevole e con carrello fisso. Nella foschia che ci stava sopra, finalmente riuscii a scorgerli, per perderli di vista poco dopo, mentre salivamo contro sole, ormai piuttosto alto.

Non toccava a me far domande, ma non riuscivo a capire perchè si continuasse a salire, con il sole negli occhi e quelli al di sotto.

Speravo che colui che ci guidava sapesse il fatto suo.

Ancora pochi minuti, poi ci trovammo direttamente al di sotto dei caccia giapponesi, dovevano essere seicento metri.

Che razza di posizione scomoda!

Quel fesso non capiva dove ci portava?

Più tardi scoprii che anche per lui era il primo combattimento.

Il capo non era uno dei vecchi di Newkirk, ma uno dei nostri.

I miei pensieri si interruppero di colpo, quando vidi i giapponesi virare lentamente sul dorso, in un breve luccichio.

Poi vidi soltanto le parti corazzate e il fumo e le traccianti delle mitragliatrici giapponesi.

Il P 40 di Cokey, al di sopra di noi, sembrava proprio un pesce che si contorcesse nell'agonia fuori dell'acqua.

Guardai con la coda dell'occhio e l'intera formazione con la quale mi trovavo un secondo prima era scomparsa.

Andavano giù dritti verso la cara madre terra.

Mi tirai di lato e giù per levarmi di sotto ai giapponesi in picchiata.

Che sollievo aver soltanto l'aria al di sopra di me.

Poi scorsi una coppia di giapponesi di lato, diedi gas e seguii in coda.

Uno dei due cabrò quasi perpendicolare al di sopra del mio P 40, mentre attaccavo l'altro con le mie traccianti.

Dovevo cessare il fuoco e virare, altrimenti il giapponese che avevo sopra mi piombava diritto addosso.

Ero tanto intontito da non riuscire a vedere se avevo messo a segno le mie raffiche sull'I 97.

Ero intontito e le traccianti arrivavano sempre più vicine al mio aereo;

finalmente mi trovai naso a naso con le mitragliatrici di un altro.

«Fottuta schifezza », pensai, e me ne andai in picchiata.

Vero che, trovandosi a un'altezza sufficiente, nessuno poteva seguire un P 40 in picchiata.

In quel momento, avrei dovuto rendermi conto che la tattica della formazione chiusa alle quali ci avevano preparati con tanta cura, servivano ben poco con i giapponesi e probabilmente furono soltanto l'orgoglio e la presunzione che mi spinsero a riprovarci, anche se non avevo la più vaga idea di dove fossero finiti i miei compagni.

Ricominciai, attento a picchiare più veloce, da trecento metri al di sopra.

Mi avvicinai al caccia nipponico che mi permise di accostarlo tanto da potergli sparare, poi il piccolo apparecchio mi fece sotto il naso il più bel dietrofront che mai abbia visto e poi scoprii che stava virando di nuovo, in compagnia dei suoi compagni di gioco.

«E chi diavolo ha detto che quei piccoli fetenti non sanno volare! Al diavolo tutti!» pensai e mi buttai in picchiata.

Il denaro del premio speciale per ogni aereo abbattuto si dissolse nell'aria, insieme con l'ultima delle mie illusioni.

Link al commento
Condividi su altri siti

pappy_b.jpg

Forse non vale la pena ricordarlo ora, ma mentre tornavo al campo di Mingaladon, mi accorsi che qualcosa mi pungeva come uno spillo nell'interno del braccio sinistro. Arrotolai la manica della giubba e scoprii la causa:

una 7,7 millimetri aveva colpito il mio P 40 e avevo la pallottola infilata nel braccio.

Sfilai delicatamente la pallottola con l'intenzione di conservarla come ricordo, ma cambiai idea.

Il nostro gruppo non riceveva decorazioni, ma la pallottola era del tipo incendiario e il materiale chimico che ancora conteneva lasciò una grossa cicatrice, simile a quella della vaccinazione: come ricordo bastava.

Al campo, c'era un quadro di completa desolazione.

Ricordo vagamente quelli che mi dicevano quanto erano pentiti degli errori commessi e quanto erano felici che fossi tornato perchè ormai mi consideravano abbattuto. Ricordo, come una visione dell'altro mondo, Bob Prescott, in piedi sull'ala del mio apparecchio al limite della pista.

Molti anni dopo, Bob mi disse che avevo alzato la testa e gli avevo detto:

«Piuttosto scarsi, eh, socio?» Servì a tirargli su il morale.

Non ricordo le parole, ma so che la pensavo così.

Mi odiavo tanto che non mi diedi neanche la pena di scrivere il rapporto del primo scontro perchè quella storia poteva accadere ad altri, ma non a me.

Una delle mie maggiori debolezze è sempre stato l'orgoglio.

Ma non so proprio come potessi sentirmi ferito nell'orgoglio, quando il giorno dopo dovemmo seppellire il povero «Cokey» Hoffman.

Mentre guardavo la fossa appena scavata e la bara di Cokey la accanto, ero nervoso e sudavo.

Il prete inglese borbottava sotto il sole cocente e la cerimonia sembrava interminabile. In fondo lui non lo aveva mai conosciuto come noi.

Quando ci accingemmo a calare Cokey per il definitivo riposo, ci accorgemmo che la fossa verso il fondo diventava troppo stretta e la bara si incastrò.

Il Sacerdote si accorse della tensione che ci prendeva e disse sottovoce:

«Andate pure, ora. Ci occuperemo noi del resto ».

Ci allontanammo accendendo le sigarette e lasciammo il vecchio capo pilota.

Mi parve di sentire la protesta di Cokey:

«Ehi fetenti, perchè mi avete piantato in asso a meta strada?»

Nel frattempo, l'atteggiamento dei nostri amici inglesi era cambiato.

Sembrava che ci vedessero sotto una luce del tutto diversa perchè, a parte un bombardiere solitario che capitava di notte, ormai si sentivano relativamente al sicuro. Dopo l'arrivo della prima squadriglia caccia, in febbraio, durante il giorno neanche un bombardiere cerco di attaccare la città.

I giapponesi mandavano soltanto sciami di caccia per neutralizzare le nostre difese aeree.

Gli abitanti di Rangoon, se ne stavano seduti nei patios e contemplavano

«un gran bello spettacolo »,

perchè i velivoli si scontravano ormai a una notevole distanza dalla loro cara città. Anch'io fui costretto ad assistere ad alcuni di questi spettacoli da terra perchè era impossibile avere un aeroplano ogni giorno.

Durante quelle battaglie l'aria si riempiva di scie di condensazione tanto che il cielo sembrava un campo fangoso sul quale un uccello gigante lasciasse le sue tracce.

Ogni tanto, ma molto di rado, dovevamo correre ai ripari perchè un caccia giapponese scendeva a mitragliare.

Quando imparammo come combatterli, i caccia nipponici non ce la facevano con noi. Avevamo due mitragliatrici da 12,7 e quattro da 7,7, contro quelle da 7,7 dei giapponesi.

Avevamo anche piastre corazzate dietro il pilota e serbatoi a chi usura automatica, che i giapponesi non avevano.

I nostri P 40 erano più veloci degli I-97.

Imparammo a disperderli per poi colpirli uno alla volta.

Il P 40 poteva essere colpito malamente e continuare a volare.

Non viravamo più con i nipponici quando non occorreva; li costringevamo a seguire il nostro gioco.

Gli spettatori da terra vedevano i nipponici venir giù in fiamme o a pezzi.

Se non bruciavano completamente in aria, si sentiva una forte esplosione e una colonna di fumo si levava dalla periferia di Rangoon.

Durante uno di questi combattimenti, Sandell atterrò con un P 40 letteralmente zuppo d'olio.

Frenò, schizzò fuori dall'apparecchio e corse via come un razzo.

Subito ci accorgemmo della ragione della sua fuga: un nipponico calava a tutta birra sul P 40 abbandonato, sparando con tutte le armi.

L'I 97 sfiorò la coda del P 40 e finì in pezzi a pochi metri di distanza.

Alcuni di noi corsero a vedere se potevamo aiutare Sandy in qualche modo.

Ci disse che quel giorno aveva fatto fuori tre giapponesi, prima di essere costretto ad atterrare con dei buchi nei serbatoi dell'olio e nel radiatore.

Volevamo anche dare un'occhiata al caccia giapponese, ma era troppo malridotto per capirci qualcosa.

E anche il suo pilota.

Il pezzo più grosso era una minuscola mano sinistra con i tendini spezzati che spumavano fuori.

Senza dubbio aveva sollevato il braccio per un riflesso inconscio, nell'inutile tentativo di ripararsi la faccia.

Un altro caccia nipponico, sapendo che non sarebbe più riuscito a rientrare, si buttò deliberatamente contro uno dei nostri velivoli fermo a terra e, davvero, non avrebbe potuto fare di meglio perchè sembrava l'ultimo pezzo di un gioco di pazienza.

Il pilota aveva fatto il suo harakiri, senza arrecare il minimo danno al nostro aeroplano.

Sembrava impossibile che l'I 97 fosse riuscito a infilarsi nello spazio disponibile in una qualsiasi direzione a parte quella presa: verticale.

Due giorni dopo il mio primo scontro, alla stessa ora, i giapponesi arrivarono, come sempre, puntualissimi.

Se non altro, quelli ci tenevano alla monotonia.

In quell'occasione, la squadriglia la guidai io e non me ne importava un accidente se quei banditi arrivavano o no a Rangoon.

Io intendevo soltanto fare in modo di portarmi più in alto di loro e di restarci.

Riuscimmo a guadagnar quota.

Tranne Cokey, i piloti erano gli stessi della formazione con la quale avevo avuto il mio primo combattimento.

Picchiai col mio gruppo sulla formazione giapponese che si disperse allargandosi e perdendo quota sotto di noi: volevano attirare i P 40 alla loro altezza per obbligarli poi ad impegnarsi in virate con loro.

In seguito, mi abituai talmente a quella manovra delle formazioni giapponesi quando erano sul punto di essere attaccate che, ogni volta, mi sembrava di vedere uno stormo di avvoltoi volteggianti sulla preda.

Quella volta non ci lasciammo impegnare in virate e ci mettemmo a combattere con metodo, dall'alto in basso.

Colpii il mio primo giapponese, che esplose in fiamme e, poco dopo, sentii qualcuno gridare alla radio: «Questo è per Cokey, figlio di putta*a!»

Io la pensavo come lui.

Feci una virata e così avvistai un altro bersaglio sicuro.

Sparai sul caccia senza fermarmi ad inseguirlo e vidi staccarsi dei pezzi dalla fusoliera. Dopo un secondo anche quel velivolo precipiòo verso terra, avvitandosi e bruciando come una torcia.

Forse a causa del primo triste scontro o forse perchè non volevamo esagerare, lasciammo andare gli altri.

Non li inseguimmo.

Dopo un secondo combattimento, tornammo a Mingaladon in uno stato d'animo ben diverso, perchè ne avevamo abbattuti sedici senza perdere neanche uno dei nostri.

Mi sentivo molto arzillo, ma non mi permettevo troppo entusiasmo perchè ormai avevo capito che sarebbe stata una lotta per sopravvivere, non per il denaro.

Link al commento
Condividi su altri siti

blacksheep2.jpg

Mentre volavo verso la nuova base, nelle isole Russell, accarezzavo molte speranze perchè se quell'agglomerato che chiamavo squadriglia non entrava presto in azione, i miei giorni come pilota combattente erano finiti.

Lo sapevo.

Età e grado erano contro di me, ormai.

Soltanto la fortuna poteva aiutarmi ..

Il pomeriggio del nostro arrivo alle Russell fui chiamato al comando.

La prima missione era stabilita per le sette del mattino dopo, 16 settembre 1943. Quella notte dormii poco perchè immaginavo che l'indomani sarebbero stati a guardarci, in attesa di vedere la povera piccola squadriglia andare in pezzi.

Nessuno, credo, capì quant'ero preoccupato.

Forse se ne accorsero soltanto gli ufficiali del comando, perchè non feci niente di più che fumare una sigaretta dopo l’altra.

Ma non era insolito.

E poi odoravo giusto perchè la sera prima avevo rifiutato il bourbon.

Il combattimento non mi preoccupava, ma temevo che la squadriglia fallisse o facesse qualcosa di ridicolo.

