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World War II Aces


Dave97

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Ospite galland

Mi risulta da varie fonti (Corrado Ricci "Vita di pilota" per esempio) di nostri piloti che si erano lanciati con il paracadute venissero mitragliati.

Mi risulta sia avvenuto in Africa settentrionale ed in quella orientale, durante la battaglia di Cheren. Cito a memoria ma posso fare una rapida ricerca.

Non pretendo che in guerra ci si presenti offrendo un mazzo di rose ma questa non è neppure ferocia, è vigliaccheria. :angry:

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Provo ad intervenire con un contributo sulla presenza dei piloti brasiliani in Italia durante la seconda guerra mondiale (anche in onore dl mio nuovo avatar):

 

 

Dal febbraio 1945 la FEB aveva ricevuto anche l'appoggio del gruppo aereo brasiliano - F.A.B. (Força Aerea Brasileira) - dotato di caccia-bombardieri P-47 ceduti dagli Stati Uniti.

La decisione di inviare in Europa un gruppo d'aviazione brasiliano risale alla fine del 1943 e fu presa insieme a quella di impegnarsi con il Corpo di Spedizione terrestre. In linea generale fu deciso di costituire un gruppo da caccia-bombardieri e, al servizio dell'artiglieria divisionale, una squadriglia per il collegamento e l'osservazione.

In Brasile da alcuni anni il presidente Vargas stava lavorando per rendere efficiente l'aeronautica delle forze armate; il primo passo fu la creazione, il 20 gennaio 1941, del Ministero dell'Aviazione e, subito dopo, l'unificazione dell'Aviazione dell'Esercito con quella della Marina. A partire dal 1942 giunsero in Brasile alcune squadriglie aeree dell'USAAF, che operarono nelle basi di Natal e Recife con il compito di difesa aerea dei convogli alleati che attraversavano l'Atlantico. In quel periodo esperti piloti americani prepararono una squadriglia di aviatori brasiliani che si distinse in azioni di difesa marittima. L'azione più importante compiuta dai brasiliani durante i pattugliamenti sull'oceano fu l'affondamento di un U-Boot tedesco, avvenuto il 12 agosto 1943. Il cap. Santos Polycarpo, a bordo di un "A-28-A" e il cap. Coutinho Marques, ai comandi del PBY "Catalina" 14, intercettarono l'U-199, comandato dal cap. Hans Werner Kraus e, dopo averlo mitragliato, lo affondarono con tre siluri.

Il 18 dicembre 1943 fu istituito il 1° Gruppo da Caccia e a comandarlo fu chiamato il magg. Nero Moura. L'addestramento del primo gruppo di piloti iniziò il 3 gennaio 1944 negli Stati Uniti. Nel marzo, dopo una pratica individuale di 60 ore sui caccia "Curtiss P-40", i primi piloti addestrati raggiunsero i 350 uomini mobilitati per la creazione del Gruppo nella base aerea di Agua Dulce, a Panama. Nel campo del paese centroamericano tutti i piloti iniziarono un duro addestramento, che fu poi completato nella base dell'USAAF a Suffolk, presso New York. Alla fine i brasiliani furono dotati dei citati caccia-bombardieri "Republic P-47 Thunderbolt" di fabbricazione statunitense.

 

Terminato l'addestramento il gruppo con aerei e materiali fu imbarcato il 19 settembre 1944 sul trasporto francese Colombie nel porto di New York. Il 9 ottobre la nave giunse a Livorno e il 1° Gruppo da Caccia brasiliano fu destinato al campo di aviazione di Tarquinia. In quei giorni la FAB fu inquadrata nel 350° reggimento aereo da combattimento (Fighter Regiment), della 62ª aerobrigata da caccia Usa. A sua volta la 62ª brigata faceva parte del XXII Comando Aereo Tattico di supporto alle azioni terrestri della 5ª armata. Il 4 dicembre, in relazioni agli sviluppi del conflitto, l'intero 350° reggimento fu spostato nella base di Pisa, a ridosso del fronte.

Durante i primi giorni di guerra, come era consuetudine nelle squadriglie americane, la FAB scelse il suo emblema e il motto da combattimento. Come stemma fu preferito un agguerrito struzzo che volando tra le nuvole sparava fucilate; mentre come motto i piloti optarono per il grido "Senta a Pua!" (Senti la Punta!).

La FAB dal comandante magg. gen. B.J. Chidlaw, del XXII Comando aereo tattico, ricevette l'ordine di seguire tre principali linee d'azione:

a) appoggio diretto alle forze terrestri, con la regolazione del fuoco dell'artiglieria;

b) isolamento del campo di battaglia, con l'interruzione sistematica delle vie di comunicazione che collegavano il fronte nemico con la valle del Po e il resto del territorio occupato fino al passo del Brennero;

c) distruzione degli impianti militari e industriali dell'Italia settentrionali265.

Clicca sulla immagine per ingrandire

La liberazione di Camaiore

Purtroppo la FAB pagò un alto tributo di sangue. Durante l'inverno perirono in seguito di incidenti di volo 3 piloti. Il 23 dicembre il ten. Motta Paes, colpito dalla contraerea a nord di Ostiglia (Verona), dopo essersi lanciato con il paracadute fu catturato dai tedeschi. Il 2 gennaio, nei pressi di Alessandria, il ten. Medeiros lanciatosi dall'aereo in fiamme atterrò sui fili elettrici dell'alta tensione e morì fulminato. Il 4 febbraio il cap. Miranda e il ten. Danilo Moura saltarono dai loro aerei in fiamme dopo essere stati colpiti dalla contraerea; il cap. Miranda con un braccio spezzato fu nascosto da un gruppo di partigiani nei pressi di Padova. Mentre il ten. Moura aiutato da diversi gruppi partigiani, dopo 24 giorni e 260 km di cammino, raggiunse i compagni a Pisa. Anche il cap. Kopp, abbattuto a Parma, fu salvato dai partigiani della zona. Altri 4 piloti invece furono catturati dai tedeschi e inviati nei campi di prigionia; il ten. Paes finì nel campo di Stettino, in Prussia, e ivi liberato dai Sovietici dopo 4 mesi di prigionia. Dei 48 piloti brasiliani impiegati totalmente in combattimento, 6 erano ufficiali del Q.G. e ufficiali di collegamento statunitensi, 3 furono vittime di incidenti, 5 caddero durante operazioni belliche, 8 si lanciarono con il paracadute e finirono o in prigionia o nascosti dai partigiani, infine 5 piloti furono allontanati dal volo e rimpatriati per esaurimento fisico e psichico.

 

Dalle statistiche formulate nel dopoguerra risulta che furono accreditate ai piloti brasiliani il 28% dei ponti e il 15% dei veicoli tedeschi distrutti, nonché l'85% dei depositi munizioni e il 36% dei depositi combustibile colpiti. In 192 giorni operativi la FAB effettuò ben 2.995 sortite ed uscite offensive, durante le quali lanciò 4.442 bombe di vario genere che colpirono 4.454 obiettivi. Ovviamente dati propagandistici, gonfiati da qualche solerte burocrate, che comunque non nascondono il buon comportamento dei piloti.

Per completare il richiamo all'attività della Força aerea Brasileira sul fronte italiano, è necessario far cenno anche all'attività della squadriglia per il collegamento e l'osservazione. Tale unità lavorò al servizio dell'artiglieria divisionale e giunse in Italia nell'ottobre 1944 assieme al 3° scaglione della FEB. Il 10 ottobre con il mezzo da sbarco "LC-1- 116" i piloti e gli avieri della squadriglia furono trasportati a Livorno, e, in seguito, con alcuni camion a Pisa. Nell'aeroporto toscano il reparto di collegamento ricevette 9 aerei del tipo Piper Cub, con motore da 65 cavalli, equipaggiati solo con una radio e senza alcun tipo di armamento. Nello stesso periodo si aggregò alla squadriglia il magg. J.W. Buyers, ufficiale di collegamento USA, che svolse un magnifico lavoro di addestramento e preparazione dei piloti brasiliani. La Squadriglia di collegamento e osservazione effettuò 1.654 ore di volo, 682 missioni e più di 400 correzioni del tiro dell'artiglieria. Ogni pilota eseguì tra le 95 e le 70 missioni.

Da parte sua il personale terrestre della FAB (Força aerea Brasileira) fece rientro in Brasile via mare con il primo scaglione che partì da Napoli il 6 luglio. I piloti invece furono selezionati e 20 di essi furono scelti per essere inviati nella base statunitense di San Antonio in Texas, dove ricevettero 20 nuovi P-47 Republic "Thunderbolt". Poi tutta la nuova squadriglia si spostò nella base aerea brasiliana di "Campo dos Afonsos" presso Rio de Janeiro, dove stabilì la sede operativa.

 

Tratto da Il Brasile in guerra, di Andrea Giannasi

 

Epoca6.jpg

Modificato da gobbomaledetto
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Ospite galland
Grazie!

L'avater è semplicemente lo struzzo che campeggiava sugli aerei dei piloti brasiliani!

Per quanti interessati all'argomento consiglio:

- A. Giannasi "il Brasile in guerra" Prospettiva editrice

- A. Giannasi "il Brasile in guerra" Storia Militare nr. 171 dicembre 2007

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Ospite galland

interessante il sito senta pua. Contiene una bella bella galleria fotografia (a colori!) da cui Gobbo a tratto l'avatar e le foto; interessante la galleria dei reduci ancora in vita e l'elenco dei componenti della fab.

il sito è bilingue (portoghese/inglese).

Da visitare!

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Per quanti interessati all'argomento consiglio:

- A. Giannasi "il Brasile in guerra" Prospettiva editrice

- A. Giannasi "il Brasile in guerra" Storia Militare nr. 171 dicembre 2007

Un articolo di Giannasi, diviso in due parti e relativo al medesimo tema, è disponibile in Internet ai seguenti indirizzi:

 

Il Brasile in guerra parte prima

 

Il Brasile in guerra parte seconda

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Mi risulta da varie fonti (Corrado Ricci "Vita di pilota" per esempio) di nostri piloti che si erano lanciati con il paracadute venissero mitragliati.

...e pubblicare qualche bel racconto estratto dal suddetto libro ???? :P:P:P

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Lugari e Morosi

Lugari s'è buttato dietro a un B. 17 e non lo molla, raffiche su raffiche.

E una« fortezza volante» della 15a Air Force, di base nei campi attorno a Foggia. ..

Ormai le riconosciamo dal loro colore (verde oliva superiormente e verde azzurro inferiormente), inoltre sul timone hanno una grande Y nera su•un quadro bianco; a quanto sappiamo, appartengono al 97° ed al 301° Bomber Group americano.

Poi, di colpo abbiamo addosso la caccia ed il combattimento si fraziona in mille duelli.

Abbiamo lasciato Trieste alle spalle da un pò, tre Thunderbolt P. 47 mi sono piombati addosso dall'alto; scarto di fianco e tiro a cabrare di lato, vedo la squadriglia di Tomaselli che impegna un gruppo di Lightning P. 38.

Sento urla nella radio: tutto il 1° Gruppo é impegnato contro la caccia di scotta americana.

Dio, quanti sono!

Thunderbolt, Lightning, Lightning, Thunderbolt.

Ne hai sempre addosso qualcuno;

un P. 47 mi sfila velocissimo sulla sinistra.

In picchiata, cloche in avanti, istintivamente sto per buttarmi all'inseguito, quando un'ombra enorme sfiora il mio tettuccio, e un 205 che si è incollato alla coda del Thunderbolt.

Poco avanti i caccia virano, riconosco dal numero in fusoliera dipinto sul Macchi l'aereo di Cartosio.

Appena il P. 47 accenna ad accentuare la virata, Cartosio stringe; richiama un attimo l'aereo, fa mezza rovesciata e fa partire le raffiche.

Vedo le traccianti segare il tettuccio del Thunderbolt, graffiarlo lungo tutta la fusoliera: una fiammata violenta e pezzi di lamiera che volano dappertutto; l'aereo americano rotola verso il basso.

Urlo di gioia, come se fossi stato io l'abbattitore; sopra di il grosso ventre di due P. 47 che volano in sezione.

Tiro lentamente la leva a cabrare, ho lo stomaco contratto, le mascelle indurite, senso di nausea.

Il mio 205 drizza di nuovo e punta sui due americani, ho l'occhio fisso sul collimatore, il dito pronto sullo sparo; si sono accorti di me, s'inclinano di lato e buttano giù il muso in candela; per reazione nervosa faccio partire una raffica che si perde ormai inutilmente nel cielo.

Tolgo manetta, cloche a sinistra, mi giro un attimo per vederli, di nuovo barra al centro, tutta avanti, manetta ... sono sudato, ..non vedo niente davanti a me, molto in basso due punti neri,forse sono i miei due P. 47.

E chi li piglia piu?

Raddrizzo il 205; il combattimento continua, le orecchie cominciano a ronzare, le idee diventano confuse, attraverso gli auricolari urla, richiami, parolacce, qualche frase in tedesco; ci devono essere in giro anche i Me.109.

 

Un 205 vira alla mia destra; mi butto dietro a lui, non so chi possa essere, lo seguo; di nuovo nella mischia, di fronte musi ovali di Thunderbolt.

Manovro violentemente con l'aeroplano, poi sparo ancora, non so contro chi, ... ho solo intravisto una sagoma sul collimatore, sono ubriaco, ubriaco di combattimento.

