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World War II Aces


Dave97

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068%20Davide%20e%20Golia(85dpi)_JPG.jpg Comandante Adriano Visconti

 

1944 – La difesa delle città Italiane

 

Lo scontro del 3 gennaio segnò l'inizio di una lunga serie di partenze su allarme e di combattimenti contro i quadrimotori americani che transitavano sulla valle padana, diretti a bombardare le città italiane o, superate le Alpi, quelle tedesche. Il 4 gennaio 1944, il sottosegretario dell' Aeronautica, tenente colonnello Botto, diramò l'ordine di dipingere sui velivoli i nuovi distintivi nazionali: due fasci contrapposti iscritti in un quadrato , sulle ali, e la bandiera italiana contornata da frange gialle sulla fusoliera e sul timone di direzione.

Il primo Macchi così contrassegnato fu quello del capitano Marinone, consegnato al gruppo nel corso di una cerimonia che rappresentò un momento importante nella storia del reparto.

Il 12 gennaio il 1° gruppo ricevette l’ordine di spostarsi a Campoformio, nei pressi di Udine,alle dipendenze operative del JG77, trasferitosi a sua volta dal Piemonte al Veneto, sul campo di Lavariano/Risano.

Il 24 gennaio avvenne il trasferimento verso la nuova base: la 1° e la 3° Squadriglia si schieraro nel settore sud, mentre la 2° si installò a nord; il comando di gruppo fu basato a Bozzolo del Friuli mentre la squadriglia di Visconti si acquartierò nei locali dell'Istituto Wassermanr in Via Toppo a Udine.

Furono rapidamente presi accordi con il comando guida caccia tedesco, basato a Tricesimo, per definire le procedure operative.

I lavori organizzativi e logistici non erano terminati quando il reparto ebbe nuovamente occasione di misurarsi col nemico.

Il 28 gennaio dal centro operativo di Tricesimo giunse una chiamata d'allarme: "Una formazione di bombardieri Liberator, scortata da Lightning, proveniente da sud, dirige verso la Germania."

Le regole operative prevedevano il decollo immediato di tutti i velivoli efficienti; il gruppo al completo era chiamato per la prima volta all'impegno collettivo; alla testa della formazione si pose lo stesso comandante, maggiore Luigi Borgogno.

Un razzo verde sparato dalla pistola Very diede il segnale di partenza: decollò per prima la squadriglia di Visconti, seguita da quella di Calistri ed infine dalla 2° di Marinone.

Le squadriglie si dovevano suddividere in pattuglie di quattro aerei, formate da due coppie leggermente scalate: la pattuglia assumeva la disposizione delle quattro dita della mano, detta Schwarm dai tedeschi e finger four dagli anglo-americani.

Dopo il decollo gli aerei raggiunsero la quota standard di 8000 metri impiegando la massima potenza del motore: secondo le procedure concordate, il solo capo formazione rimase sintonizzato sulla frequenza del comando guida caccia, trasmettendo gli ordini sul canale 2, su cui l'asscolto era collettivo; per tutti gli altri il silenzio radio era obbligatorio, a meno di comunicazioni d'emergenza sul canale 4.

Per la prima volta il gruppo sperimentava in combattimento le moderne e complesse attrezzature di radio-localizzazione che consentivano di conoscere con continuità e con•notevole anticipo quota, direzione e consistenza delle forze nemiche.

Quel 28 gennaio i Liberator sorvolarono il basso Friuli a quote variabili tra i 5 e i 7000 metri.

Due squadriglie del gruppo si portarono sui 9000 metri mentre, su ordine di Borgogno, la squadriglia di Marinone fu inviata verso il basso per attrarre l'attenzione della scorta.

Marinane si tuffò in picchiata coi suoi, proseguendo nell'affondata quando i caccia di scorta si gettarono all'inseguimento.

Nel frattempo le squadriglie di Visconti e Calistri si avventarono sui bombardieri, seguendo una rotta curvilinea per rendere difficoltoso il puntamento delle torrette difensive dei B-24.

Visconti, insieme al suo gregario, sergente Marconcini, attaccò frontalmente un bombardiere collimandolo alla radice dell' ala, dove si trovava un serbatoio non corazzato.

Le sue traccianti raggiunsero il bersaglio, provocando scoppi e principi d'incendio, mentre altre traccianti, in direzione opposta, partivano dalle torrette del Liberator, dando l'impressione d'infilarsi nel suo parabrezza blindato.

Quando il B-24 divenne troppo grande nello schermo del collimatore S.Giorgio, richiamò violentemente il suo Macchi evitando di poco la collisione.

La violenta accelerazione lo schiacciò contro il seggiolino oscurandogli per qualche istante la visione; quando questa torno più chiara, guardo in basso alle sue spalle e vide Marconcini che lo seguiva a tutto motore, cercando di non perdere il contatto.

A quota più bassa due Liberator si erano staccati dalla formazione,lasciando una lunga scia di fumo nero.

L' abbattimento di un B-24 fu accreditato al sergente Marconcini, il secondo fu attribuito in collaborazione ai tenenti Vittorio Satta, Bruno Cartosio e Renato Talarnini.

Satta fu costretto a lnanciarsi dal suo Macchi, contrassegnato dal numero individuale 6, colpito dalle mitragliatrici dei bombardieri e si ferì alla spalla prendendo terra.

Due giorni dopo, il 30 gennaio, Visconti era seduto sulla sedia a sdraio di fronte alla palazzina comando quando squillò il telefono ed il sergente De Nardi gli porse il ricevitore dalla finestra aperta; mentre ascoltava la comunicazione, Visconti fece cenno a tutti di correre agli aeroplani.

Il comando guida caccia, su segnalazione della postazione di avvistamento "Wasserrman” di Francavilla a mare, comunicava che due grosse formazioni di Liberator stavano sorvolando il golfo di Venezia dirette a nord.

I bombardieri americani della 15° Air Force che risalivano l' Adriatico provenendo dalle basi pugliesi seguivano di solito una rotta equidistante dalla costa italiana e quella iugoslava. Poi, all’altezza delle foci del Po, deviavano verso est per ridurre le probabilità di essere intercettati; evitando il combattimento, i caccia di scorta riuscivano a conservare i serbatoi supplementari, indispensabili per completare la missione sulla Germania.

In questa occasione, i Macchi decollati da Campoformido incrociarono i caccia di scorta all' altezza di Grado: si trattava di una formazione di Republicc P-47 Thunderbolt del 325° Fighter Group, dai caratteristici scacchi gialli e neri dipinti sui timoni.

I Thunderbolt erano armati di otto mitragliatrici alari da mezzo pollice, che garantivano un’elevata cadenza di tiro ed una rosa piuttosto ampia.

Questo tipo di armamento non era però molto efficacece contro i bombardieri corazzati: i Macchi e i Messerschmitt, che dovevano combattere sia contro i caccia che contro i bombardieri, avevano perciò aggiunto alle mitragliatrici i cannoncini da 20mm.

I Macchi piombarono sui Thunderbolt di sorpresa, mentre questi mantenevano assetto e velocità di crociera: il maresciallo Magnaghi con un paio di attacchi decisi riuscì ad abbatterne due che precipitarono tra Grado e Palmanova.

