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World War II Aces


Dave97

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Maggiore Lance Wade

Nato in Texas, negli Stati Uniti, Lance Wade entrò nella RAF in Canada nel dicembre del 1940.

Dopo aver completato l'addestramento al volo andò in Medio Oriente nel settembre 1941, volando con uno Hurricane dalla portaerei Ark Royal a Malta, e proseguendo poi per l'Egitto il giorno seguente in idrovolante.

Una volta la, si unì al 33° Squadron, che volava con gli Hurricane, e ottenne la sua prima vittoria il 18 novembre 1941 abbattendo due caccia italiani CR 42.

Quando terminò il suo turno operativo, nel settembre 1942, il suo bottino ammontava a 12 aerei nemici distrutti.

Ritornò poi negli Stati Uniti per pochi mesi, ma nel gennaio del 1943 era di nuovo in Nordafrica e fu designato presso il 145° Squadron come capopattuglia.

Wade assunse il comando dell'unità appena pochi mesi dopo la sua promozione a maggiore.

A marzo il 145° Squadron sostitui i suoi Spitfire Mk V con gli Mk IX e poi, nel giugno seguente, passò agli Mk VIII Wade restò in carica fino al novembre 1943, quando fu promosso tenente colonnello e trasferito a un incarico presso lo stato maggiore della Desert Air Force.

Nel gennaio del 1944, durante un volo di routine su un Auster, l'aereo entro in avvitamento a bassa quota e si fracasso al suolo, uccidendo l'asso della caccia.

Al momento della sua morte, la lista di vittorie di Wade era di 22 aerei nemici distrutti individualmente (5 con gli Mk VIII 0 IX) e 2 in coppia, 1 probabilmente distrutto e 13 danneggiati in volo, più 1 distrutto e 5 danneggiati al suolo.

Fu il pilota di origine americana di maggior successo a compiere la sua intera carriera bellica nella RAF.

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Ospite galland

“I falchi del deserto” di Sergio Flaccomio è uno dei primi libri d’argomento aereonautico che ho posseduto; lo acquistai giusto a quattordici anni, nella cartolibreria davanti scuola.

L’autore era capitano pilota della 389 squadriglia del 50° stormo d’assalto, impiegata in Africa Settentrionale durante il decisivo confronto di El Alamein. Lo stormo impegnava i Fiat Cr.42 bombe alari. Rispetto ad altre memorie di piloti colpisce il tono di sottile ironia e la coscienza di combattere e morire in condizioni d’assurda inferiorità.

Lo stile rotondo e privo di retorica della narrazione, che intercala eventi bellici (l’azione d’assalto, la scorta convoglio, l’attesa delle missione) alla vita quotidiana dei piloti, lo fa risultare di lettura interessante e godibile.

Nella vivida e drammatica descrizione dell’attacco al fortino di Bir-Hacheim riecheggiano i termini e le modalità d’impiego vigorosamente propugnati dal teorico dell’assalto Amedeo Mecozzi nel corso degli anni trenta.

 

“In un caldo pomeriggio del giugno 1942 trentasei aeroplani Cr.42 si stanno disponendo in volo in formazione di combattimento; sono tre squadriglie, 389, 390 e 391 del 50° stormo d’assalto. Ad una trentina di metri l’una dall’altra le tre squadriglie in stretta ala destra si dirigono verso il fortino di Bir-Hacheim, caposaldo nemico da attaccare nelle vicinanze del confine egiziano a circa duecento chilometri dalla costa nell’interno.

Sono i falchi del deserto, così battezzati dallo stesso nemico, che si accingono ad una delle loro quotidiane azioni d’assalto: bombardamento in picchiata con le due bombe alari e mitragliamento a volo radente su postazioni, concentramenti, mezzi meccanizzati e corrazzati e quanto altro si possa attaccare nel deserto o sul mare e colpire con precisione.

Lo stormo d’assalto è sorto su vecchie esperienze italiane ed impegna apparecchi da caccia con due bombe leggere sotto le ali e grosse mitragliatrici fisse che sparano attraverso l’elica. E’ il connubio di due specialità base dell’impiego bellico dell’aereo, la caccia e il bombardamento, con un particolare in più l’assalto.

Oggi si può parlare di caccia bombardieri poiché il mezzo meccanico, le attrezzature e gli armamenti si sono evolute. Ma allora si citavano apparecchi d’assalto, reparti d’assalto, piloti d’assalto e questa denominazione era il giusto attributo, il doveroso riconoscimento ad una tecnica di combattimento , una tattica di volo ed una specialità di impiego che meritava al definizione.

I piloti d’assalto, eredi della caccia (e venivano quasi tutti di qui), portavano nella tecnica del bombardamento la superiorità aggressiva e rettilinea della caccia; lanciavano le bombe in picchiata puntando il bersaglio con il collimatore delle mitragliatrici senza bisogno di cronometri e di traguardi e mirando con l’aeroplano in candela, proseguivano la picchiata sino a pochi metri da terra mitragliando e continuando a mitragliare in volo radente tutto ciò che volevano colpire e danneggiare.

Le loro bombe non erano grosse né potenti.

Le tre squadriglie hanno appuntamento con i caccia e li attendono sul loro campo per poi portarsi verso l’obiettivo. Nelle azioni molto impegnative infatti, come quella che si preparano ad eseguire, la protezione dei caccia è indispensabile poiché la caccia nemica attende gli assaltatori e li attacca all’uscita del loro tuffo quando raso terra mitragliano e, privi di difesa e di contrattacco, sono molto vulnerabili. C’è un fraterno legame più che affettuoso fra i cacciatori e gli assaltatori; i primi infatti sanno che costoro lavorano duro e pericolosamente e hanno bisogno di una relativa tranquillità in oda per poter portare a termine con successo la loro missione. Spesso i cacciatori si sono prodigati con foga, con generosità e con perizia.

Al comando della 389 squadriglia, la prima della formazione, seguo il comandante di gruppo che oggi ci conduce a battaglia; siamo sui tremila metri, i miei dodici gregari sono in ala destra, stretti; il cielo è meravigliosamente azzurro e ci addentriamo nella gialla e macabra distesa del deserto lasciandoci alle spalle il mare che ogni tanto mi volto a guardare per un istante pensando che altrove ci si va in barchetta ci si fa il bagno, ci si corteggia la ragazzina e che ora invece rappresenta un lontano riferimento azzurro di vita, di benessere e di un mondo che forse, e non in pochi, fra breve avremmo dovuto abbandonare.

Il bersagli è quasi sotto di noi: ce ne accorgiamo dalle prime avvisaglie contraeree che ci inquadrano con una certa efficacia. Un paio di migliaia di metri sopra di noi, i cacciatori sono già impegnati in combattimento per difenderci; si vedono sciamare traccianti, fumate nere e aeroplani che come pere o foglie morte vengono giù, di sotto, abbattuti.

Mi faccio sotto al comandante di gruppo, gli indico il bersaglio e la confusione di sopra con un rapido gesto della mano. Non abbiamo collegamento radio e i ripetuti tentativi di far funzionare quella di bordo sono stati frustrati a terra dalla sabbia, dal materiale scadente, dagli impianti imperfetti; in volo, dalla necessità di una rapida comunicazione e dalla rabbia per tutti quegli aggeggi che non valgono un fischio.

Pensare che voliamo e combattiamo sempre in pochi, armati peggio, meno veloci e con un apparecchio del tipo più vecchio è ormai diventata un’amara e inutile ribellione: voliamo combattiamo e crepiamo perché dobbiamo farlo, perché portiamo una divisa, perché abbiamo prestato un giuramento e perché siamo tutti uomini con la U maiuscola e fra i sentimenti degli uomini con la U maiuscola esiste l’onore, il dovere e la dignità che divengono più validi nei momenti impegnativi. Ma, in verità senza maiuscole siamo poveri nani.

Il comandante del gruppo mi fa segno di si, mi volto verso il mio gregario e gli faccio un rapido segno col capo; vuol dire allontanati, lui esegue e poi tutti gli altri: la formazione si allunga, si snoda quasi in fila indiana. Il primo apparecchi effettua un lento rovesciamento e picchia in giù; io e la mia squadriglia lo seguiamo, il bersaglio è molto sotto di noi, il comandante del gruppo vuol centrare le sue due bombe e noi anche, ma il bersaglio è piccolo, è un fortino pressoché ottagonale di dimensioni limitate. Cominciarlo a centrare da tremila metri vuol dire buttarsi quasi in candela e non sarà facile tenere l’aeroplano in perfetta mira. Un piccolo errore è commesso dal comandante di gruppo; siamo andati troppo sopra l’obiettivo mentre dovevamo rimanere un po’ più sulla destra e un po’ più avanzati per poter fare un buon rovesciamento ed una buona puntata.

Per centrare il fortino, il maggiore va sempre più in candela, addirittura entra in vite e per stargli appresso mi accade lo stesso; penso che buona parte dei miei gregari debba adattarsi a questa strana ed inconsueta manovra d’attacco.

Intorno a noi c’è il fuoco; sopra proseguono i combattimenti dei caccia. Mi volto un attimo per vedere cosa fa la mia squadriglia: è allungata dietro di me in assetti più o meno regolari ma sta venendo giù a piombo. Nei brevi istanti ho potuto vedere esplodere per aria un aeroplano della squadriglia che mi seguiva. Un altro scendeva in fiamme.

Usciti dalla vite sia pur involontaria del mio comandante di gruppo, ormai siamo ad un migliaio di metri quasi in candela sul fortino: continuiamo a scendere e ho già in mano la leva dello sgancio delle bombe; sette, sei, cinque, duecento, chi lo sa quanti metri e chi lo potrebbe mai sapere, so che vedo il fortino sotto di me, e ora mi sembra enorme e tante fiammate che ne partono, e sento la vibrazione quasi disperata del mio aeroplano sottoposto ad una velocità e ad una sollecitazione che i suoi costruttori non hanno mai immaginato.

Vibra come una bestia, forse una bestia impaurita, ma va giù, premo il pulsante delle mitragliatrici che cominciano a vomitare e sgancio, poi comincio a richiamare continuando a mitragliare ma per qualche attimo non vedo più niente, vedo nero e mi sembra che il viso mi venga strappato dalla forza centrifuga. La cloche è dura a tirare come una vanga piantata nel terreno. Arresto per un attimo il mitragliamento per non surriscaldare le armi ed incepparle. Sono ormai a poche decine di metri e sorvolo una confusione di uomini, cannoni, mitragliere, camion, carri armati; riattacco le armi e le brucio fino all’esaurimento zigzagando raso terra sino a pochi metri.

Passo attraverso un mare di traccianti, credo che mi sparino addosso anche con le fionde, sassate a mano, magari sputi e la mia difesa è l’attacco perché con improvvise piccole cabrate e picchiate continuo a sparare cercando così di chiudere al mira agli altri. Il motore è quasi in pieno e rugge, con la velocità della picchiata devo essere un fulmine ed in questa fase la velocità e la mobilità sono le mie armi di scampo- credo di essere già in salvo, quasi fuori ormai della cerchia di fuoco e sto cabrando leggermente per prendere quota, quando uno squasso improvviso sotto l’aeroplano lo fa sobbalzare come sotto una frustrata; l’ha avuta, sono colpito, un’ala è sforacchiata e sotto ci deve essere peggio.

Prendo quota, riduco i giri, provo i comandi: rispondono, il motore va, non c’è fumo per ora; mi volto un momento indietro rapido, il mio primo gregario di destra, un maresciallo con i nervi d’acciaio, è lì, mi segue e il suo compito è quello di non lasciarmi mai. La sua faccia tonda ammicca qualcosa che non capisco, intanto ho ripreso un po di quota e mi volto. Capito: una bella scia biancastra mi segue come il pennacchio di una cometa ma è un brutto pennacchio, è carburante, ho il serbatoio colpito e di quel poco che mi resta ne perdo come una fontana.

Sono a duecento chilometri all’interno di un deserto, lontano dalle basi con l’aeroplano colpito e perdo carburante ma tutto mi sembra una sciocchezza, roba da ridere, non dico che tiro un sospiro di sollievo ma quasi. Sono arrivato intanto sui mille metri, il gregario mi è accanto e batto le ali per radunare la squadriglia. Ho perso di vista il comandante di gruppo e non ho idea di dove sia andato a finire, dirigo verso il mare, verso casa. Se ci arrivo… […]

Sono agli sgoccioli il televel segna zero, guardo sotto davanti a me, a destra, a sinistra e vedo una specie di collinetta dolce con erbacce. Mi sembra il posto più adatto e mi viene in mente, chissà perché, di venire giù e poi dargli una bella spanciata e posarlo in salita, così rullo e corro meno ed il rischio di cappottare diminuisce, già, perché i nostri aeroplani d’assalto hanno ancora il carrello fisso, carenato, le due zampe di un falco. […] la collinetta non mi sembra male e poi è ormai troppo tardi e non ho più scelta. Do un paio di strappo nate di manetta ed il motore fortunatamente tossendo mi risponde. Riesco, così, a piazzare l’aeroplano ai piedi della collinetta quasi appeso per il naso; spanciatissimo, e tocco terra con una dolcezza eccezionale. Sono un gran pilota."

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Ospite iscandar

poi il pilota venne raggiunto da una camionetta dei carabinieri, con il suo meccanico, dopo che era stato segnalato da un Ghibli che gli aveva portato dei rifornimenti, l'aereo venne aggiustato e potè ritornare alla base...

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Ospite galland
poi il pilota venne raggiunto da una camionetta dei carabinieri, con il suo meccanico, dopo che era stato segnalato da un Ghibli che gli aveva portato dei rifornimenti, l'aereo venne aggiustato e potè ritornare alla base...

Esatto! Domani posto un altro capitolo.

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Ospite galland

I FALCHI DEL DESERTO, INTERLUDIO… NATURISTA!

Ovvero come dimenticare guerra, vestiti, gradi e ritrovarsi uomini.

 

“Il colonnello mi batté la mano sulla spalla e mi disse: -[…] Domani prenditi una giornata di riposo e porta la squadriglia al mare.