Un aereo americano fuma leggermente; non possiamo continuare nell'attacco, la benzina diminuisce rapidamente; i comanti di squadriglia chiamano per il rientro.

In alto, B. 17 che dirigono al Nord; non possiamo farci nulla, dobbiamo rientrare.

Atterriamo alla spicciolata a Campoformido al limite dell'autonomia e portiamo gli aerei al decentramento; siamo tutti stravolti, qualche aereo è pieno di buchi, noi eravamo circa quaranta, loro saranno stati trecento.

Mancano Lugari e Morosi; nessuno li ha visti andar giù.

 

Nella baracca Guidi, comandante di squadriglia,si sta sfogando.

Attorno, Tomaselli, Ligugnana, Cartosio, Di Cecco, Visconti, Salvatico ed altri. « Si sarà fatto fregare dai B. 17 all'inizio!

Quante volte glielo avevo detto di non mettersi in coda a quei bestioni ... e così vicino!

Se ti fai troppo sotto di coda, quelli ti fregano, ma lui no!

…e butta il caschetto sul tavolo.

La morte di Lugari lo ha scosso, ma Guidi ha ragione.

I B. 17, le « fortezze volanti ,hanno un armamento tale che il settore di coda è troppo protetto:sono sei armi da 13 mm. fra la torretta estrema di poppa,quella ventrale e quella dorsale, che sviluppano una massa• di fuoco enorme.;

... se poi volano in formazione serrata veramente sono rogne.

 

L'unico attacco che abbia probabilità di successo contro quei quadrimotori, va portato di fianco, trequarti avanti, con rotta opposta alla loro, così da sfruttare l'angolo morto di tiro delle armi, nella zona delle ali e dei motori ;oppure si può tentare un attacco frontale, ma per questo tipo di attacco ci vuole un fegato così...

Lugari di fegato ne aveva fin troppo; per lui non esisteva la paura: attaccava d'impeto, buttandosi addosso all'avversario; la posizione non contava, il numero dei bombardieri non contava, lui andava diritto e sparava,ed oggi l'hanno beccato!

E’ ormai sera, sono stanco e nervoso, .mi butto sul lettino, ma non riesco a prendere sonno.

Penso a tante cose, confusamente, penso ai combattimenti, alla guerra in. generale.

Sono momenti in cui ti senti demoralizzato; ti senti un niente•e ti vien voglia di gridare,di piantare tutto, ... poi, a poco a poco, la stanchezza ti aiuta a dimenticare tutto, le idee si fanno sfocate, e ti addormenti pensando a domani, al prossimo allarme, ai tuoi compagni, agli aeroplani, a quelli che non sono più rientrati.

Allora ti accorgi che sono le paure di semnpre, i pensieri di sempre, di prima dell'armistizio,di Malta, dell'Africa, della Sicilia, sono i pensieri di un pilota da caccia italiano, da quattro anni.

Solo ti brucia per Lugari e Morosi; non dovevano morire.

Oggi, 6 aprile 1944, sui fogli del diario storico del 1° Gruppo Caccia, due nuove crocette nere vicino ai nomi di due piloti.

Meglio non guardare più quei fogli.

 

Tratto da Ali nella Tragedia

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Ospite galland

Comincio a riportare estratti dal libro di Corrado Ricci “Vita di pilota” i titoletti sono miei, il resto riporta fedelmente il testo.

 

“Il ponte di Diamare”

A Campoformio era nata la famosa scuola delle pattuglie acrobatiche in formazioni complesse, la prima del genere e allora unica al mondo. Nel 1933cavevo assistito, durante una “Giornata dell’ala” indetta per una riunione degli “atlantici” sull’aeroporto dell’Urbe a Roma, a un magnifico saggio acrobatico eseguito contemporaneamente da tre pattuglie di nove velivoli ciascuna legati, tra loro, con forti canapi elastici. I nomi dei piloti erano rimasti famosi, come famoso era il reparto al quale ero stato assegnato; il suo distintivo, l’arciere alato, era stato disegnato a suo tempo dall’allora ben noto architetto Moroni per il “Battaglione aviatori” esistente prima della costituzione della Regia Aereonautica e che aveva sede a Ghedi. Il motto “Incocca, tende, scaglia” fu proposto da D’Annunzio.

Il giorno del nostro arrivo, dopo la presentazione al comandante e la rituale cerimonia di benvenuto, il Capo Calotta, cioè il tenente pilota più anziano, ci tolse l’aquila, il distintivo di pilota che portavamo sul petto con le ali rigidamente orizzontali come prescriveva il regolamento, e ce la rimise dandole una certa inclinazione, con la testa rivolta verso l’alto: “i piloti del primo stormo, l’aquila, la portano così!

Questo fu il breve commento. Da quel giorno non ne ho più variata l’inclinazione, rigidamente fedele alla tradizione di quella che fu la culla dell’aviazione da caccia italiana e dell’ardimento acrobatico del volo.

Il primo Stormo era una scuola di disciplina, sia a terra che in volo; i giovani venivano curati e seguiti con vero amore e le briglie non venivano loro allentate finché non davano la certezza che avessero messo solide basi alle proprie ali. Gli anziani invece, cioè quelli che avevano a suo tempo iniziato lo studio e l’esecuzione delle acrobazie in pattuglia, avevano la più ampia libertà di manovra e molte volte tutto il personale si riversava all’aperto per seguirne le audaci acrobazie e gli accaniti, finti combattimenti. Diversi erano caduti, di solito per manovre estremamente rischiose; uno di essi Diamare, aveva lasciato la vita presso un ponte per aver voluto passarvi sotto più e più volte. Per sua disgrazia un giorno si stavano eseguendo dei lavori e così si era trovato la strada sbarrata da un invisibile cavo d’acciaio che gli aveva agganciato il compensatore di un alettone facendolo sbattere sul greto, dove si era incendiato.

Da allora era divenuto quasi un rito, per i giovani, andare a passare sotto il ponte di Diamare: era come un’iniziazione. Si cominciava a sentirne parlare nei racconti degli anziani, racconti che non venivano mai fatti in presenza di tutti, ma solamente davanti a quei giovani che venivano considerati idonei. Poi, a mano a mano che l’addestramento e la capacità dei “pivelli” si affermavano, veniva loro detto, isolatamente e come per caso, che tutti i piloti “in gamba” avrebbero potuto passare “sotto il ponte”. Nessuno, naturalmente, cercava di forzare; ma il pensiero maturava nelle menti fino a che non venivano azzardate le prime domande sull’esatta ubicazione: la risposta arrivava solo quando il pilota veniva giudicato capace. Così un giorno, venne anche il mio turno; qualcuno mi accennò, senza parere, la direzione nella quale si trovava il ponte e, al primo volo, andai a cercarlo. Vagai un po’ nella piana nei pressi del Tagliamento poi ne vidi uno, piuttosto stretto, buttato tra due ripe incassate: il torrente che vi scorreva sotto faceva un brusco gomito e, guardandolo, ricostruii a mio modo l’incidente di Diamare: on sapevo ancora, infatti, che l’origine di tutto era stato un cavo teso a mezz’altezza e pensai che fosse invece andato a sbattere contro l’argine.

Dopo un paio di giri per studiare bene la zona mi buttai a pelo d’acqua, nella gola che sprofondava sempre più sottraendomi ben presto la vista della campagna circostante; il ponte mi veniva incontro a una velocità che mi pareva enorme e dovetti costringermi a non dare una strappata ai comandi per uscire da quella fossa le cui pareti mi sovrastavano: un attimo di soffocamento al passaggio sotto l’arcata, una virata giusto in tempo per evitare l’argine, poi una fresca risata, gioiosa per la prova superata. Mentre tornavo al campo mi sentivo un leone e, dopo l’atterraggio, trovai modo di dire casualmente:”Ho visto il ponte di Diamare: è molto stretto, ma vi si passa bene!” Un “davvero?” di risposta e tutto fu finito. A nessuno poteva passare per la mente che non potesse essere la verità: la scuola di Campoformio era troppo seria.

Per puro caso, trentacinque anni dopo sono venuto a scoprire di aver sbagliato ponte. Quello di Diamare era il ponte di Sequals e aveva tre arcate: una centrale, più larga, che era quella sotto il quale il famoso pilota andava a passare e faceva anche dei looping, altre alle due laterali, di luce minore. Io invece ero andato a infilarmi sotto un altro, che adesso non esiste più, ben più stretto e con un solo arco. Sembra che io sia stato l’unico a compiere quella pazzia perche era, indubbiamente, troppo angusto. Vi ero passato solo perché “credevo” che quello fosse il ponte fatidico: altrimenti penso che non ne avrei avuto il coraggio.

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Ospite galland

IL PRIMO BLENHEIM

Dopo la partecipazione alla guerra di Spagna Ricci torna in Italia e prende il comando della 155 Squadriglia del 3 Gruppo. E’ l’ultimo periodo di pace prima dell’inizio della II guerra mondiale. Quando l’Italia, nell’aprile del 1939 si annette l’Albania, con suo grande disappunto la sua è l’unica squadriglia dello stormo a non essere trasferita a Bari. Dopo pochi giorni si svela il mistero, la 155 Squadriglia viene cancellata dai ruoli del 6 Stormo per divenire la 410 Squadriglia autonoma AOI, con base Dire Daua.

Citiamo dalla Guida dell’AOI edizione del 1938:

“Dìre Dàua m. 1200, ab. 20000 c. di cui c. 3000 Italiani e 500 stranieri (francesi 110 con 68 sudditi, greci 290) situata sulle due rive del Torr. Daciatù, in un piano che s’interna tra le colline che salgono ai M. Dendegà e digrada lentam. Verso N alla Dancalia, è una graziosa cittadina, sorta intorno alla staz. della ferrovia e formata da villette tuffate in giardini perennem. Fioriti, centro di sicuro avvenire per la sua posizione sulla direttrice Gibuti - Addis Abeba, all’innesto per le strade per Harar e la Somalia, per il Cercer e per Assab. […] La città deve la sua origine alla ferrovia Gibuti - Addis Abeba, di cui divenne la principale stazione, con officine, depositi ecc. Al 1906 risale la concessione del Negus alla Compagnie pour le Chemin de Fer Franco-Ethiopien.”

Dall’aeroporto si irradiano le linee dell’Ala Littoria per Addis Abeba, l’Asmara, Gibuti, Assab, Gorrahei e Mogadiscio. La Cittadina rappresenta quindi un importante nodo strategico.

Sin dal 10 giugno 1940 si profila tutta la gravità della situazione: inglesi e sudafricani iniziano operazioni offensive sui nostri campi aerei, favoriti dalla quasi assoluta mancanza di un efficiente sistema di rilevamento e di artiglieria antiaerea. I bombardieri leggeri Bristol Blenheim sfuggono facilmente ai Cr.32, si susseguono infruttuosi decolli su allarme ma il I agosto…

“Alle prime ore del pomeriggio, infatti, altri sei [blenheim], giunti anch’essi di sorpresa, attaccano il K92 [si tratta di un campo aereo segreto dove erano stati decentrati numerosi apparecchi]: tutti i caccia partono di corsa buttandosi all’inseguimento. Mentre guardo il nuvolone nero, che si alza là dove i nostri colleghi riposavano ignari, ho l’impressione di una mano che mi attanagli il ventre. Mi dirigo al comando e quasi mi scontro con Pezzi che esce di corsa. “Quanti velivoli sono rimasti?”

“Il mio comandante!”

“Vada subito in volo; ne arrivano altri sei. Faccia Quota sui campi segreti!”

Il motorista, già a bordo, aspettava solo un cenno. In un minuto sono in volo, motore in pieno senza riguardo alcuno. Mi guardo intorno nulla in vista.

Però dal sole sbuca qualcosa… eccoli! Sei velivoli in picchiata… sembrano diretti sul K91; stanno per passarmi di fianco, alla mia stessa quota, veloci come bolidi. Attacco subito, al traverso, la prima pattuglia: l’altra è più indietro. Mentre continuo a sparare finisco quasi esattamente nella loro scia. Tiro sul capopattuglia, poi sul gregario di destra. Mi s’inceppa un’arma, non la disinceppo per non muovermi dalla mira.

Puntini lucenti mi passano accanto, sento rumore di spari, sono attaccato a mia volta. Mi libero con un largo tonneau a botte e, mentre sono rovescio, vedo passarmi sulla destra, più bassa, la seconda pattuglia. Finita la manovra sono esattamente in coda al gregario sinistro; nel frattempo ho disinceppato l’arma e riprendo a sparare dividendo le raffiche sui tre, mentre vedo cadere le bombe. Tutte le mie facoltà sono concentrate nella mira; tocca al gregario di destra, adesso. La solita arma si inceppa. La ricarico, riprendo il tiro.

Il Blenheim su cui sparo rallenta: è una mia illusione? Rallenta davvero: mentre gli altri due si allontanano estrae la torretta e prende a spararmi. Fuoco di nuovo: leggere manovre dell’inglese per impedirmi di defilarmi dietro ai suoi piani di coda; sparo brevi raffiche… debbo ridurre il motore per non arrivargli addosso… debbo chiuderlo… dare una strappata ai comandi per non investirlo. Siamo arrivati a una diecina di metri di quota: il pilota estrae i flap e atterra nella sabbia sollevando un gran polverone.