Eravamo insieme da poco più di tre settimane (quasi tutte le squadriglie si esercitavano per mesi interi negli Stati Uniti, prima di essere inviate in zona di guerra) e soltanto tre dei miei piloti erano già stati in azione.

Fu un sollievo momentaneo uscire dall'ufficio e lasciare gli ufficiali del comando. «Moon» aspettava pazientemente in una jeep per portare Stan, me e un paio di piloti in fondo alla pista, dove i nostri potenti Corsair aspettavano come snelli e silenziosi destrieri.

Quei nuovi apparecchi erano una meraviglia.

Venti Corsair, cinque pattuglie di quattro nella mia squadriglia e naturalmente venti piloti, dovevano scortare tre squadriglie di bombardieri Dauntless e due squadriglie di aerosiluranti Avenger, centocinquanta bombardieri in tutto.

La missione doveva distruggere Ballale, una piccola isola a ovest di Bougainville, ben fortificata, tutta aeroporto, più 0 meno come il La Guardia.

La differenza stava nel fatto che il traffico sarebbe state molto più congestionato quel giorno di quanto non lo sia oggi nella zona di New York, senza l'aiuto del controllore del traffico per guidare la nostra rotta.

A parte l'assenza del controllo, la nostra azione sarebbe stata ostacolata dal fuoco antiaereo e da Dio solo sa quanti Zero.

Non ricordo di essermi affatto preoccupato di dover percorrere seicento miglia, andata e ritorno, su e giu per il vecchio arcipelago punteggiato di isolette, quasi tutte in mano giapponese.

Ma ero preoccupato per la squadriglia, mi domandavo se avrebbe resistito.

Il primo problema consisteva nel decollare con centosettanta apparecchi da una pista sola, uno dopo l'altro, nel tempo calcolato, in modo da aver abbastanza carburante per il viaggio, più una mezzora o più di volo a tutto motore, durante il combattimento.

Un motore da 2000 cavalli, a tutto gas, consuma carburante più o meno come se lo si rovesciasse da una diga.

Girai intorno ai nostri apparecchi, ricevetti i saluti, vidi mani agitarsi, e allora mi calmai un poco.

Ben presto arrivò il segnale di mettere in moto.

A uno a uno si accesero, sputando fumo nero.

I motori tossivano convulsi per un attimo, poi prendevano a rombare sicuri.

Decollo.

L'ultimo Dauntless era salito pigramente nell'aria, e girava per unirsi alla formazione. Partimmo a coppie sulla pista di corallo candido, a intervalli di circa venti secondi, e questo era già un'impresa in se stessa perchè nessuno aveva volato per più di trenta ore con quei nuovi velocissimi uccelli.

Mentre salivamo, virando più stretto dei bombardieri, ci portammo al livello dei velivoli di testa e poi prendemmo posizione, arretrati e più in quota.

Niente comunicazioni per radio.

Non avevamo alcuna intenzione di far sapere ai giapponesi della nostra partenza.

La mia squadriglia si allargò come un ampio ombrello sopra i bombardieri, per mezzo di segnali a mano.

Passammo anche l'ordine di ridurre la velocità per risparmiare carburante.

Cominciò la monotona navigazione in formazione di scorta.

Le immense pale dell'elica giravano così lentamente che mi sembrava di poterle contare al passaggio.

Il comandante dei bombardieri dirigeva la navigazione.

Non avevo quel pensiero.

Finalmente la monotonia cessò:

 

f662e150d52d970bc96ab74842fd0096.jpeg

volavamo sopra strati fioccosi di nubi che richiedevano molta concentrazione per tener d'occhio le ombre dei bombardieri al di sotto.

Questa parete di nuvole era dovuta al fatto che i bombardieri dovevano volare tra uno strato e l'altro e non c'era abbastanza spazio per mantenerci ben visibili al di sopra di essi.

Il rischio di rovinare l'importante impresa al decollo era ormai superato.

Ce l'avevamo fatta.

E, una volta compiuta la missione, non dovevo più preoccuparmi.

I Pezzi Grossi non m'interessavano, l'impresa era dedicata ai giapponesi.

Ma saltò fuori una nuova preoccupazione.

Con quelle nuvole, i giapponesi non potevano scoprirci.

Niente azione.

L'alto comando ci avrebbe senza dubbio rispediti in aspettativa e me a dirigere il traffico.

Pensai: «Accidenti ... perchè continuo a fare programmi per il futuro, quando so che è inutile? »

Avevo appena finito di commiserarmi, quando mi accorsi improvvisamente che i bombardieri in picchiata erano scomparsi.

«Ma che diavolo succede? Siamo sopra l'obiettivo? » mi domandai.

«Gesù, se li perdo, la sorte meno crudele che mi possa capitare e di non tornare più alla base »

Mi portai con la squadriglia oltre uno strato sottile, alla ricerca dei bombardieri.

Uscito all'aperto, il rumore che proveniva dagli auricolari mi ruppe quasi i timpani. Una cosa era certa, il silenzio radio non esisteva più.

Dopo un paio di frasi come «Calmati i nervi, parla adagio », le parole uscivano più acute e rapide: «E chi è nervoso? Tu, figlio di una ... io no davvero ».

Poi ci fu soltanto un continuo ruggito.

Avenger e Dauntless che scendevano in picchiata da tutte le parti, facevano a pezzi quella che era stata Ballale.

Alcuni risalivano giù dalla picchiata, altri stavano uscendone e altri picchiavano ancora.

Immensi ciuffi di fumo e di terra punteggiavano l'isoletta.

Tra il fumo grigiastro, un paracadute bianco si aprì.

Vidi subito che era da un'altitudine eccessiva.

Poi un aereo precipitò. Avenger o Dauntless? Chi sa!

Sopra Bougainville le nuvole erano fitte: da quella parte i caccia nipponici non potevano individuarci.

Non so che cosa pensassi in quel momento ne quel che facessi.

Forse guardavo quelli al di sotto un po' come uno spettatore.

La copertura superiore non poteva essere più alta di cosi.

Ci abbassammo.

Poco dopo essere usciti dalle nubi e dal fumo, scoprii che stavamo nel bel mezzo di quaranta caccia giapponesi.

Noi eravamo in venti.

C'era uno Zero a dieci metri dalla mia ala destra.

Vidi soltanto la «grossa palla rossa» che mi volava vicino.

Probabilmente il pilota non si rese conto di chi ero perchè scosse le ali e questa vuol dire: segui. Poi diede gas e superò il mio Corsair.

Santo Dio, era successo tanto in fretta che non avevo abbassato gli interruttori dei comandi delle mitragliatrici e del collimatore e neanche caricato le armi.

Sono tutte cose necessarie quando si vuole sparare.

Passò un secolo, prima che riuscissi a mettere tutto a posto, ma quando ebbi finito, seguii il nipponico, e come.

Andò giù in vite, incendiato, a piombo su Ballale.

Le raffiche delle mie mitragliatrici calibro 12,7, il fracasso e lo spettacolo delle traccianti, mi riportarono a questo mondo.

Come se mi avessero schiaffeggiato con un asciugamani bagnato.

Quasi nello stesso attimo, mi volsi a guardare al di sopra della spalla come se la cavava Moe Fisher sul mio fianco, dove avevo visto le traccianti passare sfrigolando.

E bravo Moe, occupatissimo a riversare una raffica continua in un caccia nipponico, a meno di quindici metri dalla mia coda.

L'apparecchio esplose in fiamme e il giapponese precipitò in vite verso il mare.

In quei pochi secondi, la preoccupazione per i bombardieri mi lasciò, tanto più che non li vedevo.

Vedevo soltanto apparecchi incendiati e fumanti ed erano giapponesi, a quanto sembrava.

Alcuni scendevano in vite senza controllo, verso la tomba liquida.

Link al commento
Condividi su altri siti

wolvesinsheepsclothing.jpg

Conosco ben pochi piloti in grado di ricordare minutamente tutti i particolari di un velivolo nemico col quale siano entrati in contatto, ma accidenti a me, se riesco a ricordare qualcosa di più delle ali, rotonde, quadrate, dei motori raffreddati ad aria, o ad acqua e, naturalmente, l'orrido segno del Sol Levante.

Dopo pochi secondi di spettacolo da Quattro Luglio; quasi tutti i caccia nipponici scomparvero.

Ci abbassammo verso il mare, dove i bombardieri rientravano in formazione con lo scopo di proteggersi reciprocamente durante il ritorno.

Un gruppo di caccia nipponici cercava di ostacolare la loro manovra.

Volando a una velocità eccessiva per l'approccio, aprii il fuoco contro uno di quei Zero, convinto di vederlo virare a destra o a sinistra, in basso o in alto per evitare il fuoco, una volta colpito dalla prima raffica.

E invece esplose.

Esplose così vicino, diritto davanti a me, che non sapevo da che parte scappare per evitare i pezzi.

E così filai diritto nel centro dell'esplosione, nascondendomi il viso con il braccio nel futile tentativo di ripararmi.

Non so quel che accadde al mio apparecchio quando il caccia giapponese si disintegrò, ma avevo ammaccature dappertutto, sul motore, sulle ali, sui timoni di coda.

Con quella manovra poco ortodossa mi trovai separato da Moe.

Non era davvero la manovra abituale seguita durante le tre settimane di allenamento.

Quando la sorpresa e la paura iniziale mi lasciarono, ebbi un altro pensiero, qualcosa del quale mi rendevo conto molto più chiaramente di tutti i piloti che mi accompagnavano in quella missione.

La media dei piloti ha meno di una probabilità su cento missioni di abbattere un apparecchio con una sola raffica.

Inoltre, quando capita quest'occasione rarissima, nove volte su dieci il pilota e in posizione di inferiorità numerica e questo diminuisce ancora le sue probabilità.

Un gran numero dei miei errori precedenti mi apparve in un lampo.

Me ne resi conto ed ero ben deciso ad evitarli e, finchè splendeva il sole, ad aggiungere qualche altra unità al mio numero di apparecchi abbattuti.

Quando la formazione dei bombardieri era già da un pezzo sulla rotta di ritorno, scoprii uno Zero a pelo d'acqua che tornava alla base dopo aver inseguito i bombardieri fin dove lo giudicava prudente.

Lo sapevo per esperienza: quando un apparecchio è a corto di munizioni o di carburante, il pilota sta più che può vicino terra per presentare un bersaglio minimo.

Decisi di scaraventarmi su quel caccia.

Non cambiò rotta, ma incominciò a girare lentamente:

«Finche gira, sa di essere in pericolo. Troppo facile ».

Poi ricordai una cosa dei tempi della Birmania, con le Tigri Volanti, e invertii con violenza la rotta.

Ed eccone un altro arrivare da dietro.

Aspettava soltanto che il fesso, io, calasse sul suo compagno.

Lo attaccai deciso, sfruttando la mia velocità.

Neri sbuffi di fumo uscirono dai suoi 20 millimetri.

Le sue traccianti passavano tutte al di sotto del Corsair mentre le mie circondarono il piccolo Zero.

Quando gli fui abbastanza vicino, scorsi i fori sotto la fusoliera, poi filai al di sotto. L'apparecchio picchiò lentamente, fumando, poi precipitò in acqua, in pochi secondi, senza incendiarsi ne esplodere.

Cercai inutilmente di individuare l'altro Zero, il bersaglio iniziale dei miei tentativi. Tornai verso est di nuovo, per seguire i bombardieri ormai lontani, e incocciai un altro Zero che tornava a casa a pelo d'acqua.

Questa volta non c'erano soci.

Andai giù in picchiata sul mare, direttamente al di sopra del caccia.

Non capii se il pilota non mi avesse visto o fosse così a corto di carburante da non osare nessuna manovra per cambiare la rotta.

Una breve raffica delle 12,7, poi fumo.

Mentre giravo per dargli il colpo di grazia l'apparecchio toccò l'acqua.

Quando un apparecchio ammara a quella velocità, non rimane in superficie: crolla come un masso e scompare subito.

In quel momento mi accorsi di non avere carburante sufficiente per il ritorno alla base delle isole Russell, ma potevo andare a Munda, nella Nuova Georgia.

Munizioni, probabilmente non ne avevo più.

Lo sapeva il cielo, se avevo premuto il grilletto.

Ma non mi servivano più munizioni.