Non me lo feci dire due volte e prima che ci fosse qualche ripensamento, adunai gli uomini liberi dal servizio. La mattina alle otto la squadriglia era pronta e già a bordo di un grosso camion con rimorchio compreso il picnic combinato dai cucinieri e costituito da due pentoloni di pasta con il sugo, dalle scatolette, che avremmo provveduto a riscaldare sulla spiaggia con un focherello di sterpi, e dal solito formaggio provolone, spina dorsale delle sussistenze militari, da marmellata in pani con i soliti bachini innocui se pur disgustosi.

Con abuso di autorità, mi misi alla guida del grosso camion con rimorchio ed arrivammo al mare che finalmente, oggi, avremmo visto a portata di sedere e non da prospettive un po’ più preoccupanti.

Una giornata di festa, lavacro necessario che scioglie incrostature di nostalgia, scorie di stanchezza irose, frittelle di sensibilità sovraeccitate. Una piccola insenatura con una spiaggia che si stende a semicerchio e che abbraccia un mare di zaffiro limpido trasparente, a sfumature, accoglie il nostro fanciullesco entusiasmo.

Questa nostra spiaggetta ci piace e, a vederla dall’alto, sembra proprio un azzurro gioiello incastonato ancora nella sua grezza scorza. Bocconi sulla sabbia morbida e fine, con occhi socchiusi mi illudo di godermi il mezzogiorno versigliese, mi manca soltanto il paesaggio di qualche bionda sirena abbrustolita in succinto e multicolore cache sex. Non mancano però le nudità, purtroppo per niente interessanti: sono infatti le nostre che spaziano ora libere come fringuelli nella vivificante luce del sole, mentre un formicolio di benessere ci invade da capo a piedi.

Così, uomini nudi al sole, ci sentiamo più liberi e più innocenti, noi stessi e basta, i gradi, le gerarchie e le prosopopee cadono con le vesti e rimangono lì, sopra una dunetta, a brillare, inutili richiami senza valore e significato. Ci parliamo con maggior fratellanza e con vera sincerità.

Ci conosciamo, eppure ci sembra di ritrovarci diversi, ed i nostri rapporti subiscono un lieve mutamento.

Ho fatto in modo che il pasto sia unico e consumato insieme, senza le solite regole militari; così, ogni tanto accade che mi ritrovo intorno un gruppo dei più semplici, gli avieri di manovra, i motoristi, i montatori, che parlano con me e con gli altri ufficiali, semplicemente, esprimendo domande, desideri, chiedendo consigli anche di situazioni familiari, discutendo della vita, della guerra e di quello, insomma, che può venire alla mente e al cuore di un semplice soldato.

Alcuni, ultimi arrivati, pudibondi ad oltranza, avevano le prime volte tentato di tirar fuori i costumini, mutandine rosse verdi color fegato, ed avevano tentato di mescolarsi con quei loro straccetti fra di noi; ma era come se al Forte dei Marmi se ne fossero andati in giro senza gli obbligatori straccetti: scandalo, riprovazione.

-Via quelle porcherie.

-Che cosa sono quei sudici stracci.

-O che ti credi di essere più bello con quel rosso che ti tira sulle natiche?

-O nudi o fuori dai piedi.

Uno poi addirittura impudico aveva osato presentarsi con un costumino rosso con la righina blu e perfino una taschina su un fianco con un bottoncino, per tenerci poi chissà mai che cosa.

Pance, pancette prominenti, magrezze, flaccidità, muscoli potenti, gambe storte, piedi leggermente piatti, scapole che facevano capolino, spine dorsali affioranti, spalle spioventi, velli ferini, pelli bianche e lievi da vergini nordiche, davano a ciascuno il suo avere e la sua personalità con una correttezza e categoricità senza inganno.

-Vieni, Pancetta, andiamo a fare una nuotatina?

-Andiamo, piedipiatti.

Erano poche ore felici, il compagno Gambe Secche, fervido sostenitore ed apostolo del nudismo, aveva in fondo perfettamente ragione. Mai ci capitò in quelle ore di raccontare balle, di formulare inganni, sotterfugi, sottigliezze malevole, malignità; senza vestito ci saremmo sentiti subito scoperti come se la bugia o la cattiveria, nascendoci dalla pancia, avesse fatto vedere la sua pelle nera salire su piano piano per lo stomaco, il gozzo ed uscire dalla bocca; ci si sentiva come trasparenti.

Un giorno ero andato a fare da solo e nudo, naturalmente, quattro passi lungo il litorale; avevo in mano una lunga canna e mi divertivo con quella a solleticare la cresta delle onde che mi lambivano i piedi, in confidenziale scherzetto con il mio amico mare.

Dietro uno scoglio, in una insenatura, incontrai un altro uomo che con l’acqua al ginocchio raccattava qualcosa. Non era della mia tribù, lo vidi subito, la sua testa calca ce lo avrebbe fatto chiamare certamente Piazza, ma poiché anche lui era nudo lo pensai un solitario adepto, un eremita del nostro culto e mi avvicinai tranquillo ed appoggiato alla mia canna, stetti a guardare che cosa faceva. Alzò la testa appena e poi riprese il suo lavoro.

-Che cosa fai? Chiesi con la confidenza della stessa fede.

-Raccolgo le patelle, rispose, e vidi infatti che con un coltellaccio toglieva dallo scoglio quelle nicchiette tonde, specie di vongole che sembravano attaccate con il mastice indiano, le sciacquava e poi le metteva in un barattolo lì vicino.

-Ne vuoi? E gentilmente me ne porse una.

-Sono buone?

-Ottime, e per dimostrarmelo da ospite perfetto se ne mise in bocca una mangiandola con visibile gusto.

-Sentiamo, e ne morsi una staccandola dal guscio con i denti.

-Buone davvero e che ne fai? Le mangi tutte crude?

-Un po’ le mangio con il limone crude, con le altre ci faccio il sugo per le paste asciutte.

-Ci vorrebbe pomodoro fresco, consigliai.

-Eh si! Ma chi lo trova qua? E con un sospiro di rimpianto, si rimise a raccattare le patelle.

Per un po’ si continuò a chiacchierare sulla possibilità di fare un buon sugo per gli spaghetti, poi mi congedai:

Bé! Addio, gli dissi, grazie delle patelle veramente buone.

-Niente, figurati, addio, e me ne tornai sui miei passi divertendomi, questa volta, a ricalcare le mie orme precedenti.

Non mi passò neppure per la testa di pensare chi fosse come si chiamasse che età avesse: per me era uno dei nostri, Piazza anzi, e mi aveva anche insegnato a fare una buona salsetta. Qualche tempo dopo in una cerimonia ufficiale me lo trovai davanti, era il comandante di una grossa unità dell’esercito; un generalone. Mi misi sull’attenti e salutai, anche lui mi riconobbe, ma avevamo le vesti, le bucce, eravamo legati, e lui non era più Piazza, quello delle patelle; la sua testa era coperta da una bustina con molti gradi, a zig zag; addosso avevamo entrambi la giubba, spalline, gradi decorazioni, oro, luccichio, orpelli; niente da fare, finita la nostra amicizia, sbattuta di tacchi inchini:

-Comandi, signorsì, agli ordini.

Ma lui era veramente dei nostri e lui me lo dimostrò quando, finita la confusione, mi si avvicinò sorridendo e sottovoce mi disse:

-Sai, gli spaghetti? Una cannonata.

Ed allora io non ressi e gli risposi:

-Se non ti secca te li copio; poi improvvisamente serio gli sparai un saluto fuori ordinanza a cui lui mi rispose con altrettanta serietà e me ne andai contento perché anche sotto tutti quei gradi, quello delle patelle, Piazza, era uno dei nostri ed anzi un veterano. E da quel giorno, quando fu possibile, si mangiò gli spaghetti alla Piazza."

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Ospite galland

“Quasi kamikaze”

“La tenda d’allarme con il suo muso giallo verde come un limone è incorniciata da bidoni di benzina vuoti e posti con una certa simmetria civettuola a delimitare il transito degli automezzi.

Una lieve distorsione di un miraggio fa tremolare l’aria e con un giuoco di rifrazione sembra quasi d’intravedere una distesa d’acqua; laggiù sparsi qua e là come uccellacci con le ali tese ferme stanno gli aeroplani.

E’ anche domenica; dall’alba sono presso l’odioso telefono da campo con tutta la squadriglia poiché è il nostro turno d’allarme. Nella notte i comandanti di reparto sono stati chiamati a rapporto per apprendere una notizia eccezionale: una formazione navale nemica sta transitando al largo, lo stormo è in allarme per un’eventuale azione sulla portaerei che fa parte della squadra.

La notizia è segreta, riservata ai comandanti di reparto che non ne devono fare il minimo accenno agli equipaggi. Le ragioni sono ovvie.

Nel comunicarcela il colonnello ha abbassato la testa aggiungendo: -Ho detto già io tutto quello che c’era da dire ed anzi di più, risparmiatemi i commenti. Ho ricevuto l’ordine perentorio di restare qua altrimenti vi condurrei io stesso.

Il momento è solenne, nessuno infatti commenta; senza farla tanto lunga non è un’azione ma una sentenza di morte. Con le nostre due bombette alari e le nostre mitragliatrici 12,7 attaccare una portaerei in alto mare, a parte i minimi danni che possiamo arrecare (certo non la possiamo affondare), è un volo senza ritorno. Anche nella più rosea delle ipotesi che si possa sfuggire al tiro contraereo, all’attacco della caccia nemica, al volo radente di scampo dopo lo sgancio delle bombe e mitragliamento sul ponte volo della portaerei, non avremo autonomia sufficiente per tornare indietro.

Gli alti comandi devono essere alla disperazione se ordinano ad uno stormo di Cr.42 d’assalto di andare in alto mare allo sbaraglio.

Con questo segreto, dall’alba sono di turno d’allarme con la squadriglia e siedo al telefono aspettando l’ordine.

Lo stomaco è diventato un pugno di cemento, ogni gracchiata dell’ignobile apparecchio è un mezzo infarto; non mi vergogno a dirlo, può essere l’ordine di esecuzione, la morte al novantanove per cento per me e per un’altra quarantina almeno di piloti. Il telefono gracchia ma magari è l’ufficiale commissario dello stormo che domanda una fesseria o uno degli specialisti che chiede un’altra fesseria e ad ogni gracchiata la mia faccia diventa sempre più grigia.

I miei piloti, qualcuno vicino a me, altri che gironzolano d’intorno non capiscono perché oggi sia così tetro e nervoso. A qualche timido tentativo di conversazione il mio “non scocciatemi” ha fatto effetto, così mi lasciano solo. E’ un ordine pazzesco, ma se verrà dato sarà eseguito.

Intanto passano le ore e nulla accade. E’ anche domenica: un parroco vestito da guerriero proprio di fronte alla tenda d’allarme ha montato su due sgabelli il suo altarino da campo. Dal mio sedile vicino al telefono vedo la piccola croce che sovrasta l’altarino e chissà, penso, può essere un simbolo. Ho fatto alzare i lembi della tenda per avere un po’ d’aria perché oggi l’afa è pesante e posso vedere i reparti liberi dal servizio, ma ce ne sono pochi oggi, già schierati per la Messa.

La faccia del sacerdote assume un’aria quasi ieratica mentre pronunzia l’inizio della sua preghiera; aleggia intorno un’acre sentore di uomini non molto lavati che mi colpisce a zaffate.

“Orate frates”, è il momento del raccoglimento, le teste si abbassano ma un cupo ed indistinto ronzio ne fa rialzare molte con aria alquanto preoccupata. Anche il buon parroco nell’innalzare la votiva offerta ha dato una guardatina ai cieli dell’est dove non soltanto cantano cori di serafini e cherubini ma probabilmente passa una formazione nemica.

Noto tutto questo, inchiodato al telefono, senza ironia o derisione, soltanto con cupo distacco.

Il telefono gracchia ancora, falso allarme, mando il piantone a dire che non ci sono novità e vedo il colonnello che ha sentito il telefono, spostarsi dalla sua posizione e darmi un’occhiata interrogativa: faccio di no con la testa, per il momento niente e il suo sguardo si sofferma ancora un po’ su di me, ansioso.

Viene portata una specie di colazione ma non mi sento che di inghiottire qualche sorsata di caffè mentre gli altri tranquillamente mangiavano ignari.

Passa ancora qualche ora,comincia ad inoltrarsi il meriggio ed una lieve speranza si fa strada; forse la formazione navale è troppo lontana o forse, ed è più probabile, negli alti comandi si sono resi conto di che cosa stavano per chiedere.

L’ordine dell’azione non è ancora stato abolito, l’angoscia e la paura non sono finite.

Una delle telefonate era del mio comandante di gruppo, mi chiedeva se ero stanco, e se desideravo venir sostituito. “No grazie, comandante, non importa; voglio tirarla sino in fondo questa storia, sono io di turno e di turno resto”.

Si affaccia alla tenda un amico, comanda la 390 squadriglia ed anche lui è al corrente e se occorre pronto a partire.

Ha in mano un ramo secco con sopra Fifì la nostra mascotte [si trattava di un camaleonte]; con un sorriso un po’ tirato mi siede accanto e dice: “T’ho portato Fifì, speriamo che questo giorno boia finisca presto”, e se ne va per fare un’ispezione agli apparecchi lasciandomi la bestiola. […]

Ora mentre il pomeriggio stava passando l’accarezzai. Un’ultima gracchiata del telefono ed il colonnello stesso mi dette la buona notizia: “Cessato allarme per la formazione navale, non ne parlare con nessuno e ripeto che quel che c’era da dire l’ho detto già io; vieni giù con i piloti e vai a riposarti”.

Presi Fifì […] e pensando che ci avesse portato davvero fortuna l’invitai a mensa dove facemmo insieme un discreto spuntino e dove brindammo, lei con una mosca al chianti ed io con un bel bicchiere di acqua minerale, alle nostre fortune.”

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Maggiore Neville Duke

Nato a Turnbridge, nel Kent, Neville Duke entrò nella RAF nel giugno del 1940.

Cominciò le operazioni nell’aprile del 1941, qundo fu assegnato al 92° Squadron che all’epoca effettuava incursioni offensive sopra la francia occupata con gli spitfire Mk V.

In diverse occasioni volò come gregario del tenente colonnello Sailor Malan, che allora guidava lo stormo di biggin Hills.