Sono felice! E’ il primo Blenheim che viene abbattuto nell’impero: i tre occupanti ne saltano fuori, uno zoppica e si sdraia sull’ala; tutti fanno grandi cenni di saluto ai quali rispondo come posso. Torno al campo: il tonneau della vittoria che effettuo con cura meticolosa fa spiccare salti di gioia ai miei specialisti. Atterro; ottime notizie: nessuna vittima, nessun danno ai campi K91 e 92! Le bombe, sprofondandosi nella sabbia, sono state da questa soffocate. All’indomani mattina, quando arrivo in campo, mi viene incontro Veronese:

“Sono arrivati i prigionieri: hanno una fame!”

“Bisogna farli mangiare. Chi sono?”

“Due inglesi e un canadese: ma lo sa come stiamo con le razioni: non erano in forza per questa mattina!”

Telefonate varie alla mensa, al magazzino viveri: nulla da fare. Noi ufficiali decidiamo allora di sacrificare la nostra colazione, che per fortuna è ancora intatta, a vantaggio loro. Dopo un paio d’ore mi viene riferito che hanno protestato: dicono che li vogliamo affamare! Vado in volo a fotografare il velivolo: prima di abbandonarlo l’equipaggio lo ha incendiato. Il generale Pinna va a vederlo: è stato colpito al serbatoio dell’olio del motore destro e l’ala è tutta piena di buchi: una fortuna che non si sia incendiato! Il prigioniero canadese è triste; sarebbe dovuto tornare in patria tra poche settimane: la sua ragazza non ne avrebbe certo atteso il rimpatrio e avrebbe sposato un altro! Coraggio…”

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UNO SPECIALISTA

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Per il primo aviere motorista Rolando Ricci non era stato facile farsi strada in aviazione; al contrario, tutto era stato così difficile che, se non fosse stato per la sua tenacia e per la sua passione, sarebbe finito in marina come la maggior parte dei suoi amici savonesi.

Non che la marina non gli piacesse; anzi, come ligure della riviera di ponente, aveva il mare nel sangue; ma nel cervello e nel cuore aveva l’aviazione. Non sapeva nemmeno lui in che modo ci fosse entrata, tanto più che, avendo dovuto lasciare le scuole molto presto per mettersi a lavorare, non aveva potuto conseguire il titolo di studio necessario per arruolarsi come pilota.

Ma in aviazione non c’è bisogno soltanto di piloti: questi sono senza dubbio i più importanti e godono di una posizione privilegiata; ma, senza il lavoro degli specialisti, non potrebbero far nulla. Lo si era visto durante la Prima guerra mondiale e nelle imprese del dopoguerra se n’era avuta ampia conferma: Ferrarin era andato fino a Tokio con il motorista Cappannini; De Pinedo aveva girato il mondo con l’aiuto di Campanelli; i naufraghi della spedizione polare di Nobile dovevano la loro salvezza anche all’opera del marconista Biagi; la prima Crociera Atlantica di Balbo non sarebbe stata portata a compimento senza il lavoro concorde di piloti e di specialisti riuniti in equipaggi affiatati ed entusiasti.

Erano state proprio le fotografie di quegli equipaggi e delle trionfali accoglienze loro tributate che avevano portato il giovane Ricci a inoltrare nel 1931 la sua domanda di arruolamento come allievo motorista. Allora la divisa degli specialisti d’aviazione, con gli ampi pantaloni alla zuava e la giubba grigio- azzurra suggellata intorno al collo dalle stellette, sembrava elegantissima e un giovanotto non ancora diciottenne era più che giustificato se sognava di potersi far ammirare nelle strade della sua città con una bella uniforme indosso.

Ma nel 1931 Ricci non riuscì ad essere ammesso al corso e per altri tre anni dovette rassegnarsi, quando usciva dall’officina, a girare per Savona in borghese. Nel 1934, però, ottenne la sua rivincita: chiamato per il servizio di leva e assegnato all’aeronautica, cominciò come aviere di governo; ma, al primo arruolamento di specialisti, riuscì a farsi ammettere alle scuole e a diventare un bravo motorista.

Un primo passo era fatto, ma non si rivelò sufficiente per volare; infatti Ricci girò per cinque anni tra i campi e i depositi della penisola e quelli delle colonie, senza mai riuscire a far parte di equipaggi di volo. Finalmente, proprio alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ottenne di essere assegnato al 32°

stormo da bombardamento e li poté togliersi la voglia di volare.

La vita degli specialisti d’aviazione in guerra è dura perché è fatta di lavoro, responsabilità, disagi e rischi; ma c’è una differenza radicale tra gli specialisti destinati a reparti dotati di aeroplani monoposto e quelli che operano invece presso squadriglie di pluriposto. I primi lavorano giorno e notte per assicurare l’efficienza degli apparecchi, sono sempre esposti alle intemperie stagionali e ai disagi dell’ambiente, qualche volta saltano i pasti, devono rassegnarsi a sentirsi smerigliare la pelle dalla sabbia o attanagliare le mani e i piedi dal gelo; ma, quando gli aerei partono, possono riposare un po’ o continuare a lavorare a terra, dove i rischi, salvo l’eventualità di attacchi avversi, sono limitati.

Gli specialisti dei reparti dotati di pluriposto, invece, fanno tutto ciò che fanno gli altri ma, in più, quando hanno finito di lavorare a terra, partecipano anche a logoranti azioni belliche e condividono con i piloti i rischi, le fatiche e la sorte. A volte, in guerra, riusciva difficile capire dove trovassero la resistenza per superare cicli operativi che esaurivano i piloti i quali, in confronto a loro, erano dei privilegiati. L’abitudine al lavoro, ai disagi e alla fatica fisica li aiutava; ma li aiutava soprattutto un senso di abnegazione, una serietà e un orgoglio per il loro mestiere che non saranno mai abbastanza lodati.

Il 32° stormo era allora dislocato in Sardegna e la sua attività si svolgeva quasi unicamente sul mare:

esercitazioni, ricognizioni, voli di sorveglianza e, quando la Mediterranean Fleet si muoveva, ricerche e interventi. Ricci aveva preso parte a quasi tutte le

azioni effettuate dal suo stormo nel primo anno di guerra e l’8 maggio 1941 aveva anche avuto la sgradevole ed eccitante esperienza di trovarsi su un apparecchio colpito dalla contraerea delle navi.

Ma l’azione più importante, l’azione che mutò il corso della sua esistenza, fu quella del 23 luglio 1941, svoltasi in occasione di un nuovo tentativo inglese di far giungere a Malta sette piroscafi carichi di rifornimenti. Il convoglio era scortato dalle navi da battaglia Nelson e Renown, dalla portaerei Ark Royal, dagli incrociatori Manchester, Edinburgh, Hermione, Aurora, Arethusa, dal posamine veloce Manxman e da diciassette cacciatorpediniere.

Il convoglio entrò in Mediterraneo il mattino del 21 luglio e perse subito il trasporto Leinster, carico di truppe, che si incagliò a punta Carnero. Dato che l’uscita delle navi da Gibilterra non era sfuggita ai nostri informatori, tutti i reparti della Sardegna erano in allarme, pronti a partire non appena i ricognitori ne avessero segnalato la posizione. Questa fu accertata il mattino del 22 e il 32° stormo partì per il primo attacco, ma con scarsa fortuna perché, pur restando in volo dall’ i alle 5 del pomeriggio, non riuscì ad avvistare neppure una nave.

L’indomani gli aerosiluranti ebbero maggiore fortuna: una pattuglia di tre aerei, che avevano come capiequipaggio i tenenti Pandolfi, Cipriani e Di Bella, sferrò un deciso attacco contro le navi di scorta e mise a segno due siluri: uno sull’incrociatore Manchester e l’altro sul cacciatorpediniere Fearless. Il primo ebbe una fortuna sfacciata: nell’impossibilità di governare, fu preso a rimorchio da una delle unità di scorta, la corvetta Avon Vale, e in quelle condizioni riuscì a sfuggire a tutti gli attacchi successivi, arrivando a Gibilterra tre giorni dopo. Invece il Fearless, che non era più in condizioni di tenere il mare, fu abbandonato dall’equipaggio e affondato dagli stessi inglesi a colpi di cannone.

I reparti da bombardamento ritornarono all’attacco decisi a farsi onore e il 24 riuscirono a danneggiare il cacciatorpediniere Firedrake che fu preso a rimorchio dall’Eridge e riportato verso Gibilterra. Fu proprio nel tentativo di finire le unità danneggiate che il 32° stormo ritornò in volo il mattino del 25 luglio.

Due pattuglie di cinque apparecchi decollarono dal campo di Decimonannu alle ore 9,40 e puntarono subito verso sud-ovest. Il motorista Ricci era sui- l’aereo pilotato dal tenente Leonardi e dal sergente D’Andrea; gli altri specialisti di quell’equipaggio erano il marconista Ventardi e l’armiere Maggio. Poiché sapevano che la portaerei era in mare, stavano tutti pronti alle armi, nella certezza che gli aerei imbarcati li avrebbero attaccati.

Infatti, quando furono in vista di Capo Bougaron, una pattuglia di Fulmar li raggiunse in quota e sferrò un primo attacco sulla dritta. Ricci, che era alla mitragliatrice da 12,7 millimetri dorsale, aprì il fuoco sul più vicino degli aerei attaccanti e lo vide impennarsi emettendo una densa scia di fumo.

Nella certezza di averlo colpito si era messo a gridare con eccitazione, quando vide altri due caccia che venivano all’attacco: il tempo di spostare l’arma nella loro direzione e poi fu percosso da un violento colpo al viso, una specie di formidabile manrovescio che gli tolse la vista: la ben centrata raffica di un altro

Fulmar che attaccava dalla parte opposta aveva investito il 79 e Ricci era stato colpito da un proiettile che gli era entrato nell’orbita sinistra uscendo dallo zigomo destro.

Il motorista non riuscì subito a rendersi conto di che cosa fosse avvenuto: non vedeva nulla e aveva alla testa dolori lancinanti che lo stordivano. Però non aveva perso conoscenza e sentiva che l’attacco continuava; fece in tempo a udire qualcuno gridare che uno dei nostri aerei era stato abbattuto; poi un po’ per il dolore e un po’ per la perdita di sangue, svenne e i suoi compagni di volo lo ritennero morto, anche perché aveva il volto devastato.

Ma, per uno di quei miracoli che non si sa come avvengano, Ricci riuscì a riprendersi e, cosa ancor più miracolosa che lasciò increduli e ammirati i suoi compagni di volo, a comportarsi con una calma e una lucidità straordinarie, come se la grave ferita che lo deturpava al punto da rendere difficile guardarlo, non esistesse; si informò dei danni subìti dall’aereo, si fece leggere le indicazioni di tutti gli strumenti riguardanti i motori e suggerì le manovre da effettuare per assicurare il loro regolare funzionamento nella difficile fase di rientro e per trasferire il carburante dai serbatoi danneggiati a quelli intatti.

Quando, dopo la travagliata navigazione verso la Sardegna, gli dissero che il campo era in vista, si fece condurre presso i piloti e, inginocchiato davanti alla piantana centrale, riunì tutte le forze che gli restavano e si dichiarò pronto per il cambio del passo delle eliche e per l’abbassamento dei flap: erano manovre che gli spettavano e che aveva compiuto centinaia di volte; quindi poteva compierle anche senza vederci. Il tenente Leonardi voleva evitargli ulteriori affaticamenti che ne avrebbero aggravato le condizioni; ma, commosso e ammirato per la sua prova di resistenza e di stoicismo, si limitò a controllarne gli interventi che furono eseguiti con tanta sicurezza da non richiedere alcuna correzione.

Purtroppo quel primo lavoro compiuto guidando le mani con la memoria doveva diventare per Ricci una norma costante perché, dopo avergli asportato l’occhio colpito, i medici tentarono invano di salvargli l’altro. Nel momento in cui comprese di essere condannato alla cecità, non riuscì ad evitare una crisi di smarrimento, ma trovò presto la forza per reagire e per accettare con rassegnazione e con dignità la grave menomazione.

Quando gli fu concessa la medaglia d’oro al valor militare, Rolando Ricci aveva già frequentato i corsi di rieducazione per ciechi ed era in condizione di svolgere alla perfezione le mansioni di centralinista telefonico. Per temperamento non avrebbe tollerato di essere ridotto al ruolo di figura decorativa e lo dimostrò sia partecipando attivamente alla vita delle associazioni combattentistiche sia sposandosi con un’orfana di guerra che gli diede una bambina attraverso la quale Ricci sosteneva di essere tornato a rivedere il mondo.

Dobbiamo purtroppo parlare di lui usando i verbi al passato perché il suo fisico, che aveva resistito alla grave ferita riportata in guerra, al dissanguamento e alla tortura dei ripetuti interventi che si erano resi necessari in seguito, non ha resistito a una nuova infermità che ne ha stroncato la pur forte fibra.

Nello stesso sacrario dell’aeronautica dove il valoroso specialista si era sposato nel 1954, i suoi compagni d’arma si sono ritrovati otto anni dopo per vegliarne la salma. In entrambi i casi era presente il generale Leone che, per quanto dotato di un carattere ben poco emotivo, non riusciva a nascondere la sua commozione: Leonello Leone, uno dei piloti atlantici di Balbo, comandava il 32° stormo il giorno in cui Rolando Ricci meritò la medaglia d’oro.