La giornata, però, non era ancora finita, anche se il racconto degli eventi del primo giorno incomincia a diventare un po' monotono.

corsairpappy02.jpg

Per quel giorno, ne avevo abbastanza, in tutti i sensi.

Quando ero ormai in territorio alleato, scorsi uno dei nostri Corsair diretto a casa, a pelo d'acqua.

Cercai di raggiungerlo.

E in quell'istante, dal nulla, uscirono due caccia giapponesi che picchiavano sul Corsair con tutto comodo.

Era così esaurito che non poteva ne virare ne picchiare.

neanche con due Zero in coda.

C'era olio dappertutto, sul plexiglas dell'abitacolo e sui fianchi della fusoliera.

Senza dubbio era costretto a ridurre la velocità per risparmiare al massimo il motore colpito.

Ad ogni modo, se non arrivava qualcuno in suo aiuto, il pilota era bell'e andato.

Filai da dietro, addosso allo Zero più vicino al Corsair.

Lo Zero cabrò velocissimo (se sanno manovrare!) e quasi verticale nell'aria.

Tiravo con tanta energia che il mio aeroplano perse velocità ed entrò in vite.

In quell'istante, vidi lo Zero esplodere.

Una vite a quell'altitudine minima e una gran brutta faccenda in se stessa e mi sarei sentito peggio se non fossero accadute contemporaneamente tante cose.

Non riuscii a vedere il velivolo che precipitava perchè ero troppo occupato a uscire dalla vite prima che anche il mio finisse in acqua.

Pochi secondi dopo, sparai una nutrita raffica contro l'altro Zero che virò verso Choiseul, un'isola vicina in mani nemiche, sprovvista di campo.

Pensai che l'apparecchio avesse subito danni e il pilota tentasse di atterrare il più vicino possibile a Choiseul.

Ma non avevo abbastanza carburante da seguirlo per controllare il mio sospetto.

E non riuscivo più a rintracciare neanche il Corsair macchiato d'olio.

Non potevo aiutarlo, ma credo che fosse Bob Ewing che non tornò dalla missione.

Una cosa era certa, quel Corsair lento, crivellato di proiettili non poteva andare molto lontano.

Quella prima giornata della nuova squadriglia era stata molto pesante.

Mi accorsi all'improvviso che l'indicatore di livello della benzina tendeva verso lo zero. Diminuii ancora il consumo di carburante e raggiunsi il campo di Munda, o meglio i margini del campo e stavo per entrarvi quando il motore si spense di colpo.

I serbatoi erano vuoti.

Gli armieri vennero a ricaricare l'aereo e mi informarono che mi restavano soltanto trenta caricatori calibro 12,7.

Ero tornato proprio in tempo.

Forse sbagliavo pensando che tutti i giorni sarebbero stati come quello.

Ma quel giorno, con cinque apparecchi abbattuti, doveva rimanere il migliore che mai mi fosse capitato in combattimento.

Sembrava che la guerra l'avessimo vinta noi in quel momento.

La lentezza con la quale arrivavano le nuove squadriglie dagli Stati Uniti e la fiducia del colonnello Sanderson nella mia capacita, più una certa dose di bluff, erano gli ingredienti necessari che dettero vita alla mia squadriglia.

Avevano approvato un'operazione a credito: apparecchi, piloti, e perfino il numero della squadriglia, 214, tutto in prestito.

Ricordo vagamente quella notte, un quartetto composto da Moe Fisher, Moon Mullin, George Ashmun e Bruce Matheson che cantavano in coro sulla branda vicino alla mia. In quel momento il domani, l'avvenire significavano ben poco per me.

Neanche la possibilità di un risveglio penoso mi preoccupava e così ingoiai un buona quantità di brandy, gentilmente concessoci da Tim Ream, il nostro medico.

Il brandy ed io ce ne andammo per i fatti nostri.

Sandy non poteva immaginare che la nostra prima missione sarebbe riuscita così bene, no?

 

L'asso della bottiglia

Gregory "pappy" Boyington

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

pappy_10.jpg

L'alba filtrava dalle finestrelle della baracca Dallas e potevo dormire ancora un poco, volevo riaddormentarmi, chiudere fuori il mondo ancora per un poco, ma non potevo.

Avevo troppi problemi.

Prima di tutt dovevo riunire i ragazzi e insegnar loro alcune cose che non erano state eseguite come intendevo io.

Mentre indossavo la divisa da fatica, giacca e calzoni, pensavo a quel che avrei dovuto spiegare ai piloti.

La divisa, un affare di cotone verde, era l'indumento più comodo che si potesse indossare, dopo che l'avevano lavato un paio di volte, e comodissimo da togliersi di dosso, se si finiva in mare per un ammaraggio forzato.

La prima persona che incontrai quel mattino fu il maggiore Stanley Bailey, il mio aiutante.

Stan era stato promosso maggiore da poco e ne andava fierissimo.

Sono sicuro che lucidava ogni giorno le foglie d'oro.

Ed ecco Stan, tutto vestito in cachi, stirato e in ordine e col berretto che ben pochi tra noi si davano la pena di portare.

Quando notai che aveva anche un piccolo frustino, credetti per un attimo che si trattasse di un'allucinazione, ma no, non lo era.

Sembrava che Stan avesse aspettato soltanto di diventare maggiore, per poter portarsi dietro il frustino.

Stan era un bravo ragazzo e un buon pilota, un po' ingenuo, il tipo di uomo sincero con il quale ci si può divertire.

Gli altri piloti della squadriglia lo ricordavano da Pensacola, dove insegnava volo strumentale dopo il brevetto ottenuto alla scuola di pilotaggio.

Quando si agitava per qualche ragione, i ragazzi della squadriglia, dicevano:

«Calma, maggiore.

Basta ricordare: bussola, manetta e velocità ».

Moon Mullin, ufficiale addetto ai voli, chiamò i piloti alle nove per una riunione.

Le facce che mi circondarono erano quelle di giovani allegri e mattacchioni, non quelle che si vedono in tutti i film di guerra.

Incominciai.

« Prima dei complimenti e delle critiche, c'e qualcosa che dobbiamo decidere immediatamente.

Bisogna scegliere un nome per la squadriglia, un nome che si possa stampare. »

«E come sarebbe, Gramps?»

«Boyington's Bastards non va.

Prima di tutto, una squadriglia non deve portare il nome di una persona.

In secondo luogo, ieri sera un corrispondente mi ha detto che in patria non lo stampano.»

Tutti si misero a discutere e a dare suggerimenti:

« Outcasts? »

«Forgotten Freddies?»

«Bold Bums?»

«Ma vadano al diavolo! Faremo tali cose che dovranno stamparlo per forza.»

E così tornammo al punto di partenza.

«No, Gramps, ci abbiamo pensato, ne abbiamo trovati anche altri, ma a noi piace il nome che avevamo già.

E poi ci hanno trattati come bastardi, va benissimo. »

Potevo rispondere, ma non dissi niente, perchè temevo che mi ridessero in faccia.

Fin dall'infanzia, i rumori dei treni e dei motori di vario tipo, in molte occasioni mi avevano cullato e il ricordo di quei sogni ad occhi aperti è ancora piacevolissimo.

La canzone preferita della mia infanzia era:

Baa, Baa, Blacksheep. «Bee, bee, Pecora Nera, hai della lana? SI, signore, ne ho tre sacchi pieni.»

E cosi dissi:

«Sentite, ho un'idea! Qualcosa che si possa usare tra la gente bene educata.

Qualcosa che la società abbia già accettato ».

« Okay, fuori, Gramps.»

«Sentite un po'. Black Sheep. Tutti sanno che vuol dire la stessa cosa di bastardi.

Ma non ha un significato offensivo e Black Sheep lo possono stampare. »

«Cribbio, ci piace, Gramps.

Possiamo inventare uno stemma bastardo, come facevano in Inghilterra.

Lo useremo come insegna.»

Passarono molti giorni prima che i ragazzi riuscissero a trovare tutti gli elementi necessari per disegnare questo stemma.

Qualcuno spiegò che lo stemma del bastardo andava disegnato alla rovescia, diversamente dal legittimo.

Disegnammo il nostro così.

Doveva esserci anche una pecora nera, ma non riuscimmo a trovare un disegno per copiarla.

Finalmente trovammo una specie di artista, un sergente che promise di disegnarla.

Quando il disegno arrivò, tutti ne furono entusiasti ed era l'ideale, la pecora nera più nera e vilipesa che mai si fosse vista.

Aveva impiegato tanto tempo per eseguire il disegno, che volevo una spiegazione dal sergente.

«Da dove diavolo l'hai copiata?»

« Ho cercato dappertutto e stavo per rinunciare, quando ho trovato un disegno in una rivista.»

Il sergente mi porse la pagina spiegazzata e scoppiai a ridere.

Era una vignetta con due soldati americani a quattro gambe, mimetizzati con pelli di pecora.

Uno dei due, con la pelle nera, guardava un montone che si avvicinava al branco nel quale stavano nascosti e diceva:

«Senti, Joe, non credo proprio che ci starò ».

Insomma, la brutta pecora nera disegnata dal sergente, messa in quella posizione, e il nome Black Sheep rimasero.

E noi ci dedicammo agli affari.

Link al commento
Condividi su altri siti

mkrejlacey2dj5.jpg

Sgt. James Lacey

Il Pilota della caccia britannica che abbia raccolto il maggior numero di vittorie nella battaglia d'Inghilterra è James Harry « Ginger» Lacey, dello Yorkshire, un tipo con i capelli rossi e la voce bassa.

Fu uno di quegli immortali « pochi » che, nell' estate del 1940, combatterono per ottenere la vittoria sulla Luftwaffe e che si conquistarono il cuore dell'intero mondo libero.

Lacey, quale sergente pilota della riserva, era stato chiamato in servizio attivo fin dall'inizio della guerra, spedito in Francia nel giorno stesso in cui era cominciata l'offensiva tedesca in occidente, il 10 maggio, e aveva abbattuto cinque velivoli nemici, tre dei quali sul fronte importantissimo di Sedan, nel breve periodo di tempo durante il quale le forze britanniche erano rimaste nel continente.

Rientrato in patria aveva prestato servizio nella zona a sud di Londra, cioè nella prima linea, dal principio fino alla fine della battaglia d' Inghilterra.

Dopo un tale inizio, nel 1940, l'attività aerea era alquanto diminuita, ma Lacey rimase ugualmente in attività di volo sulla Manica fino al luglio del 1941, aggiungendo altre vittime al suo totale.

Da quel momento in poi, fino al termine della guerra, aveva prestato servizio presso le scuole di addestramento, in vari comandi e poi in Estremo Oriente, avendo cosi poche possibilità di abbattere altri nemici.

Nonostante questo, alla fine della guerra le sue 28 vittorie lo classificavano uno dei più grandi vincitori tra piloti della RAF.

Lacey, figlio di un commerciante di bestiame dello Yorkshire, aveva imparato a volare prima di avere vent'anni.

La sua immaginazione era rimasta colpita, per la prima volta, quando i piloti della RAF avevano definitivamente vinto la Coppa Schneider assicurandola all'Inghilterra, ma i suoi genitori lo avevano gentilmente dissuaso dal dedicarsi al volo.

Suo padre era morto nel 1933, nel momento della massima depressione economica del paese, quando lui stava ancora facendo il tirocinio di farmacia e aveva altri due anni da lavorare.

Nel 1936, dopo aver terminato i tre anni di tirocinio, fu finalmente libero di arruolarsi nella Riserva aeronautica, fu classificato diciannovesimo e la guerra era distante soltanto tre anni.

L'imparare a volare comportava sempre il rischio di essere esonerato dal pilotaggio per inettitudine: perciò non aveva detto a nessuno che stava prendendo lezioni;

piuttosto riservato, secondo la tradizione inglese, sapeva che, se non gli fosse andata bene, avrebbe avuto meno spiegazioni da dare.

Però, fin dal suo primo inizio, con altri ventinove giovani allievi a Scone nella Scozia, ebbe ben poche possibilità di essere rimandato perchè l'istruttore, Nick Lawson, lo aveva subito classificato oltre la media:

fu, infatti, il primo del suo corso a decollare.