Ottenne la sua prima vittoria aerea il 25 giugno 1941 quando abbatte un Bf 109F al largo di Dunkerque.

Nell'autunno del 1941 fu inviato in Medio Oriente, dove entrò a far parte del 112° Squadron che volava sui Tomahwak e poi sui Kittyhawk.

Da allora le sue vittorie aumentarono rapidamente, ed entro la fine di febbraio raggiunsero un totale di otto confermate e tre probabili.

Nell'aprile del 1942 Duke fu assegnato alla Scuola caccia di El Ballal, in Egitto come istruttore.

Nel novembre seguente ritornò alla sua vecchia unità: il 91° Squadron, che si era allora trasferito in Tunisia con i suoi Spitfire Mk V.

Duke divenne un capopattuglia in seno alla squadriglia, e le sue vittorie aumentarono tanto che nel marzo del 1943 fu insignito della Distinguished Service Order.

Nel giugno del 1943 terminò il suo secondo periodo operativo e fu promosso maggiore e assegnato alla 73a Unità di addestramento operativo ad Abu Sueir, in Egitto, come istruttore capo.

Nel marzo del 1944 fu nominato comandante del 145° Squadron in Italia, unità equipaggiata con gli Spitfire Mk VIII.

Il settembre successivo concluse quel turno di servizio e fu di nuovo assegnato in Inghilterra.

Il suo totale di vittorie ammontava ora a 26 aerei distrutti personalmente (otto con gli Spitfire Mk VIII o IX) e due in coppia, 1 probabilmente distrutto, 6 danneggiati individualmente e 2 distrutti in coppia al suolo e 1 probabilmente distrutto in coppia al suolo.

Questo fece di Duke il miglior asso tra i piloti della RAF nel teatro del Mediterraneo.

Nel gennaio del 1945 divenne pilota collaudatore presso la Hawker Aircraft Company.

Dopo aver completato il corso alla Empire Test Pilot's School di Cranfield, entrò nel giugno 1946 nella High Speed Flight della RAF, prima di essere assegnato al personale direttivo dell'Aircraft and Armament Experimental Establishment di Boscombe Down ai primi del 1947.

Nel giugno del 1948 si congedò dalla RAF e assunse un incarico come pilota collaudatore con la Hawker Aircraft Ltd.

Nel 1951 divenne capo pilota collaudatore, e in questa posizione fu responsabile della direzione del programma di collaudi di volo per il nuovo caccia a reazione Hunter.

Nel 1953, volando con un Hunter appositamente modificato, portò il record mondiale di velocità aerea a 1.163 km/ora.

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Nel 1953, volando con un Hunter appositamente modificato, portò il record mondiale di velocità aerea a 1.163 km/ora.

 

Il record fu ottenuto con l'Hawker Hunter F Mk3: il primo prototipo venne modificato per la conquista del primato di velocità con l'Avon RA7 dotato di postbruciatore, che consentiva una spinta di 4.355 kg, mentre il muso era stato ridisegnato in maniera tale da renderlo appuntito. Il primato venne ottenuto con 1.164 km/h il 3 settembre 1953 a Littlehampton, UK ;)

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“Neville was a good friend, a chivalrous, self-effacing gentleman who always thought of others first. He was always willing to help and always encouraged young and budding pilots.” (Tratto dal seguente Link!)

Royal Air Force Ace and Test Pilot Honoured

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Charles Elwood "Chuck" Yeager

Solita Routine

Nei giorni di missione sei in piedi alle cinque e mezzo, ti spruzzi un po' di acqua gelata in faccia, di acqua calda nemmeno parlarne; poi cerchi di raderti il meglio che puoi, eliminando anche il minimo ciuffetto di peli che ti potrà irritare la pelle sotto la maschera dell'ossigeno incollata alla faccia per quasi sei ore.

Fa freddo ed è buio mentre barcolli fuori e inforchi la bici pedalando nella nebbia fino alla baracca delle riunioni, dove i piloti di tutti e tre i gruppi aspettano, come te, ancora mezzo addormentati.

Un'altra missione « Ramrod », la scorta di bombardieri pesanti nel cuore della Germania.

Il comandante dello stormo da le istruzioni e tu scrivi sul dorso della mano tre numeri di vitale importanza:

l'ora del decollo, l'ora dell'appuntamento con i bombardieri e le coordinate medie della rotta di ritorno alla base.

Poi subentra l'ufficiale addetto alle informazioni e ti dice di aspettarti una reazione piuttosto pesante dalla contraerea e probabilmente una feroce opposizione dei caccia nel corridoio tra Brema e Berlino.

Spero che abbia ragione per quanto riguarda i caccia.

L'ufficiale meteorologo vede sempre nero.

Raramente il tempo è bello, e poco importa quanto sia cattivo, tanto lui lo predice ancora peggiore:

così al ritorno non potremo lamentarci perchè non ci aveva preavvisato che la visibilità sarebbe stata di quindici metri o che i venti contrari ti avrebbero spinto indietro. Quando il tempo è davvero impossibile, non si decolla.

Pedali sino al magazzino per vestirti.

Indossi la tuta di volo, due paia di calze di lana e gli stivali imbottiti.

Allacci la fondina con la 45, t'infili il giubbotto di cuoio e il « Mae West» .

Ritiri la borsa del paracadute, ti metti il casco di cuoio e gli occhiali, poi bevi un paio di tazze di caffè e mangi un pezzo di pane nero e duro, abbondantemente spalmato di burro d'arachidi e di marmellata d'arance:

questa è la colazione.

Nessuno ha molta voglia di parlare.

Prima di una missione i piloti sono chiusi in se stessi, concentrati come giocatori prima di un incontro importante.

Sappiamo che questa schifosa colazione potrebbe essere il nostro ultimo pasto.

Badi a non dimenticarti di pisciare, cosa fondamentale perchè starai seduto in quella carlinga per più di sei ore e ad alta quota fa un tale freddo che il tubo di scarico di solito ti si ghiaccia.

Sei infreddolito e stanco ancora prima che la giornata cominci, e intanto ti arrampichi su un carrello portabombe per raggiungere la linea di volo.

« Glamorous Glen» mi sembra sempre bellissimo.

E’ un P-51 Mustang, il miglior caccia americano della guerra, in grado di reggere il confronto con qualsiasi aereo tedesco.

Grazie a un'autonomia di oltre tremila chilometri sta capovolgendo il corso della guerra aerea contro la Germania perchè può proteggere i nostri bombardieri sino agli obiettivi più lontani.

Ha un motore Rolls-Royce Merlin, prodotto su licenza dalla Packard, con un compressore a due stadi e due velocità, che garantisce una velocità e una manovrabilità eccezionali, il sogno di ogni pilota di caccia.

Carico di carburante e munizioni, è un aereo difficile da pilotare, e anche vulnerabile. Se ti colpiscono nel radiatore e perdi il liquido di raffreddamento piombi giù senza scampo.

 

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Il sergente Webber, capo del tuo equipaggio a terra, è sull'ala, appoggiato alla carlinga.

Gli chiedi se c'e qualcosa che non va, ma conosci già la risposta:

- va sempre tutto bene.

Così ti arrampichi dentro e ti allacci al seggiolino.

Una robusta piastra corazzata ti protegge la schiena; dietro c'e un serbatoio di oltre trecento litri di benzina ad alta percentuale di ottani.

Guardi il cielo, molto nuvoloso come al solito, e controlli gli strumenti; specialmente il sistema di erogazione dell'ossigeno.

Volerai a novemila metri per gran parte della giomata.

Ora sei pronto per accendere il motore, e sempre con la stessa speranza che accompagna ogni decollo :

- che il cielo sia pieno di caccia tedeschi e che tu e i tuoi compagni riusciate ad abbatterli tutti.

Senti sempre un certo formicolio nello stomaco prima di una missione, anche se ormai avresti dovuto farci l'abitudine.

Il giorno della nostra prima missione, l' 11 febbraio 1944, eravamo tutti spaventati a morte, nonostante fosse un'incursione di routine lunge la costa francese.

Ricordo di aver guardato giù pensando:

«Gesù, quello la sotto è territorio occupato ».

Sembrava davvero infido mentre il fuoco della contraerea si alzava incontro a noi; poi sento sulla mia radio il ronzio di un radar tedesco che mi fa uno strano effetto, come se mi avesse inquadrato di persona.

Quella volta non incontrammo nessun caccia ma, sotto sotto, pensai che non fosse una grande delusione.

Adesso, però, una missione senza duello aereo sarebbe come un viaggio a Londra per scoprire che non c'e più una sola donna in circolazione.

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Decolliamo alle otto in punto, rullando a coppie sino all'inizio della pista, dove l'ufficiale addetto alle operazioni sventola una bandierina rossa ogni otto secondi.

Via.

Decollo arrampicandomi dritto in avanti, mentre il mio compagno vira di dieci gradi per dieci secondi: dobbiamo volare in parallelo aumentando la distanza tra noi mentre attraversiamo le nuvole basse.

Poi, beccheggiando nel flusso delle eliche, cerchiamo di uscire fuori prima di speronarci.

Decolliamo tutti con la stessa potenza, 2600 giri al minuto, velocità 220 chilometri orari.

Portiamo tutti lo stesso carico di carburante e munizioni, così, salendo alla stessa velocità, sbuchiamo tutti contemporaneamente dalle nuvole.

Il sole del mattino è accecante e i Mustang si dispongono a quattro a quattro.

Il tuo gregario ti scivola accanto, leggermente arretrato; è un novellino e speri che sia bravo e sappia come comportarsi al momento giusto.

Il suo compito è di proteggerti le spalle e restarti incollato qualsiasi cosa accada, mentre tu martelli i caccia tedeschi.

Siamo sparpagliati nel cielo, tre gruppi di quattro squadriglie di quattro aerei ciascuna; per mantenere il silenzio radio ricorri ai segnali a vista quando è necessario stringere la formazione.

Fai oscillare le ali e i ragazzi vengono più vicini.

Ti allacci la maschera dell'ossigeno e cominci a salire fino a oltre ottomila metri.

Il sole ti scalda la faccia e le spalle, ma fuori ci sono cinquanta gradi sotto zero e la parte inferiore del corpo, all'ombra, e già infreddolita e un po' rigida.

Il piccolo sistema di riscaldamento ti tiene al caldo un solo piede, mentre l'altro diventa quasi insensibile.

Stai seduto sul maledetto canotto che ti rompe il cu@@.

La cabina non è pressurizzata e a novemila metri ti stanchi facilmente.

Ti aggiusti la sciarpa di seta, in modo che l'orlo sia più alto del colletto, piuttosto duro, della giacca di cuoio.

Ti giri continuamente per controllare la coda.

«Il tedesco che può farti la festa e quell che non vedi. »

E’ un concetto che ci hanno martellato in testa fin dai primi giorni di addestramento.

Sorvoliamo il Mare del Nord, seguendo il comandante di stormo nella formazione di testa.

Il suo compito è di guidarci sino al punto d'incontro con i bombardieri che dovremo scortare.

I bombardieri arrivano da rotte diverse per evitare i concentramenti della contraerea. Ma quella comincia a tambureggiare in perfetto orario.

Senza che ci sia bisogno di guardare, sai già dove ti trovi, Sopra le lsole Frisone, al largo della costa olandese.

Sparano immancabilmente quattro granate che esplodono tutte nello stesso momento.

Sul lago di Dummer, più a sud, invece sparano gruppi di granate verticali, sempre più in alto.

Una volta che hai scoperto come si comporta la contraerea nei vari punti d'attacco, puoi regolarti per la navigazione.

Il rombo dei motori ti impedisce di sentire lo scoppio delle granate; se capita vuole dire una sola cosa:

ti hanno beccato.

Incrociamo i bombardieri a sud-ovest dello Zuiderzee , tre•formazioni a scatola di traccheggianti B-24, e li copriamo dall'alto si trascinano a 360 chilometri orari,mentre noi, che voliamo a una ve locità doppia, facciamo la spola avanti e indietro sulle loro teste badando a che nessuno ci attacchi dall'alto.

Secondo i ragazzi dei bombadieri stiamo vincendo la guerra perchè loro distruggono le industrie tedesche, secondo noi perchè riusciamo a tirare giù dieci aerei della Luftwaffe per ognuno dei nostri che cade.

Da entrambe le parti la spinta all'affermazione personale non manca,benchè solo fino a poco tempo fa non ci fosse consentito di abbassarci sotto i 3600 metri per inseguire i caccia tedeschi.

 

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L'ordine era di restare accanto ai bombardieri.

Ecco perchè non stravediamo per i ragazzi dei bombardieri, ma li rispettiamo per il loro coraggio.

Le prendono mica male e quando ne precipita uno , sono in dieci a morire.

Sai già come andrà a finire per la formazione di oggi.

Siamo alla seconda o alla terza ondata.

Direzione: alcuni depositi di carburante.

Quando arriveranno sull'obiettivo vedranno una nuvola scura sospesa in cielo, proprio come una nube di tempesta - vecchio fumo della contraerea - e quei B-24 voleranno diritti allineando i collimatori da bombardamento e scomparendo in quella nuvola nera dove li aspetta un'accoglienza infernale.

E’ inevitabile.

E dopo che hanno sganciato le bombe e cominciano a virare per mettersi in salvo ..ecco che gli arrivano addosso i Focke-Wulf e i Messerschmitt.

E’ il momento in cui i ragazzi dei bombardieri apprezzano molto la nostra presenza.

Stai allerta, controlli il cielo sopra e sotto.

Ora sorvoli il territorio tedesco, dove è più facile essere colti di sorpresa alle spalle.

 

A destra c'e un P-51D, ultimo modello, con sei mitragliatrici da 12,7 invece delle solite quattro per garantirgli miglior manovrabilità e una velocità leggermente superiore. Sulla lamiera che copre il motore è dipinta la scritta «Daddy Rabbit »

(Papà coniglio);

L'aereo è pilotato dal capitano Cherles Peters, un amico di New Orleans in volo per la sua ultima missione.

« Daddy Rabbit» è il suo soprannome: siamo d'accordo che mi consegnerà quel bellissimo P-51D al rientro alla base.

Da domani l'aereo volerà col nome di « Glamorous Glen III »

Mi tengo vicino a Daddy e controllo la sua coda almeno tanto quanto controllo la mia, fa parte del nostro accordo.