(Tratto da Aviatori Italiani)

 

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PATCH DEL 32 STORMO

 

Primo reparto in assoluto ad operare da Decimomannu; siamo nel 1940. Il 32° Stormo era formato dal 39°-89° Gruppo con la 49^,50^ Squadriglia. L’aeromobile era l’SM79 e l’SM82, con il ruolo di bombardamento terrestre, assalto antinave e aerosilurante. Il teatro delle operazioni era principalmente la Tunisia

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Bel pezzo Blue! :adorazione:;)

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Mi permetto di riportare qui di seguito la relazione dell'allora sergente Domenico Laiolo, fedelissimo gregario di Visconti, su una tipica missione di ricognizione fotografica effettuata il 7 settembre 1943, il giorno prima del Proclama Badoglio....

Più che per il valore del pilota in questione, comunque 6 vittorie all'attivo, è interessante sotto l'aspetto puramente storico, per mostrare quale fosse la disparità delle forze in campo in quei mesi del 1943, per conoscere meglio il 205 in versione fotografica, per mostrare la lungimiranza di Visconti rispetto agli Stati maggiori della Regia Aeronautica e per dare un po' di risalto a questa rischiosa tipologia di missione che normalmete è meno considerata di altre specialità più rinomate.

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" Il mio aereo MC.205 V era dotato di macchina fotografica planimetrica Zeiss che impiegava rotoli di pellicola 30 per 30 cm; impostando la velocità e la quota del volo su di un apposito quadro di controllo in cabina, si fissava automaticamente l'itervallo di scatto consentendo di fare una serie di fotografie idonee a costruire un mosaico del territorio sorvolato. Detta macchina era pure dotata di dispositivi per la ripresa a raggi infrarossi e tutto l'apparato era debitamente riscaldato per evitare inceppamenti alle rigide temperature di 10000 metri di quota. Il mio Macchi era dotato di due serbatoi alari, sganciabili all'occorrenza, di 150 litri di carburante ciascuno.

Il giorno 7 Settembre 1943 il mio comandante, capitano Visconti, mi illustrò la missione che dovevo compiere sulla costa africana per fotografare il canale, il porto e la baia di Tunisi sino a Capo Bon. Era una splendida giornata e gli specialisti si aggiravano attorno al mio aeroplano facendo il pieno di benzina, montando il caricatore della macchina fotografica, controllando le armi; tutto era aposto tranne la radio di bordo che era stata sacrificata per far posto alle atrezzature fotografiche. Poco male perchè per tutta la durata della guerra la radio ha senpre funzionato male. Salii a bordo, fissai sulla coscia sinistra la cartina geografica sulla quale avevo tracciato la rotta ed i tempi stimati di percorso, controllai gli strumenti di bordo; il motore era già stato scaldato dagli specialisti. Misi in moto e verificai con una tiratina il funzionamento del motore, quindi salutati gli amici, partii. Puntai decisamente verso la terra africana e, dopo poco più di 30 minuti, ero sull'obbiettivo; con mia meraviglia nel porto e nella baia vi erano solo pochi barconi che da diecimila metri di quota sembravano inoffensivi. Fotografai il porto e la rada e quindi, con un ampia virata invertii la rotta, lasciando alla mia destra Cartagine e passando sopra l'aeroporto di El Alouina; improvvisamete mi saltarono agli occhi centinaia di aerei di ogni tipo, ben allineati come per una rivista e prossimi a nuove piste di decollo.

Le dimensioni erano mutate da quelle che avevo conosciuto personalmente nel mese di aprile, durante la mia permanenza in Tunisia. Non sembrava più un aeroporto di gerra, bensì un raduno per una grande parata aerea; gli alleati erano ormai sicuriche nessuno avrebbe più violato i cieli dei loro aeroporti; forse io ero uno degli ultimi Italiani che avevano spiato dal cielo un apparato bellico così imponente.

Sorpresi dal mio arrivo, essi misero in azione le armi contraereecon ritardo percui potei fotografare lo spettacolo sottostante. Aquesto punto decisi di puntare su Biserta, base navale che nei giorni precedenti non presentava movimenti navali degni di nota. Il mio intuito mi portò sulla buona strada: volando sempre a diecimila metri di quota e arrivando sul porto dall'entroterra,osservai il lago di Biserta ( così era chiamata l'insenatura a sud della città) che pullulava di natanti, risultati poi, dall'esame dei fotogrammi, mezzi da sbarco e navi ausiliarie; la rada era affollata di navi da guerra di ogni tipo che mi accolsero con un fuoco contraereo molto intenso tanto da circondarmi di nuvolette bianche dovute agli scoppi. Feci ancora un giro per scattare fotografie di cose tanto importanti e quindi misi prua a nord per tornare a casa.

Ma ad un tratto il fuoco antiaereo cessò ed io intuii immediatamente cosa stava succedendo>; girai il capo per guardarmi la coda e vidi nel cielo terso tre "pappagalli" a meno di mille metri di distanza che mi stavano inseguendo. Misi il mio meraviglioso Veltro sotto la linea di volo ( due metri al secondo a scendere al variometro) e tutta manetta del motore ed in pochi secondi raggiunsi i 700 Kmall'ora; facendomi venire il torcicollo tenevo sempre d'occhio i miei inseguitori che non riuscivano ad avvicinarsi; a metà canale i miei cacciatori invertirono la rotta e se ne tornarono a casa; io ridussi i giri del motore che, con un brontlio, mi ringraziò di non tirargli più il collo; potei così trarre un profondo sospiro, aspirando avidamente ossigeno dalla maschera.

Finalmente giunsi a Capo Spartivento e sul golfo di Cagliari e, dopo aver smaltito la quota, sorvolai Elmas e dopo pochi minuti posi dolcemente le ruote sull'erba di Decimomannu, atteso con trepidazione dal comandante Visconti e dai colleghi, in quanto avevo raggiunto il limite dell'autonomia.

Mentre gli specialisti estraevano dalla macchina fotografica i caricatori di pellicola impressionati per consegnarli al maresciallo fotografo per lo sviluppo, feci un ampio rapporto al comandante su quanto avevo visto; a Visconti chiesi come mai da diversi giorni fotografavamo zone di mare e porti accoglienti solo per qualche peschereccio o poco più mentre il nemico ammassava navi in altra zona da noi disertate.

La risposta fu: " gliordini erano di fotografare a scacchiera le coste africane da est verso ovest, onde ottenere un mosaico che avrebbe consentito uno studio approfondito della startegia nemica".

Seguendo i consigli di Visconti, che al di là dell' ordine giunto dall'Alto Comando, suggeriva di eseguire giri di perlustrazione a largo respiro, io ero andato a Biserta ove avevo scoperto il grosso della flotta alleata da sbarco.

Ma dove erano diretti quei mezzi da sbarco e tutte quelle navi? lo avremmo saputo il giorno dopo, 8 Settembre 1943."

 

(relazione firmata da sergente pilota Domenico Laiola della 310ima squadriglia Caccia Aerofotografica)

tratto da " Adriano Viscoti Asso di Guerra" di Giuseppe Pesce con Giovanni Massimello

(libro già segnalato da Dave nella sezione libri)

 

P.S. lascio alla discrezione dei moderatori la scelta di passare questo stralcio nella sezione dedicata al libro in questione :adorazione:

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ERNESTO TREVISI

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"Un'Altro Figlio"

Nel 1940 Ernesto Trevisi era un sottotenentino di vent’anni che, appena uscito dall’Accademia Aeronautica, aveva ottenuto di essere destinato a un reparto da caccia. Lo aveva comunicato a casa con una lettera così entusiasta da apparire crudele: «Tu non pensi, mammina, che cosa vuoi dire? Uscire subito, sottotenente, andare in squadriglia... A vent’anni poter realizzare un sogno che facevo fin da quando ero bambino? Pericolo? Ogni momento, ogni attimo della vita è un continuo passo verso quello che può essere l’ultimo...».

Evidentemente il ragazzo si era lasciato prendere la mano dall’entusiasmo e non aveva capito che frasi di quel genere non si scrivono a nessuno e tanto meno alla mamma. Il padre, maggiore di fanteria Nicola Trevisi, glielo fece forse rilevare, ma c’è da scommettere che, sotto sotto, quella frase gli piaceva. Non era stato facile per lui, costretto alla vita un po’ nomade dei militari di carriera, metter su famiglia e allevare i figli, educarli e farli studiare perché potessero a loro volta entrare in Accademia e farsi la loro strada. C’erano voluti dei sacrifici e si erano dovuti anche superare momenti difficili, perché le entrate erano quelle che erano e il grado imponeva dignità e decoro. Ma ora il primo era già a posto, già sottotenente pilota alla 363ma squadriglia del 53° stormo caccia, già pronto per la guerra, anzi già in guerra.

Tino in guerra! Sembrava quasi incredibile. Eppure la lettera al fratello Luciano, che era entrato a sua volta in Accademia, non lasciava dubbi: «Da una settimana sono giunto al campo. Pensa che appena arrivato la nostra squadriglia ha fatto una scorta agli S.79 a Salonicco: lì ha trovato i PZL con cui ha impegnato combattimento e ne ha abbattuti quattro, più uno probabile. Qui ogni tanto vengono a trovarci i loro bombardieri, tirano abbastanza bene, ma non riescono a farci nulla».

La lettera, datata da Koritza, teneva già conto delle raccomandazioni paterne: riferimento alle azioni del reparto, ma niente che riguardasse lui. E sì che Tino in quei giorni aveva lavorato sodo. Tre crociere di vigilanza nella zona di Presba, due sull’alto bacino della Vistrizza, una nella zona di Bilistri conclusa con un mitragliamento di truppe, tutto tra il 2 e il 12 novembre.

Il 13 ottiene la prima vittoria: parte su allarme con altri due apparecchi per attaccare una pattuglietta di Potez che ha bombardato il campo, riesce a raggiungere uno degli avversari, gli si mette in coda e spara fino a quando l’altro non cade. Non sono ancora trascorse ventiquattr’ore che l’occasione gli si ripresenta ancora più allettante della prima: hanno segnalato che sei PZL si stanno avvicinando alle nostre linee. I piloti greci sono in condizioni di netta inferiorità, ma si battono con coraggio con le loro vecchie macchine e occorre intercettarli prima che effettuino l’attacco.

In campo sono disponibili soltanto tre CR.42 che vengono subito messi in moto, ma uno non ce la fa a decollare e con Trevisi parte soltanto il sergente Pirchio: anche con macchine superiori, in due contro sei si giostra male; comunque bisogna raggiungere i greci prima che attacchino. Eccoli! Una virata per tagliar loro la strada e il combattimento già divampa. Non c’è quota sufficiente per lunghe affondate e inoltre gli altri virano stretto: bisogna guardare in ogni direzione e tenere a bada tre apparecchi per ciascuno. Maledizione! Hanno preso in mezzo Pirchio! Le traccianti convergono sull’apparecchio del gregario, questi manovra, riesce a svincolarsi, ma è stato ferito ed è costretto a rientrare prima che l’emorragia lo esaurisca.

Tino Trevisi rimane solo a lottare contro sei avversari; per un po’ dalle nostre linee riescono a seguirlo, vedono che abbatte uno degli avversari, resiste all’assalto degli altri cinque, ne colpisce ripetutamente un secondo, poi il combattimento si sposta oltre le linee greche e non c’è più modo di vedere e di sapere nulla perché Trevisi non rientra.

Al padre, allora in servizio a Torino col 91° reggimento fanteria, giunge prima la notizia che risulta disperso: è una formula che lascia aperto l’animo ad ogni speranza, ma che determina un’ansia incontenibile. Troppe famiglie hanno ricevuto comunicazioni del genere e troppe hanno conosciuto quest’ansia perché la vicenda possa apparire diversa dalle altre. Ma i suoi aspetti eccezionali si delineano a poco a poco, testimonianza per testimonianza, colpo per colpo.

Appena ricevuta la prima comunicazione, il padre scrive a tutti i colleghi che ha in Albania, ai superiori, al ministero, alla Croce Rossa, ai comandi aeronautici, chiede di partire per il fronte e cerca in ogni modo di avere notizie. E queste a poco a poco arrivano, ma sono frammentarie, confuse e in qualche caso contraddittorie: scrivono i generali Ranza e Urbani, scrive il colonnello Graziani che ha visto parte del combattimento, scrivono il capitano Mariotti che comandava la 36V e il sottotenente Francinetti che era compagno di corso di Tino. Ognuno dà qualche particolare, ma nessuno è in grado di essere preciso sull’esito finale e lo stesso generale Pascolini non può concludere la sua lettera che così: «Non è stato più visto, non è rientrato. Ecco perché ti è stato segnalato come disperso. Avrà fatto uso del paracadute? Lo avranno costretto ad atterrare? Nessuno può dirlo. E l’angoscia dovrà torturarti ancora per un po’ e cioè fino a quando non si potrà accertare se risulta tra i prigionieri».

Purtroppo tra i prigionieri Tino Trevisi non doveva risultare. A fine dicembre una comunicazione della Croce Rossa internazionale informava invece che il giovane aviatore era stato abbattuto oltre le linee greche e che la sua salma era stata ricuperata e sepolta in località Krustova accanto ai resti dell’apparecchio.

Non accade spesso che, durante la guerra, sia consentito ai familiari di un caduto di raggiungere il settore del fronte dove egli si è sacrificato e cercare di indagare, di interrogare chi lo ha visto cadere, allo scopo di ritrovarne la salma. Ma il padre di Trevisi riuscì a farlo: aveva giurato a se stesso e alla signora Mariuccia di ritrovarlo quando gli era arrivata la no- tizia che suo figlio era stato proposto per la medaglia d’oro al valor militare con una motivazione bellissima, della quale lui si sentiva ad un tempo partecipe e responsabile.