 

Dopo sei settimane di istruzione e aver compiuto sessantacinque are di vola terminando cosi, con pieno successo, il corso di pilotaggio, ricevette il brevetto di pilota;

quello era il primo corso di sottufficiali che veniva fatto per la Riserva della RAF e, secondo i programmi della stessa Aeronautica, Lacey fu rimandato a casa con l'obbligo di continuare gli allenamenti durante il fine di settimana.

Fu soltanto allora che gli fecero sapere che aveva frequentato il corso di volo e ottenuto il brevetto di pilota.

Il giovane, nonostante che avesse altri lavori o occupazioni in cui impegnarsi durante le giornate, non mancò quasi mai di recarsi al vicino aeroporto di Brough;

si era dedicato al volo con tutta la sua passione ed era felice del cameratismo che si stava creando con altri piloti, originato dalla comunanza di avventure e di rischi che insieme correvano.

 

mkrejlacey10dx7.jpg

Dopo esser passato per il Tiger Moth aveva cominciato a volare sul Blackburn B 25.

Poi, a Brough, arrivò lo Hawker Hart che aveva una velocità di quasi duecento miglia orari, poteva salire a oltre seimila metri (Lacey non aveva mai passato i tremila) e pesava il doppio del B 25;

il giovane fu uno dei due primi piloti della riserva a decollarvi, dopo di che vi volo più che potè, giungendo finanche a fare otto ore di volo al giorno, anche se non tutte con lo Hart.

 

mkrejlacey12gg1.jpg

Dato che volava sempre e che aveva doti naturali per fare il pilota, divenne ben presto tanto abile da poter essere mandato a frequentare un corso per istruttore di volo, presso il vicino aeroporto di Grimsby.

Dopo aver terminato, con pieno successo, fece domanda per essere assunto quale istruttore dall'Aeroclub dello Yorkshire, dove fu accettato.

Si era nel 1938 e soltanto un anno li separava dalla guerra, anno che Lacey impiegò a istruire allievi, a volare per conto proprio o di terzi, cercando di stare per aria quanto più poteva.

In quel periodo la RAF invitò tutti i piloti della riserva, che avessero compiuto almeno duecentocinquanta ore di volo, a passare un periodo di sei settimane presso un gruppo regolare;

l'invito giunse a Lacey verso la fine dell'anno e subito inoltrò la domanda che venne accolta:

aveva però messo come condizione di essere destinato a un gruppo di monomotori dislocato nelle zone meridionali, in particolare al 1° Gruppo di Tangmere.

Nel gennaio del 1939 si presentava quindi a Tangmere dove, per cominciare, prese a volare sullo Hawker Fury, che aveva una velocità massima di duecentoquaranta miglia orarie;

qualche giorno dopo atterrava su quell'aeroporto un nuovo caccia, lo Hawker Hurricane, che attirava l'ammirata attenzione di tutti.

Quando Lacey lo esaminò, visto che pesava il doppio del Fury del quale era pure più lungo e con un'apertura alare maggiore di tre metri, pensò dentro di se che non avrebbe mai potuto volarvi: era un'idea che, durante la guerra, doveva passare per la mente di molti altri piloti, anche se perfettamente addestrati.

Quelli però che se n'erano impratichiti lo incoraggiarono a tentare, infondendogli fiducia; imparò in breve l'uso degli strumenti e degli impianti di bordo poi, alla fine, vi decollò.

Ne rimase così entusiasta che al termine delle sei settimane di addestramento, al momento di salutare i piloti del 1° Gruppo e lo stesso Hurricane per tornarsene nella Yorkshire, si sentiva molto addolorato.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

Mmmm..... Bel Post Dave (Come al solito), proprio in merito all'asso "Ginger" Lacey voglio segnalare questo libro molto completo sulla vita operativa del pilota! ;)

 

Ginger Lacey, fighter pilot (Battle of Britain)

 

a2b99833e7a05ed20be52110._AA240_.L.jpg

 

Book Description

Who shot down more enemy aircraft in the Battle of Britain than any other fighter pilot? Sgt. Pilot J. H. Lacey. Who shot down the Heinkel 111 which had just bombed Buckingham Palace? Ginger Lacey again. Yet Ginger Lacey was almost unknown outside the RAF because at that time the papers seldom referred to him by name and because his natural modesty made him shun the limelight. He went on to serve as an instructor work on airborne weapons development and command a famous fighter squadron in the Far East. Unorthodox autocratic in his command but resentful of unreasonable interference from those above him Ginger Lacey was a slim pale boyish-looking man with a fantastic gift for leadership sharp eyes bravery and an innate sense of timing. He died in 1989.

Modificato da Blue Sky
Link al commento
Condividi su altri siti

mkrejlacey3mg4.jpg

Il 2 settembre 1939, il giorno prima che l'Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania, quello successivo all'invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, Lacey e altri piloti della riserva ricevettero l'odine di presentarsi al Town Centre di Hull;

qui gli venne detto di essere stato destinato al 501° Gruppo (contea di Gloucester) dislocato a Filton, presso Bristol.

Arrivato a questa destinazione, il cui reparto di volo aveva in dotazione anche gli Hurricane, Lacey si rese conto che il volare in quella zona non gli ispirava alcuna simpatia perchè il servizio di volo consisteva, principalmente, nell'eseguire pattugliamenti antisommergibili sul canale di Bristol.

Tre mesi dopo il 501° Gruppo veniva trasferito a Tangmere;

anche qui le case procedevano con una calma sorprendente, nonostante che Lacey effettuasse diversi voli notturni per la protezione di convogli.

Passarono pochi mesi e, finalmente, nel maggio del 1940 lui e il 501° vennero travolti nel vortice degli avvenimenti, divenuti di colpo violenti e rapidi.

Nello stesso giorno in cui la Germania cominciava il suo attacco in occidente la RAF aveva dislocato in Francia sei gruppi da caccia, che vennero suddivisi assegnandone due alla Forza aerea avanzata di attacco mentre gli altri quattro erano destinati al Corpo di spedizione britannico.

Il 10 maggio altri sei gruppi furono spediti nel continente;

tre vennero destinati alla Forza di attacco e gli altri tre al corpo di spedizione: Lacey, con il 501°, fu compreso nei primi e, nel pomeriggio dell'undici maggio il gruppo si era stabilito a Betheniville, presso Reims, dove doveva rimanere soltanto per poco.

La rapida avanzata tedesca buttò all'aria tutti i piani degli Alleati e mise in movimento i reparti.

Già Lacey aveva dato buone prove; aveva impegnato numerosi combattimenti nonostante che si trovasse tra alleati moralmente depressi, in piena disfatta e nel caos che regnava da tutte le parti.

Aveva abbattuto due velivoli nemici, tra i quali uno dei famosi Me 109.

Anche lui era stato per morire quando dovette atterrare fuori campo col velivolo danneggiato:

fece una cappottata che lo intrappolò nell'abitacolo rovesciato contro il terreno, una specie di palude sulla quale aveva tentato di posarsi nella zona di Le Mans.

 

 

 

mkrejlacey5ed1.jpg

Finalmente, verso la fine di giugno, il 501° rientrò in Inghilterra con altri reparti della RAF e più di trecentomila evacuati da Dunkerque.

La Francia era stata stroncata, e si era arresa, in meno di cinquanta giorni.

Lacey rimase per poco tempo a Croydon, poi a Middle Wallop nello Hampshire;

Il 501° fu quindi dislocato a Gravesend, all'inizio della battaglia d'Inghilterra. Il 2 luglio i porti sulla Manica e i convogli furono duramente attaccati da un gran numero di velivoli;

questi attacchi continuarono regolarmente mentre, di notte, le città di tutte le isole britanniche subivano incursioni.

L'otto agosto la pressione nemica aumento ancora e i più gravi attacchi furono portati nei giorni 11 e 12;

fu però il 13 (secondo i resoconti tedeschi quello doveva essere il primo giorno della battaglia) che la Luftwaffe scatena tutte le sue forze mandando in volo millequattrocentottantacinque velivoli in una serie di attacchi coordinati. Il 15 l'Aviazione tedesca effettuò un numero ancora maggiore di voli perchè oltre a quelli della 2a e 3a Luftflotten, che provenivano dalla Manica, giunsero attacchi anche dalla 5a Luftflotte, dislocata in Scandinavia.

I caccia della RAF inflissero ai tedeschi notevoli perdite (settantacinque il 15 agosto), nei primi giorni della battaglia; dopo, le tattiche della Luftwaffe cambiarono e i bombardieri furono protetti da grandi formazioni di caccia che volavano a loro stretto contatto, il che permise agli incursori di ottenere risultati migliori.

Le formazioni nemiche penetravano nelle difese britanniche, anche se il prezzo che dovevano pagare era molto alto e il logorio dei mezzi e del personale cominciava a farsi sentire da ambedue le parti.

Poi, le tattiche tedesche furono cambiate ancora una volta e Londra divenne il loro obiettivo principale;

questo, visto a distanza, fu uno degli errori commessi dall'Alto comando tedesco nel corso della battaglia.

Mentre le incursioni su Londra erano spettacolari e causavano danni, non ne causavano alcuno alle installazioni e al sistema di comunicazioni del Comando caccia, al quale venne così concesso un periodo di respiro.

Il primo, e più devastante attacco diurno portato sulla capitale fu quello del 7 settembre;

a questo parteciparono tutti i bombardieri e i caccia disponibili nella Luftwaffe; poi sopraggiunse il cattivo tempo e soltanto il 15 i tedeschi poterono sferrare un altro attacco totale.

Questo giorno, il 15 settembre, e stato poi scelto come quello commemorativo della vittoria della battaglia 'per la valorosa difesa fatta dalla RAF;

le perdite tedesche erano state forti e furono questi risultati, come quelli di altre giornate campali, che convinsero i capi della Luftwaffe che l'invasione dell'Inghilterra non avrebbe potuto aver luogo per diverso tempo ancora e che la RAF era un nemico molto difficile da soggiogare, sempre ammesso che la Luftwaffe fosse capace di farlo.

Il 15 i tedeschi persero cinquantasei velivoli e molti altri furono danneggiati: due giorni dopo Hitler rimandava l' operazione «Leone Marino», cioè l'invasione dell'Inghilterra.

Fu il 15 settembre, come adesso vedremo, che Ginger Lacey si comportò meglio del suo solito.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

i344044_mkreJLacey16.jpg

Prima ancora che il cielo del Surrey orientale di quella domenica mattina cominciasse a rischiararsi, i motoristi misero in moto e controllarono i motori Merlin del 501° Gruppo di Hurricane.

Il loro rombare ruppe la quiete della campagna per un raggio di alcune miglia; la giornata di Lacey però non ebbe inizio fino a quando un caporale non entrò in camera sua, qualche tempo dopo, interrompendo il suo sonno e dicendogli: « Firmi, per favore », mentre gli tendeva lo stampato che lo avrebbe esonerato da qualunque responsabilità:

dopo che avesse firmato, se il pilota ricadeva preda del sonno erano affari suoi.

Lacey rotolò fuori dal letto, firmò e vide che altri piloti già stavano buttandosi in fretta verso il bagno.

Aspettava sempre che quella corsa avesse termine;

non faceva colazione e rimandava le abluzioni fino a che gli altri avessero finito e si fossero recati a mensa.

Quando se ne furono andati si lavo e si vestì con un'uniforme leggera estiva, da campo, sui cui pantaloni infilò un paio di lucidi stivali di cuoio nero.

Scese mentre gli altri finivano di far colazione e tutti salirono a bordo di una Ford 1500, ferma davanti all'ingresso principale.

Quando l'auto si mise in moto dirigendosi verso la baracca di decentramento del 501°, dove aveva sede l'ufficio operazioni, qualcuno chiese l' ora:

erano le 5.15.

La macchina si fermò davanti a una costruzione di legno situata nella zona occidentale dell'aeroporto e i piloti s'infilarono nella sala d'attesa del gruppo. All'interno erano sistemate comode poltrone , una lavagna e alcuni tavoli per carteggiare.

Su una tavola messa accanto alla porta d'ingresso c'era un telefono nero da campo con accanto un grammofono, oltre a poche altre cose.

Indumenti da volo e giacche erano buttate qua e la sulle poltrone;

Lacey andò alla lavagna, sulla quale il maggiore H. Hogan aveva scritto a gesso il nome di quelli che avrebbero dovuto volare nella prima azione e la posizione che avrebbero dovuto prendere nella formazione.