Il tenente "Peppo" Re abbattè un terzo P-47 ma fu a sua volta colpito e abbandonò l' aereo affidandosi al paracadute; il sergente maggiore “Gigi” Gorini, asso della nostra aviazione con quindici velivoli accreditati fino a quel momento, colse la sua sedicesima vittoria incendiando un Thunderbolt con una raffica bene assestata.

Il sottotenente Natalino Stabile, dopo avere mitragliato a lungo senza visibili risultati un quadrimotore insieme con il sergente maggiore Aldo Burei, ne attaccò un altro riuscendo a farlo precipitare nella laguna di Grado.

Mentre infuriava il combattimento, frazionato in tanti scontri parziali, l'ufficiale di collegamento al comando guida caccia di Tricesimo, Hauptman Wieler, richiamò con urgenza via radio i caccia italiani in difesa della loro base, perchè una formazione di B-24 si stava dirigendo su Campoformido.

I Macchi virarono immediatamente verso nord ma i quadrimotori riuscirono a precederli, sganciando sulla base sia bombe di grosso calibro sia ordigni a frammentazione.

Il pesante bombardamento provocò gravi danni agli impianti dell'aeroporto e la distruzione di numerose abitazioni alla periferia di Udine, causando perdite tra la popolazione civile.

Quando i Macchi sopraggiunsero si accese un aspro combattimento con i Thunderbolt, che abbatterono il capitano Marco Marinone ed il sottotenente Luciano Cipiciani.

Il tenente Luigi Torchio strinse troppo una virata a bassa quota, mise in stallo l'aereo e s'infranse contro una casa ai margini dell'aeroporto.

Nel suo rapporto di combattimento, il 325° Fighter Group americano dichiarò l'abbattimento di sette Macchi, più due probabili, tra le 11.50 e le 12.30, contro la perdita di soli due P-47 ed i danneggiamento di altri due.

Al Captain Herschel "Herky" Green furono attribuiti quel giorno sei abbattimenti, un Macchi (identificato come C.202), un Domier Do 217 e ben quattro trimotori da trasporto tedeschi Ju 52, che si erano levati in volo insieme con altri aerei nel tentativo di sottrarsi al bombardamento dell' aeroporto.

La giornata del 30 gennaio segnò una data importante per il gruppo: da una parte questo aveva implicitamente dimostrato la sua efficacia, richiamando una pesante incursione nemica con la finalità di ridume l'aggressività, ma dall'altra aveva dovuto registrare perdite particolarmente dolorose.

La mattina del 31 gennaio Visconti chiamò Gorrini e gli comunicò che c' era un ricognitore nemico, probabilmente un P-38 dello Squadron basato a Bari Palese, che si stava dirigendo su Campoformido per documentare gli effetti dell'attacco del giorno precedente.

Sorridendo maliziosamente sotto i baffi, il comandante raccomandò a Gorrini: "Cerca di far fare una bella fotografia!".

Gorrini corse all'aereo, decollò e fece quota più rapidamente possibile.

Individuato il ricognitore grazie alla scia di condensazione, gli si diresse incontro a tutto motore.

Quando il P-38 si avvide dell'attaccante, prima di giungere sopra Campoformido inverti la rotta, ma ormai Gorrini gli era in coda e lasciò partire una raffica che ando a segno.

Il tettuccio de Lightning volo via e l' aereo cadde nella laguna di Comacchio.

Non appena a terra, Gorrini cercò Visconti per annunciargli soddisfatto che questa volta la foto gliel'aveva fatta lui!

Nelle settimane seguenti nuove incursioni di bombardieri americani tennero sotto pressione tutto il personale della base: gli avieri riempivano in fretta le buche lasciate dalle bombe per ripristinare più rapidamente possibile l' agibilita delle piste.

I danni furono consistenti: nel corso del mese di febbraio cinque bombardamenti causarono la distruzione di otto Macchi ed il danneggiamento di trentasei: complessivamente furono sganciate 600 tonnellate di bombe ed oltre trentamila spezzoni a frarnmentazione del tipo "a spillo".

Il 14, 16, 20 e 22 febbraio (due volte) Visconti eseguì partenze su allarme senza entrare i contatto col nemico.

II 23 febbraio un doloroso incidente mise fuori combattimento per un lungo periodo il comardante di gruppo, maggiore Borgogno.

Durante un volo d'addestramento il suo aereo fu colpito per errore da un Messerschmitt tedesco, costringendo il pilota a lanciarsi col paracadute.

Fuori dall'abitacolo, urto con la spalla contro il timone di direzione, ferendosi malamente.

L'atterraggio fù brusco e causò altri danni fisici.

Portato a Campoformido, Borgogno fu curato dall'ufficiale medico, capitano Giuseppe Bendandi, e quindi trasportato a Bologna all'istituto Rizzoli, dove rimane ricoverato per un lungo periodo.

Visconti assunse il comando interinale del gruppo, mentre quello della 1a Squadriglia fu affidato, sempre interinalmente, al tenente Robetto.

 

Per ripristinare le condizioni di efficienza operativa, i piloti del gruppo ritirarono a Lonate Pozzolo numerosi Macchi C.205V di nuova produzione.

In quei giorni venne clamorosamente alla luce il contrasto che divideva, presso gli alti comandi, gli ufficiali di sicura fede fascista dai personaggi, come Botto, che volevano tenere le questioni politiche fuori dalle forze armate.

A seguito di un'accesa polemica con Farinacci, il 7 marzo 1944 il tenente colonnello Ernesto Botto, sottosegretario di Stato per l' Aeronautica, fù sollevato dal suo incarico e sostituito dal generale Arrigo Tessari, maggiormente incline ad accettare il predominio politico sulle questioni militari.

Botto fu congedato con un freddo messaggio in cui gli si riconosceva un importante contributo alla nascita della Aeronautica Repubblicana.

Un po' poco per un persoaggio del suo prestigio, che aveva saputo ridare entusiasmo e fiducia a centinaia di aviatori e delusi.

La sua sostituzione aprì nella compattezza dei reparti una crepa destinata ad allargarsi nei mesi seguenti.

Nonostante gli animi scossi, i piloti del 1° Gruppo non si sottrassero certo agli impegni morali che avevano assunto aderendo al banda Botto: dopo una partenza su allarme il giorno 8, senza intercettare il nemico, già il giorno 11 ripresero i combattimenti in difesa del nostro territorio.

Agli ordini dei rispettivi comandanti, trentasei velivoli decollarono su allarme: alla guida della 2° squadriglia il tenente Amedeo Guidi aveva preso il posto del capitano Marinone, caduto nel combattimento del 30 gennaio, ed il tenente Mario Ligugnana aveva sostituito al comando della 3a il capitano Piero Calistri, passato al comando guida caccia.

Era stata segnalata una formazione di B-24, diretta verso nord, scortata in quota da P-38 e, a quota più bassa, da P-47.

Sulle foci del Po i caccia italiani avvistarono i quadrimotori americani e Visconti elaborò rapidamente una tattica d'attacco.