Era infatti stato lui a educare Tino alla scuola del coraggio e dell’onore, lui che gli aveva parlato della Prima guerra mondiale e delle gesta che i soldati avevano compiuto, lui che gli aveva citato le motivazioni delle loro medaglie. E ora quelle parole, che sembravano così lontane e solenni, erano dolorosamente vicine, erano entrate anche nella sua casa, erano in parte sue. Ma aveva bisogno di sapere di più, di convincersi che non vi fosse più nulla da fare o da sperare. Aveva bisogno di ritrovare suo figlio.

Alla fine di marzo del 1941 ottenne di partire per l’Albania; raccolse a Tirana tutti i dati possibili e raggiunse il fronte; con l’avanzata dell’aprile poté portarsi sulle posizioni che i nostri occupavano il 14 novembre 1940 e di lì sulle linee greche. Ma i dati che aveva erano insufficienti: individuò il punto di caduta di altri aeroplani, trovò altre salme, ma non quella del figlio.

Allora, dato che le ostilità erano cessate, raggiunse Atene, ottenne il permesso di consultare la documentazione ufficiale greca, ebbe i nomi degli ufficiali avversari che avevano assistito al combattimento del figlio e ne rintracciò due: sia il maggiore Chatse sia il capitano Sorotoy ricordavano con esattezza l’episodio e lo descrissero esprimendo la loro cavalleresca ammirazione per i nostri piloti: questi avevano iniziato in due contro sei, poi uno si era allontanato colpito e l’altro era rimasto solo a lottare. Combatté per circa mezz’ora riuscendo ad abbattere due greci, poi fu sopraffatto.

Le loro dichiarazioni furono verbalizzate, ma pur- troppo nessuno dei due era in grado di precisare il punto esatto in cui era caduto il CR.42; fu però accertato che un altro ufficiale, il capitano Mallicourtis, per alcuni mesi aveva avuto un comando in quel- la zona e sapeva dove erano i resti dell’aeroplano e dove era stato sepolto il pilota.

Mallicourtis fu a sua volta rintracciato e si offerse di accompagnare il maggiore Trevisi sul posto chiedendo per sé soltanto l’autorizzazione a indossare l’uniforme, il che fu concesso. Il viaggio da Atene al confine albanese fu complicato, le ricerche nella zona impervia e priva di strade furono difficili, ma la sera del 23 maggio 1941 il maggiore Trevisi poteva chinarsi sulla tomba di suo figlio. La salma fu ricuperata il giorno dopo, portata a spalla dai nostri soldati fino alla strada più vicina e quindi a Koritza, sullo stesso campo dal quale Tino era partito sei mesi prima per il suo ultimo volo.

Dopo le solenni onoranze funebri svoltesi a Tirana, il maggiore Trevisi rientrò in Italia e ripartì subito in volo per l’Albania, accompagnato questa volta dalla moglie e dal figlio Luciano che condusse nei luoghi dove Tino aveva combattuto e dove ora riposava. Un pellegrinaggio triste e doloroso che però consentì a tutti di essere uniti per l’ultima volta.

Poi gli anni trascorsero lenti e tragici e la famiglia Trevisi ebbe anche l’amarezza di apprendere che la proposta per la concessione della medaglia d’oro a Tino non era stata accettata e che alla sua memoria era stata concessa una medaglia d’argento «sul campo». Nel 1959, in seguito a nuove testimonianze sull’eroico comportamento del sottotenente Ernesto Trevisi, alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro.

Ma questo era nulla in confronto al disorientamento morale che seguì l’armistizio e la guerra civile: sembrava quasi che chi aveva perduto un congiunto prima dell’8 settembre dovesse vergognarsene. Assurdo rivolgersi a qualcuno per sapere qualcosa delle salme, assurdo chiedere che qualcuno se ne interessasse: tutto quanto riguardava i Caduti dava fastidio e le famiglie dovevano chiudersi nel loro dolore e ricordare nell’ambito familiare i loro morti.

Ma anche nell’abbandono generale non si deve mai disperare perché la forza dell’eroismo è tale da sopravvivere a tutto e da manifestarsi a volte nei modi più impensati. In casa Trevisi si manifestò all’improvviso nell’aprile del 1953 attraverso una lettera arrivata dalla Grecia. Chi poteva scrivere da laggiù? Come poteva qualcuno avere l’indirizzo esatto? Che cosa significavano quei caratteri difficili da interpretare ma che contenevano nella grafia il nome di Tino? Significavano tante cose, ma prima di ogni altra significavano che esistono ancora sentimenti nobili, senso cavalleresco e bontà.

La lettera era stata scritta da Achille Cristacos, un ufficiale greco che tredici anni prima aveva assistito alla fase finale del combattimento di Trevisi e che, dopo l’abbattimento, ne aveva ricuperata la salma e l’aveva sepolta con gli onori militari accanto ai resti dell’apparecchio. Di tutto quanto aveva rinvenuto sul corpo del Caduto aveva conservato un tesserino dove era segnato un indirizzo: lo aveva fatto perché, a guerra finita, voleva scrivere alla famiglia dell’aviatore italiano che aveva visto battersi e cadere da prode.

Poi aveva smarrito il documento e soltanto dopo molti anni lo aveva ritrovato per caso tra le pagine di un libro. Allora aveva scritto all’indirizzo segnato sulla tessera e la lettera era pervenuta alla famiglia Trevisi.

Dopo aver ricevuto una prima, commossa risposta, aveva scritto ancora, fornendo tutti i particolari della fase finale del combattimento, quando Tino era rimasto ormai solo a lottare contro l’apparecchio greco che lo abbatté. La delicatezza e il calore umano delle lettere dell’ufficiale greco portarono i familiari di Trevisi a chiedergli di venire in Italia, dove essi sarebbero stati lieti di accoglierlo e di manifestargli tutta la loro gratitudine.

E il tenente Cristacos, ormai smobiitato da tredici anni e divenuto nel frattempo funzionario di una banca di Atene, accettò l’invito, venne in Italia e si incontrò a Torino con il padre, la madre e il fratello di Tino Trevisi, l’aviatore nemico che aveva destato la sua ammirazione e che egli aveva visto morire.

«Vi prego di considerarmi come un altro figlio», aveva scritto in una delle prime lettere al maggiore Trevisi. E aveva diritto ad essere considerato così perché, nel lontano novembre del 1940, mentre infuriava la lotta, egli aveva raccolto il corpo di Tino e lo aveva composto nella tomba amorevolmente, come se fosse stato un suo fratello. (Tratto da Aviatori Italiani)

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AEREI TRE, UOMINI QUARANTADUE

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Negli ultimi giorni di marzo del 1941 l’I-NOVI, l’I-ARCO e l’I-VADO, tre vecchi e malridotti trimotori S.73 del comando trasporti, stavano attendendo la loro fine ai margini del campo di Addis Abeba, ormai in procinto di essere occupato dagli inglesi, quando una schiera di specialisti li prese d’assalto e, in cinque giorni e cinque notti di lavoro, li rimise in efficienza.

Era avvenuto che i tenenti Max Peroli e Giulio Cazzaniga, due piloti di linea mobilitati, ai quali l’idea di finire prigionieri degli inglesi non andava a genio, avevano pregato il capitano Aldo Tait, aiutante di volo di Amedeo d’Aosta, di sottoporre al viceré il loro piano: se, attraverso la «cannibalizzazione» di tutti gli aerei fuori uso esistenti sul campo, si fosse riusciti a rimettere in efficienza tre S.73, erano disposti a tentare di raggiungere l’Italia, portando a bordo il maggior numero possibile di aviatori bene addestrati, in modo da sottrarli alla prigionia e da consentire loro di continuare a combattere. Al Duca d'Aosta una promessa del genere non poteva non piacere; la sua esperienza di aviatore e il suo senso di responsabilità lo portarono a chiedere prima quale rotta i proponenti intendessero seguire, poiché gli S.73 non avevano l’autonomia sufficiente per raggiungere con un volo diretto i campi libici della Sirte che in quel periodo erano i più vicini tra quelli in nostro possesso.

Quando seppe che Peroli e Cazzaniga avevano previsto di risolvere il problema facendo tappa nell’Arabia Saudita, che era formalmente neutrale, diede il suo consenso al tentativo e impartì gli ordini necessari perché questo potesse venire effettuato.

Mentre gli specialisti del servizio trasporti provvedevano a rimettere in efficienza gli aeroplani che, provenendo dall’Ala Littoria, avevano ancora la loro immatricolazione civile, il comando aeronautico dell’Africa Orientale disponeva una scelta del personale militare che, per anzianità coloniale, attività svolta e grado di addestramento era opportuno inviare in Italia.

Furono designati undici piloti e undici specialisti che, per evitare differenze e complicazioni, vennero tutti dotati di documenti civili, come il personale del servizio trasporti, che era formato da tre equipaggi di quattro elementi ciascuno e da altri Otto uomini. Nel complesso furono quindi quarantadue gli aviatori che, suddivisi su tre apparecchi, partirono da Addis Abeba alle ore 16,15 del 3 aprile 1941. Per poter valutare in giusta misura lo spirito che li animava, occorre ricordare che molti di loro lasciavano la famiglia in Africa Orientale.

Dato che le dimensioni del campo di Addis Abeba e la rarefazione atmosferica derivante dalla sua altezza non avrebbero consentito una partenza con forte sovraccarico, era stato previsto che gli apparecchi, prima di puntare su Gedda, effettuassero un atterraggio e un rifornimento su un campo di fortuna approntato da poco nei pressi di Sifani.

Il viaggio si doveva però dimostrare avventuroso fin dalla prima tappa: infatti, un violento temporale incontrato lungo la rotta, le cattive condizioni degli strumenti di bordo e il sopraggiungere dell’oscurità fecero sì che nessuno degli aerei riuscisse a raggiungere la pista di Sifani. L’I-VADO atterrò a Dessiè; l’I-ARCO, dopo aver tentato invano di arrivarvi, effettuò un atterraggio di fortuna a pochi chilometri dal campo di Assab e l’I-NOVI fu costretto a prendere terra nel deserto dancalo.

Grazie all’abilità dei piloti, malgrado l’oscurità, il maltempo e il terreno accidentato, gli atterraggi vennero compiuti con tanta maestria che il giorno dopo i tre aerei poterono ripartire: due raggiunsero Gedda a poche ore di distanza uno dall’altro, mentre il terzo, che era rimasto senza carburante, dovette limitarsi ad arrivare ad Assab. Di qui, essendo risultati vani tutti i tentativi di impiegare benzina non etilizzata, poté partire soltanto nella notte del 9 aprile, dopo aver ricevuto il carburante adatto.Quando anche l’I-ARCO raggiunse Gedda, il suo equipaggio ebbe la sgradita sorpresa di essere inviato a tener compagnia al personale degli altri due aerei che era stato rinchiuso in un edificio nei pressi del campo. Le sue alte mura e la disposizione dei locali facevano pensare che si trattasse di un vecchio harem; solo che, al posto di inoffensivi eunuchi, nei corridoi giravano sentinelle armate. Inutile dire che i nostri aviatori non avevano accettato quel trattamento e avevano cercato di dimostrare alle autorità locali che gli atterraggi erano tutti avvenuti per causa di forza maggiore, gli aeroplani erano comuni aerei da trasporto civili e il personale presente a bordo dipendeva tutto da una società privata di navigazione aerea; quindi l’internamento non aveva senso e doveva anzi essere considerato un arbitrio.

Il governatore della città, per quanto lo riguardava, sembrava disposto a credere ogni cosa, ma il rappresentante inglese, che ingenuo non era, gli si era piazzato alle costole e usava tutta la sua influenza per convincerlo che quei quarantadue italiani piovuti a Gedda avevano un portamento e una disciplina che ricordavano un po’ troppo l’educazione militare. L’impero britannico non aveva nulla da temere da quel pugno di uomini, ma era suo dovere avvertire che il loro mancato internamento sarebbe stato considerato come un gesto scortese nei confronti del governo di Sua Maestà e avrebbe potuto avere spiacevoli conseguenze. Classico sistema inglese: forma irreprensibile, ma in sostanza un’intimidazione bella e buona.

Per fortuna anche il rappresentante dell’Italia a Gedda, il ministro Silliti, sapeva il fatto suo. Superati i primi ostacoli e preso contatto con il tenente Peroli, iniziò a sua volta un’azione di convincimento presso il governo locale e la continuò con fermezza, in modo da controbilanciare l’azione avversaria. Saputo poi che, per lo scarso cibo, la mancanza di acqua potabile e il clima, quasi tutti gli aviatori erano stati colti da febbri malariche, inviò presso di loro il dottor Putzolu che, per quanto già impegnato nell’assistenza di diverse centinaia di marinai italiani e tedeschi internati nella stessa località e in gran parte malarici, si prodigò giorno e notte per provvedere a tutti.

Per quanto le condizioni di vita nell’harem fossero tutt’altro che allegre, non tutti si lasciavano abbattere: c’era la distrazione dell’aereo inglese che, dimenticando la neutralità, ogni mattina veniva a controllare se i tre apparecchi italiani erano ancora lì; c’era il solito alternarsi di notizie, speranze e delusioni e c’era la cerimonia giornaliera per l’elezione di «mister febbre», ossia l’aviatore che raggiungeva nel corso della giornata la temperatura più elevata.