Lacey era il Tre Rosso nella prima pattuglia, il che significava che sarebbe stato un gregario di Hogan;

la pattuglia di sei, cioè metà gruppo, sarebbe stata divisa in due sezioni, ciascuna di una « V» di tre velivoli (le quattro « V» che costituivano un gruppo erano designate dai colori: rosso, giallo, verde e blu, nell'ordine). Poichè il nominativo radio del gruppo era « Pinetree », Lacey si sarebbe ,chiamato « Pinetree Tre Rosso».

Andò nella Stanzina adiacente alla sala d'attesa, prese la sua « Mae West» gialla, un caschetto di cuoio da volo, un paracadute e ben presto era già a chiacchierare con gli altri piloti.

Il cielo si schiariva verso oriente mentre una leggera luce dava colore all’erba verde del campo e alla vite americana che ricopriva la vecchia casa rossastra; le sagome decise degli Hurricane grigioverdastri con le tre pale delle eliche, ciascuno con accanto un carrellino di batterie per l'avviamento del motore, cominciavano a emergere chiaramente, nell'oscurità che spariva, dalla zona sperimentale occidentale dell'aeroporto.

 

i344050_mkreJLacey1.jpgLacey uscì all'aperto dirigendosi verso uno dei più vicini caccia ad ala bassa: sulla fusoliera, in corrispondenza del grosso radiatore di raffreddamento, erano state dipinte le lettere SD, dell'altezza di un metro e venti;

poi, dopo le lettere distintive del gruppo, ancora più verso la coda, c'era una F più piccola:

Lacey non voleva assolutamente che la F fosse dipinta sull'aeroplano dopo che si era dovuto lanciare diverse volte proprio il giorno successivo a quello in cui era stata pitturata; infatti era solamente tracciata a gesso.

Salutò il personale addetto al velivolo, posò accuratamente il paracadute sul piano orizzontale di coda con le cinghie già pronte per indossarlo velocemente quando, più tardi, sarebbe scattato fuori della baracca per un allarme e salì nel velivolo per aggiustare la lunghezza della pedaliera per mezzo di una ruota dentata situata tra i due pedali.

Sistemò il piano fisso di coda dandogli l'angolazione richiesta per il decollo e dette un'occhiata nella scatola del collimatore per assicurarsi che vi fosse una lampadina di ricambio:

queste, che davano la luce che doveva accendere, nel vetro di riflessione messo a quarantacinque gradi, il cerchietto di mira e le righe trasversali, erano piuttosto difficili a trovarsi e Lacey, che faceva sempre il controllo ogni mattina per esser certo di avere la scorta, se ne portava anche qualcun'altra di ricambio in tasca.

Fatto questo controllo appese il casco sulla destra del collimatore e allacciò al regolatore di afflusso il tubo di gomma della maschera dell’ossigeno, che ne sporgeva, avvitandone il beccuccio finchè non fu ben fissato.

Infilò quindi le spine degli auricolari e del microfono nella presa situata sulla piantana, a destra dell'abitacolo, perchè la radio fosse già pronta all'uso:

quel lavoro era sempre una causa di guai, se fatto all'ultimo momento, perchè a volte dava origine a perdite di comunicazioni.

Fatto tutto ciò firmò il libretto dell'aeroplano, dopo che il personale responsabile dei vari apparati lo aveva già firmato:

con questo intendeva garantire di essere soddisfatto del come il velivolo era stato preparato per il volo e che lo riconosceva efficiente al combattimento.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

mkre_j11.jpg

Non c'era ancora attività di sorta; ormai sicuro che tutto fosse in ordine, Lacey si mise a chiacchierare con gli specialisti su quello che era accaduto nella notte precedente.

Era, di solito, l'argomento di ogni mattina.

Ormai il cielo era pieno di luce e allora se ne tornò nella baracca;

i piloti che erano in lista per il primo volo, e anche quelli che non lo erano, stavano cercando di riposare;

Questi ultimi erano quelli più facilmente individuabili perchè riuscivano a dormire.

Lacey si sprofondò in una poltrona tentando anche lui di dormire, ma senza riuscirvi.

I minuti passarono, poi un' ora e poi un'altra;

la mattina stava trascorrendo tranquillamente;

giunse il momento dello spuntino e venne servito il te.

Pareva che il 15 settembre dovesse risultare un giorno tranquillo.

Dopo la breve interruzione riprende l'attesa.

Qualche nuvola comincia a formarsi al di sopra dell'aeroporto, il che toglie ai raggi del sole la forza di farsi sentire sulla pelle delicata, e in qualche punto bruciacchiata, di Lacey.

I minuti passano e le lancette si spostano di una buona mezz'ora dalle 11.30 mentre nella baracca cominciano a notarsi occhiate quasi ,casuali e una certa controllata tensione.

Il telefono!

Qualcuno che è vicino al tavolino afferra il microfono e tutti gli occhi si fissano su di lui;

fa segno di muoversi: Allarme!

Tutti si slanciano immediatamente;

Lacey esce dalla porta gridando: «In azione! »

 

Lo specialista, poco lontano, s'infila nell'abitacolo mentre un altro stabilisce i contatti dal carrellino degli accumulatori;

tutto il personale di terra addetto agli altri velivoli e già in piena attività.

I piloti non sanno ancora contro quale forza dovranno scontrarsi: ma lo sapranno tra poco, per radio, con tutti i particolari del caso.

Lacey arriva proprio mentre il grosso Rolls-Merlin comincia a muoversi lanciando qualche sbuffo di fumo dagli scarichi e facendo girare l'elica; agguanta il paracadute, allaccia la mezza cintura di sinistra alla chiusura di sicurezza tenendola contro lo stomaco mentre s'infila le cinghie delle spalle e delle gambe che poi fissa anch'esse, serrandone la sicura;

salta sull'ala sinistra mentre il motorista esce dal velivolo rimanendogli accanto sull'ala destra, s'introduce nell'abitacolo e s'infila il casco in tanto che lo specialista gli passa le cinghie sulle spalle;

allora le fissa alla cintura ventrale e mette a posto ,la spina di sicurezza. Ormai pronto da un'occhiata di lato verso il comandante del gruppo degli Hurricane:anche lui è pronto;

il motorista di Lacey gli batte una mano sulla spalla, come fa sempre, urlandogli «buona fortuna» e scende dall'ala con un balzo.

 

mkre_j12.jpg

Il caccia di Hogan sta già rullando;

Lacey spinge la manetta in avanti con la sinistra, molla i freni e, tra il rombare del motore e il vento dell'elica, l’ Hurricane comincia a muoversi.

Le maniche della combinazione di volo si scuotono al soffio delle pale e gli specialisti rimangono a guardarli mentre i velivoli rullano rumorosamente, sempre più veloci.

Lacey va a mettersi accanto all'ala di Hogan e questi comincia a dar motore in pieno;

i caccia decollano direttamente dal posto di parcheggio e lui tiene gli occhi fissi sul comandante, che e a una decina di metri di distanza, sulla destra, più in avanti.

Con rapide occhiate controlla gli strumenti... la temperatura del motore, il numero di giri, la pressione dell’olio, la pressione d'alimentazione, la leva di comando del radiatore aperta ... tutto e in regola.

L’ Hurricane prende velocità e la potenza del Merlin lo spinge sempre più velocemente;

i sobbalzi sul terreno si fanno più leggeri ... le ruote si staccano dal suolo; Lacey tira leggermente la leva e chiude un po' la manetta per evitare inutili sovraccarichi al motore:

la pattuglia del maggiore, con « Pinetree Tre Rosso », è in volo.

 

 

mkre_j10.jpg

I tre Hurricane iniziano una lenta virata, cominciando a salire;

Lacey fa rientrare il carrello, alza la levetta rossa sulla destra del cruscotto per far rientrare anche i flap e tira indietro la leva nera sulla piantana dell'abitacolo per chiudere l'apertura d'aria del radiatore:

tutto questo senza distogliere gli occhi dal velivolo di Hogan nemmeno per un secondo.

Lui è « Due Rosso» sono molto vicini al capo-pattuglia;

le altre tre « V », man mano che decollano, tagliano la strada al comandante con virate sempre più strette e ben presto le due squadriglie sono riunite in formazione e stanno facendo quota.

Negli auricolari si sente la voce di Hogan:

« Sezione rossa, controlli ».

« Due Rosso», risponde una voce;

« Tre Rosso», dice Lacey.

Poi tutti i piloti delle altre sezioni del gruppo si fanno sentire:

gialla, verde, blu.

Cominciano a giungere le informazioni fondamentali dal controllore a terra:

« Comandante Pinetree, rotta uno-tre-zero, ripeto uno-tre-zero.

Quota quarantacinque.

Vediamo più di cinquanta nemici per voi in arrivo tra Dungeness e Ramsgate».

Hogan accusa ricevuto e un fremito di eccitazione percorre il gruppo mentre si dirige verso il cielo parzialmente ,coperto di nuvole delle zone sud-orientali.

Lacey accende il collimatore e un cerchietto color arancio compare in mezzo al vetro inclinato, indicandogli la correzione da dare alla mira ogni cento miglia di velocità del bersaglio (il doppio per un velivolo che volasse perpendicolarmente a duecento miglia orarie).

Lo spazio tra le due sbarrette può essere aggiustato secondo l'apertura alare del velivolo su cui sparare;

un velivolo è a tiro, quando gli sia in coda, se le due estremità delle ali toccano le sbarrette laterali.

Lacey ha fatto collimare le sue otto Browning a una distanza di centocinquanta metri, cento metri più vicino dell norma prescritta e i suoi nastri sono stati fatti secondo le sue richieste, cioè una De Wilde perforante-incendiaria per una normale, mentre la regola sarebbe di una ogni cinque;

tali pallottole speciali sono quell che il suo armiere, il sergente « Dapper» Green, definisce come munizioni « sporche» perchè rovinano molto le canne, ma Lacey non si preoccupa di questo particolare;

Green,che è un suo ammiratore, preleva di nascosto le De Wilde supplementari e, quando controlla le armi dopo ogni combattimento, gli vien quasi da piangere nel vedere come sono ridotte.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

mkre_j13.jpg

I caccia salgono quanto più possono perchè sembra che il nemico sia molto in quota ...

il controllore ha indicato a Hogan l'altezza di 4.500 metri, ma la parola

« quarantacinque »che vorrebbe indicarla significa invece, in codice, settemilacinquecento:

la differenza è automaticamente aggiunta alle comunicazioni convenzionali del controllore.

Con questo si spera di poter tenere nascosta ai tedeschi, che ascoltano e interpretano sempre le ,conversazioni radio della RAF, la vera quota alla quale voleranno i cacciatori della difesa;

se questi riusciranno a prendere di sorpresa, dall’alto, i più veloci caccia nemici, ne ritrarranno un notevole vantaggio tattico;

ma non è facile ottenerlo con una partenza su allarme perchè il 109, oltre ad avere un plafond più elevato, ha anche una velocità orizzontale maggiore.

Tutti i piloti scrutano il cielo, davanti e sulle loro teste in cerca della formazione nemica mentre i Rolls-Merlin spingono i caccia inglesi, dalla caratteristica gobba, alla velocità di duecento miglia orarie;

L’ Hurricane, con il suo basso carico alare di centotrentadue chili a metro quadro, supera come doti di salita il suo simile, lo Spitfire che, a sua volta,è invece più veloce; per di più, è anche migliore incassatore di colpi di quest'ultimo.

Ha una velocità massima di circa trecentotrenta miglia orarie, contro le trecentosessantasette dello Spit;

ma Lacey non prova alcuna invidia verso i suoi colleghi ,che volano con questo e che chiama abitualmente « i belli».

Il gruppo sale a duemilacinquecento metri, tremila, sempre diretto a sud-est: Ashford e già in vista, sotto di loro: il nemico può comparire da un momento all'altro ed è ovvio che il gruppo non riuscirà a raggiungere i settemilacinquecento metri prima di arrivare all'intercettazione.

Ecco che il controllore chiama Hogan: nemici di fronte, più alti.

Lacey dà un'occhiata al cielo, davanti a se, ma non vede niente;

ogni pilota, silenzioso e teso, scruta, è in ascolto di eventuali comunicazioni e controlla ancora collimatore e armi.