Ligugnana avrebbe tenuto a bada i Lightning, mentre Guidi attaccava i bombardieri; Visconti avrebbe impegnato dal basso i Thunderbolt, con l'intento di scompaginarli, distraendoli dai compiti di scorta.

La 1a Squadriglia seguì Visconti in un violento scontro con i potenti caccia americani, sei dei quali caddero sotto i colpi dei nostri piloti, a fronte di due caduti, i tenel Giovan Battista Boscutti e Guerrino Bortolani.

I Thunderbolt abbattuti, appartenenti al solito 32 Fighter Group, furono attribuiti al capitano Visconti (giunto alla nona vittoria individuale), tenenti Antonio Weiss e Giovanni Sajeva, al maresciallo Luigi Morosi ed ai sergenti maggiori Domenico Laiolo e Alcide Zavatti.

Nel frattempo anche le altre squadriglie facevano la loro parte: il tenente Remo Lugari, maresciallo Gino Giannelli ed il sergente maggiore Giuseppe Chiussi abbatterono un Liberator ciascuno, il tenente Bruno Cartosio un P-38, il tenente Amedeo Guidi ed il sergente maggiore Alverino Capatti un P-47 a testa.

I sottotenenti Bruno Castellani e Andrea Stella furono abbattti: il secondo riuscì a salvarsi con un atterraggio d' emergenza nei pressi di Adria.

Il "Checkertail clan" (il clan della coda a scacchi), come era stato soprannominato il 325° Fighter Group, dichiarò quel giorno tre perdite (contro gli otto P-47 attribuiti ai cacciatori italiani) e dieci abbattimenti (nove Bf 109 ed un MC.202), contro la perdita effettiva di quattro MC.205V.

Si verificò in questa occasione, come in numerose altre, una notevole sopravvalutazione dei risultati del combattimento, da entrabe le parti.

Il 18 marzo la postazione "Wassermann" avvistò sul cielo di Pola la solita formazione di bombardieri scortati da caccia, diretta verso il Friuli, e la segnalò al JG77 ed al 1° Gruppo.

I Bf 109G-6 del Geschwaderkommodore Steinhoff ed i Macchi 205V del comandante Visco decollarono rispettivamente da Lavariano e da Campoformido per intercettarla.

Il combattimento si sviluppò su Casarsa: tre P-47 della scorta caddero sotto i colpi del sottotenente Stella, del maresciallo Benati e del sergente maggiore Marconcini.

Due di queste perdite, i Thunderbolt pilotati dai Lieutenants Davis e Hackett, furono ammesse dagli americani.

Lo scontro proseguì con l' attacco in cabrata ai bombardieri: tre Liberator precipitarono, abbattuti dal tenente Robetto (il B-24 cadde a nord ovest di Lubiana) e dai sergenti maggiori Rodoz e Svanini.

Un quarto fu attribuito al maresciallo Morosi in collaborazione con un pilota tedesco, che poi si scoprì essere lo stesso Steinhoff.

Molti membri degli equipaggi dei B-24 riuscirono a salvarsi lanciandosi fuori dagli aerei in fiamme: Rodoz ne vide addirittura due che scendevano insieme, uno regolarmente appeso al paracadute e l' altro strettamente avvinghiato al primo. Si seppe poi che entrambi si erano salvati.

Visconti partecipò al combattimento sparando 300 colpi e mitragliando quattro velivoli, senza poter accertare i risultati della sua azione.

L' esito dello scontro, nel quale aveva perso la vita il sergente maggiore Zaccaria, mentre il tenente Cavatore ed il sergente maggiore Gorrini erano usciti incolumi da atterraggi di emergenza, era stato favorevole ai nostri.

Per la prima volta i cacciatori americani del 325° Fighter Group identificarono correttamente i loro avversari come MC.205.

Le incursioni distruttive dei bombardieri americani sulle basi di Campoformido, Lavariano Villaorba e Maniago si intensificarono, con lo scopo di neutralizzare i reparti da caccia italo-tedeschi.

A Campoformido, per evitare le buche, vennero realizzate strisce provvisorie di decollo, contrassegnate da picchetti, e venne attuato un accurato piano di decentramento dei velivoli, disposti in ricoveri paraschegge per salvarli dai colpi indiretti.

Il 22 e il 23 marzo Visconti partì su allarme per intercettare formazioni di bombardieri segnalate sull'Italia centrale e sull'Istria, ma non riuscì ad entrare in contatto balistico per le avverse condizioni meteorologiche.

Il 24 marzo il contatto a fuoco ci fù, nella zona di Trieste - Monfalcone: Visconti mitragliò efficacemente tre quadrimotori, il sergente maggiore Rodoz riuscì ad intercettare ed abbatte uno, mentre Robetto, Cavatore e Sajeva ne abbatterono in collaborazione un altro.

 

 

Adriano Visconti - Asso di guerra

 

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Trasferimento A Reggio Emilia

Il 26 Marzo il cattivo tempo impedì nuovamente a Visconti di avvistare la formazione nemica transitante su Fiume; al termine della missione atterrò a Osoppo, rientrando in sede l'indomani.

Il 28 Marzo 1944, ventunesimo anniversario della fondazione della Regia Aeronautica, i cacciatori del 1° gruppo, decollati alle 11.35 alla guida di Visconti, intercettarono le formazioni di B17 e B-24 della 15a Air Force, scortate dai P-47 del 325° Fighter Group e dai P-38 del 1° e dell’82 Fighter Groups, all'altezza delle valli di Comacchio.

I bombardieri si separarono in due distinte formazioni, una diretta a nord ed una a nord ovest: di conseguenza anche i Macchi si divisero in due gruppi d' attacco.

I sergenti Maggiori Veronesi e Marconcini riuscirono ad abbattere due Liberator, mentre un furioso combattimento aveva luogo tra i nostri caccia e i Lightning di scorta.

Al termine cinque P-38 furono dichiarati abbattuti dai tenenti Renato Talamini, Gianni Levrini, Giuseppe Rosati, Remo Lunari e dal sottotenente Giovanni Sajeva. In effetti, solo tre P-38, due del 1° Fighter Group ed uno dell’82° pilotati rispettivamente dai Lieutenants James Rodolff, Kenneth Hartwig e David Weber, non fecero ritomo alla loro base di Foggia.

Due Macchi furono abbattuti abbattuti dai Lieutenants Arthur Larkin e Thomas Maloney: quelli del tenente Nino Pittini e del sergente maggiore Alverino Capatti.

Pittini, del corso Urano, mentre stava scaricando su Lightning tutti i suoi colpi, venne colpito da Larkin; ferito ad una gamba, abbandonò a fatica l' aereo ormai ingovernabile.

Toccò terra in un campo arato e per prima cosa bloccò l’emorragia col cavetto della radio ed una, fettuccia del paracadute.

Soccorso e trasportato all’ospedale di Codigoro subì l’amputazione del piede destro; come Botto non si arrese e nel dopo guerra riprese a volare.

Per "Nino" Capatti invece non ci fu salvezza: il suo Macchi cadde nei pressi di Argenta, non molto lontano da Dogato, suo paese natale, sotto gli occhi di molti civili che seguivano il combattimento, tra cui quelli del padre.