« Ti conosco, figlio di putta*a », dice ridendo.

« Non lascerai che mi succeda niente durante il mio ultimo volo.

Ci tieni troppo al mio aereo. »

Il vecchio Daddy ha ragione!

Una nuvola di fumo nero è sospesa sull'obiettivo.

I bombardieri stanno per raggiungerlo.

Improvvisamente ne esplode uno.

In un enorme palla di fuoco provocata dalle bombe e dalla benzina.

Non un solo paracadute.

Viri, e tra il fumo e le nuvole vedi a centinaia i lampi delle bombe;

è il momento di massima concentrazione perchè tra pochi istanti i bombardieri torneranno indietro.

Il comadante ordina di sganciare i serbatoi alari di riserva.

Non puoi combattere con i serbatoi alari.

Tiri il cavetto, e in quel mnomento succede una cosa tremenda.

I serbatoi vanno giù, ma lo stesso sta facendo « Daddy Rabbit».

Cade•come un sasso, fuori dalla formazione.

Non è stato colpito, sono sicuro, ma sta precipitando.

Mi getto in picchiata per seguirlo.

« Il motore mi ha piantato in asso », urla.

E’ una di quelle situazioni così tremende da sembrare quasi divertenti.

Daddy è già sotto i 1500metri e io gli sono accanto, ala contro ala, mentre la contraerea ci spara addoso.

E’ la sua ultima missione e sta per fare un bel «buco ».

« Cristo, penso di mollarlo », dice.

« Tieni duro », gli rispondo.

« Domani lo piloterò io !

Cerchiamo di capire che diavolo succede. »

Controlliamo tutti gli strumenti, facciamo mille congetture, mentre l’immagine del terreno ha già invaso il parabrezza.

E le traccianti delle mitragliatrici ci lampeggiano accanto.

« Ehi, e la miscela di carburante? Passa su emergenza guarda che succede. »

Lo fa e d'improvviso il motore resuscita.,

Il vecchio Daddy cabra alla massima velocità con cui può mettersi il culo al sicuro con quel Packard Merlin.

« Devo avre chiuso per sbaglio il pulsante della miscela quando ho tirato il cavetto per sganciare i serbatoi », borbotta appena ha ripreso fiato.

L abbiamo scampata bella, ma ci ridiamo sopra.

«Ca@@o, Daddy, lo parcheggi subito e mi consegni le chiavi. »

Anche a me trema la voce.

Oggi non abbiamo avvistato neanche un caccia nemlco ma nessuna missione di combattimento può essere considerata di routine per definizione, il risultato è un'incognita finchè non si è atterrati di nuovo e spesso la parte peggiore è il ritorno a casa con un tempo orribbile, talvolta su un aereo azzoppato,lottando contro la fatica e la stanchezza.

Sono le prime ore del pomeriggio quando scendi a mille metri sui Mare del Nord e finalmente ti sganci la maschera dell ossigeno.

La carlinga puzza di carburante olio e sudore.

Hai mal di testa e sei affamato.

Prendi una tavoletta di cioccolata della razione d'emergenza, dura come un mattone a causa del freddo.

La devi mordere con i molari e ha un sapore magnifico.

Quei maledetti culi di pietra giù alla base hanno già fatto la seconda colazione e quando atterreremo la mensa sarà chiusa.

Prima di essere liberi per il resto della giornata dovremo fare un'ora di rapporto agli ufficiali delle informazioni.

A quel punto saranno almeno le tre e mezzo.

Se non pioverà e se non saremo troppo stachi, andremo in bicicletta fino a Yoxford per riempirci la pancia di pesciolini e patatine fritte.

Questa faccenda della mensa ci fa incazzare ogni volta, ma siamo di umore ancora peggiore ,quando torniamo a casa senza aver riportato nemmeno una vittoria.

Siamo a circa sessanta chilometri dalla costa inglese quando chiediamo per radio la rotta.

A volte Leiston è talmente immersa nella nebbia che siamo costretti ad atterrare in altre basi.

A Bud Anderson una volta fu ordinato di scendere in una base di bombardieri, la visibilità non superava i quindici metri e si mise in finale, seguito dalla sua squadriglia di quattro, cercando quasi a tentoni le luci della pista.

Sul più bello vide due fortezze volanti, una proprio davanti al muso, l'altra poco più in basso.

Per poco non ci atterrava sopra.

Detto cosi, sembra terrificante, ma finisci per abituarti; come un automobilista che ritrova la strada anche se il tempo è pessimo, e ci si dimentica di tutte le difficoltà Del resto conosci la zona come il palmo della tua mano, così allinei la discesa prendendo come punto di riferimento un faro, una strada o un campo arato.

Quando la visibilità è davvero pessima, da terra sparano dei bengala e ti sembra di venire giù lungo una scala a chiocciola fino al limite della pista.

Il fatto miracoloso è che in fase di atterraggio abbiamo perduto un solo .pilota!

uno stupido incidente.

Era alla sua ultima missione e arrivò gridando per radio:

«Dite alla mamma che torno a casa », fece un tonneau di saluto sul campo e prese in pieno un albero.

 

Stavolta hai cento metri di visibilità e soltanto un leggero vento laterale, una pacchia. Rulli fino alla piazzola, dove ti aspetta il sergente Webber, e spegni il motore.

Noti subito la sua occhiata di disappunto quando s'accorge che i portelli delle mitragliatrici sono ancora chiusi col nastro adesivo.

E’ la tua venticinquesima missione da quando sei tornato e non hai ancora combattuto con un aereo nemico.

E’ come andare a caccia per sei ore nei boschi senza vedere neanche un maledetto scoiattolo.

Ma ti trascini fuori da quella carlinga stanco e indolenzito come se avessi dovuto vedertela con l'intera Luftwaffe.

Magari domani riuscirai a tirarne giù tre o ti farai beccare da un tedesco, ma la routine di quelle giornate lunghe e massacranti è sempre uguale.

Eppure, ci si diverte.

So che è difficile da credere, e forse ancora più difficile da spiegare.

ma è veramente cosi!

 

Tratto da vivere per volare

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Modificato da Dave97
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  • 2 settimane dopo...

Nelle notti di pioggia ascoltavamo i dischi di Glenn Miller e tostavamo tramezzini di formaggio sulla stufa a carbone nella baracca del capo squadriglia.

Se durante il giorno avevamo avuto fortuna, marchiavamo un'altra svastica sulla porta con un ferro rovente.

Ogni svastica rappresentava una vittoria in combattimento e alla fine del mio turno su quella porta ce n'erano cinquanta.

In quattro avevamo collezionato più della meta degli abbattimenti complessivi del gruppo.

Durante l'ultima settimana di novembre divenni un doppio asso con undici vittorie in un duello che rimase storico, la più grande vittoria individuale americana della guerra aerea.

Andy comandava il gruppo e io una delle squadriglie.

Il nostro compito era di scortare altri Mustang diretti a Poznan, in Polonia.

Portavano una bomba e un serbatoio ausiliario sotto le ali per attaccare dei depositi sotterranei di carburante.

Li coprivamo volando a diecimila metri, mentre loro, armati di bombe, incrociavano più in basso.

Sui radar tedeschi fummo scambiati per una flotta di bombardieri pesanti senza scorta e la Luftwaffe fece decollare ogni caccia disponibile in Germania orientale e in Polonia.

Andy e io li vedemmo arrivare per primi; a ottanta chilometri o più, sembravano una nube nera sempre più vicina a noi.

« Dio onnipotente, ce ne devono essere centocinquanta », esclamò Andy.

Non potevamo credere a una simile fortuna.

Andy ordinò una virata a sinistra e io mi trovai in testa; mollammo i serbatoi ausiliari e piombammo come falchi sulla retroguardia dei caccia tedeschi.

Noi eravamo sedici e loro oltre duecento, ma presto altri Mustang dello stormo arrivarono a dare manforte.

Cristo, c'erano aerei da tutte le parti.

Ne tirai giù due subito; uno esplose, ma dall'altro si lanciò il pilota.

Lo vidi saltare, ma aveva dimenticato di allacciarsi l'imbracatura del paracadute; gliela strappò via l'aria, ed egli cadde giù roteando.

L'ho ancora davanti agli occhi.

Un duello aereo ha un suo tempo particolare, non so per quanto mi avvitai e feci capriole nel cielo.

A un certo punto mi ritrovai a seicento metri da terra dopo aver abbattuto quattro tedeschi.

Tornato alla quota giusta, m'accorsi che ero rimasto solo.

Ma fin dove mi riusciva di vedere, da Lipsia su fino al nord, la terra era cosparsa di rottami ardenti.

Uno spettacolo spaventoso.

In seguito scoprimmo che non avevamo neppure attaccato la loro forza principale: i tedeschi avevano mandato in aria 750 caccia contro quella che ritenevano un'imponente flotta di bombardieri.

Andarono a sbattere contro duecento Mustang di tre diversi stormi e persero novantotto aerei.

Noi undici.

Salii a quota diecimila e vidi tre puntolini di fianco a me leggermente più in alto.

Mi erano rimasti ancora un bel po' di carburante e di munizioni e avevo appena iniziato la virata per raggiungerli, quando udii una voce familiare:

«Un nemico giù a sud ».

Solo una persona poteva avermi visto da quella distanza.

« Andy»,chiesi, « sei tu? »

Era lui.

E pazzi bastardi quali eravamo, volammo l’uno contro l'altro per lanciarci in un combattimento simulato, felici come pasque.

Lui ne aveva abbattuti tre.

Andy ci guidò verso casa e fu uno dei momenti più divertenti della nostra amicizia.

Giravano dei venti piuttosto insoliti da prua e dopo un paio d'ore Andy, convinto di essere sulla Manica, cominciò a scendere.

E noi dietro, completamente immersi nelle nuvole, fin quando ci trovammo di colpo proprio sulle postazioni contraeree delle isole Frisone.

Penso che avremmo potuto camminare fino a casa su quegli scoppi.

Il cielo ne era completamente oscurato.

E noi li, a soli centocinquanta metri sopra quei cannoni.

Quante ne dicemmo al povero Andy.

Scese dall'aereo che aveva le orecchie rosse.

E continuammo così per giorni.

Cavolo, non gliel'ho ancora perdonata.

 

Tratto da Vivere per volare

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- Sabbia e Rabbia -

E’ il mattino del 26 ottobre 1942, sull'aeroporto di Bu-Amud, a Tobruk.

Soffia un «ghibli» caldo e accecante; la sabbia sollevata violentemente dal vento ci investe, ci punge, penetra dappertutto, negli occhi, nella combinazione di volo, nelle tende, dentro i velivoli decentrati, in bocca.

Ecco, in bocca.

Siamo nel pieno della terza ritirata e mangiamo sabbia e rabbia;

rabbia per la nostra impotenza a fermare l'avversario, dal quale ci difendiamo come possiamo, come dal «ghibli» che soffia impietoso e inesorabile, fischiando ed ululando, facendo oscillare la tenda della 92a Squadriglia caccia, dove siamo riuniti,piloti e specialisti ,ad esaminare l'ordine di operazioni arrivato poco fa.

Esso prevede inizialmente una prima formazione di quattro Macchi C.200 da inviare in crociera di protezione fuori dal porto per un paio d'ore.

Il capitano Sansone, comandante di squadriglia, ha già fatto l'ordine di volo, piloti designati :

ten. Petrosellini, serg. magg. Pavan, serg. Moressi, serg. Pisano.

Aspettiamo soltanto che la visibilità migliori un po' per partire.

Il capo motorista serg. magg. De Zen e il suo vice serg. magg. Pistilli hanno scaldato i motori, con i filtri antisabbia ben chiusi.

Il capo armiere serg. Mottola ha rifornito le mitragliatrici di nastri.

Il cap. Sansone di tanto in tanto si affaccia per guardare fuori.

Dentro la tenda si soffoca.

Finalmente il comandante dice: «Potete partire».

Ci avviamo agli aerei, schiaffeggiati dal vento e dalla sabbia.

Il maresciallo Foti, capo montatore, mi aiuta ad indossare il paracadute e l’aviere Vendemmiati, marconista, mi assicura che le radio sono state provate su tutti i quattro velivoli.

Il vento è ancora mollo forte, ma la visibilità è leggermente migliorata: si riesce a distinguere il limite opposto del campo, dove sono decentrati alcuni S.82.

Salgo a bordo e, in piedi sui seggiolino, alzo il braccio destro e ruoto l'indice puntato verso l'alto per ordinare la messa in moto ai gregari.

Partono tre motori soltanto: quello di Pavan non ne vuol sapere.

Io, Moressi e Pisano, seduti ognuno nel proprio velivolo, guardiamo preoccupati i tentativi degli specialisti di farlo avviare.

Niente, non va in moto.

De Zen corre vicino a me e, urlando per sovrastare il rumore del mio motore al minimo, mi grida che non c'è niente da fare, che forse c'è sabbia nei magneti: bisognerebbe prendere un altro aereo, prepararlo, scaldare il motore ...

Decido a malincuore di lasciare Pavan a terra e faccio segno con le mani a Pisano e Moressi di seguirmi nel rullaggio.

Decolliamo insieme in «ala destra», ossia tutti e due i gregari a destra del capo pattuglia.

Sù il carrello, iniziamo a salire: l'ordine prevede la crociera di protezione a 4.000 m a Nord dell'imboccatura della baia.

Ci teniamo in contatto, i gregari ed io, con brevi cenni delle mani, dovendo rispettare il silenzio radio.

A 1.000 m usciamo dal «sabbione» e ci troviamo fra i caratteristici cumuletti africani, che nella parte inferiore riflettono il giallastro del deserto.

Ora la visibilità è ottima e a 3.000 m siamo nel sole pieno.

Cominciamo a girare, guardandoci intorno: a 4.000 m ci troviamo un bel po' sopra le nubi sparse sottostanti.

Sembra tutto cosi calmo: continuiamo la nostra virata e di tanto in tanto ci guardiamo l'un l'altro, camuffati come siamo con casco, occhialoni, maschera dell'ossigeno.

Almeno quassù si gode un po' di fresco.

Sorvegliando il cielo circostante, alzo lo sguardo, lo giro avanti e indietro, lo abbasso.