La lotta a distanza tra il rappresentante italiano e quello inglese si protrasse per una quindicina di giorni e, in occasione dell’arrivo a Gedda del principe Feisal, ministro degli Esteri del governo saudita, si concluse a favore di Silliti che ottenne sia l’autorizzazione a prelevare benzina per gli aerei sia il permesso di partenza per tutto il nostro personale.

Da Roma gli era stato comunicato che, data l’incertezza della situazione in Libia, era opportuno far dirigere gli apparecchi su Beirut. Ma proprio mentre il personale, nonostante la febbre, stava di nuovo lavorando intorno agli apparecchi per metterli in condizioni di proseguire il viaggio, arrivò la notizia dell’avvenuta rioccupazione di Bengasi. Perché, allora, non tentare di coprire con un solo volo diretto i 2.250 chilometri che separavano Gedda da quella città? Gli S.73 non avevano l’autonomia sufficiente; ma, se si fossero potuti sistemare a bordo di ciascun trimotore un paio di fusti di benzina travasandoli poi nei serbatoi man mano che questi si vuotavano, il problema dell’autonomia sarebbe stato risolto.

La proposta fu accettata, al posto dei fusti furono portati a bordo sei vecchi serbatoi trovati sul posto e riparati alla meglio, il rifornimento venne completa- to e la partenza fu decisa per il 27 aprile, in piena notte, per evitare che gli inglesi, avvertiti in tempo, potessero fare qualche brutto scherzo tentando un’intercettazione lungo la rotta.

Tutto sembrava ormai sistemato e la gente pregustava già la gioia del rimpatrio quando, la sera della partenza, uno dei motori dell’I-NOVI, portato al massimo di giri per la consueta prova, cominciò a tossire, a sputare, a vibrare e alla fine si fermò.

I motoristi accertarono che i «prigionieri» di un cilindro avevano subìto un allungamento di quattro millimetri e che dovevano essere sostituiti. Cercare in Arabia, nella primavera del 1941, dei pezzi di ricambio per un motore italiano, era assurdo. E assurdo poteva anche sembrare che qualcuno si mettesse in testa di fabbricarseli sul posto con mezzi di fortuna, dato che un motore di aereo non è un rubinetto. Ma c’era di mezzo il miraggio del rimpatrio, il desiderio di non lasciarsi vincere dalle avversità e, soprattutto, quello di non darla vinta agli inglesi: quindi il pezzo fu fatto. Lo fabbricarono con attrezzi rudimentali i nostri impareggiabili specialisti, utilizzando l’acciaio del mozzo d’elica di un vecchio motore che, tra l’altro, aveva il sottile pregio di essere inglese.

La fabbricazione manuale del pezzo richiese qualche giorno di tempo e la partenza dovette essere rinviata al 4 maggio per tutti, dato che gli equipaggi ci tenevano a partire insieme. Questo senso di solidarietà era bello e nobile; ma quando, la sera del 3, il campo fu investito da un ciclone di sabbia che strappò gli alettoni all’I-VADO e insabbiò i motori degli altri due apparecchi, fu giocoforza decidere che ognuno seguisse la sua sorte.

Gli specialisti impiegarono quattro giorni per liberare dalla sabbia i motori dell’I-NOVI e del- l’I-ARCO ed è fin troppo chiaro che tirarono in lungo nella speranza che anche l’I-VADO potesse essere pronto. Ma, poiché la speranza non poté essere realizzata, nella notte tra il 7 e l’8 maggio, con il solo aiuto dei fari di un’automobile posta oltre i limiti del campo, i primi due apparecchi decollarono. Volarono per circa dieci ore su territori controllati dal nemico e l’indomani raggiunsero Bengasi.

Dato che provenivano da una rotta insolita, la radio del campo non aveva in un primo momento risposto alla loro chiamata: allora uno dei marconisti cominciò a trasmettere improperi dialettali così vivi e pittoreschi che a Bengasi non ebbero più dubbi sulla nazionalità di chi trasmetteva e stabilirono il collegamento con gli aerei, guidandoli all’ atterraggio. Gran feste, gran manate sulle spalle e gran brutto tempo che, insieme alla necessità di riparazioni, comportò la perdita di qualche giorno tra Bengasi e Tripoli. Ma nel pomeriggio del 12 maggio l’I-NOVI e l’I-ARCO posavano le ruote al cospetto dei caratteristici pini che circondano l’aeroporto romano dell’Urbe, dove il giorno successivo furono raggiunti anche dall’I-VADO.

Quel loro avventuroso rientro e le vicende che lo contrassegnarono attraverso i 6.270 chilometri percorsi su territori che erano in gran parte in mano nemica, meritavano di essere commentati e divulgati ampiamente, magari attraverso un film la cui trama, del resto, era già tutta nei fatti.

Ma, a parte gli aspetti esteriori, quei fatti racchiudevano in sé anche un profondo significato morale perché dimostravano come allora noi disponessimo di molta gente che, dopo aver fatto il proprio dovere in condizioni molto difficili, era disposta a rischiare la pelle in un volo avventuroso, al solo scopo di poter ancora rendersi utile, di poter ancora combattere.

Era per questo che il Duca d’Aosta aveva dato il suo consenso al tentativo ed era di questo che aveva parlato agli equipaggi prima della loro partenza da Addis Abeba. Quelle sue parole furono per i quarantadue aviatori come un viatico e un impegno al quale essi seppero tener fede continuando a prodigarsi, in molti casi fino al sacrificio.

Degli undici ufficiali piloti prescelti tra il personale militare dell’Africa Orientale, cinque vollero essere destinati a reparti aerosiluranti, che comportavano maggiori rischi, due andarono alla caccia e gli altri al bombardamento e ai trasporti. Per chi era animato da senso di dedizione non vi poteva essere tregua e, prima dell’armistizio, già Annona, Bosi, Leonardi e Veronese erano caduti in azione. Ma anche dopo l’8 settembre i superstiti continuarono a combattere e altri si sacrificarono: il tenente pilota Vezio Terzi, dopo aver operato a lungo con reparti di aerosiluranti, cadde durante un’azione di aerotrasporto, mentre era in servizio con i reparti del Sud. Anche tra gli specialisti le perdite furono elevate perché, dopo il loro rientro, tutti erano destinati a reparti operativi duramente impegnati.

Tra il personale del reparto trasporti che rimpatriò con quella spedizione,’ sette aviatori di grande esperienza furono prescelti per far parte degli equipaggi che, attraverso difficili voli, mantennero i collegamenti con l’Africa Orientale fino a quando, nel novembre del 1941, anche il presidio di Gondar, l’ultimo sui quale si levava ancora il tricolore, fu costretto a cedere. (Aviatori Italiani)

 

 

Elenco degli aviatori che presero parte all’avventuroso volo. Equipaggi comando trasporti: tenente pilota Max Peroli, tenente pilota Alberto Agostineffi, 2° capo marconista Ernesto Buglioni, aviere scelto motorista Giuseppe Boero, tenente pilota Giulio Cazzaniga, sottotenente pilota Rinaldo Pretti, 2° capo marconista Nicola Bonadies, sottotenente pilota (motorista) Orazio Duti, tenente pilota Lodovico Riva Romanò, sergente pilota Guido Guazzetti, aviere scelto marconista Ugo Sist, aviere scelto motorista Giacomo Timolina.

Personale comando trasporti: tenente pilota Giuseppe Bertolini, sottotenente pilota Mario Valente, sergente pilota Giuseppe Cavalletti, sergente motorista Angelo d’Avino, 2° capo marconista Giorgio Ballati, aviere scelto marconista Giuseppe Miata, aviere scelto marconista Giovanni Casnighi, aviere marconista Giuseppe Baroli.

Personale dei vari reparti d’impiego: capitano pilota Bruno Tixi, tenente pilota Alberto Leonardi, tenente pilota Bruno Chiossi, tenente pilota Paolo Lombardi, tenente pilota Franco Edison, tenente pilota Vezio Terzi, tenente pilota Giuseppe Bosi, tenente pilota Salvatore Annona, sottotenente pilota Alberto Veronese, sottotenente pilota Osvaldo Bartolozzi, sottotenente pilota Valentino Nizzero, maresciallo motorista Virgffio Cugini, maresciallo marconista Antonino Ella, sergente maggiore marconista Aldo Spalla, sergente maggiore montatore Saverio Garritano, sergente maggiore motorista Giuseppe lesce, sergente motorista Ernesto Innocenti, sergente motori- sta Quirino Archetti, sergente montature Raimondo Labina, primo aviere marconista Pietro Giacomelli, primo aviere marconista Augusto Parenzo, primo aviere marconista Francesco Canessa.

Modificato da Blue Sky
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Ospite galland

DUELLI VINTI DUELLI PERDUTI

Corrado Ricci Vita di pilota (III)

 

La guerra procede. Dopo aver sostenuto l’effimera offensiva contro il Somaliland, l’unica campagna della II guerra mondiale vinta con l’esclusivo concorso delle armi italiane, i velivoli della 410 debbono sostenere il peso dell’offensiva inglese condotta con mezzi tutt’altro che “coloniali” quali gli Hurricane, i Battle, i Blenheim. Se la conquista dell’Etiopia è stata la guerra dei sette mesi per perdere le nuove e vecchie colonie basta poco più di un anno. L’offensiva inglese procede dal Kenia, a sud, e dal Sudan a nord. Cominciano le perdite…

“Ai primi di febbraio Omiccioli [1]era stato abbattuto nella zona di Gondar: cinque Gloster erano arrivati a mitragliare il campo e lui aveva voluto decollare ugualmente, impegnando combattimento appena staccate le ruote da terra. Combattimento breve perché troppi erano i nemici e lui era da solo. Fu udita una sola raffica, poi precipitò, colpito a morte.

Veronese e Folcherio [1] furono mandati a Maccallè, dove erano stati riuniti gli ultimi S79; ma non vi esisteva una rete di avvistamento e allora, sfruttando il finissimo udito dei nostri ascari, Folcherio ne fece disporre una catena sulle colline più lontane: l’allarme veniva dato a colpi di moschetto che, a ogni rumore sospetto, i bravi indigeni si trasmettevano l’un l’altro fino all’ultimo, in ascolto nei pressi del velivolo di servizio sul quale i due piloti si alternavano, tenendosi sempre pronti a partire. Quanti decolli in quelle condizioni! Una volta Veronese attaccò due Blenheim, danneggiandoli tanto che uno dovette atterrare sulla piana del Sale e l’altro precipitò nei pressi della sua stessa base. Dei tre uomini che avevano atterrato soltanto uno poté giungere, quasi morente dopo una marcia paurosa, a un nostro posto di carabinieri.

Qualche giorno dopo, sentito il solito colpo di moschetto, Veronese (Le incursioni pareva arrivassero sempre quando lui era di servizio!) decolla di nuovo con tutta la fretta consentitagli dal suo sfiatato CR32 e dalla quota del campo [la storica località si trova a 2062 m., un ulteriore handicap per un velivolo privo di compressore e dotato di elica bipala a calettamento regolabile a terra] appena raggiunti i duecento metri vede arrivare un pattuglione di nove Hurricane: lui è solo in volo e quelli si dirigevano proprio sul campo, per mitragliarvi i bombardieri. Uno contro nove! Quando c’incontrammo mi descrisse, brevemente com’era sua abitudine, il combattimento:

“Sa, comandante, mi sono fatto mentalmente il segno della croce… ho appena fatto in tempo a dirmi: questa volta tocca a te! Mi sono buttato sul capopattuglia, quasi di fronte, e ho sparato mirando del mio meglio… poi non ho capito più nulla! Loro sparavano da tutte le parti, non facevo in tempo ad abbozzare una manovra, l’aria pareva piena di aeroplani… A un tratto ho sentito un colpo sulla solita coscia e un gran puzzo di benzina: ho visto delle fiamme uscire dal motore e allora mi sono lanciato: non volevo finir bruciato anch’io!”

Il pilota, colpito ai radiatori, aveva dovuto atterrare; era il comandante del gruppo, un maggiore sudafricano: non voleva assolutamente ammettere di essere stato attaccato da un solo velivolo e, peggio ancora, da un CR.32; diceva testardamente che a colpirlo era stato un 42: gli pareva di sentirsene nobilitato! […]

In dicembre Bartolozzi [1] era a Bardera [località -da barderr = palma alta- della Somalia Italiana sulla riva sinistra del fiume Giuba], nella squadriglia di De Micheli, con i CR 42. L’aeroporto sotto il sole tropicale era infuocato e i velivoli divenivano roventi: per volare senza procurarsi gravi ustioni i piloti dovevano far uso dei guantoni invernali. De Micheli aveva insistito per farsi allestire una striscia lontana dall’aeroporto principale e vi si erano trasferiti, una sera, prima ancora che fosse stata finita. All’indomani mattina la base viene attaccata da quattro Hurricane: De Micheli decolla subito portandosi Bartolozzi come gregario; il terzo velivolo con Strano, avrebbe decollato non appena il polverone sollevato si fosse un po’ diradato. Ma è proprio questo polverone che attira l’attenzione di due Hurricane, che subito attaccano mentre Strano sta decollando; la prima raffica è per lui. Ferito e col velivolo danneggiato non po’ riatterrare e deve rimanere in volo alla meno peggio mentre De Micheli si butta su uno dei nemici e Bartolozzi impegna l’altro. Bartolozzi è al suo primo volo sul CR 42 ma attacca deciso; ambedue le coppie, un Hurricane e un CR 42 ciascuna stanno sfruttando del loro meglio i velivoli con virate sempre più strette: il combattimento cominciato al suolo, si sta elevando in quota e dura a lungo. A un tratto una fiammata riga il cielo e poco dopo un paracadute si apre e scende lentamente: De Micheli ha abbattuto il suo avversario. Bartolozzi non ha bisogno di aiuto: quasi subito un’altra scia rossa, seguita da un pennacchio di fumo nero, precipita e un secondo paracadute viene a terra. Il pilota, un capitano, è ferito e viene raccolto da una banda somala e trasportato all’ospedale dove, nel frattempo, giunge anche Strano, che ha potuto atterrare dopo che gli altri due Hurricane se ne sono andati.