La quota sale: tremilasettecento, quattromila, quattromilatrecento;

i velivoli salgono ancora al massimo delle possibilità.

Sotto di loro, nei verdi giardini e nelle campagne del Kent e del Sussex è quasi l'ora di colazione.

« Eccoli, ore dodici in alto! »

L'urlo ha l'effetto di una scossa elettrica.

«Attaccare!» risponde Hogan;

Lacey fissa lo sguardo davanti a se... eccoli...

una grossa formazione ... seicento metri più in alto, di fronte:

il nemico ha il vantaggio della quota.

 

mkre_j15.jpg

Le sagome scure diventano sempre più grandi, attimo per attimo.

Che cosa saranno?

Vede bombardieri bimotori e anche puntini più piccoli: Me 109!

Hogan cabra verso di loro per attaccarli di fronte e anche Lacey obbliga il muso del suo Hurricane a sollevarsi, tirando la leva.

Tutto il gruppo aumenta la salita, ma Lacey ha tirato di più e la velocità diminuisce troppo;

le sagome dei velivoli germanici s'ingrandiscono e arrivano addosso, dall'alto. I bombardieri, molto più grandi, sono dei Do 17:

le due formazioni si avvicinano velocemente e Lacey si accorge che passeranno troppo alti su di loro e che Hogan non ce la farà a portare il gruppo a un attacco di muso.

Disperato, Lacey tira ancora la leva e l’ Hurricane sale di più, ma perde velocità: i Do 17 e i Me 109 stanno per superarli e gli intercettori della RAF li mancheranno!

Si, stanno andando incontro a quattrocento miglia orarie, ma i tedeschi hanno effettivamente trecento metri di quota in più e il velivolo di Lacey è quasi in verticale mentre lui tiene gli occhi puntati ,su uno dei Do 17;

lo sta prendendo di mira per sparargli al passaggio e tira la leva in continuazione.

La distanza è di circa seicento metri: troppo lontano?

Il pollice preme il bottone argenteo e le otto Browning cominciano a tuonare, ma il loro rinculo e l'assetto dell’eroplano fanno sentire i loro effetti:

L’ Hurricane trema e Lacey tenta invano, manovrando la leva, di tenerlo sotto controllo.

I comandi non rispondono più, ha perso troppa velocità e non gli riesce di fargli abbassare il muso:

stalla, cade piegandosi sulla destra ed entra in vite.

Mentre precipita verso il suolo deve dimenticare il nemico e cercar di far tornare ubbidiente il suo caccia;

intanto è sbattuto violentemente dentro l'abitacolo dai sussulti dell'avvitamento e dalla rotazione, ma subito dà inizio alla manovra di ricupero:

leva in avanti ... lasciarlo picchiare ... fermarlo di piede.

La velocità comincia ad aumentare e gli sbattimenti diminuiscono;

poi il caccia si ferma, col muso in candela e si mette a correre;

bisogna stare attenti a non superare una certa velocità per non rischiare di perdere un'ala.

Comincia a tirare sulla leva, sempre col motore chiuso, mentre un peso tremendo prende a gravargli sulle spalle spingendolo fortemente contro il seggiolino;

il verde dei prati però sta scorrendo all'indietro e il muso si alza sull'orizzonte. Il velivolo è tornato docile, e il sangue defluisce dal cervello:

poi la forza della tremenda accelerazione centrifuga che ha moltiplicato il suo peso tenendolo pressato contro lo schienale diminuisce e, quando si rimette in volo orizzontale, ha perso millecinquecento metri di quota.

Il nemico e i suoi compagni sono fuori vista.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

hurrsm.jpg

Riprende a salire per tornare al livello iniziale e intanto preme il bottone della radio, proprio dietro la manetta:

«Tre Rosso a comandante rosso. Dove siete?»

Gli arriva la risposta: « Comandante Rosso a Tre Rosso. Proprio su Maidstone. Raggiungici su Maidstone».

Lacey dirige verso nord-ovest per rientrare in formazione, lieto di avere i compagni intorno a se:

un caccia isolato è una facile preda.

Sale rapidamente ... tremilaseicento ... quattromila, quattromilacinquecento; gira la testa da tutte le parti per scrutare bene il cielo, ma non vede nessuno. Non vi sono velivoli;

non dovrebbe essere lontano dal gruppo Pinetree eppure il cielo è vuoto e pacifico.

Ecco pero che davanti ... esattamente davanti a lui, nord-ovest... dei moscerini... che diventano sempre più grandi.

Lacey studia il loro rapido avvicinarsi ... sono dei monomotori ... forse è il 501°.

Eccoli che arrivano e può vedere le ogive delle eliche: gialle!

Sono dei Me 109!

Gli vengono incontro di muso, lo avranno visto?

Deve far qualcosa.

E’ proprio in rotta di collisione con una dozzina di caccia nemici, tutti più veloci di lui.

Istintivamente spinge in avanti la leva e picchia passando sotto di loro;

ma non scapperà via anche se in base a tutte le regole del combattimento dovrebbe farlo.

Invece continua a picchiare prendendo velocità mentre i 109 sono quasi esattamente sulla sua testa.

Il vento di corsa e il rombare del motore aumentano e allora tira la leva decisamente in modo da obbligare il velivolo a rimettersi in verticale:

questa volta ha la velocità che gli serve per evitare lo stallo e l’ Hurricane saetta verso l'alto.

Lacey sta salendo, quasi sotto l'ultimo 109 della formazione, poi rovescia l'aeroplano e arriva, così, esattamente in coda al nemico;

anche lui, ovviamente, ha il corpo in posizione rovesciata, ma le cinghie lo tengono ben saldo al suo posto di pilotaggio e gli occhi non lasciano il Messerschmitt che è davanti a lui.

Centocinquanta metri ottima distanza.

Aveva calcolato esattamente la traiettoria del « looping»;

non aveva mai sparato a un .aeroplano dalla posizione rovescia e il congegno di mira è stato collimato per la caduta delle pallottole da un assetto normale; dovrà tener conto anche di questo e sparare al di sopra del 109.

 

mkre_j16.jpg

Deve fare svelto perchè la velocità diminuisce e il nemico sta tornando alla base a regime di crociera, che è di duecentoquaranta miglia orarie mentre lui ha già smaltito in gran parte la velocità che aveva acquistato e, se lascia passare quell'istante, il 109 può sfuggirgli.

Lo prende di mira attraverso il vetro.

Ecco: fuoco!

Il pollice, puntato verso la terra, preme il bottone e le otto mitragliatrici sputano uno zampillo di perforanti-incendiarie.

Lacey, a testa bassa, guarda l'effetto del suo tiro mentre il tuonare delle armi e le vibrazioni del velivolo si aggiungono alla già strana sensazione di attaccare in volo rovescio.

Ma il tiro è stato compensato bene e il 109 barcolla sotto la valanga di colpi ,che gli si abbattono addosso:

Le De Wilde penetrano nel motore e nel serbatoio della benzina dietro al pilota e in brevi secondi ne esce una fumata nera:

la sorpresa tattica è stata completa.

Il caccia nemico precipita di fianco, abbandonando la formazione, poi s'incendia e si mette in candela.

Finalmente Lacey raddrizza il suo Hurricane e il sangue, che gli era andato alla testa, rientra in circolazione facendogli vedere meglio le sagome degli undici Messerschmitt nero-crociati, davanti a lui, nessuno dei quali si è accorto ne della sua presenza ne della scomparsa del compagno, l'ultimo della fila.

 

Si sposta in coda a un altro 109 che e sulla sinistra e, lavorando di leva e di pedaliera, lo centra nella mira... sono duecentocinquanta metri di distanza:

le ali riempiono quasi completamente la distanza tra le due sbarrette verticali del collimatore, esattamente in mezzo al cerchio giallo.

Fuoco ancora!

Per la terza volta le mitragliatrici dell'ala sputano più di un centinaio di pallottole al secondo, e, anche s'e la raffica non è più perfettamente concentrata a quella distanza, molte ne arrivano addosso al Me 109 staccandogli pezzi di lamiera dalla fusoliera.

 

mkre_j17.jpg

Lacey continua a sparare e altri colpi si aggiungono a quelli andati a segno:

la seconda vittima comincia a lasciarsi alle spalle una scia di vapori biancastri, colpita al radiatore.

Il 109 è finito, senza liquido di raffreddamento il motore Daimler-Benz si surriscalderà eccessivamente.

Lacey abbandona il bottone di sparo; il pilota dovrà lanciarsi, sull'Inghilterra o nella Manica.

Di colpo i fiocchetti neri della Contraerea cominciano a picchiettare il cielo, qualcuno disperatamente vicino.

Proprio in quel momento gli altri dieci nemici rimasti, accortisi alla fine di quell'impudente estraneo, fanno quello che avrebbero dovuto fare fin dall'inizio.

Si suddividono in due pattuglie, virando rispettivamente una metà a sinistra e l'altra a destra per poterlo prendere in mezzo:

se si slancia contro una delle due l'altra lo prenderà alle spalle.

Ormai ha poche munizioni e i nemici hanno il vantaggio della velocità, per di più è certo che l'una o l'altra delle due pattuglie lo attaccherà a sua volta.

Ha ancora qualche colpo disponibile e uno dei 109 è rimasto un po' più indietro:

forse fa appena in tempo a sparargli e poi darsi alla fuga;

è quasi come tentare al gioco.

Piede e leva a sinistra, si butta in una stretta virata per poterlo attaccare mentre la pattuglia che ha sulla destra fa lo stesso nei suoi riguardi;

i piloti nemici possono benissimo scorgere i cerchi blu e rossi sull'estremità delle sue ali e certamente ammirano la tenacia dell'intercettore che avrebbe dovuto ritirarsi dal combattimento e che, anzi, non avrebbe dovuto nemmeno averlo iniziato.

Lacey tira sempre sulla leva, tutto inclinato sulla sinistra e prende di mira il 109: è alla massima distanza e il tempo è prezioso, fuoco!

Per un secondo le otto armi riprendono il loro tuonare, poi la raffica diviene meno tremenda perchè, una dopo l'altra, le mitragliatrici finiscono il munizionamento.

Tutto è silenzio!

 

mkre_j18.jpg

Da ambo le parti vede passarsi intorno delle traccianti:

è in trappola, perchè i 109 che avevano virato a destra lo hanno raggiunto.

Picchia istintivamente, spinge di colpo la leva in avanti e si sente quasi sbattuto fuori dell'aeroplano mentre il muso si abbassa e compare il terreno verso il quale punta a tutto motore.

Per sua fortuna l’ Hurricane ha un veloce inizio nelle picchiate, superiore allo Spit e, come spera Lacey, capace di sfuggire anche al 109.

Ha colto il nemico di sorpresa battendolo sul tempo, la sua velocità aumenta e, tranne che anche l'altro non l'abbia iniziata contemporaneamente, non può raggiungerlo immediatamente: senza contare che ormai i 109 debbono fare i conti con il carburante loro rimasto.

Lacey sta utilizzando l'unico vantaggio che le circostanze gli consentono:

la superiore velocità iniziale della picchiata.

Vede sotto di se una nuvola e vi si dirige per infilarvisi dentro, dove i nemici non potranno inseguirlo.

L'indicatore di velocità continua a salire: trecento, trecentocinquanta, quattrocento! Lacey è arrivato sul banco di nubi guardandosi alle spalle:

vi si tuffa ... poi ne esce al di sotto.

Comincia a richiamare il velivolo sempre controllando il cielo dietro di se;

l’ Hurricane rallenta la picchiata, ormai è a mille metri e nessuno lo segue!

Scende fino a trecento, poi si mette a pelo degli alberi e dirige verso l'aeroporto di Kenley, a nord-ovest.

Poichè il campo è proprio nella direzione opposta a quella delle basi della Luftwaffe è molto probabile che il loro capo non voglia tornare indietro;

forse, non potrebbe nemmeno farlo a causa della scarsezza del carburante.

Così Lacey si sente libero dall'inseguimento, anche se vulnerabile perchè a bassa quota, solo e senza munizioni.

Continua a scrutare attentamente il cielo dietro di se ...

non vi sono velivoli nemici e il caccia solitario continua nella sua corsa a pelo degli alberi.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

Ora può cominciare a rilassarsi;

riconosce località che gli sono familiari e sa che non è lontano da Kenley.