E ho un sobbalzo: un bimotore, molto più basso di noi, appena sotto i cumuletti (quindi intorno ai 1.000 m) si sta dirigendo verso il porto.

Sembra uno Ju.88 tedesco: ma se invece fosse un ricognitore nemico?

Meglio accertarsene.

Il bimotore entra ed esce dai cumuli: da 3.000 m sopra di lui lo distinguo appena e non sono in grado di vedere i distintivi di nazionalità.

Faccio segno con la mano a Moressi e Pisano di iniziare l'affondata ma di non cominciare a sparare se non dopo che l'abbia fatto io.

Durante la picchiata continuiamo a vedere il bimotore che, fra un cumulo e l'altro, si avvicina al porto.

Quando siamo ad un migliaio di metri sopra e dietro di lui, improvvisamente, con una manovra rapidissima, fa un strettissima virata a tutto motore (si vede il fumo nero uscire dai tubi di scarico). Illuminate dal sole distinguo chiaramente le coccarde rosso-blu e la sagoma dell'aereo, un Martin Maryland (ne abbiamo visti molti, durante l'avanzata, abbandonati a Sidi Barrani; quindi una vecchia conoscenza).

 

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Accendo il collimatore, tolgo la sicura alle armi.

Virando seguito dai gregari, comincio a sparare.

Dopo un po' anche Pisano e Moressi, leggermente scalati, aprono il fuoco.

Il Maryland gira strettissimo, con le classiche scie di condensazione all'estremità delle ali, e sale cercando di infilarsi nei cumuli.

A un tratto lo perdiamo, poi sbuca da una nube, in stretta virata a destra e si trova in coda a Pisano.

Apre il fuoco con il cannone da 20 mm che ha nell'ala sinistra.

Moressi ed io gli siamo addosso da dietro; lui inverte la virata, gira a sinistra ed entra nuovamente in una nuvoletta.

Non c'e che dire: è un pilota di classe.

Manovra il pesante bimotore come fosse un caccia.

Mi infilo deciso fra due cumuli molto vicini, sperando di riacciuffarlo.

Giro la testa, cerco Moressi e non lo vedo più.

In mezzo alle nubi, ci siamo distaccati, così come è rimasto distaccato Pisano.

Forse lo stanno cercando, come faccio io, per conto loro.

Eccolo nuovamente, diritto in salita, avanti e sopra di me, con prua verso il mare aperto; probabilmente pensa di averci seminati.

Gli corro dietro, cercando con gli occhi i gregari.

Non li il vedo: sono solo con lui.

Gli sono in coda, ma il mitragliere dalla torretta binata apre il fuoco.

Faccio un «S» per evitare che mi inquadri e, in virata provenendo dalla sua destra, gli infilo una raffica nell'ala.

Il Maryland gira dalla mia parte di colpo, strettissimo:

è una manovra da maestro, per rendermi il puntamento quasi impossibile.

Con le mascelle serrate «tiro» disperatamente e riesco a stare dentro la sua virata; vado per sparare ancora, ma tutte e due le armi si inceppano.

Continuiamo a girare strettissimi, io dietro a lui, mentre tento disperatamente, azionando le leve di riarmo, di rimettere in funzione le due mitragliatrici.

La giostra continua e io lavoro come un matto fra cloche, manetta, comandi delle armi.

Finalmente, riesco a far partire una raffica da una sola mitragliatrice.

Una seconda raffica e subito il suo motore destro è una palla di fuoco.

La sua velocità diminuisce immediatamente.

Vedo lo sbuffo del fumo bianco dell'estintore uscire dal motore destro e l'elica fermarsi in bandiera.

Il mio valoroso avversario è riuscito a fare correttamente anche la manovra d'emergenza per tentare di estinguere il fuoco.

Ma dal serbatoio forato continua ad uscire carburante che brucia; un lungo fumo nero segue il a Maryland.

Ormai vola con la prua verso terra; mi avvicino e gli faccio segno di seguirmi.

Il pilota annuisce: ha capito che è ormai conclusa ogni possibilità di rientro alla sua lontana base.

Porto la mano al casco nel saluto militare per esternargli in qualche modo la mia ammirazione.

Il crepitio improvviso di una raffica (sono vicinissimo al Maryland) mi scuote: il mitragliere dalla torretta mi spara, da una distanza di pochi metri.

Viro di colpo, mi allontano un po' e quindi indirizzo una raffica obliqua con l'unica arma efficiente verso la fusoliera, più o meno in corrispondenza della postazione del mitragliere.

Il Maryland abbassa il muso e si infila nelle nubi.

Lo cerco ancora disperatamente, picchiando anch'io, seguendo la scia nera del suo carburante che brucia.

Ma anche la scia, alla fine, si confonde con le nubi e poi con la sabbia sollevata dal «ghibli» che continua a soffiare impetuoso.

Sotto le nubi, a cinque o seicento metri, la visibilità è molto scarsa; niente da fare, l'ho perduto.

Mi mordo le labbra dalla rabbia e mi accingo a rientrare: non è facile, perchè ci si vede pochissimo.

Intravedo il molo di Tobruk, le navi in rada.

Ecco, Bu Amud è a Sud-Est.

Arrivo sopra, distinguo a malapena alcuni aerei decentrati: giù il carrello, giù i flaps, faccio un avvicinamento con molta prudenza, sballottato da continue sberle di vento.

Sorvolo una carcassa di G.12 in fondo al campo e finalmente sono con le ruote a terra.

Rullo lentamente lungo il bordo della superficie aeroportuale e finalmente arrivo al decentramento della 92a Squadriglia.

Tutti mi corrono incontro, bianchi di sabbia fino ai capelli.

Pisano e Moressi hanno già atterrato da qualche tempo e sono ansiosi di sapere.

Fermo il motore, scendo dall'aereo e ci avviamo insieme al comando dell'8° Gruppo per il rapporto.

Intanto racconto i fatti a loro due che, isolatamente, sono rientrati, soprattutto per far partire una nuova formazione per la crociera di protezione che dovevamo fare noi.

Trovo il comandante del gruppo, magg. Sacich, al telefono.

Poi mi fa cenno di avvicinarmi, ascolta il mio breve concitato racconto e subito dopo mi dice che il comandante dell'aeroporto, ten. col. Sostegni, gli ha comunicato che il Maryland ha atterrato col carrello retratto sulla spiaggia, a pochi chilometri da noi.

Corro dal medico e con l'ambulanza ci precipitiamo, sulle piste sabbiose, verso la spiaggia indicata.

Arriviamo che alcuni soldati stanno tirando il pilota ferito fuori dal Maryland quasi intatto (il fuoco evidentemente si è spento da solo) piazzato col muso sulla battigia e la coda in acqua.

Mi dicono che è l'unico superstite: gli infermieri corrono con la barella.

Lo adagiamo con precauzione, perchè il sangue gli cola dalla schiena.

Il tenente medico gli tampona alla meglio la ferita.

Il mio leale avversario è in «battle dress» grigio azzurro.

Sulle spalline i gradi di Flight Officer e la scritta «New Zealand»: un tenente pilota neozelandese biondo, con gli occhi chiari.

Mi guarda e capisce a volo: io sono «quello».

Mentre l'ambulanza corre verso Tobruk, gli tengo stretta la mano, gli asciugo la fronte madida di sudore.

Mi guarda e parla con fatica: ci intendiamo in francese e le nostre non sono le parole di due nemici.

Aerospazio, luglio 1984

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Ritorno a Campomarino

Inverno 1994.

Sono in auto con Giulio Cesare Graziani e Umberto Bernardini alla guida.

Stiamo andando a Campo-marino, paese del Molise vicino a Termoli, che, nel 1944, durante la campagna di liberazione nazionale, ebbe ad ospitare lo Stormo da bombardamento "Baltimore", il mio Reparto d'allora.

La strada corre lungo il corso del fiume Bifemo, da cui per altro prese il nome la nostra pista di volo, fatta di grelle di ferro, larga poco più di quaranta metri, stesa sulla spiaggia di Campomarino, parallela al mare.

Le altre vicine piste di Canne e Nuova, attaccale alla nostra, perpendicolari al mare, erano utilizzate dalla Caccia.

Prima dell'inizio della piana di Termoli uno sbarramento ha creato un grande lago artificiale, utilizzato, finora, solo per l'energia elettrica.

Al nord, con le splendide insenature che vediamo e i fili alberi messi a dimora sulle sponde, saranno probabilmente sorti insediamenti turistici.

Nuovi posti di lavoro, nuovo benessere per il Molise, la più giovane regione d'Italia.

 

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Inverno 1944.

Sono un Ufficiale in S.p.e., non il più anziano, non il più giovane.

Sono, pertanto quello giusto per svolgere un compito sgradito a tutti, me compreso:

smantellare l'accampamento di Campo Vesuvio (nel comune di Ottaviano di Napoli), precedente base dello Stormo, caricare i materiali ordinari sui nostri vecchi "Fiat 626" e aulocarri inglesi.

Poi, con gli specialisti non di equipaggio di volo, avieri di governo e i cani, tra i quali un cucciolo tirato su a vino dalla 253° Squadriglia, trasferimento a Campo Marino, la nuova base operativa per missioni sui Balcani.

Viaggiamo nel buio della notte.

Sono sul primo automezzo, un "'626", accanto all'autista.

Il finestrino è difettoso e, per quanti artifici io metta in essere, scende inesorabilmente e fa entrare un'aria gelida che rende penosissimo il lungo viaggio.

Traversiamo l'Appennino.

Paesi spettrali, all'apparenza deserti, privi di luci.

Persone isolate, piccoli gruppi, ai bordi della strada, nei crocevia, ci chiedono un passaggio.

Non è regolare, non sarebbe possibile, ma acconsento.

Non me la sento di non dare una mano, in quelle condizioni in cui viveva l'Italia di quei tanto travagliali giorni.

Qualche mese prima mio padre mi aveva accompagnato alla stazione Termini di Roma.

Avevo un Foglio di viaggio per Bari.

Molto avvilito, mio padre mi aiuta a salire sul carro merci, riservalo al personale militare italiano in trasferimento.

Non posso non pensare alle raccomandazioni in Accademia di tenere sempre alla dignità e alla forma, che, nei viaggi in treno, consisteva, ovviamente, nell'occupare un posta di I classe.

L'inseparabile valigia dell'Accademia, visibilmente segnata dall'Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, mi fa da sedile.

Non ricordo con esattezza la località di campagna dove il treno, prima di Napoli, fu costretto a fermarsi. Fui obbligato a scendere su una strada bianca, sterrata, comunale.

Veniva giù una pioggia leggera, noiosa, ma sufficiente per bagnarmi completamente.

Valigia in spalla, seguii le indicazioni di un contadino per raggiungere una stanzioncina di una ferrovia secondaria che mi avrebbe portato a Napoli.

Riuscii ad infilarmi in un vagone strapieno, in mezzo al chiasso e al vociare napoletano.

Si recavano in città per racimolare il pane quotidiano.

Riesco a raggiungere finalmente il Comando del Presidio.

Rimedio, in dotazione, un giaccone di pelle, da autista, e l'indicazione di un posto letto in una scuola elementare, ubicata nei quartieri spagnoli.

In un vicolo buio, prima di arrivare a conquistare la mia branda, mi colpisce una frase sprezzante di richiamo, rivolta in dialetto da una ragazzina, troppo truccata, ad una sua compagna che, automaticamente, nel vedere una divisa, si accingeva a proporre la sua compagnia intima:

" ... Lascialo perdere ... non lo vedi che è italiano! ... "

Aveva ragione, ero italiano.

Non ero perciò in condizione di poter offrire un pasto a lei e alla sua famiglia.

Non avevo "corned beef", ne "evaporated milk" e tanto-meno preziose sigarette.

Da ragazzo, negli anni trenta, avevo conosciuto una Napoli ben diversa.

Così anche quando ero in Accademia e nel primo anno di guerra.

La sconfitta militare, i bombardamenti, la fame l'avevano completamente trasformata.

Il giorno dopo ebbi ulteriori conferme, sotto tutti gli aspetti, tanto da indurmi a fare di tutto per mettermi in contatto telefonico con Campo Vesuvio, dove sapevo che c'era il mio Comandante Giulio Cesare Graziani.

Questi operò rapidamente tanto da evitarmi l'inutile trasferimento a Bari e ottenere il nulla osta per la presa in carico dal mio vecchio Gruppo, il132°.

Con un mezzo di fortuna finalmente raggiunsi il Reparto che stava effettuando il passagio sui "Baltimore".

Ritrovai l' Asso Massimiliano Erasi, seduto su una sedia coloniale, con un largo cappello di paglia a protezione dal sole.

Nell'estate del 1942 era stato mio istruttore di aerosiluramento a Gorizia.

Con lui, Giulio Cesare Graziani, Rindone e Marescalchi, un formidabile terzetto di Ufficiali del Corso "Rex". Poi, Durante, Frustaci, Aprea, Biagiola, del mio Corso "Turbine" e "pinguini" dell' ''Urano'' e del "Vulcano". Ancora nuovi amici come Fagiolo, ex 51 ° Stormo Caccia e mio paziente istruttore sul "Baltimore" e l'indimenticabile Brolis, il carissimo Agostino, della covata aerosilurante di Marescalchi.

Dopo il lungo periodo in ospedale a Gorizia, la lunga convalescenza, il periodo di Roma occupata dai tedeschi, ero di nuovo in un Reparto bellico, nel mio ambiente, nella mia seconda casa.

Roma e Napoli, con la corruzione portata dalla fame e dagli Alleati, erano dimenticate.

Sull'altro lato della stetta pista di Campo Vesuvio gli amici della caccia, anche loro impegnati nel passaggio sui nuovi velivoli ceduti dagli Alleati, prima di rientrare in zona operazioni.

 

 

Inverno 1994.

Sulla destra l'insediamento FIAT, poi i tornanti della vecchia strada statale Adriatica per entrare a Campomarino.

Il paese, venendo dalla nostra direzione, non sembra cambiato.

E’ rimasto come cinquantanni or sono.

A sinistra una piccola balaustra panoramica sul mare, poi la piazzetta con la vecchia Chiesa.

A destra la casa dello scomparso Barone Norante, ora Scuola elementare.