L’ufficiale inglese aveva avuto un piede spappolato da una pallottola di Bartolozzi; ma il professor Coniglio, con una serie di pazienti operazioni , gli aveva restituito la possibilità di camminare. Aveva raccontato di essere stato mandato dall’Inghilterra per insegnare ai sudafricani come combattere contro gli italiani: aveva molto male accettato di essere stato abbattuto da un sottotenentino al suo primo combattimento sul CR 42.

Ancora Bartolozzi aveva decollato sotto un mitragliamento ed era riuscito a mettere in fuga l’assalitore e salvare così sei “Caprone” [l’affettuoso soprannome attribuito al trimotore Caproni Ca.133, utilizzato nel settore operativo dell’Aoi -incredibile dictu- come bombardiere] che stavano per partire per un bombardamento. Aveva poi attaccato e abbattuto un altro Hurricane sul campo di Liboi: durante il rientro aveva adocchiato una pista improvvisata sulla quale erano tre caccia; si era però sentita negare l’autorizzazione di andare all’indomani mattina a mitragliarli. Ma non era stato modificato l’ordine di bombardamento a tre “Caprone” che vi dovevano passare nei pressi e che furono abbattute, preda di quei velivoli.

A Mogadiscio persino i Ro 37 erano stati trasformati in caccia, chiudendo con del lamierino il posto dell’osservatore. Così Palmera aveva attaccato dei Farey Battle, che però correvano più di lui; passando nei pressi di una pista nemica aveva visto decollare un Hurricane e lo aveva attaccato di sorpresa danneggiandolo. Aveva colpito un paio di veloci bimotori che gli erano passati a tiro, poi era stato trasferito ai CR 42, con Lucertini: i resti della squadriglia avevano continuato con mitragliamenti, scorte, attacchi agli incursori nemici e Palmera aveva abbattuto ancora un Battle danneggiandone altri. […]

Guai anche al nord: Visintini era morto! Dopo un’azione i suoi due gregari, non pratici delle zone perché giunti da poco dall’Italia avevano atterrato nella piana di Zula e lui era subito ripartito per andarli a cercare e riportarli in sede. Ma la nebbia lo aveva tradito ed era andato ad infrangersi contro il monte Nefasit [m. 1648, non lungi da Asmara]: una perdita tremenda per la sua gloriosa 412… e per noi tutti!

Il campo di Dire Daua era stato invaso dai velivoli superstiti provenienti dalla Somalia. Eccomi dunque in volo, per uno dei soliti allarmi: sono guidato da terra per radio e ben presto vengo inviato contro una formazione di sei Blenheim. Eccoli, li vedo finalmente: mi stanno venendo incontro; sono ancora lontani. Penso che se li attacco così, come mi trovo, non posso permettermi che una raffica e allora effettuo una larga virata e mi precipito sulla formazione che, a un certo momento, mi rimane nascosta sotto l’ala sinistra. Forse rischio di investirne qualcuno… ma, alla peggio, toccherà a loro scansarsi.

Un enorme Blenheim salta via: era il gregario di destra della prima pattuglia. Mentre termino la virata mi trovo esattamente accanto al velivolo di testa al quale per poco non ho dato un colpo sui timoni: non li avevo visti mai così da vicino! E’ mimetizzato in marroncino a chiazze più chiare, con cerchi e grosse lettere gialle sulla fusoliera. Rapida occhiata, la torretta è completamente abbassata; allora apro subito il fuoco nel motore che ho davanti, ma sono in piena scia e ballo maledettamente, mentre mi sfilano accanto i piani di coda. Vedo però le mie pallottole entrare nella cappottatura dietro al motore e poco dopo ne esce una leggera fumata proprio mentre un corpo oblungo si stacca dalla fusoliera. “L’ho sistemato” penso; e mi butto addosso a un altro che mi sfugge in picchiata e non mi lascia arrivare a tiro. Eccone un terzo, isolato anch’esso: addosso! Ma questo, invece di scappare, accetta il combattimento impegnandosi in belle virate mentre il mitragliere mi spara dalla torretta di fusoliera. Io giro più stretto, arrivo a tiro e apro il fuoco… subito le armi si inceppano! Allento la virata, riarmo, torno all’attacco, stessa scena; so di che si tratta: le molle di richiamo delle cartucce, sotto l’accelerazione dovuta alle virate, non hanno forza sufficiente per portare le pallottole in canna. Così debbo ogni volta allentare il giro, riarmare e ricominciare… eccomi in buona posizione: ma l’inglese si butta in forte picchiata a tutto motore e se ne va, sotto tiro, ma probabilmente illeso. Circa il primo attaccato, saprò in seguito che si sfascerà in atterraggio: uno su sei, troppo poco davvero!

 

 

(1)Guglielmo Folcherio (sottotenente), Enzo Omiccioli (sergente), Alberto Veronese (sottotenente)

tutti piloti della 410 squadriglia.

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corrqadoriccidt0.jpgPadre Corrado Ricci

 

Aveva già conseguito il brevetto di pilota quando entrò nella R. Accademia Aeronautica di Caserta nel lontano ottobre del 1931.

Fu sempre tra i primi del corso "Leone" e tra i primi si mantenne durante i quattro anni di Accademia, tanto che agli esami finali fu classificato secondo dopo il nostro carissimo Peppo Mazzotti.

Per la sua bontà di animo, per il suo entusiasmo e per un insieme di tante altre belle qualità riscosse subito la stima e l'affetto di tutti i compagni di corso: i "leoni".

A conoscerlo bene, però, si aveva la sensazione di essere di fronte ad un sentimentale, un sognatore: direi un poeta sognatore, doti che si evidenziano nei suoi scritti, come ad esempio nel "Vita di Pilota", un libro che narra le vicende della sua vita aeronautica.

Fu il complesso di queste elevate qualità che lo aiutarono a sopportare il non breve periodo di prigionia, durante il quale non ebbe mai momenti di smarrimento.

Cessato il servizio, viaggiò molto, visitò paesi e città per soddisfare un bisogno di conoscenza ed anche alla ricerca, forse, di un "qualcosa" ancora non ben definite nell'animo, ma che si riallacciava al ricordo di un particolare momento della vita.

Lo trovò, infine, quel "qualcosa": avvicinarsi di più a Dio, entrare in un rapporto dialogico con il Creatore, vi¬ere con Cristo, portare a Cristo coloro che ancora non lo conoscevano.

Ecco, cosi, la sua ordinazione sacerdotale e la sua nuova vita di missionario nel Gabon.

E proprio da tale lontano Paese dell' Africa equatoriale, saputo del recente giuramento' e battesimo del corso "Leone IV", egli è venuto per partecipare alla relativa cerimonia.

Nella suggestiva Cappella dell' Accademia di Pozzuoli, alla presenza di tutti gli allievi e degli invitati, ha celebrate la S. Messa in suffragio dei Caduti, impostando, con un toccante trasporto sprituale, l'omelia sulla glorificazione di Dio, sul ricordo di tutti quegli ex allievi che in pace e in guerra hanno donato alla Patria il bene più prezioso, la vita, ed esortando, quindi, gli allievi di oggi sulla via del dovere e della responsabilità, che con il giuramento assumeranno verso questa nostra gloriosa Forza Armata e verso questa nostra tanto amata Patria.

All'elevazione, la figura di questo aviatore prete, che tendeva con l'ostia le braccia verso il cielo - quel cielo che egli aveva solcato in pace e in guerra - ha destato in tutti e soprattutto in noi, i pochi rimasti compagni di corso, un grande, piacevole turbamento e forse, in coloro non più giovani, qualche lacrima sarà stata a stento trattenuta.

Tenuto a battesimo il corso e, benedetto il gagliardetto di questo stesso, in un profondo silenzio, Padre Ricci ai "pinguini":

"vi affido nelle mani di Dio".

Poche, semplici parole, rispecchianti appieno la sua vita, la sua anima, la sua missione sacerdotale e che, penetrando nel cuore di tutti i presenti, ha suscitato una viva commozione, esplosa in un lungo, scrosciante applauso.

Poi, terminata la cerimonia, così come era venuto, quasi per una sorta d'incantesimo, in un'atmosfera di poesia, di umilta, Corrado Ricci, Generale di Squadra Aerea-sacerdote, ha fatto ritorno, soldato di Cristo, fra i suoi fratelli del Gabon, in terra di missione.

Aeronautica, Ottobre 1990.

 

Ps: mi permetto di aggiungere

Corrado Ricci è anche il traduttore del bellissimo libro di Edward H.Sims The Fighter pilots, da cui ho estratto i primi racconti di questo Topic!

Sfide nei cieli

Modificato da Dave97
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Ospite galland

Atterraggio.. di fortuna

(Dedicato a Reggiane)

 

La primavera del 1943 vede l’apparizione dei caccia di quinta serie che si avvalgono della maggiore potenza erogata dal motore Daimler Benz DB.605 (1475 cv. al decollo); si tratta di moderne realizzazioni aereonautiche pienamente adeguate agli standard delle altre aviazioni belligeranti ma prodotte in quantitativi minimi. Neppure in questa critica fase bellica, infatti, si realizza la standardizzazione della linea operativa, realizzando la produzione in serie di un unico velivolo. Si procede pertanto, in una situazione ormai compromessa non solo sotto il profilo bellico ma anche sotto quello delle riserve di materiali strategici, alla produzione del Macchi C.205 Veltro(Circa 199 esemplari consegnati al settembre 1943), del Fiat G.55 Centauro (Circa 30 esemplari consegnati) e del Reggiane Re2005 Sagittario (34 esemplari consegnati).

Quest’ultimo ha ben poco dei suoi predecessori (Re.2000/1/2) di cui conserva pianta alare e piani di coda. La restante parte della cellula rappresenta un aereo completamente nuovo, assai ben sviluppato e curato, buon arrampicatore (5’30” a 6.000 m.) con un ottimo volume di fuoco grazie alle cinque armi (2 mitragliatrici Breda-SAFAT da 12,7mm. montate sopra la cappottatura motore, sincronizzate e sparanti attraverso il disco dell’elica, 350 colpi per arma; un cannone Mauser da 20 mm. Con tiro attraverso il mozzo dell’elica, 150 colpi; altre due identiche armi una per ciascuna delle semiali, con 200 colpi per arma ) organizzate da un’ottima centralina elettrica. Il Sagittario non ha più nulla del goffo e modesto Republic-Seversky P.35, che nel 1938 ha ispirato l’ingegner Longhi nella progettazione del capostipite della famiglia.

Il primo velivolo ad essere immesso in reparto è lo stesso prototipo MM.494 (Le matricole militari della Regia Aereonautica consistevano in un numero di tre cifre per i prototipi ed uno di cinque per i velivoli di serie ). Assegnato, in via temporanea, alla 362° squadriglia del 22° gruppo, sull’aeroporto di Napoli - Capodichino, al fine di sostenere un ciclo di valutazione operativa. Diversi voli sono condotti dal Comandante di Gruppo, Maggiore Vittorio Minguzzi , e da altri piloti tra cui i Comandanti di Squadriglia, capitani Enzo Sant’Andrea e Germano La Ferla.

A Sant’Andrea è legato un particolare episodio. Durante un volo di prova per accertare le caratteristiche del velivolo quale portatore della bomba da 640 kg., il pilota constata la perdita del circuito idraulico, a causa della rottura di una tubazione, realizzata con pessimi materiali autarchici. Ne consegue la parziale fuoriuscita del carrello e l’impossibilità di sganciare la bomba, che rimane attaccata al’aereo, nonostante tutti i tentativi per liberarla: ci sono tutti gl’ingredienti per un atterraggio di fortuna su molti chilogrammi d’esplosivo. Sant’Andrea rinuncia a lanciarsi, perché non se la sente di tornare a terra, da solo, senza quell’importante prototipo, che gli è stato affidato e che ora è tutto nelle sue mani: unica speranza di salvezza è che la bomba si sganci a i primi urti col terreno e quindi rimanga per i fatti suoi. Così egli viene all’atterraggio con molta accuratezza, in una manovra che deve essere la più precisa della sua carriera di pilota… altrimenti c’è il rischio di interromperla. L’aereo ha un sussulto, si libera in maniera fortunosa dello scomodo oggetto, continua la sua corsa fino ad arrestarsi completamente. Sant’Andrea scende e, dopo aver esaminato l’elica, che è l’unica parte del velivolo ad essere lievemente danneggiata, si porta con altri piloti, fattisi incontro, sui gradini dell’edificio ospitante il R.U.N.A. (Regia Unione Nazionale Aereonautica ) Non ha nemmeno il tempo di pensare ai rischi corsi perché è attirato da un curioso spettacolo. All’inizio del campo, attorno alla bomba inesplosa, tante formichine (viste più da vicino, sono i genieri tedeschi) stanno portando un incredibile numero di sacchi di sabbia: si tratta dei velocissimi preparativi per far brillare l’ordigno e rendere immediatamente agibile l’aeroporto. Poco dopo si dà il via all’atto finale e, al posto della bomba, è una fontana di colori stupendi al sommo della quale si forma un piccolo globo di fuoco, ancora più attraente. La Ferla indica quel punto più in alto e dice al contiguo Sant’Andrea: - Guarda, se le cose si mettevano male, saresti andato a sedere lassù in cima. Finisce così con una battuta tra gente fraternamente amica, perché legata dagli stessi episodi e votata agli stessi rischi questo fortunato… atterraggio di fortuna.