Visconti sparò nel corso dello scontro 120 colpi da 20 mm e 250 da 12,7 mm, mitragliando efficacemente un quadrimotore ed atterrando ad Aviano al termine dell'azione.

Il giorno successivo Visconti tornò in volo con i suoi per contrastare la quotidiana incursione di quadrimotori americani: questa volta il combattimento si svolse nella zona di Asiago e Bassano del Grappa: il sergente Vezzani colse la sua prima vittoria abbattendo un P-38 mentre a Ligugnana, Marchi, Sbrighi e Leone furono attribuiti quattro B-24.

Gli aerei del sottotenente Sergio Sbrighi e del sergente maggiore Domenico Balduzzo (ferito) non fecero ritorno.

Il 2 aprile, le missioni di intercettazione dei bombardieri diretti in Germania furono due, con combattimenti che si svilupparono la prima volta sopra Klagenfurt e nel pomeriggio su Lubiana.

Il mattino Visconti sparò 70 colpi con i Mauser e 70 con le Safat, senza conseguire visibili risultati.

Il pomeriggio Visconti sparò 80 colpi da 20 mm e 150 da 12,7, il tenente Robetto abbatte un B-17 ed il maresciallo Amedeo Benati un secondo, precipitato nella zona di Litya.

I Macchi del tenente Emilio Marchi e del sergente maggiore Aldo Burei precipitarono dopo essere entrati in collisione.

L'ufficiale perse la vita mentre Burei riuscì a salvarsi col paracadute.

Anche il maresciallo Vittorio Pirchio, ferito all'addome, fu costretto ad affidarsi al paracadute: ricoverato in un ospedale tedesco, subì l' asportazione della milza. Appena fu in grado di spostarsi, venne recuperato dal tenente Erminio che, su incarico di Visconti, lo riporto in Italia a bordo di un piccolo biposto da collegamento Saiman 202.

Il 6 aprile, l'intercettazione avvenne a nord di Zara; il tenente Bruno Cartosio ed il sergente maggiore Gorrini abbatterono due Thunderbolt, contro la perdita del tenente Lugari e del maresciallo Morosi.

Gorrini conseguì in quest'occasione la sua diciottesima vittoria individuale, ma fu a sua volta abbattuto da un P-47, riuscendo a salvarsi col paracadute.

Gli avversari del 1° Gruppo furono ancora una volta i piloti americani del "Checkertail clan" che dichiararono al termine del combattimento l' abbattimento di quattro Macchi, due da parte del Lieutenant Oxner ad uno ciascuno ad opera dei Lieutenants Dorety e Novotny.

Il 7 aprile, venerdì santo, Treviso subì un disastroso bombardamento che i caccia italiani del 1° Gruppo e quelli tedeschi del JG77 non riuscirono purtroppo ad impedire: decollati da Campoformido e Lavariano, i Macchi ed i Messerschmitt intercettarono i bombardieri quando questi erano gia sulla rotta di rientro, dopo aver lasciato tra le macerie della citta veneta circa 1600 morti.

Visconti si portò con i suoi "in cima alla palma", come usava dire prendendo spunto da un proverbio arabo, intendendo dire alla quota più alta possibile, dove si correvano meno rischi.

A 9500 metri, sopra lo strato di nuvole che copriva il Veneto, i nostri caccia erano nascosti alla vista dei bombardieri, che volavano a circa 4500 metri, ed anche a quella dei Lightning di scorta che si trovavano ad una quota intermedia.

Il piano prevedeva delle rapide puntate sulle pattuglie di B-24, rientrando poi in cabrata nello strato nuvoloso per occultarsi.

I Veltro si infilarono in picchiata negli squarci tra le nubi, collimando i quadrimotori più esterni della "combat box", la strutturata formazione con la quale i bombardieri riuscivano a prestarsi un'efficace difesa reciproca.

Inquadrato dalle traccianti del tenente Mario Cavatore, un B-24 cadde in fiamme. Con i motori al massimo, i Macchi rifecero quota, inseguiti dai caccia di scorta che non avevano fatto in tempo ad intervenire.

L'attacco venne ripetuto sei volte, con l'abbattimento di altri due quadrimotori, ad opera dei tenenti Weiss e Fioroni.

Giunti allimite dell'autonomia, i caccia italiani rientrarono alla base accolti dall'inatteso fuoco delle batterie contraeree, che non erano state allertate. L'aereo di Fioroni fu colpito, costringendolo ad un atterraggio d'emergenza sul greto del Piave.

Nello stralcio voli di Visconti venne riportato: " ... Mitragliati efficacemente quattro Liberator. Colpi sparati: 220 da 20 mm, 340 da 12,7 mm ... ".

Nel corso dello stesso combattimento ai caccia tedeschi furono attribuiti quattordici abbattimenti.

Le condizioni meteorologiche si mantennero cattive per quasi tutto il mese di aprile, rendendo più difficili le intercettazioni: le partenze su allarme dei giorni 12, 17 e 18 si conclusero con un nulla di fatto.

Il giorno 20 il contatto balistico fu raggiunto ma non furono conseguiti risultati apprezzabili.

Nuova partenza su allarme il giorno 23 aprile, per la segnalata presenza di una formazione nemica sulla Croazia, diretta a nord, che non fu raggiunta.

Il 24 aprile il gruppo si trasferi a Reggio Emilia, nuova base operativa, più prossima alle zone "calde" dell'Italia del nord.

Già il giorno successivo, il 1° Gruppo ebbe occasione di misurarsi col nemico.

Il 25 aprile una formazione di Liberator, scortata da P-38 dell' 82° Fighter Group, si dirigeva a bombardare la fabbrica Aermacchi di Varese.

Prima di raggiungere l'obiettivo gli aerei americani furono affrontati dai Macchi di Visconti che si buttarono in picchiata sui bombardieri.

I Lightning si precipitarono in difesa dei quadrimotori e si accese un combattimento che si concluse in modo decisamente favorevole ai nostri colori. Visconti abbatte un caccia (sua nona vittoria individuale) ed il sottotenente Carlo Cucchi un secondo.

Nella loro relazione operativa gli americani dichiararono che "i piloti dei Macchi si dimostrarono abili ed aggressivi, stringendo maggiormente le virate, ad ogni quota e senza difficolta, rispetto ai Lightning".

I Lieutenants Myron Malaise e Stuart Munson non fecero ritorno alla loro base di Foggia: il primo ebbe il suo P-38 mortalmente colpito alla giunzione dell'ala con l'abitacolo mentre il secondo riuscì a lanciarsi con il paracadute ma non fù più ritrovato.

I piloti italiani rientrarono invece tutti indenni a Reggio.

Il Captain Dave Weld, senior intelligence officer del'82° Fighter Group, riportò nel diario del reparto che i piloti dei MC.205 " volavano in splendide formazioni composte da elementi di due velivoli, condotti da piloti estremamente abili".

Un elogio raro da parte degli anglo-americani, che non furono mai particolarmente prodighi di riconoscimenti per i piloti italiani nel corso della seconda guerra mondiale.