Infine, proseguendo e superando il bivio per il nostro vecchio accampamento, la nuova moderna Campomarino, con il Palazzo comunale che guarda sulla piazza dove e stato collocato, nel 1983, il monumento agli Aviatori, ai nostri compagni, caduti nella Guerra di Liberazione.

Parliamo con il Sindaco Ettore Catena e con l'Assessore Italo Casolino.

Otteniamo piena disponibilità per una cerimonia commemorativa da tenersi il 18 o il 25 settembre p.v.

Pasto veloce a Termoli da "Antonio" e poi ritorno a Campomarino.

Graziani si ferma con il figlio del Barone Norante, mentre Bernardini ed io andiamo verso il mare, alla ricerca dei ricordi della nostra vecchia pista.

A destra, sul ciglione, in luogo dell'accampamento sud africano, c'e il villaggio FIAT.

Sotto il ciglione corre la nuova velocissima Adriatica.

Lo stabilimento balneare, bar, ristorante, dove ci siano fermati nel 1983, in occasione dell'inaugurazione del pre-citato monumento, sono vuoti.

Il proprietario si ricorda di noi.

Ci offre un caffè, poi ci apre un'ampia vetrata sul mare.

Tira vento forte, gelido.

Bernardini lo affronta impavido in giacchetta, senza cappello.

Io mi rinserro nell'impermeabile imbottito e tengo fermo il copricapo.

E’ un vento che riconosciamo.

 

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E’ lo stesso vento che ci colpiva di fianco durante il decollo o l'atterraggio e rendeva più pericoloso il già delicato controllo del "Baltimore".

Ci viene naturale evocare episodi, ricordi antichi.

Su questa spiaggia, in questo paese, è rimasta una parte importante della nostra vita.

In quel punto, dove ora c’è l'apertura della barriera di scogli protettiva, al ritorno da una missione, si è infilato in mare con tutto il proprio equipaggio, Biagiola.

Dal paese la moglie lo ha visto morire.

Ed ancora, il decollo, a pieno carico di bombe, l'improvvisa uscita di pista di Grazioli con il suo navigatore Petruzzelli.

Purtroppo non ci vengono in mente i nomi dei due specialisti, chiusi nella vera e propria prigione, costituita dalla fusoliera del "Baltimore".

Prima di sentire il rumore, si vide una grande palla di Fuoco innalzarsi a campanile nel cielo.

Dei quattro uomini non rimase nulla.

Come nulla è rimasto nella storia del nostro Paese a ricordare questa come tanti altri episodi oscuri.

Non era Forse un "eroico bel gesto" accomodarsi nei propri posti di combattimento, giorno dopo giorno?

Il "navigatore" non aveva via di scampo perchè posizionato tra le due eliche.

Il "pilota" lo stesso, anche se in apparenza poteva sembrare quello privilegiato.

L'antenna della radio dietro il posto di pilotaggio sarebbe stata, inevitabilmente, un'arma letale.

E se questa non bastava, c'era la corta fusoliera e gli imponenti piani di coda.

Non parliamo degli specialisti di bordo, costretti ad infilarsi da uno stretto buco nel ventre dell'aereo e, come abbiamo, purtroppo, potuto osservare, senza possibilità di scampo in caso di incidente o combattimento aereo.

 

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Il campo sportivo è sempre nello stesso luogo, nel vecchio paese, accanto al cimitero.

Ora è contornato da gradinate e da una tribuna.

Anche qui venne combattuta una battaglia.

Una battaglia che, istintivamente, nacque da un'infinità di frustrazioni represse.

Una salutare battaglia a "cazzotti" contro i sudafricani che, pur essendo terminato il loro turno, non volevano lasciare libero il campo.

Giulio Cesare Graziani, come suo costume, sempre in prima linea, seguito da tutto il personale presente, si buttò gagliardamente nella mischia.

Dall'accampamento, specialisti ed avieri, non appena informati, accorsero numerosi, qualcuno anche con le armi.

Conclusione: un sudafricano rimase sul terreno.

Probabilmente nel suo Paese sarà ricordato come "morto per la Patria"

Dopo l'inchiesta e l'accertamento della verità ricordo l'imperturbabilità e la naturalezza con la quale il Comandante inglese dello "Wing" organizzò un cocktail per sancire la pace ufficiale tra i due Reparti ai suoi ordini.

Ed ancora l'ospitalità offerta al personale, durante le feste natalizie, in povere semplici case contadine dove, intorno al caminetto a legna, dominavano i ritratti in divisa dei mariti e dei figli.

 

Indimenticabili le tende "Moretti" costruite per i climi caldi.

L’umidità creata dal terreno argilloso e il freddo intenso di quel duro inverno 1944/45 sono albergati ancora, in via permanente, nelle nostre ossa.

Man mano ogni tenda, con l'aiuto dei nostri magnifici specialisti, si era attrezzata, per superare il freddo inverno, con un fusto di benzina, tagliato in basso come una bocca di caminetto.

Dentro mattoni da costruzione sui quali, attraverso un tubicino da carburante, munito di rubinetto graduabile nell'apertura veniva ovviamente incendiata e tenuta accesa dal flusso metodico del carburante.

In pratica si dormiva stesi sul pagliericcio sempre bagnato delle brande, ma in un'atmosfera calda.

Nel caso di guasto dell'impianto di riscaldamento, le norme di ... sicurezza erano costituite dalla prontezza di riflessi e dalla fuga.

Avevo anche un comodino, costituito da un rocchetto di legno, abbandonato, di cavi telefonici.

Gli Ufficiali specialisti Mastrolorenzi e Bernazzani, quest'ultimo già marconista dell'aereo di Mussolini, avevano surclassato tutti e raggiunto il "top" della raffinatezza antiumidità.

Avevano costruito una tenda pensile, con i paletti di sostegno poggiati su quattro fusti di benzina, uniti e tenuti fermi da grelle di Ferro come quelle della pista di involo.

Le grelle, a loro volta, erano rivestite da una moquette, costituita da vecchie coperte militari.

 

La fine delle operazioni, la fine della guerra.

L'ultimo volo venne effettuato il 5 maggio 1945.

Un ordine radio, mentre eravamo in pieno Adriatico, ci fece invertire la rotta e scaricare in mare la dotazione di bombe da caduta.

Era una giornata di sole.

Al rientro, in vista della pista, sorvoliamo Campomarino in una formazione davvero insolita e stravagante: gesto di esultanza per la fine della guerra, che è costata tanti sacrifici agli aviatori italiani, a tutti i combattenti del sud; sacrifici che purtroppo, dovremo amaramente vedere in gran parte vanificati con le dolorose mutilazioni territoriali imposteci dal trattato di pace.

Scaccio questa angosciosa considerazione dalla mia mente e la sostituisco con una visione di un campo di ulivi nei giorni del raccolto, con nostri avieri che, frammmisti alla gente del posto, aiutano a stendere i teli, a far cadere le olive e colmare gli appositi cesti.

Sono giornate serene.

E’ il primo raccolto di pace, dopo cinque anni di aspra guerra.

Ed è anche il segnale che la vita sta rinascendo.

Molti, però, rimarranno per sempre a Campomarino.

Sono i miei compagni aviatori caduti nell'adempimento del dovere e, purtroppo, dimenticati da quanti alla guida della Nazione avrebbero avuto l' obbligo morale di onorarne perennemente la memoria, così come di tutti i soldati morti, non importa in quale guerra, non importa su quale fronte, nel sacro nome della Patria.

 

P.Ammannato

Aeronautica, aprile 1994

Modificato da Dave97
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Cinque Uomini ed un’Aquila

1° maggio 1942, 204° Squadriglia siluranti.

aeroporto di Gadurra (Rodi).

Ore 8,45.

Decollo di due "S.79" al comando del Cap. De Stefano, sul cui aeroplano io ho preso posta come motorista, per una ricognizione offensiva nelle acque di Porto Said, ove è stata segnalata la presenza di navi nemiche.

Pochi istanti dopo viriamo, mettiamo la prua verso la zona segnalata nel più assoluto silenzio radio per non cadere nelle maglie dell'intercettazione nemica.

I motori dei due nostri aeroplani hanno un ritmo uguale e possente, che a noi motoristi in volo pare sia quello della nostra anima.

Sospesi, in una smaterializzante solitudine, fra il cielo e il mare, mentre il sole si trasforma a volte in una lastra d'acciaio abbagliante, solo la bussola ci indica la rotta.

Dopo un' ora di volo, nessun avvistamento.

Solo cielo e mare che si fondono tra di loro in uno sconfinato vuoto.

Ma ecco che di li ad un'altra ora di volo - sono le 10,45 -, al termine della quale il mare è andato prendendo un colore grigio azzurro, incupito qua e la da scure nuvole basse che vanno velando il sole, scorgiamo all'improvviso a 10 miglia dalla costa di Porto Said, 1500 m. al di sotto di noi, una formazione navale nemica composta da varie navi da guerra e tre piroscafi.

Immediati gli ordini del Comandante:

continuare il silenzio radio, traguardare ed attaccare il primo piroscafo che ci sarebbe venuto a portata di tiro.

Di li a qualche istante, mentre il Cap. De Stefano e il 2° pilota manovrano per portarsi a bassa quota e da qui lanciare il nostro siluro, vediamo un piccolo punto nero disegnarsi nel cielo e muoversi velocissimo contro di noi.

Un caccia avversario.

Nello stesso momento una raffica di mitraglia, sparata da una delle navi colpisce in più punti il "79", che ha un grosso sobbalzo.

Ciononostante, sperando che sia rimasto indenne il meccanismo di lancio del siluro, procediamo decisamente nell'azione e, giunti al punto minimo per l'attacco, azioniamo il sistema di lancio.

Il siluro parte via, ma, purtroppo, forse per il fondale molto basso, forse per una tempestiva contromanovra della nave attaccata, esso non coglie il bersaglio.

Maledizione!

Nella successiva "manovra di scampo" al persistente tiro della contraerea delle navi ci viene addosso il caccia intravisto qualche istante prima, seguito subito da un secondo.

Replichiamo al fuoco dei due caccia con tutte le armi di bordo;

io con la mitragliatrice ventrale, il marconista con quella laterale e l'armiere con quella poppiera. Combattimento duro, spietato, e per noi in uno stato di chiara inferiorità.

Colpito a morte il marconista, io sono ferito alla testa da una scheggia.

Ho il volto coperto di sangue.

Continua, intanto, l'S79 a prendere colpi su colpi.

Abbiamo la certezza di finire in mare insieme alla cagnetta, la dolce, affettuosa Birby, che portiamo sempre con noi.

Proseguiamo, tuttavia, a combattere decisi a vendere cara la pelle, tant'e che ad un certo momento non vediamo più girarci attorno i due caccia avversari, uno dei quali, centrato dal tiro delle nostre armi, e andato a sprofondarsi nel mare.

Scomparso, nel frattempo, alla nostra vista l'altro S.79.

Del pari il secondo caccia, che temiamo, però possa tornare ben presto ad assalirci.

Anche se a questo punto il combattimento può dirsi finito

(sempre ammesso che il caccia di cui sopra abbia desistito dalla lotta), la situazione a bordo resta drammatica.

Equipaggio ridotto a 4 persone, fra cui il sottoscritto che continua a perdere copiosamente sangue; velivolo forato dappertutto con centine sventrate; motore centrale bloccato;

assetto di volo precario, tra continui sbandamenti; la radio e altri strumenti di bordo fuori uso.

Mi fascio la ferita con una benda di fortuna, mi incollo ad una mitragliatrice, così come l'armiere, benchè anche egli ferito ad un braccio, ad un'altra arma.

Occhi inchiodati all'esterno dei portelli, pronti ad affrontare l'eventuale, è assai probabile riapparizione del caccia inglese, mentre, con una sconcertante padronanza di nervi ed eccezionale freddezza, il Cap. De Stefano e il secondo pilota vanno impegnandosi al massimo, madidi di sudore e i volti pietrificati dalla tensione, per poter governare il velivolo in quelle tremende condizioni.

Trascorrono lunghi, interminabili minuti.

A 50 metri da noi la superficie del mare, pronto ad inghiottirci.

Miracolosamente i due motori reggono ancora bene e sono per noi l'ultimo filo di speranza, che, però, ad un tratto si rompe:

dal foro di una tubazione esce a fiotti olio.

Mi precipito su di essa, tampono il foro con una mano.

Un dolore lancinante, che l'alta temperatura dell'olio mi brucia la mano.

Lo sguardo mi si annebbia.

Ma debbo assolutamente resistere, poichè, se avessi tolto la mano dal foro e non fosse più rimasto olio nei serbatoi, l'aeroplano si sarebbe inevitabilmente trasformato in una gigantesca torcia ardente.

In aggiunta nessuna possibilità di lancio in mare con il paracadute e il battellino di salvataggio - sul quale

poi non si potrà fare alcun affidamento poichè avrebbe potuto essere bucato - stante la quota che tenevamo per ridurre la capacità di manovra del caccia avversario nel caso di un suo ritorno.

Giunti fuori dal tiro delle navi inglesi e dal pericolo di un nuovo attacco da parte del suddetto caccia - di certo allontanatosi dalla zona per avere ritenuto il suo pilota che il nostro S.79 non sarebbe stato in grado di restare in aria per i colpi ricevuti - saliamo piano piano dai 50 metri di quota ai 500.

Ed è, questo, il momento in cui riaffiora in noi un barlume di speranza di salvezza.

Andiamo avanti cosi per un paio di ore, con il fiato che si mozza in gola ad ogni scricchiolio dell'aeroplano e, finalmente, ci appare l'amica costa dell'isola di Rodi.

Ci sentiamo quasi liberi dall'incubo da cui eravamo stati presi, quand'ecco il Cap. De Stefano avvertirci che l'apparato di fuoriuscita del carrello era in avaria e che, pertanto, non restava che tentare un atterraggio sulla pancia;

manovra che, già di per se stessa assai problematica e rischiosa, lo era ancora più in una simile circostanza poichè con l'impatto contro il terreno il velivolo, date le lesioni riportate, avrebbe potuto andare in pezzi, esplodere, incendiarsi.