Non altrettanto felice è la fine dei velivoli della 362 squadriglia. L’8 settembre 1943 alcuni falò sull’aeroporto di Capodichino testimoniano la decisione più dolorosa che piloti e specialisti possano fare: distruggere gli apparecchi per non farli cadere in mano nemica.

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Ospite Folgore

Questo testo lo aveva postato Airborne (ringrazio molto) nel mio forum, lo riporto qua, mi sembra (anzi, lo è) molto interessante :D

 

Duello Con Hartmann

 

Lawrence Thompson racconta dell’ incontro con il Bf109-G14 di Hartmann.

 

"E' stato il mio primo grande dogfight che io ebbi in guerra, Gennaio 1945.

Io volavo il P-51D, il nostro compito era di incontrare i bombardieri sulla Romania.

Bene, i bombardieri non si videro, noi cominciammo a fare delle holding, sprecando carburante prezioso. Quando il livello del carburante, raggiunse il Bingo fuel, il comandante di squadriglia ci ordino, il ritorno alla base, con il gruppo più grande a 24.000 piedi e noi 4 Mustangs a fare da esca a 15.000 piedi. Adesso, voi potete anche non credere a ciò che vi dirò, ma la differenza di quota, 9.000 piedi, è quasi 2 miglia, e assumendo che il gruppo in alto può eseguire una picchiata ci possono volere ben sessanta secondi per andare in soccorso degli aeroplani esca,. In precedenza, io richiesi di partecipare a missioni come “esca” credendo che cosi potessi avere più possibilità di fare qualche abbattimento (al tempo non avevo conseguito ancora nessuna vittoria) ed era gia la mia settima missione.

Io sono cresciuto a Kansas City, Kansas, e mio fratello maggiore nel tardo 1930 volava un biplano Jenny , cosi io imparai i rudimenti del volo ancor prima di arruolarmi nell’ Arma.

Cosi, facemmo tutti rotta per l’Italia, quando all’improvviso, una dozzina o piu di Me-109 ci attaccò. Fino a quel momento il cielo era di un azzurro limpido all’improvviso dozzine di tracce intrecciarono la visuale del mio cockpit. Fui colpito alcune volte e rollai a destra vidii un P-51 sotto di me che stava per livellare con un 109 alle calcagna, cosi io cominciai a seguire quel 109. Nel frattempo un altro 109 stava seguendo proprio me , era come un tracciato da corsa , tutti noi 4 stavamo correndo verso il traguardo. Io me la presi col primo 109 e sparai una raffica lunga da circa 1000 yarde senza effetto alcuno. Allora mi avvicinai a 600 yarde, sparai stavolta 2 lunghe raffiche, di sicuro di almeno 5 secondi l’una ( il P-51 ha munizionamento per una raffica singola di 18 secondi, con quattro mitragliatrici, le rimanenti due mitragliatrici per circa 24 secondi). Mi resi conto che parte della cappotta del suo motore volo via, interruppe immediatamente l’attacco verso il primo P-51. guardai negli specchietti, e non vidi nulla in quel momento, in qualche modo cercai di seminare il 109 dietro di me, quasi sicuramente dovuto al fatto che in picchiata il P-51 è 60 miglie orarie più veloce del 109. Cosi tirai la barra e livellai, improvvisamente un 109 apparve minacciosamente cosi grande davanti a me ! Egli sparava verso di me, e virò sulla destra, in un cerchio Lufberry (Situazione tattica che risale alla I guerra mondiale, che prende il nome dal pilota tedesco Lufberry, è come un cane che si morde la coda, 2 aerei che si cacciano a vicenda, in un cerchio stretto. Il primo aereo che prova a rompere questa situazione deve invertire la sua direzione di volo, per fare cio è costretto ad attraversare la linea di fuoco dell’aereo che segue. I piloti di caccia monorotore normalmente fanno questa manovra virando a sinistra i piloti di P-38 virando a destra) cambiai direzione e seguii il 109. Potei vedere gli argentei P-51, e i musi neri dei 109 ovunque, gli altri dello squadrone, stavano parlando e urlando, e niente più di urla frasi sensa senso e tutti che premevano il loro pulsante di attivazione del microfono nello stesso momento.

Sentivo un odore all’ interno del cockpit. Fluido idraulico!!! Lo sapevo di esser stato colpito in precedenza. Stavo ancora inseguendo il 109. Avevo appena avuto il mio primo abbattimento confermato durante il mio turno, e adesso sono veramente gasato. Credo di essere il miglior pilota dell USAAF ! E adesso pensiamo a noi, sto per tirare giù un altro 109? Egli virò e girammo, e girammo, per una ragione o per l’altra non potei acchiapparlo con il cerchio Lufberry, cosi continuammo a girare. Dopo circa il terzo 360° vedemmo 2 Mustangs sotto di noi, circa 200 piedi sotto, il 109 picchiò verso i P-51.

Adesso ero a circa 150 yarde da lui, e avevo il mirino su la sua coda, ma non potei sparare, perché se avessi sparato in derapata, o i miei colpi lo avessero attraversato avrei potuto colpire uno o tutti e 2 i Mustangs.

Cosi avevo un posto in prima fila, guardando, impaurito che quel pilota avrebbe tirato giu il P-51, avvicinandosi a 390 mph. Troppe interferenze nella radio, mi impedirono di avvertire i 2 Mustangs, sparai una raffica lunghissima di circa 7/8 secondi spazzando di proposito, affinché mancassi i P-51, ed il pilota del 109 potesse vedere i miei traccianti. I P-51 non videro i miei traccianti. In realtà mi aspettavo che i P-51 vedessero i miei traccianti e deviassero dalla linea di volo del 109 che stava picchiando verso di loro. Non ebbi cotanta fortuna. Smisi di sparare. Il 109 stava ancora picchiando, e si avvicinò ai P-51 e continuando a sparare mentre la distanza che li separava si riduceva, 200 yarde, 100 yarde, 50 yarde l’Unno non sparò un colpo, un tracciante, niente!! A meno di 10 yarde, sembrando che lo volesse speronare, l’Unno sparò un singolo colpo di cannone da 20mmm!! Bang, parti di motore, fumo bianco, glicole (liquido refrigerante) pezzi di P-51 ovunque, lo sfortunato P-51, cominciò una lenta virata sulla destra.

Provai a cercare con lo sguardo l’altro P-51 sotto di me ma non lo vidi. Adesso la mia attenzione era rivolto all’Unno. Zoom. Volammo attraverso i 2 Mustangs (adesso a POW). Adesso il vantaggio del P-51 appariva evidente, in picchiata sto riprendendo il 109 più veloce di un treno merci. Premetti il grilletto per un secondo e lo rilasciai, credevo di essere a circa 250 yarde, ma il barbaro stava tirando svariati G positivi e negativi, su e giu per l’orizzonte. Livellò e Sali poi in verticale in salita di 90 gradi. Quel pilota era un ragazzo veramente esperto. Anch’io ero in salita verticale, e il mio P-51 inizio a rollare violentemente in senso orario , solo spingendo il pedale sinistro del timone a fondo corsa sul pavimento, potei fermare il rollio. Salivamo per fare quota. In salita il 109 cominciò a distanziarmi, pensavo che la mia maggiore velocità in picchiata rendesse pari la salità, non era cosi.Salimmo per circa 1500 piedi, a 1800 piedi l’unno livellò, 1800 piedi di salita verticale. Non avevo mai sentito di un aereo a pistoni capace di salire in verticale per più di 1000 piedi. Eravamo entrambi prossimi alla velocità di stallo, egli livellò. Il mio indicatore di velocità leggeva meno di 90mph. Cosi livellai, ero vicinissimo al 109 adesso, meno di 20 yarde!! Se potessi mettere le mie mitragliatrici su di esso.

A questa distanza il collimatore è più un fastidio che un aiuto vero. Dopodiché egli estrasse i flaps molto velocemente, cosi cominciai a sopravanzarlo, e non era quello che volevo fare, perché in quel modo avrei i suoi cannoni su di me. Il P-51 ha una buona blindatura , ma non sufficiente a fermare un colpo di 20mmm. Questo pilota della Luftwaffe era veramente un asso. Ero appena stato testimone del suo abbattimeto di un P-51 con un singolo colpo di cannone. Cosi feci la stessa cosa, estrassi i flaps, , e quando cominciai a superarlo, iniziai una cabrata, che mi fece decelerare molto rapidamente, l’avviso Stallo in vista, non potei vedere ne davanti ne dietro, ero tutto sudato, e il sudore salato, colandomi negli occhi mi rese quasi cieco. Dov’è? Gridai a me stesso. Livellai per evitare di stallare. Egli era la. Volava sulla mia destra . Volavamo fianco a fianco, meno di 20 piedi separavano le estremità delle nostre ali. Egli sorrideva, e si compiaceva. Notai che aveva un cuore rosso dipinto sul suo aereo, appena sotto il cockpit, Il muso, e l’ogiva dipinti di nero. Pensai che fosse un vero asso del fronte orientale. Sulla sua coda c’era dipinto un 200. Mi domandai, che diavolo significa 200? Iniziai ad esaminare il suo aereo, per vedere se c’erano segni di colpi ricevuti, dopotutto gli avevo sparato non meno di 1600 colpi. Non potei vedere un singolo segno di colpo sul suo aereo. Giurai che almeno una dozzina di colpi li avevo incassati. Continuai a gurdare il suo aereo per eventuali danni, Egli, anche alzò la sua ala sinistra di circa 15 gradi, per lasciarmi vedere la parte sotto, ancora niente. E’ impossibile io mi dissi. Completamente impossibile. Dopodiché portai la mia attenzione di nuovo verso il “200” dipinto sul timone. Gli Assi tedeschi normalmente dipingono un segno sulla coda per ogni vittoria ottenuta. Mi raggelai: 200 vittorie, volammo fianco a fianco per 5 minuti. Quei 5 minuti impiegarono un secolo a passare. A meno di 20 piedi da me c’era un asso della luftwaffe, con oltre 200 vittorie, adesso eravamo in una lenta picchiata, la quota di 8000 piedi. Stavo panicando, mi si erano bagnati pure i calzini. Il Tedesco fece segno con la mano verso la coda, ovviamente facendo riferimento al “200”, e dopo molto lentamente, drammaticamente fece il segno con la mano di traverso sulla gola, e puntò il dito verso di me. Praticamente mi stava dicendo che di li a poco sarei diventato la sua 201 vittima. Panico. Respiravo rumorosamente, sembravo come in una galleria del vento con la maschera indossata. Il mio battito cardiaco raddoppiò i 170 battiti al minuto, potei sentire il mio petto, bum, bum.

Questa cosa ando avanti che sembravano secoli. Entrambi volando alla velocità di stallo, ala contro ala. Pensai più di una volta di speronarlo. Egli guardava i miei alettoni, aspettandosi forse cio che io stavo pensando. Si sentiva di piloti disperati che avendo finito le munizioni, si suicidarono speronando l’aereo nemico. Decisi di uscire dalla situazione salendo facendo una Immellmann, ma avendo i flaps estesi, il mio Mustang, Sali solo un centinaio di piedi, punto il muso violentemente verso destra e stallò. Dopo di che mi trovai dentro una vite piatta molto pericolosa, venivo giu come un sasso, la IAS a 300mph, tenei lo stick nella angolo basso a sinistra, tutto timone a sinistra, flaps su, e applicai tutta potenza!!! Richiamai dalla vite a 500 piedi, cominciai a vedere nero, e mi pizzicai sul collo, per diminuire l’efflusso di sangue. Mi guardai attorno, non c’erano aeroplani nel cielo, scesi a circa 50 piedi, prua italia, Volai a potenza massima per circa 10 minuti ridussi potenza per rispiarmare benzina, altrimenti a full-power il P-51 ha un raggio molto limitato. Volai cosi per circa un ora, nessun aereo nelle vicinanze, stavo sempre scrutando il cielo, guardando negli specchietti.

Non incontrai mai più il 109 con il cuore rosso. Il casino che sussegui quando feci presente la cosa, quando l’intera stanza e dico proprio tutti, si zittirono istantaneamente. 2 settimane dopo il comandante della base, ci mostro un messaggio...” In accordo al servizio segreto, il pilota con il cuore rosso è Eric Hartmann e ha abbattuto 250 velivoli, su di esso una taglia da 50.000 dollari offerti da Stalin, per abbatterlo. Non avevo mai sentito di una taglia per tirar giu un asso nemico.”

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