Quando incontravano, nel teatro di operazioni mediterraneo, piloti particolarmente capaci e aggressivi tendevano ad identificarli come tedeschi, anche per accrescere i propri meriti in caso di vittoria in combattimento.

Nel caso del 25 aprile invece identificarono correttamente i loro avversari, riconoscendone, oltre che il tipo di velivolo, anche la determinazione e l' abilità.

Abbastanza stranamente, viceversa, gli aerei abbattuti furono riportati nel diario del 1° Gruppo come Thunderbolt, mentre nessun P-47 andò perso nell'area in quella giornata.

Potendosi facilmente escludere un' errata identificazione da parte dei piloti, stante la marcata differenza tra i filanti bimotori bicoda della Lockheed ed i tozzi monomotori della Republic, l'errore e probabilmente dovuto ad una svista di trascrizione da parte del diarista.

Il 27 aprile l'incursione sull'Emilia delle formazioni nemiche provoco una partenza su allarme, senza che si giungesse all'intercettazione.

Il 29 aprile la missione si concluse con un episodio tragico.

I bombardieri nemici sganciarono il loro carico su Bologna e nella zona a sud del Reno, prima che i venticinque MC.205V decollati da Reggio potessero raggiungerli.

Per intercettarli sulla via del ritorno i caccia di Visconti si portarono sui 9500 metri, con l'intenzione di attaccare come al solito la formazione dall'alto.

Sul cielo tra Rimini e San Marino il reparto avvistò gli avversari e si preparò ad attaccarli, mentre una pattuglia di Bf 109 del JG77 che incrociava nella stessa zona virò per condurre, almeno così parve, l'azione insieme con i caccia italiani. La 2a Squadriglia si trovava in posizione più arretrata; nell'ultima sezione di tre velivoli il sergente maggiore Spartaco Petrignani si accorse della manovra ed avvisò a gesti il proprio comandante, tenente Amedeo Guidi, che fece cenno di aver compreso.

Petrignani inclinò l'aereo per guardarsi le spalle e la manovra gli salvò la vita: in quel momento i tedeschi aprirono il fuoco e abbatterono in fiamme gli aerei del sottotenente Luigi Bandini e del maresciallo Pietro Salvatico.

Visconti ordinò di rientrare immediatamente e appena a terra chiese infuriato spiegazioni al comando gennanico.

I tedeschi si scusarono, asserendo che l' errata identificazione (i piloti avevano scambiato i nostri Macchi per i temutissimi Mustang, che cominciavano a fare la loro apparizione sul nostro fronte) era dovuta alla scarsa dimestichezza degli abbattitori, appena giunti dal fronte russo, con i nostri velivoli.

Il 30 aprile gli Alleati, che avevano identificato il nuovo campo di schieramento del 1° Gruppo, inviarono trenta bimotori, adeguatamente scortati, a bombardare l' aeroporto di Reggio Emilia.

Visconti decollò su allarme e riuscì ad intercettarli, scontrandosi coi i P-38 della scorta: uno dei Lightning cadde sotto i suoi colpi a sud est di Bologna.

Era la sua quarta vittoria individuale coi colori dell' ANR, che ne faceva fino a quel momento il pilota più vittorioso.

Il giorno successivo gli americani ripeterono l'incursione, colpendo molti velivoli parcheggiati al suolo: cinque Macchi vennero distrutti.

Nel frattempo erano giunti al reparto molti piloti di nuova assegnazione, destinati a riempire i vuoti che si erano aperti nei ranghi del gruppo a seguito delle numerose perdite.

Visconti dedicò un gruppo di piloti sperimentati all'addestramento tattico dei nuovi inseriti.

Tra i piloti prescelti c'erano il tenente Alessandro Beretta, il sottotenente Andrea Stella, il maresciallo Amedeo Benati, il sergente maggiore Francesco Cuscuna ed il sergente Angelo Vezzani.

Il tenente Beretta, prima dell'armistizio, aveva fatto parte dell'8° Gruppo Caccia e si trovava tra i piloti che avevano assistito, il 9 settembre 1943, all'arrivo a Guidonia dei tre MC.205V della 310a Squadriglia con undici persone a bordo.

Beretta aveva seguito le sorti della sua unità e dopo essere stato internato a Korba, era rientrato in Italia per continuare la guerra nell' Aeronautica cobelligerante.

Ma gli Alleati avevano deciso che i Macchi C.200 non erano più in grado di combattere ed il reparto si trovò appiedato a Capoterra, vicino Cagliari, in attesa di nuovi velivoli.

Beretta, che aveva lasciato la giovane moglie al di la del fronte, non era tipo da stare con le mani in mano: si arruolò nell' Intelligence Service per farsi paracadutare in Veneto quale informatore.

Si lanciò nottetempo insieme ad un operatore radio ma entrambi furono rapidamente catturati.

Beretta che aveva importanti appoggi tra i gerarchi veneti, fu liberato e si, arruolo nel 1° Gruppo Caccia dell' ANR.

Nessuno dei suoi colleghi, tanto meno Visconti, si accorse mai del suo doppio cambiamento di fronte.

In maggio Visconti fu promosso maggiore "per merito di guerra", con decorrenza 23 marzo 1944, ad assunse il comando effettivo del gruppo.

La sua promozione, come per tutti gli aderenti alla Repubblica Sociale, non venne riconosciuta al termine della guerra ed ancor oggi il grado più elevato con cui Visconti e ufficialmente menzionato nelle carte del ministero e quello di capitano.

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ma non ho capito...a Visconti importava solo volare e combattere quindi?Cioè non importa su che fronte?

 

Cmq non credevo che i p38 fossero così temibili sul fronte europeo..Non mi spiego la loro efficacia contro i Macchi 205 che dovrebbero essere delle gran macchine monoplano a detta di tutti...

 

P.s. E' grave se sto pensando di stamparmi questi racconti per leggermeli con calma offline? :D

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Ospite Folgore

Beh, il Macchi 205 faceva mangiare la "polvere" ai P38, che erano maneggevoli e manovrabili come pilastri, infatti nel fronte europeo non c'hanno fatto bella figura, in pacifico invece erano l' opposto :ph34r:

 

 

SOlo ora leggo dell'attacco tedesco ai nostri Macchi, che ne fu poi di quei due idioti??? come si fa a non riconoscere un macchi da un mustang? :thumbdown: :thumbdown: :thumbdown: erano anche sopra i B24 olre i P38 pronti ad attaccare.... :thumbdown: :thumbdown:

Modificato da Folgore
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Comandante del 1° gruppo

 

Il 2 maggio 1944, alle 11.00, trentanove Macchi C.205 del 1° Gruppo decollarono su allarme per intercettare la solita formazione di bombardieri in arrivo.

Tutti i piloti erano in stato di allerta perchè nella mattinata era stato segnalato un ricognitore che si avvicinava ad alta quota nella direzione del campo.

Visconti aveva inviato Fioroni (promosso capitano), il sottotenente Cucchi e il sergente maggiore Leone per intercettarlo.

Il velivolo, che fu identificato come un P-51 Mustang, si avvide dei caccia che facevano quota nella sua direzione e si buttò in picchiata per sorprenderli nella delicata fase di cabrata.