Ci aggrappiamo qua e la ai longheroni dell'aeroplano con le poche forze che sono rimaste in noi, ci abbandoniamo fatalisticamente al nostro destino.

Il Comandante compie alcuni giri sull'aeroporto per fare capire che avrebbe tentato il succitato atterraggio, quindi comincia a perdere lentamente quota.

Di li a pochi secondi un urto violento.

Ma con l'aiuto di Dio, il vecchio S.79, l'eroe di tante battaglie vittoriose, ha vinto anche questa, riportando al nido con il suo grande "cuore" e sebbene gravemente "ferito", cosi come sono uso fare le aquile con i propri aquilotti, cinque uomini, ancorchè uno di essi senza più vita

 

Bruno D’Orazio

Aeronautica, Novembre 1992

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In Memoria del Gen.Giuseppe Cimicchi

Caro Peppino, ed ora della "vecchia" 281a Squadriglia di Rodi sono rimasto solo.

Scomparsi in combattimento Rovelli, Forzinetti, Buscaglia e Faggioni, eravamo sopravvissuti tu ed io e potevamo nei nostri incontrai parlare degli eventi vissuti a Rodi, ma ora con chi li ricorderò pi?

A Rodi, sull'aeroporto di Gadurra, luglio 1941, incontrari te quando fui assegnato alla Squadriglia Buscaglia.

La Squadriglia, quando arrivammo Forzinetti ed io, aveva solo due ufficiali piloti, il Comandante Cap. Buscaglia e tu perchè in quel momento l'amico Faggioni era in licenza in Italia.

Di li a poco arrivò anche il Ten. Rovelli;

in tal modo la Squadriglia raggiunse l'organico di 6 ufficiali piloti.

L'attività della Squadriglia ci impegnò in giorni alterni in lunghe ed estenuanti ricognizioni armate della durata di cinque e sei ore alla ricerca del naviglio nemico.

Nel volgere dei tre-quattro mesi furono affondate circa un centinaio di tonnellate di mercantili (petroliere e trasporto) e fu silurata la corazzata "Queen Elizabeth".

Caduti nel dicembre '41 Rovelli e Forzinetti, trasferito Faggioni quale istruttore al Nucleo di Pisa, Buscaglia, constatato che non sarebbero stati assegnati i sostituti, sciolse la Squadriglia, e noi, tu ed io fummo assegnati al 41° Gruppo comandato dal T.Col. Muti.

Ma dopo tre mesi di attività presso questo reparto rientrammo in Italia per assumere il comando di squadriglie dei costituenti Gruppi Autonomi Aerosiluranti.

Tu Peppino fosti assegnato al 130° Gruppo di sede in Sardegna mentre io andai al 132° Gruppo comandato da Buscaglia e di sede in Sicilia.

Con le nuove destinazioni ci separammo, ma per poco perchè il mio Gruppo a cagione degli eventi bellici fu dislocato in Sardegna per meglio operare sulle coste dell'Africa francese.

Nell'autunno del 1942, quando già le vicende belliche erano avverse alle nostre FF.AA., i reparti aerosiluranti furono impegnati in quotidiane azioni contro il naviglio nemico nel tentativo di bloccare l'avanzata nemica in Africa francese.

Fu in questo periodo, dicembre '42, che tu fosti protagonista di un drammatico volo.

Alla testa di una formazione di cinque velivoli diretti nella zona di Bona-Biserta per attaccare unità nemiche fosti assalito dalla caccia avversaria che riuscì ad abbattere uno dietro l'altro i quattro gregari, l'ultimo il Tenente Coresio in vista delle coste sarde:

con feriti a bordo ed il velivolo danneggiato raggiungesti ugualmente l'aeroporto di Elmas.

Rimanemmo in linea di combattimento sempre operando dalla Sardegna e dalla Sicilia e dalle basi del continente quando il nemico sbarcò in Sicilia; superammo la difficoltà dell'armistizio a seguito del quale per vie diverse ci ritrovammo sullo stesso aeroporto di Korba (Tunisia) in mane agli Americani e di li a Lecce sull'aeroporto di Galatina.

Non avendo velivoli adeguati per partecipare alle operazioni belliche e contribuire alla risurrezione della nostra Forza Armata, aderimmo alla costituzione del Battaglione Azzurro su iniziativa del Magg. Angelo Mastragostino.

Tu rimanesti al Battaglione io invece tornai a volare sui velivoli datici dagli Anglo-Americani.

Ci separammo: ciascuno continuò la propria guerra e a conflitto ultimato ci riabbracciammo all'aeroporto dell'Urbe nel giugno del 1945.

La guerra era finita!

Insieme ricordammo il passato, gli amici caduti, ci sembrava di sognare eppure eravamo vivi e superstiti di tante avventure belliche.

Peppino, amasti profondamente la nostra Patria per la quale ti prodigasti oltre ogni sforzo ed ogni rischio. La tua ala vittoriosa ha spaziato per tutto il Mediterraneo dalle coste Libanesi a Gibilterra.

Parlare e scrivere di te da parte mia non mi è facile perchè gran parte delle tue vicende sono anche le mie.

I ricordi di te sono tanti da quelli bellici a quelli delle poche ore di riposo sempre in tensione.

Spesso parlavamo delle vicende della guerra e non sempre eravamo della medesima opinione, però eravamo concordi che essa doveva essere combattuta al vertice di qualsiasi sacrificio.

Ricordo che quando le sorti del conflitto erano già decise ed eravamo a Littoria (Latina) nell'agosto del '43 in attesa della telefonata per decollare, ti vidi con le lacrime agli occhi mentre mi gridasti:

"ormai tutto è perduto; vani sono stati i nostri sacrifici e l'olocausto di tanti compagni caduti, eppure bisogna ancora affrontare rischi e versare sangue per servire fino in fondo la Patria".

La Patria nella quale hai sempre creduto e servito con esemplare dedizione.

La tua dipartita costituisce un vuoto incolmabile nelle file degli anziani aviatori:

lasci me orfano di una amicizia nata e cresciuta al crepitare delle mitragliere fra lo scoppio delle granate nemiche.

 

Giulio Cesare Graziani

Aeronautica , Novembre 1992

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Il cerchio si stringe.

Il 22 Giugno ricevo l'ordine di portare materiale all'aeroporto di Sigonella a Catania, materiale importante per la difesa.

Parto subito nel primo pomeriggio per poi rientrare in serata a causa degli abbondanti bombardamenti aerei sempre in atto da quelle parti.

Dopo aver finito di assaporare, con il sole dalla parte giusta, la bellezza incantevole del Golfo di Napoli e della costiera amalfitana, accorgendomi di essere troppo alto, decido di ridurre la quota.

Proprio in quell'attimo, da sotto parte una grossa raffica che termina appena davanti al muso del mio apparecchio e subito dopo vedo sfrecciare un bimotore da caccia inglese con un forte armamento ad una velocità superiore ai 600 km/h: è un Mosquito.

Mi ha sbagliato di poco, la mia bassa velocità di crociera, 250 km/h, l'ha tratto in inganno ed ha sparato troppo avanti.

Ora è più alto di me, gira largo e ritorna frontalmente all' attacco; come unica soluzione per difendere la cabina sono costretto a girargli il muso contro, in quanto il motore centrale, uno stellare centoventotto Alfa Romeo, mi può aiutare ad incassare gli eventuali colpi.

Il Mosquito che non si aspetta questa mossa è obbligato improvvisamente a cambiare rotta per evitare uno scontro frontale, che avrebbe trasformato i due aerei in un unico falò.

Brandi, il mio bravo armiere, anche al secondo attacco non riesce a sparare, mentre Binotto, il mio secondo, mi segnala che il Mosquito sta di nuovo arrivando sul traverso da destra:

a questo punto non so più cosa inventare e rimango fermo ad aspettare.

Forse mi crede disarmato e vuole venire a constatare da vicino.

Brandi, il marpione, lo lascia avvicinare fintanto che non raggiunge la giusta distanza per scaricargli addosso la 12,7 senza fare economia di colpi;

anche il Mosquito ha sparato tentando di difendersi, mi passa sopra per poi perdere di quota e volare verso terra.

Quando sono sicuro che desiste dal combattimento, punto all' aeroporto di Monte Cervino, devo assolutamente verificare quali danni ho subito da questo attacco.

A bordo, nel primo sedile a ridosso della cabina, c'e il Col. Fernando Mariani, comandante del 142° Regg. Costiero in Sicilia, era nella guerra 1915-1918 con l'attuale nostro comandante Generale Matricardi, ha seguito con interesse e fermezza le varie fasi del combattimento.

A Monte Cervino constato che i danni subiti non sono gravi:

ho incassato quei colpi che entrano ed escono dalla fusoliera.

Il motorista mi informa che il colpo più serio ha attraversato la cabina incendiando un pacco di sigarette "Africa" situato sul cruscotto e per timore di guai più gravi le abbiamo gettate in mare.

Brandi mi riferisce di aver colpito il Mosquito con la sua lunga raffica e, senza più avere la speranza di poter rien¬trare in Tunisia, l'aereo nemico ha dovuto scegliere la costa italiana.

Ci siamo esaltati tutti cinque per un Mosquito che con ogni probabilità è stato abbattuto e se saremo in grado di dimostrarlo ci sarà un riconoscimento per l' equipaggio di cinquemila lire, somma enorme per quei tempi.

Faccio preparare il battellino di bordo da lanciare al naufrago, imbarco anche un Tenente pilota della caccia Egeo Malagoli, che deve presentarsi a Gela, munito di macchina fotografica per documentare l' eventuale ritrovamento del pilota dell'aereo abbattuto in prospettiva del conseguimento del premio.

A causa del trambusto e dell'agitazione per il combattimento, commetto uno stupido errore; vado infatti a cercare il naufrago nel luogo dove ci siamo battuti anzichè cercarlo sotto costa, dove probabilmente è precipitato l'aereo nemico, zona che si consiglia di non frequentare perchè infestata dai Mosquito.

Non trovo nulla e proseguo il volo allargo in pieno mare, destinazione Sigonella dove arrivo verso le sei del pomeriggio impiegando quasi quattro ore per questa attraversata.

Il primo impatto avviene con un Capitano, che mi riempie di improperi perchè il mezzo che porta il personale in città è in attesa del mio arrivo.

Se fosse un pilota capirebbe che da Ciampino a Sigonella non ci vogliono quattro ore e che su questo percorso sono poche le osterie.

Chissà chi è; indossa una divisa simile alla mia.

Nessun bollettino ha annunciato questo combattimento, quindi non faccio la relazione anche perchè sarei obbligato a consegnarla al Capitano "cafone" e non ho voglia di dare spiegazioni. Consegno solamente il materiale ed il verbale per le sigarette gettate a mare.

Il giorno dopo rattoppo con mezzi di fortuna i fori procurati dal Mosquito e sono pronto a rientrare alla base.

Nel frattempo arriva l'aereo comandato da Nino Ferrante e mi dice che sotto Salerno, sul bagnasciuga, ha visto emergere dal mare la coda inconfondibile di uno Spitfire; anche il Mosquito però ha la stessa coda, probabilmente lo abbiamo abbattuto veramente.

Circa un mese dopo, il Generale Matricardi, furioso, convoca il Colonnello Morino; ha ricevuto una lettera di un suo amico bersagliere della guerra 15-18, il Col. Mariani, che si rallegra per il comportamento coraggioso di un pilota del S.A.S. che durante un combattimento contro un bimotore inglese con decisione ha costretto l'avversario a desistere.

Il Col. Morino al rientro allo stormo mi mette agli arresti dopo avermi strapazzato per bene poichè ne lui ne il Gen. Matricardi erano stati informati dell'accaduto;

subito dopo però ripensando a quanto successo ,Matricardi mi toglie la punizione.

Il Col. Mariani è convinto di avermi fatto un bel servizio scrivendo ai miei superiori la sua apprezzabile lettera.

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Ho un'altra missione da compiere, devo trasportare cavi e materiale elettrico all' aeroporto di Fontana Rossa, a Catania.

E’ come andare in bocca al lupo, sembra infatti che un incrociatore alleato sia già in rada davanti alla citta e Gerbini sia occupata.

Ritardo la partenza da Roma per poter arrivare alle ultime luci;

l' aeroporto è deserto, la pista in cemento è intatta, brutto segno perchè farà comodo agli alleati per il prossimo sbarco.

Scarico alla svelta e telefono dal corpo di guardia al Comando di Catania per informare su che genere di materiale ho scaricato e per ricevere eventuali ordini;

la risposta è di attendere; deve arrivare un personaggio dalla città.

Aspetto, ma quella pista intatta mi da fastidio, gli occupanti possono atterrarvi da un momento all' altro e prendermi come un pollo.

Ritelefono ma la risposta è sempre la stessa.

Basta, è mezzanotte; unico essere vivente al corpo di guardia ad eccezione di noi dell'equipaggio, è un canarino nella sua gabbietta, viene caricato anch' esso a bordo da Stauder il nostro marconista.

Motori in moto, decollo; mi tengo tutto a sinistra per evitare il monte Sila in Calabria;

a Messina c' e un bombardamento aereo, l' antiaerea spara razzi illuminanti e le bombe piovono alla grande, io ci sono in mezzo.

Fuori dallo stretto la luna tramonta dietro lo Stromboli, fra mezz'ora avrò buio totale e nubi basse.

Superati questi ostacoli, se mi tengo sul mare fino al Circeo non avrò preoccupazioni, poi si vedrà;

in ogni caso traccio la rotta in ginocchio nella fusoliera con Brandi che mi regge una torcia per vederci, nel frattempo il marconista chiama la radio di Ostia Lido, una stazione potentissima, per avvertire del nostro atterraggio a Ciampino, evitando di mettere in allarme l'antiaerea e tutta Roma per l'arrivo alle 2,30 di notte di un aereo da loro non previsto.

Ostia Lido non risponde, Stauder insiste, nessun segnale;

solamente all'indomani saprò che a mezzanotte Ostia Lido stacca, chiude e va a dormire.

Non c'e altra radio cui appoggiarmi; e chi è in volo di guerra?

Si ????????????!

Per poter intravedere qualche cosa devo tenermi sotto le nubi che però sono molto basse;

il Circeo ed i Colli Albani sono la che mi aspettano per una collisione ed io non ho ancora intenzione di sbatterci contro; continuo quindi a tenermi sul mare.