Dichiarerà una vittoria sicura, una probabile e un aereo danneggiato, dopo avere sparato su quattro avversari in tutto;

oggi non è stato nemmeno colpito anche se, dopo l'ultimo attacco, vi è andato molto vicino.

(Lacey aveva dovuto atterrare fuori campo o lanciarsi col paracadute tante volte, negli ultimi tempi; ma quel giorno, dopo l'atterraggio, dovrà soltanto fare pochi passi.) Facendo un po' di quota ogni tanto per dare un'occhiata al paesaggio, corregge la rotta in modo da dirigersi esattamente su Kenley e il verde del grande aeroporto gli appare alla vista come un invitante benvenuto quando entra in circuito per prepararsi all'atterraggio.

Ricevuta l'autorizzazione riduce il motore, abbassa i flap e, appena la velocità e sufficientemente ridotta, abbassa il carrello planando a centoventi miglia orarie; appena si trova ai margini del campo alza un po' il muso e la velocità scende a cento.

Alle 12.35 il caccia, tutto sporco d'olio per colpa del volo rovescio che ha fatto, è a terra e « Pinetree tre Rosso» è a casa sano e salvo.

Frena lentamente poi gira verso il decentramento;

i suoi specialisti lo stanno aspettando e Lacey, col tettuccio aperto, arresta definitivamente l’ Hurricane e chiude la manetta;

il motore è al minimo e allora sposta la leva di contatto dei due magneti che è sull'alto del cruscotto e il Rolls-Merlin tace di colpo.

Si toglie il casco ed esce dall'abitacolo cominciando a rispondere alle domande.

Deve raccontare tutta la storia: un aereo sicuramente abbattuto, uno probabile, un terzo attaccato e una raffica a un bombardiere !

Le congratulazioni piovono da tutte le parti dal personale che gli si era raccolto intorno;

intanto giunge l'autobotte del rifornimento e il motorista comincia il riempimento dei serbatoi di carburante.

Lacey se ne va alla baracca del decentramento dove si sono riuniti i piloti, rientrati dall'azione, per discutere sul volo effettuato.

Dopo un po' di tempo l'ufficiale che conduce l'interrogatorio chiede, come per caso:

« Nessuno ha niente da riferire? »

Lacey è l'unico che abbia qualcosa da raccontare e non lo aveva nemmeno detto, fino a quel momento!

Scrive la sua relazione sul combattimento e poi va a far colazione.

Dopo mangiato torna ai velivoli ... e si ritrova in servizio di allarme!

Prende una comoda poltrona e cerca di dormire un po' anche se ha il pensiero fisso al caccia nemico al quale sparava in volo rovescio.

 

********

Nel tardo pomeriggio il gruppo venne mandato in volo di nuovo;

ancora una volta Lacey andò all'attacco, intercettando una formazione di bombardieri. I 109 di scorta si buttarono contro gli Hurricane prima ,che potessero arrivare a tiro dei « pesanti» e, in un combattimento con uno di essi, Lacey gli staccò di netto la coda con una raffica ben piazzata dal traverso.

Poco dopo si scagliava contro uno dei bombardieri, uno He 111, abbattendolo:

era la sua seconda vittoria del pomeriggio: nello stesso giorno aveva distrutto, successivamente, un Me 109 al mattino e forse un’ altro adesso vi aggiungeva due abbattimenti in questo secondo volo!

Quattro vittorie in un giorno.

 

********

Lacey venne abbattuto di nuovo il 17 settembre, su Ashford, salvandosi la vita ancora una volta col paracadute.

Il 27 abbattè un altro 109, il che portò il totale delle sue vittorie a diciannove (poco dopo venne decorato con 1l Medaglia della Distinzione di Volo, DFM).

In ottobre abbattè altri tre 109 e fu costretto a un atterraggio di fortuna scampando la vita, anche questa volta, per un pelo.

Dopo questo mese le cose si calmarono e, in riconoscimento dei suoi meriti e della sua abilità, Lacey venne promosso ufficiale, nel gennaio successivo.

Quando nell'estate del 1941 ricominciarono le azioni della caccia, Lacey era sempre con il 501°, adesso col grado di sottotenente, impegnato nell'esecuzione di crociere sulla Francia.

In quel periodo abbatte altri tre Me 109 prima di essere trasferito a una scuola di addestramento in qualità di istruttore:

era un'abitudine della RAF quella di togliere dalla prima linea i cacciatori che avevano conseguito notevoli risultati o avevano prestato a lungo servizio di combattimento.

Nel 1942 aveva appena cominciato un altro ciclo operativo con il 602° Gruppo, danneggiando tre FW 190, quando venne trasferito in un ufficio e, nel 1943, inviato in India.

Fu solamente verso la fine della guerra che tornò in operazioni, al comando del 17° Gruppo della Birmania.

Il 19 febbraio 1945 si scontrò con un Oscar II, un formidabile caccia giapponese, abbattendolo e raggiungendo così le ventotto vittorie confermate:

quella fu la sua ultima vittima.

Dopo la guerra rimase in servizio in aviazione e quando gli feci visita a Hull, era sul punto di andare in pensione dopo aver fatto tutta la sua carriera nella RAF;

Quasi nessuno sa, quando si mette a parlare con lui, che si tratta del più grande vincitore della battaglia d'Inghilterra ancora in vita e questo atteggiamento calmo e tranquillo si riscontra in molti dei più grandi piloti della guerra.

Parla ,con nostalgia dell’ Hurricane del quale dice:

« Era un insieme di cose ,che non avevano importanza: lei mi capisce;

potevano sparargli contro senza mai colpire qualcosa di vitale.

Ma picchiava bene e saliva bene.

Poteva stare in volo anche se era ridotto a pezzi ... »

La ferma tenacia e la calma di Ginger Lacey rappresentavano l’essenza dello spirito britannico che vinse la battaglia d'Inghilterra, ma lui aveva qualcosa di più e forse non c'erano altri piloti nella RAF che fossero cosi sicuri in volo e ugualmente perfetti nelle acrobazie;

queste altissime capacità permisero a Lacey di divenire anche un magnifico tiratore. Ci si può domandare quanti nemici avrebbe abbattuto se fosse rimasto più a lungo in linea, dato che alla fine del 1940 aveva già più di venti vittorie.

 

Sfide nei Cieli

Edward H. Sims

Link al commento
Condividi su altri siti

i346124_miknowotnyF1.jpg

Walter Nowotny era nato il 7 dicembre 1920 a Cmund, una ridente cittadina austriaca sul Danubio dove trascorse gli anni della sua infanzia fino al giorno in cui il padre, impiegato delle ferrovie, per motivi di lavoro si trasferì a Waidhofen.

In quest' ultima località il piccolo Walter frequentò il ginnasio ed il liceo giungendo felicemente alla maturità.

Non ancora diciottenne, Walter Nowotny si arruolò nella Luftwaffe come allievo ufficiale pilota.

L' aspirazione del giovane era quella di diventare pilota di «Stuka», ma dopo aver conseguito brillantemente il brevetto militare il 1 ° ottobre 1939, il suo istruttore alla scuola di volo.,viste le sue doti. naturali,pensò bene di farlo assegnare alla caccia.

Egli fu perciò inviato all'Erganzungs-gruppe Merseburg e successivamente alla base aerea di Breslau-Schongarten, dove in conseguenza dello stato di guerra della Germania, effettuava lunghi e noiosi voli di protezione sulla parte industriale della città.

Questa attività di routine ebbe termine il 23 febbraio 1941 con il suo trasferimento al 54° Jagdgeschwader «Grunherz», cuore verde, unità da caccia comandata dal maggiore Hannes Trautloft, dove il 1° aprile gli giunse la nomina a tenente.

Fu quello l'inizio di una carriera rapidissima, giustificata e caratterizzata dagli eccezionali successi che Nowotny seppe ottenere in combattimento.

 

i346126_miknowotnyF2.jpg

Il 19 luglio 1941 sul Fronte russo colse la sua prima fulminea vittoria, la vittima fu uno sfortunato «Jak 18» sovietico il cui pilota non ebbe neppure il tempo di abbozzare un tentativo di difesa e cadde in fiamme, crivellato di colpi, mentre il suo assalitore spariva nell' accecante riverbero di quel luminoso pomeriggio estivo.

Tre giorni dopo si scontrò presso l'isola Gsel, nel Baltico, con tre velivoli russi e nel corso di un mortale carosello riuseì ad abbatterli tutti.

Quando l'ultimo aeroplano sovietico cadde senza controllo lasciandosi dietro una lunga scia di fumo nero, Nowotny virò per rientrare alla base.

Il combattimento però si era protratto troppo a lungo e ora nel serbatoio del suo velivolo non rimaneva carburante sufficiente per raggiungere un qualsiasi aeroporto tedesco.

A questo punto non c'erano che due alternative:

tentare un ammaraggio di fortuna o lanciarsi con il paracadute.

Quando il motore cominciò a perdere colpi e l' elica rallentò il folle rincorrersi delle sue pale che sussultando finirono con l'arrestarsi, Nowotny sfruttando gli ultimi istanti di velocità del suo Focke-Wulf «Fw 190» cabrò l'aeroplano fin quasi allo stallo e quindi si lanciò nel vuoto.

Per tre giorni rimase in balia delle onde a bordo del battellino pneumatico, stremato dalla stanchezza e dal freddo giacque infine svenuto sul fondo del canotto.

Quando riprese i sensi si trova nel letto di un pescatore che lo aveva salvato con la sua barca e che, viste le sue condizioni, si era affrettato a portarlo a terra prestandogli le prime cure e strappandolo ad una sicura morte.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

mik_no10.jpg

Superati i postumi di questa brutta avventura, Nowotny rientrò al reparto e riprese a volare conseguendo nuove vittorie.

Ormai stava diventando un cacciatore famoso e le sue imprese venivano riportate dai giornali e dai bollettini di guerra.

Nel cielo di Leningrado, il 2 agosto 1942 Nowotny abbattè sette aerei russi in un solo giorno portando il totale delle sue vittorie oltre le cinquanta, ottenendo così la croce di cavaliere.

In un'azione successiva, con una pattuglia del 54° Jagdgeschwader al suo comando, affrontò 60 aeroplani russi riuscendo a distruggerne tre prima di essere costretto ad atterrare con il velivolo in fiamme per il gran numero di colpi ricevuti.

Nei tre anni che seguirono egli divenne il pilota più famoso di questo reparto.

 

Nel gennaio 1943 l'intero Jagdgeschwader 54 «Grunherz», cuore verde, iniziò a fare il passaggio dai suoi vecchi Messerschmitt Me.109 ai Foche Wulf Fw.190 con motore radiale.

Con questo nuovo aeroplano da caccia, Walter Nowotny riuscì a dare il meglio di se e compì le sue più grandi imprese.

Tenente, ebbe il comando di una squadriglia nel gruppo del famoso maggiore Philipp.

Le sue vittorie aumentarono in maniera vertiginosa: nel solo mese di giugno 1943 caddero sotta le precise raffiche delle mitragliatrici del suo Focke-Wulf Fw. 190 ben 41 aeroplani nemici.

Il 15 giugno 1943 aveva al suo attivo 100 velivoli abbattuti, due mesi dopo erano già 150 e gli fu affidato il comando dell'intero 54° Jagdgeschwader.

Il 4 settembre 1943 i suoi successi salirono a 200, quindici giorni dopo raggiunsero la cifra record di 220. Oltre alle Fronde di quercia, sulla croce di cavaliere gli furono concesse le spade e ricevette la promozione a capitano.

A soli 22 anni, dopo oltre 400 missioni di guerra, era diventato l' asso degli assi della caccia tedesca: nessuno, in quel momento, poteva vantare un numero così alto di aerei nemici abbattuti.

Ancora primo fra tutti i piloti da caccia del mondo, il 19 ottobre 1943 egli colse la 250a vittoria:

quando rientrò da questa azione la Flak, il distaccamento di artiglieria contraerea della sua base a Wilna, sparò salve di benvenuto e razzi da segnalazione per festeggiare l'avvenimento.

Quella stessa sera, nel bar Ria di Wilna, mentre si festeggiavano le 250 vittorie aeree conseguite dal capitano Walter Nowotny, poco prima di mezzanotte suonò il telefono.