Ci fu un rapido scambio di colpi muso contro muso, senza esito.

L'apparizione mattutina del poderoso caccia della North American mise tutti in allarme.

Pertanto quando il comando guida caccia segnalo l' arrivo di una imponente formazione di B-17 nessuno fu colto di sorpresa.

In effetti i bombardieri erano in quell'occasione scortati, oltre che dai soliti P-47, anche dai minacciosi P-51.

L' attacco dei Macchi si svolse secondo lo schema consueto: acquisizione del vantaggio di quota e rapida affondata, evitando i settori di coda dei bombardieri, pesantemente difesi.

Visconti e Cucchi danneggiarono un B-17, ma mentre Cucchi si avventava per finirlo fu a sua volta attaccato da un Mustang.

Fu Fioroni questa volta, insieme a Visconti, a toglierlo d'impaccio riuscendo a cogliere di sorpresa il caccia americano ed abbatterlo: prima vittoria dei nostri piloti a spese di quello che fu spesso definito il miglior caccia della seconda guerra mondiale.

Il B-17 di Cucchi fu visto precipitare nelle valli di Comacchio, ma gli altri bombardieri riuscirono a raggiungere Reggio e scaricare il loro carico bellico sul campo, lasciando fumanti due Macchi ed il Ca.309 di collegamento.

Gli insediamenti logistici del gruppo in questa occasione non furono danneggiati.

Il comando di Gruppo e la 13 Squadriglia erano dislocati a villa Prampolini a Mancasale, la 23 a Massenzatico e la 33 a Bagnolo; gli specialisti erano alloggiati nelle scuole di Pieve Modolena, appena fuori dalla citta.

All'estremita dell'aeroporto si trovavano le Officine Meccaniche Reggiane, che, nonostante le disastrose distruzioni subite a seguito del bombardamento del 7/8 gennaio 1944, stavano ancora producendo su commessa tedesca una serie limitata di aerei d' assalto RE 2002.

Nella stessa giornata del 2 maggio gli Alleati bombardarono anche Fidenza, città natale del sergente maggiore Gorrini; Visconti gli mise a disposizione l'automobile del reparto per correre a casa ed accertarsi personalmente della situazione: per fortuna casa Gorrini era stata risparmiata dalle bombe.

L' 11 maggio una partenza su allarme si concluse senza avvistamenti.

Il giorno successivo una troupe dell'Istituto Luce ottenne dal maggiore Visconti l'autorizzazione a filmare, per scopi propagandistici, i voli di prova sul campo di un Macchi.

Il maresciallo Magnaghi, noto per le sue doti di "manico", si esibì a beneficio dei cineoperatori in figure acrobatiche a bassa quota.

Mentre eseguiva i suoi tonneau , una pattuglia di P-38 del 1° Fighter Group apparve all'orizzonte provenendo dalla parte della città.

Magnaghi venne colto di sorpresa ed abbattuto dal Lieutenant Armour C. Miller del 27° Squadron, senza potersi difendere.

Ferito ad una gamba riuscì a lanciarsi col paracadute, atterrando in un prato tra la via Emilia e Massenzatico.

Trasportato in infermeria, fu necessario amputargli la gamba: quando la sera Gorrini andò a trovarlo, Magnaghi dimostrò una forza d'animo eccezionale.

Rivolto all'amico gli chiese: "Gigi, per piacere, slacciami la scarpa sinistra che è troppo stretta"; Gorrini sollevò il lenzuolo e Carletto si mise a ridere: della scarpa sinistra non c' era più bisogno.

Purtroppo tanto coraggio non bastò a salvarlo: sopraggiunse la cancrena e Magnaghi perse la vita.

L' Aeronautica italiana aveva perso uno dei suoi piloti migliori.

In quei giorni il maggiore Visconti incontro, nel settore "civile" del campo, il maggiore Tullio De Prato, collaudatore alle "Reggiane" dopo aver comandato in Africa la 150° Squadriglia del 2° Gruppo Caccia.

Visconti gli confesso le sue preoccupazioni e, secondo le parole di De Prato nel libro Un pilota contadino, " ... con candida modestia, chiese il mio parere sulla sua attività.

Ne discutemmo a lungo e concluse: " Io, comunque, non posso mollare!" ... "

Durante l'incursione del 12 maggio i P-38 del 1° Fighter Group mitragliarono il campo

distruggendo quattro Macchi e danneggiandone sei.

II sottotenente Aurelio Morandi, una delle matricole del reparto, aveva decollato mentre il campo era sotto attacco, aveva inseguito gli incursori ed era riuscito ad abbatteme uno, il Lightning del Lieutenant Richard Cooley, precipitato sul greto del fiume Crostolo, presso Vendina di Vezzano.

Il campo di Reggio Emilia era troppo esposto agli attacchi della 153 Air Force e Visconti decise di spostarsi sulla vicina striscia di Cavriago, a ovest della città.

La pista era molto corta e ben tre Macchi capottarono al termine della corsa di atterraggio; l'aereo del tenente Weiss si incendio bloccandolo nell'abitacolo: il valoroso pilota perse la vita nel rogo sotto gli occhi degli impotenti soccorritori.

Il 14 maggio il 1° Gruppo, con Visconti in testa, affronto il suo ventiseiesimo combattimento; diciotto Macchi si levarono in volo per affrontare una formazione di B-24 scortati da P-38. Durante il combattimento il tenente Cartosio affrontò con estrema decisione un quadrimotore, incendiandolo dopo ripetuti attacchi.

Il sottotenente Cucchi, quel giorno suo gregario, vide che Cartosio preseguiva nella picchiata dopo l’attacco, senza richiamare il suo aereo per riprendere l’assetto di volo.

Il pilota, che era stato colpito mortalmente,precipitò con la testa reclinata sul cruscotto nella campagna veronese, vicino alla città dove vivevano i suoi genitori.

Cucchi, benché sconvolto per la perdita dell’amico, riprese il combattimento e riuscì ad abbattere un P-38. Nella foga strinse troppo la virata e il suo macchi entrò in vite.

Il pilota riuscì a riprendere il controllo solo a poche decine di metri da terra, appena in tempo per atterrare sulla pancia in un prato nei pressi di Ferrara.

Nella Giornata del 22 maggio i Macchi del 1° Gruppo si scontrarono con i Thunderbolt e i Lightning nel cielo di Pistoia senza che i contendenti conseguissero alcun risultato.

Il Tenente Cavatore, rimasto senza benzina, fu costretto ad atterrare fuori campo. Era giunto al suo quarto atterraggio d’emergenza, conseguendo un singolare record personale.

II 25 maggio la coppia tenente Satta - sergente maggiore Gorrini intercettò nel cielo tra Parma e Fidenza una formazione di B-24 al rientro da una missione.

I due piloti puntarono sui bombardieri che si trovavano in coda alla formazione: il B-24 colpito da Gorrini cominciò ad emettere fumo ed il pilota insistette nel suo attacco, senza avvedersi che i P-38 di scorta li avevano presi di mira.

Quando se ne accorse, si disimpegnò con un rapido rovesciamento mentre l'aereo di Satta fu preso in pieno da una raffica che gli staccò un'ala facendolo precipitare senza scampo.