Alla cieca, con l'aereo che viaggia a 250 km all'ora sento il bisogno di scendere per chiedere informazioni ma non si può, il regolamento lo vietata!

Non mi resta che spaccare la rotta, con le diverse correzioni e calcolare il tempo di volo con precisione cronometrica.

Con l'assistenza di Ostia Lido sarebbe stato un gioco da ragazzi:

subito pieno mare per evitare le colline o i montarazzi delle isole sul percorso;

con il goniometro di bordo, il mio bravo marconista Stauder mi avrebbe rilevato le varie posizioni e vicino a Roma con bussola nord, avrei atteso il traverso dalla stazione radio.

Dalla velocità con cui Stauder varia il rilevamento sento che siamo vicini, ottanta gradi sulla destra, ottantasei, ottantasette stringo, un bel viratone contro il Lido e becco la stazione in prua perfetta.

Ho Ostia Lido in mano e come il rilevamento salta di 180 gradi, anche se non vedo nulla, so di essere sulla sua verticale e per Ciampino è un gioco: sono a casa.

Ma Ostia Lido ha chiuso, riposa, non mi resta che la soluzione del paracadute, siamo paracadutisti improvvisati in piena notte, sparsi nella campagna romana e ormai è questione di un minuto o due al massimo per l'ordine di saltare fuori.

All'improvviso di prua si accende un sentiero luminoso: è Ciampino.

Hanno riconosciuto la voce dell' SM 82 ed a causa dell'oscuramento hanno atteso che io fossi molto vicino e pronto per l' atterraggio.

Navigazione perfetta, precisa al minuto, con tre ore di volo;

è andata bene anche per i miei uomini non molto entusiasti di dover scendere con il paracadute in piena notte.

Con un grosso sospiro di sollievo appoggio le ruote a terra, ora non ha importanza neanche il ritardo notevole dell'automezzo che ci deve portare tutti e cinque più il canarino, in città al corpo di guardia.

 

Fulvio Setti

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L' armistizio dell' 8 Settembre è una giornata di guerra come le altre.

Il proclama di Badoglio è letto alla radio alle ore venti.

In quel giorno ricevo l' ordine di trasportare dalla Marcigliana a Iesi un S/82 che è stato molto maltrattato durante un volo notturno:

a bordo solamente pilota e motorista, paracadute sulle spalle e pronti a saltar fuori.

Sono a Roma in piazza Esedra di buon mattino per prendere l' autobus che mi deve trasportare in aeroporto.

Con mia sorpresa noto che gli autobus sono parecchi e già carichi di ufficiali e sottufficiali piloti.

Il 44° Stormo al quale io appartengo deve partire al completo per la Calabria, per Castrovillari, credo per trasferire un po' più al sicuro il 4° Stormo Caccia;

a Reggio Calabria però ci sono già gli Spitfire che si guardano in faccia.

Un intero stormo di S/82 che vola verso la Calabria certamente viene notato e localizzato dai radar inglesi che subito manderanno gli spitfire ad incontrarlo e sicuramente non sarà un bello spettacolo.

Scherzo con gli amici, la mia missione, a parte l' aereo che sballa in volo, è piuttosto facile, mentre loro devono volare in ampia formazione correndo il rischio di buscarle di santa ragione.

Verso le undici sono a lesi, il volo è stato piacevole e senza complicazioni.

A mezzogiomo ho già fatto le consegne e con Sbrissa, il motorista, siamo in stazione, io vado al nord per Modena e Sbrissa a sud per Roma.

A Bologna la coincidenza per Modena mi lascia il tempo per cenare.

Alla radio viene annunciato l'armistizio di Badoglio.

Nella trattoria dove sto mangiando c'e un'esplosione di gioia; io ammattisco e prendo la sedia in mano come usava una volta nelle vecchie osterie, ripensando a tutti quei giovani morti o mutilati per nulla.

Gli altri ospiti non reagiscono, accettano la mia mattana;

avrebbero potuto restituirmi con abbondanza le botte date alla sedia, ma alla fine butto un po' di soldi sul tavolo e rientro in stazione.

Tre ufficiali tedeschi se ne stanno in disparte, smarriti, ci salutiamo come gente civile.

A Modena, mentre i miei sono ancora a Sestola, mi faccio insegnare dal segretario politico del rione come ascoltare Radio Londra; non dice niente di speciale.

Al mattino presto del nove, in divisa entro in stazione per prendere il primo treno che va a Roma ma il capo stazione, che mi conosce, mi fa entrare a forza nel suo ufficio e mi informa che non ci sono treni in partenza segnalandomi dove i tedeschi hanno piazzato delle mitragliatrici e spiegandomi che stanno catturando gli ufficiali italiani.

Esco di nascosto dal suo ufficio e rientro a casa mia.

Le notizie di "radio fante" avvertono che gli aeroporti di Bologna e di Reggio sono sotto il controllo tedesco.

Sono in foglio di viaggio ed in ritardo già di un giorno, devo assolutamente raggiungere il mio comando a Roma.

Trovo un rimedio, decido di puntare all'aeroporto di Pavullo dove sicuramente ci sarà un aeroplanetto che mi consentirà di rientrare al Corpo.

A Pavullo il comandante Col. Balestracci, con saggia precauzione, ha reso inefficienti tutti gli aerei.

A questo punto mi rivolgo a lui:

"Sono in missione, mi dia degli ordini scritti sul foglio di viaggio, alla presenza del Cap. Malacame."

"Abiti qui a trenta chilometri, sei fortunato.

Vattene a casa immediatamente!"

Mi risponde il comandante.

La sera del 9 settembre sono in famiglia, in villeggiatura con mia moglie ed i miei figli, è finita.

Nonostante tutto le notizie non sono buone e peggiorano, ho il foglio di viaggio in tasca, mi brucia.

Penso e ripenso che mi sento un disertore proprio all'ultimo giorno e non posso accettarlo.

Il pomeriggio dell'undici, Alberto e Giuliana, i miei due bambini, giocano con la mia bicicletta facendo girare i pedali, involontariamente mi danno un suggerimento:

Fulvio pedala!

Saluto mia moglie, lascio i pochi soldi che ho e ... prendo la bicicletta;

Roma è lontana ma non irragiungibile.

In quei giorni tutti sono buoni, un pezzo di pane ed il permesso di passare la notte nel fienile nessuno lo nega.

Raggiungo Firenze, la stazione è circondata dai tedeschi e all'interno tanti nostri militari;

mi tengo alla larga perchè l' età e il taglio dei miei capelli rivelano chi sono.

Di tanto in tanto mi avvicino a qualche stazione senza nessun esito;

solo verso Roma trovo un piccolo convoglio ancora in servizio, che è addirittura provvisto del bagagliaio per la bicicletta.

La sera del 14 sono a Roma, ma la bicicletta non c'e più, me l'hanno rubata.

 

Fulvio Setti

Sulle Ali del Coraggio

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Il mattino presto arrivo all'aeroporto, all'ingresso sono di guardia un tedesco ed un carabiniere per impedirne il saccheggio, come invece ho già visto fare sui treni merci.

Il carabiniere mi riconosce e mi lascia andare nell'ufficio di squadriglia dove recupero dei documenti tra cui anche molti libretti di volo preziosi per i piloti e nel contempo li consegno ai legittimi proprietari.

Non ho notizie dello Stormo partito per la Calabria, nessuno è rientrato;

forse è rimasto con il 4° Caccia.

Dalla finestra al primo piano della palazzina di comando vedo il muso di un S79, il "Gobbo", che sporge da un paraschegge.

Subito mi sopraggiunge un' idea, dato che il militare in regime di armistizio deve consegnare le armi e non abbandonarle, posso prendere l' S79 e portarlo su un aeroporto alleato per poi bruciarlo:

avrò così consegnato le armi!

Esco dall'aeroporto, sulla Salaria c'e tanta gente, ed incontro Sbrissa il motorista che mi ha accompagnato nel recente volo a lesi,

lo rendo partecipe delle mie idee e gli propongo il furto dell'S79; non può essere lasciato ai tedeschi:

ricevo un rifiuto che non ammette dubbi.

Proseguo nel mio passeggio tra la folla quando incontro un Tenente del 45° Stormo:

Rodolfo Venturini è di Ciampino, è fuori zona e sicuramente ci sarà un motivo.

Iniziamo a parlare in modo molto evasivo di tante cose, nessuno di noi due vuole scoprirsi, poi in modo apparentemente casuale l' argomento finisce sull' S79 situato a fondo campo.

I discorsi si fanno sempre più specifici riguardo il buon funzionamento dell' aereo e sulla scelta del personale di bordo;

occorre trovare un motorista molto svelto, perchè i tedeschi non fanno complimenti, ammazzano.

Inoltre su suggerimento tedesco, è stato emanato il Bando del Conte Calvi di Bergolo che ordina di consegnare le armi a chi ne sia in possesso e l'S79 è ben fornito di mitragliatrici e di nastri di munizioni. Questo rappresenta un ulteriore impedimento per il nostro piano.

Rodolfo poi si accerta se io sono ancora abituato a portare il trimotore, perchè lui è gia da un anno che non vola più;

al termine della nostra conversazione ci lasciamo con il compito di reperire il motorista dandoci appuntamento per l' indomani mattina.

Coinvolti dall'impeto organizzativo abbiamo commesso un'imprudenza facendo partecipare ai nostri discorsi altra gente che non conoscevamo, credendoli ognuno compagni dell' altro.

Non posso rischiare di tornare nel mio alloggio, non si sa mai.

Decido di andare a casa di Antonio Mario Gosi, dove suono ripetutamente ma senza ottenere risposta. Solo due anni dopo imparerò che era in preda ad un forte attacco di malaria.

Mariucci e Dellino sono fuori con lo Stormo.

Provo allora da Gelindo de Bellis che mi accoglie fraternamente nel suo alloggio abbondantemente rifornito di viveri pregiati, che gli manda la fidanzata temendo che con i sacrifici di guerra egli si indebolisca.

Gil, come lo chiamiamo noi, dopo un' ottima cena ed un' abbondante bevuta, è entusiasta dell'impresa soprattutto immaginando la faccia dei tedeschi nel vedere un grosso aereo che scappa loro da sotto il naso.

Al mattino presto del giorno seguente mi dirigo al luogo dell'appuntamento, dopo aver tentato più volte ed inutilmente di svegliare il mio compagno di sorte.

Venturini, che trova sempre tante porte aperte, ha contattato il Maggiore Moci, oggi Generale di squadra, uno dei grandissimi dell' aeronautica, un asso che ha compiuto imprese clamorose sia in pace che in guerra.

In tutto siamo quattro: un equipaggio completo.

Sulla Salaria c'e ancora troppo silenzio, attendiamo ancora un po' prima di attraversare il canneto del fiume per avvicinarci pian piano all' S79.

Faccio un cenno a Rodolfo per avere informazioni sugli altri due uomini dell'equipaggio:

il motorista M.llo Toscano è bravissimo, riesce a giocare con i motori e a farsi ubbidire completamente.

Il quarto Ten. Zoppi, è un ottimo marconista.

Verso le otto la Salaria si è animata con il rumore che ci occorre.

E’ il momento: o la va o la spacca!

I tre motori, anche se esposti alle intemperie da chissà quanto tempo, rispondono al magico Toscano e si mettono in moto quasi contemporaneamente, non c'e infatti tempo per riscaldarli.

Il Maggiore Moci alla guida dell'aereo con tutto freno e manetta in pieno, salta fuori dal parcheggio come una furia e punta due camionette armate che per la sorpresa e la paura di questa belva scatenata non sparano un solo colpo.

Dalla nostra posizione, ancora distesi a terra ci guardiamo in faccia, è andata bene; c' e solo il problema dei distintivi dell'aereo perchè sono già passati otto giorni dall'armistizio ed ora possono attaccarci sia i tedeschi che gli alleati.

Li abbiamo tutti contro.

Il Maggiore vola dentro le valli e le gole dell' Appennino, ne trova una chiusa e con l' S79 in piedi, al limite dello stallo supera a pelo il passo, facendo acrobazie tali che se ci fossi stato io ai comandi, sarebbero stati guai seri.

E la benzina?

I televel che indicano il livello di carburante sono stati strappati da un imbecille che almeno si spera abbia combattuto per la patria.

Sorvoliamo il porto di Taranto occupato da una distesa di navi fino all'orizzonte, pronte a far fuoco, sull'S79 che, conosciuto come silurante, verrà sicuramente attaccato.

Sarebbe un peccato;

è andata bene fino adesso e non riesco a rassegnarmi all'idea di un'eventuale sconfitta.

Ma il Maggiore, uomo abile anche nei casi disperati non demorde e dispone l'aereo, come dicono gli americani, "per pali" a otto o dieci metri da terra seguendo, appunto, i pali dell' elettricità fino a Lecce.

L'aeroporto di Galatina è a pochi chilometri da Lecce ed essendo molto grande è pieno di aeroplani italiani.

Un paio di giri e riconosco sul piazzale vicino a un hangar un Maresciallo che fa gesti amichevoli,

segnalo in cabina che possiamo atterrare e l' S79 docilmente appoggia le ruote al suolo e sempre con i motori in moto si ferma in mezzo al campo;

in velocità arriva una camionetta guidata dal Cap. Gigetto Buzzanca, silurante con Moci.

Tutto a posto, possiamo scendere.

Sono le dieci e venti del 16 Settembre del 1943 e così sarà scritto sul mio foglio di viaggio per Iesi.

Dalle prime notizie gli alleati stanno dilagando per ogni dove;

forse stanno già sbarcando ad Anzio nel Lazio,ormai è solo questione di giorni e tutto sarà finito.

La mia non è stata una scelta: per il Nord o per il Sud, a favore del Re o della Repubblica Sociale.

Finisce tutto e presto e mi vedo finalmente a casa con la mia famiglia, mia madre, il mio lavoro e con l'eterno ricordo degli amici fraterni che sono caduti combattendo per l' onore e la dignità del soldato italiano.

Illuso è colui che crede che ora tutto finisca.

Non immagina che cominciano i ventidue mesi più terribili e dolorosi di tutta la guerra.

 

Fulvio Setti

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