Il barista che si affrettò a rispondere, assunse subito un'espressione tesa e preoccupata e con una certa concitazione chiamò :

«Il capitano Nowotny al telefono, è il centralino del Quarrier generale del Fuhrer»

 

mik_no11.jpg

Nowotny buttò via di colpo la sigaretta che stava fumando, ma mentre si avvicinava al telefono non potè far a meno di pensare che forse i suoi «Cuori verdi» del 54° Jagdgeschwader gli avevano fatto uno scherzo.

Ma la voce che uscì dall'apparecchio fugò subito ogni dubbio:

era senza alcuna ombra di dubbio quella di Hitler che voleva congratularsi con lui e comunicargli la concessione di una nuova prestigiosa decorazione, unitamente all'ordine di presentarsi al Quarrier generale il più presto possibile.

Il giorno dopo Nowotny volò al Quartier generale dove Hitler volle premiare personalmente il giovane asso con la più alta decorazione tedesca:

la croce di Ferro con Fronde di quercia, spade e brillanti.

Ormai per la Luftwaffe e per il Terzo Reich, Nowotny rappresentava qualcosa di più di un pilota eccezionale, costituiva una bandiera, un esempio vivente di dedizione e di eroismo che era necessario preservare dalla morte in combattimento.

Come già era stato per Galland, per Molders e per diversi altri assi della caccia, Hitler nel febbraio del 1944 emanò un ordine che proibiva a Nowotny di volare e, poiche sapeva per esperienze precedenti, fatte con altri aviatori, che ben difficilmente sarebbe stato obbedito, tolse Nowotny dal fronte destinandolo come comandante alla 101° Squadra Scuola Caccia di stanza a Pau nei Pirenei Francesi.

Al giovane, di temperamento brillante, amante della compagnia, dispiacque profondamente di rinunciare al volo, di dover abbandonare il suo gruppo, i camerati con i quali da tempo condivideva le ansie ed i rischi dei combattimenti aerei, ma, sia pure a malincuore, dovette adattarsi al nuovo incarico.

A toglierlo dalla monotonia della scuola caccia giunse opportuno, dopo 5 lunghi mesi, l'ordine del generale Galland di prendere il comando di un nuovo reparto sperimentale in formazione sulla base aerea di Achmer e di Hesepe, vicino a Osnabruck, il «Kommando Lechfeld» o più semplicemente il «Kommando Nowotny».

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

mik_no12.jpg

Nowotny non aveva ancora un'idea precisa dell'aereo che la sua nuova unità avrebbe dovuto sperimentare, ma quando a Rechlin fu davanti al suo Messerchmitt «Me.262» e soprattutto quando fu in grado di portarlo personalmente in volo, il suo entusiasmo non conobbe limiti.

Da cacciatore si rese conto delle eccezionali possibilità del modernissimo aviogetto e comprese che, impiegandolo in gran numero di esemplari, la guerra nel cielo avrebbe subito una svolta decisiva a favore del suo Paese.

La velocità del «Me.262» richiedeva, però piste in cemento di una lunghezza di almeno due chilometri e l'atterraggio ed il decollo, anche a causa del non sempre regolare funzionamento delle turbine, rappresentavano troppo spesso un'incognita.

Il suo impiego in combattimento aveva rivoluzionato le tattiche degli scontri aerei.

I piloti dei «Me.262» non si perdevano in singoli duelli con i caccia nemici, per essi non era più necessario effettuare delle figure acrobatiche per sfuggire o per sorprendere l'avversario, ma si portavano invece altissimi nel cielo piombando poi giù, a grande velocità, sulle formazioni nemiche in un passaggio fulmineo, con tutte le armi in funzione, che rendeva vano qualsiasi difesa.

Sparivano quindi verso terra per risalire e ripetere la manovra, molto spesso anche in cabrata, grazie alla grande spinta impressa dai due motori a reazione Junkers Jumo.

Nowotny chiese ed ottenne di poter scegliere gli uomini che avrebbero costituito il nuovo reparto, riuscì così a mettere insieme un'unità combattente di prim'ordine formata da ottimi piloti, molti dei quali avevano già servito ai suoi ordini sul fronte russo.

Si trattava di aviatori che avevano già abbattuto parecchi velivoli nemici a testa e che si preparavano con entusiasmo ad affrontare le formazioni aeree alleate, consci di avere a disposizione il miglior aeroplano da caccia del mondo.

L'addestramento del personale, però, avveniva fra mille difficoltà, sia per la situazione materiale dei rifornimenti, che ormai arrivavano in misura troppo scarsa, sia per le deficienze stesse del velivolo in dotazione che non era stato possibile mettere a punto con la dovuta calma.

Le due turbine rappresentavano nello stesso tempo la forza e il tallone d'Achille del «Me.262»;

spesso per difetto di costruzione, per surriscaldamento o per altre difficoltà derivami dall' alimentazione del carburante si inceppavano, e l'aereo, che non era fatto per planare e atterrare senza motore, precipitava come un sasso.

In questo caso erano pochissimi i piloti che riuscivano a salvarsi lanciandosi col paracadute.

Già nella fase d'addestramento, Nowotny perse alcuni dei suoi più cari e più preziosi collaboratori.

Il giovane comandante pose tutta la sua energia nel tentativo di prevenire gli incidenti eliminando gli inconvenienti che il nuovissimo aviogetto, che come si è detto, non aveva potuto esser messo a punto con la consueta precisione teutonica e per il tempo necessario, fatalmente portava con se.

Nonostante i difetti del «Me.262» e le lacune dell' ormai provatissima organizzazione della Luftwaffe, l'apparizione nel cielo degli uomini del reparto sperimentale comandato da Nowotny gettò lo sgomento nei comandi alleati e il terrore nelle sempre più numerose formazioni che bombardavano quotidianamente la Germania.

I pochi aviogetti usati in combattimento colsero importanti successi saettando fra i quadrimotori alleati senza che i mitraglieri riuscissero ad inquadrarli ed eludendo con facilità l'intervento dei più lenti caccia di scorta.

La squadriglia registrò tuttavia alcune perdite nel corso degli scontri a cui prese parte, ma esse erano addirittura irrisorie se confrontate al gran numero di aerei nemici abbattuti.

Nowotny stesso, benchè gli fosse nuovamente stato proibito di volare in azioni di guerra e quindi di guidare i suoi uomini in combattimento, durante un'incursione contravvenne all'ordine e, salito a bordo di un «Me.262», decollò, fece quota portandosi in coda ad un bombardiere Boeing «B. 17» ritardatario e con un solo colpo di cannoncino lo abbattè in fiamme.

Dopo questo facile successo fece pressioni sul comando della Luftwaffe per tornare a volare, ma il permesso, come era da aspettarsi, gli fu negato.

Goering stesso, per quanto già in disgrazia, non osò concedere la necessaria autorizzazione per timore di incorrere una volta di più nelle ire di Hitler.

La guerra per la Germania era comunque irrimediabilmente perduta, e l'intervento di piloti come Nowotny, anche se a bordo dei nuovi caccia a reazione, non sarebbe valso certamente a mutarne le sorti; ormai era troppo tardi, si poteva soltanto vendere cara la pelle.

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

mik_no13.jpg

Si giunse così al 7 novembre 1944:

quel giorno il generale Galland, accompagnato dal colonnello generale Keller, comandance del NSFK (corpo aviatori nazionalsocialisti), inviato personale del maresciallo Goering, visitò fugacemente la squadriglia annunciando che sarebbe tornato nel pomeriggio seguente per parlare più a lungo dei problemi connessi alla difesa del Reich.

Puntualissimi, i due generali si presentarono l'indomani alla base di Achmer accolti con la dovuta deferenza dal maggiore Nowotny che, nella sua veste di comandante, fece gli onori di casa.

Nell'ufficio del comando, Galland confidò a Nowotny che Goering era convinto e lo aveva affermato in pubblico giustificando se stesso e le sconfitte dell'arma aerea tedesca, che gli assi dei primi anni di guerra erano diventati dei vigliacchi e non avevano più il coraggio necessario per affrontare il nemico.

A queste affermazioni Nowotny protestò energicamente criticando aspramente e senza timori la direzione della Luftwaffe.

Chiese quindi ancora una volta il permesso di volare per dimostrare che le affermazioni di Goering sulla viltà dei vecchi piloti erano false.

Ma Galland gli rinnovò la proibizione dicendogli che era destinato ad alti incarichi direttivi a terra.

Fu un Nowotny mortificato ed insolitamente serio quello che discusse con i due generali le tattiche migliori di impiego dei velivoli a reazione.

Il colloquio ebbe però breve durata perchè fu interrotto da un allarme aereo.

La radio annunciò l'avvicinarsi di formazioni di bombardieri nemici e Nowotny dette ordine al suo reparto di decollare e di portarsi in quota.

Poi con i due ospiti si recò nella sala operazioni per seguire l' azione dei suoi piloti

Dagli altoparlanti giungevano le voci dei cacciatoti in volo di avvicinamento agli aeroplani nemici.

Dopo un primo Fortunato passaggio durante il quale diversi velivoli alleati furono colpiti, i «Me 262», effettuata una larghissima virata, tornavano all'attacco.

Il secondo contatto non fu altrettanto Fortunato: il sottotenente Schall, che guidava la squadriglia, fu abbattuto presso Bramche, un secondo aviogetto fu costretto a tentare un atterraggio di fortuna per noie alle turbine, un terzo ebbe la sfortuna di essere preso nel fuoco incrociato di due «Mustang» e di un «B.24» e precipitò schiantandosi al suolo nelle vicinanze del campo.

Al posto di comando a terra Nowotny non poteva stare fermo, nervosissimo si spostava da un operatore all'altro mentre stava certamente pensando che i suoi più vecchi camerati si facevano uccidere lassù nel cielo ed egli era costretto a starsene al sicuro, ma più di tutto forse gli bruciavano le parole di Goering, la qualifica di vile sapeva bene di non essersela mai meritata.

Improvvisamente si fermò come se avesse preso una decisione, poi corse fuori dalla sala operazioni, saltò sulla sua macchina e gridò verso Galland:

«Signor generale, mi dispiace di non poter obbedire al suo ordine, ma ora volerò e le dimostrerò che non sono un vile e che, per quanto difficile, è ancora possibile ottenere dei successi».

Poi l' automobile scattò in avanti e a nulla valsero i richiami del generale Galland per fermarlo.

Attraverso il campo, giunse alla piazzola dove era decentrato il suo velivolo che recava il distintivo della sua vecchia 54a, un cuore verde in campo bianco, fece mettere in moto e pochi minuti dopo saettava nel cielo verso la seconda ondata delle formazioni alleate che stavano sorvolando il campo.

L' asso tedesco si portò in quota sopra ai bombardieri, poi picchiò decisamente verso un B-24 «Liberator», sparando con i cannoncini da 30 millimetri.

Da terra videro il quadrimotore perdere un' ala e precipitare in fiamme nei campi vicino alla base.

Ma Nowotny era gia al secondo attacco, si portò in coda ad un «Mustang» di scorta e quando stava per aprire il Fuoco fu visto diminuire velocità e perdere quota mentre per radio si udì la sua voce:

«Le turbine non funzionano più!».

Il «Me 262» cominciò a precipitare sempre più velocemente, il pilota sganciò il tettuccio, che carambolò luccicando nell'azzurro, poi dalla cabina si vide sbocciare un paracadute che apertosi troppo presto, si impiglio nei piani di coda trascinando nell' abisso il giovane ufficiale.

I rottami dell' aviogetto furono ritrovati nei pressi di Epe-Malgarten ai margini di una radura; accanto ad essi giaceva il corpo esanime di Walter Nowotny.

Il suo aiutante Schnorrer, il suo autista Gedecke e il pastore Schwegmann composero quel corpo martoriato ponendogli sul petto il cappello da ufficiale che egli soleva portare molto inclinato, dopo averlo schiacciato nel mezzo, fuori ordinanza come per sfida.

 

Giorgio Evangelisti

36 storie scritte nel cielo

 

mik_no14.jpg

Modificato da Dave97
Link al commento
Condividi su altri siti

Crea un account o accedi per lasciare un commento

Devi essere un membro per lasciare un commento

Crea un account

Iscriviti per un nuovo account nella nostra community. È facile!

Registra un nuovo account

Accedi

Sei già registrato? Accedi qui.

Accedi Ora

×
×
  • Crea Nuovo...