Il Macchi, con a bordo lo sfortunato pilota, s'infranse sul greto di un torrente nei pressi di San Prospero; l'abbattitore fu il Lieutenant Jack D.Lewis del 37° Fighter Squadron.

In questo combattimento il sergente maggiore Gorrini conseguì la sua diciannovesima ed ultima vittoria (secondo altre fonti, le vittorie individuali di Gorrini furono ventiquattro).

Il 27 maggio tutto il gruppo, alla guida di Visconti, parti su allarme per intercettare alcuni caccia segnalati in zona.

La ricerca fu infruttuosa ed i Macchi tornarono all'atterraggio; l'ultimo a rientrare alla base fu il sergente maggiore Giorgio Leone.

Come consuetudine nei reparti da caccia, Leone esegui un passaggio a bassa quota con un tonneau: per motivi che non poterono essere accertati rimase in posizione rovesciata e urtò il terreno, disintegrando il velivolo e proiettandone parti contro i muri di villa Prampolini, sede logistica del gruppo.

Il numero di Macchi disponibili si andava riducendo in modo preoccupante e si dovette mettere riparo alla situazione facendo affluire al reparto alcuni Fiat G.55 ceduti dal 2° Gruppo Caccia, destinato ad essere riequipaggiato con i Messerschmitt Bf 109G, ed incorporando la Squadriglia Autonoma "Montefusco".

Questa era una delle unità nate spontaneamente nella fase confusa successiva all'armistizio: dotata di G.55 e di MC.205 era basata a Torino ed aveva perso il suo comandante capitano Giovanni Bonet il 29 marzo 1944, abbattuto dal Major Herschel Green del 325° Fighter Group. Prima di cadere, Bonet a bordo del suo G.55, erroneamente identificato come Fw 190, aveva fatto precipitare nei pressi di Dego, sulle alture dell' entroterra savonese, un B-17 del 2° Bomber Group.

I caccia della serie 5 erano dotati dello stesso motore, ma il G.55 Centauro era più armato del Veltro, disponendo anche di un terzo cannoncino da 20 mm sparante attraverso il mozzo dell'elica; grazie al minor carico alare forniva inoltre migliori prestazioni alle alte quote.

I G.55 vennero assegnati alla 1a e alla 3a Squadriglia che operarono con equipaggiamento misto, mentre la 2a rimase con i soli Macchi.

Il 10 giugno Visconti decollò con il gruppo per intercettare velivoli nemici segnalati su Ravenna ma non giunse a contatto balistico con gli incursori.

Il 5 giugno una missione di intercettazione condusse il gruppo al combattimento contro bombardieri medi B-25 nei pressi di Rovigo, conseguendo il danneggiamento di un Mitchell, senza perdite da parte italiana.

I caccia erano appena rientrati che il campo di Reggio Emilia fu mitragliato dai P-38 del 14° Fighter Group che danneggiarono alcuni G.55.

Il 9 giugno, cinque MC.205 e otto G.55 decollarono su allarme diretti verso il "quadrato PF": sulla griglia della carta operativa utilizzata dall' ANR questo codice indicava un' area ad est di Venezia.

Era stata segnalata una grossa formazione di bombardieri sulla rotta di rientro dalla Germania. I caccia del 1° Gruppo evitarono i P-38 di scorta e si buttarono sui B-24.

Il capitano Robetto ed il sergente maggiore Chiussi ne abbatterono uno a testa.

Per Robetto, che sparo in quella occasione 300 colpi e vide sette membri dell' equipaggio del Liberator colpito lanciarsi col paracadute, si tratto della decima e ultima vittoria individuale dall'inizio della guerra.

Il 13 giugno, una partenza su allarme condusse il 1° Gruppo ad uno scontro con il 325° Fighter Group, che si ripresentava in forze dopo aver cambiato i suoi Thunderbolt con i più temibili Mustang.

La vistosa colorazione della coda, interamente dipinta a scacchi gialli e neri, li rendeva inconfondibili.

Herschel Green, secondo in graduatoria tra gli assi della 15a Air Force, costrinse in quell'occasione ad un atterraggio d'emergenza il Macchi del sergente maggiore Luigi Di Cecco, senza conseguenze per il pilota.

Il 15 giugno al 1° Gruppo fu affidato il compito di pattugliare la costa toscana.

Venti velivoli, tra Macchi e Fiat, parteciparono alla missione, senza incontrare nemici nella zona presidiata.

Il sottotenente Sajeva, che aveva guidato la pattuglia di G.55 incaricata della protezione a quota più elevata, si diresse coi compagni verso la base di Cavriago.

Mentre si trovava nel cielo di Modena, alla quota di circa 3000 metri, si accorse che una piccola formazione di Spitfire si era posta in coda ai caccia italiani.

Sajeva eseguì un immediato rovesciamento che lo portò a circa 500 metri di quota, ma quando raddrizzo l'aereo non fece in tempo a guardarsi attorno che una raffica lo colpì in fusoliera, costringendolo ad un'altra violenta manovra evasiva.

Gli parve di non vedere più nemici nelle vicinanze, ma una seconda raffica gli frantumo il cruscotto, provocando una perdita di benzina nell'abitacolo e rammentandogli l'ammonimento dei "vecchi" della squadriglia: "E sempre il caccia nemico che non vedi che ti abbatte!".

Lo Spitfire riusciva a manovrare con abilità in modo da trovarsi sempre nell'angolo morto della visuale del pilota italiano, colpendolo di sorpresa all'uscita delle manovre di scampo.

Per toglierselo dalla coda, Sajeva si mise a volare a pelo degli alberi, passando pericolosamente sotto i fili di un elettrodotto ad alta tensione.

Mentre si voltava per tener d'occhio l'inseguitore, toccò terra e si arrestò dopo una lunga corsa sul ventre del suo G.55, che nei vari urti si ridusse ad un troncone di fusoliera.

Il pilota fu soccorso e ricoverato in ospedale ma se la cavò con qualche escoriazione.

Non fu così fortunato il sottotenente Fausto Morettin che, abbattuto dallo Spitfire pilotato dal Wing Commander A.D.J. Lovell, del 243° Squadron, si lanciò con il paracadute ma morì per le ferite riportate in combattimento.

Anche il sergente maggiore Gorrini quel giorno fu costretto ad affidarsi al paracadute, dopo aver incassato una raffica che mise fuori uso il suo velivolo.

La discesa fu brusca e gli causo lesioni alla schiena che richiesero una lunga convalescenza. Per l' asso Gorrini la guerra era finita.

Il 16 giugno il gruppo effettuò due partenze su allarme, senza contatto con il nemico.

Il G.55 del maresciallo Forlani ebbe noie al motore con conseguente abbandono del velivolo da parte del pilota.

Il 22 giugno ebbe luogo un combattimento tra i caccia del 1° Gruppo e i P-38 dell'82° Fighter Group di scorta ad una formazione di B-24 nell' area tra Bologna e Ferrara.

Il maresciallo Guido Fibbia, che si era buttato sui Lightning insieme con il sergente Spartaco Petrignani, abbattè il caccia bimotore pilotato dal Lieutenant Tolmie.

L'indomani, la partenza su allarme si concluse senza avvistare aerei nemici.

Il 26 giugno invece lo scontro avvenne, causando l' abbattimento del Macchi C.205 del sergente Gianni Arrigoni, che perse la vita precipitando a Monte S.Pietro, abbattuto da uno Spitfire del 238° Squadron.

Dopo sei mesi di combattimenti la situazione del 1° Gruppo Caccia mostrava preoccupanti vuoti tra gli organici dei piloti.

Molti cacciatori esperti e valorosi erano caduti: Marinone, Satta, Torchio, Boscutti, Bortolani, Castellani, Zaccaria, Capatti, Marchi, Morosi, Lugari, Bandini, Salvatico, Magnaghi, Weiss, Cartosio, Giacomello, Leone, Mazzei, Morettin, Arrigoni.

Un tangibile disagio cominciava ad impadronirsi del reparto: i suoi uomini si sentivano circondati da un crescente disinteresse, mentre un' inutile burocrazia appesantiva l'organizzazione dell' ANR.

 

Adriano Visconti - Asso di guerra

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Dedicato ad un amico

Ho avuto il piacere di conoscere uno dei piloti della famigerata A.N.R

Il Pilota Angelo Vezzani, da grande appassionato di volo, frequentava spesso il nostro AeC di Reggio Emilia.

PS: Per i Moderatori

Se ritenete questo post OT, avvisatemi via MP che lo rimuovo.

Modificato da Dave97
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Capitano Martino Aichner

 

Il primo approccio

 

La Casa dell' Aviatore, è istallata nell'imponente palazzone sulla grande S in fondo a via Nazionale. Ci metto piede per la prima volta, fresco della nomina a sottotenente pilota, dopo trenta mesi, complessivi di corsi in cui ho imparato più ad esercitare la pazienza che a volare.

Il nostro corso e chiamato dei « fregati »; è formato da allievi che hanno conseguito il brevetto da civili (con una spesa di quattromila lire) per l' attrazione dell' avventura aviatoria e per il vantaggio di essere nominati subito sottotenenti, evitando la lunga naja del corso allievi ufficiali. Questa, infatti, era la legge in vigore sino ad alcuni mesi prima.

Ma, mentre noi stavamo conquistando il brevetto di pilota civile, la legge venne modificata e invece del grado di sottotenente ci fu elargito quello di primo aviere (caporalmaggiore) che trascineremo con noi per oltre due anni.

E’ come un lungo, tardivo collegio per giovani tra i 20 e 25 anni quasi tutti già laureati, appassionati del volo e col desiderio di fare il servizio militare come ufficiali piloti di complemento; piuttosto scettici, scevri da fanatismi, orgogliosi, rispettosi della dignità propria ed altrui, divisi in due camerate, nord e sud, ma senza rancori, salvo gli sfottò di pari valenza.

Ci ritroviamo presto coinvolti nella più grande guerra mondiale che accettiamo senza entusiasmo, ma anche senza viltà.

Il mio arrivo all' aeroporto di Pescara, dove aveva sede una delle cinque scuole per allievi ufficiali piloti di complemento (le altre quattro erano a Perugia, a Foligno, a Grottaglie e Puntisella) era stato alquanto complicato.

Ero stato arruolato sull' aeroporto di Bolzano dove, dopo la rituale rapatura a zero, mi avevano consegnato il corredo di aviere che comprendeva le pezze per i piedi, la pancera mollettiera e le fasce.

Non avevo avuto l' accortezza di fare la prova a casa e così partii per Pescara in borghese all' alba di un giorno piovoso ed arrivai a destinazione nel tardo pomeriggio: dovevo presentarmi in aeroporto in divisa e così mi recai alla toeletta della stazione per cambiarmi.

Fu un'impresa non facile in particolare per le fasce: le mie gambe muscolose con i polpacci ben sviluppati creavano una difficoltà alla fasciatura perchè se le fasce erano strette il muscolo faceva male a camminare, se erano lente dopo poco cadevano.

Arrivai alla scuola dopo il « silenzio ».

Il sergente di guardia, dopo una ramanzina per le fasce allentate, mi accompagnò nelle camerate dove una fioca luce azzurrognola stemperava le ombre notturne:

«cercati una branda e non fare rumore »;

mi lasciò così all'ingresso di uno stanzone di cento metri quadrati dove intravedevo due file di brande e, sopra ognuna, su supporti di ferro, una cassa nera di legno.

«Chi sei? » mi chiese qualcuno;

mi girai da quella parte e vidi la sagoma di un giovane seduto sul letto.

«Sono Martino Aichner. »

«Da dove vieni? »

«Da Trento. »

Mi resi subito conto che il giovane che mi aveva rivolto la parola era autorevole perchè ordinò al suo vicino di branda di aiutarmi a cercarne una per me nella camerata accanto e spostare la sua per farmi posto;

«Perchè questo è di Trento, deve restare con noi.»

Dopo questo traffico che ci attiro un certo numero di imprecazioni, i due colleghi si presentarono: «Io sono Carlo Bovati di Milano ».

«Ed io Eugenio Lecchi della Cagnola.»

«Dov'e la Cagnola?» chiesi.

«E la zona più importante di Milano» mi rispose sorridendo il collega.

Questo incontro casuale determino un'amicizia perenne.

 

Non è facile ammazzare il tempo, nelle lunghe attese tra i rari voli, sul prato dell' aeroporto e con le noiose lezioni teoriche.

Abbiamo la risorsa di essere piuttosto allegri e goliardicamente scanzonati, e i nostri scherzi non sono quasi mai «da prete »: memorabile quello giocato ad un allievo del Canton Ticino, dove allora esisteva l'irredentismo per l'ltalia.

Svizzero, ricco, raccomandato, l'allievo Ghioldi arriva con qualche settimana di ritardo quando noi avevamo già creato la struttura e la gerarchia del corso; ne rompe l' armonia e viene guardato a vista per studiame le debolezze: una e subito individuata: la mania della pulizia.

Tutti i pomeriggi, con un permesso speciale, si reca a Pescara, dove ha affittato una stanza con bagno nel migliore albergo e rientra la sera, dopo il silenzio, quando noi siamo nel delicato momento del dormiveglia, con un occhio chiuso e l' altro aperto a seguire le manovre della sua preparazione notturna: apertura della cassa-baule, svestizione, profumazione all' acqua di colonia 4711 con vaporizzatore sul flacone di cristallo.

Non so a chi sia balenata l'idea, ma quella sera siamo incredibilmente silenziosi e con tutti e due gli occhi aperti: e quando il profumo, nero d'inchiostro, trasforma il nostro compagno in un moro di Venezia, qualcuno gli punta addosso una torcia elettrica per consentire a tutti di godere lo spettacolo.

Questo bravo ragazzo che non da fastidio a nessuno, ma che non lega con noi, dopo poco tempo, chiederà di essere esonerato dal suo generoso volontariato irredentista.

 

il primo incidente di volo

Alla scuola di Pescara mi accadde il primo incidente di volo, abbastanza straordinario: da poche settimane avevamo fatto il

« passaggio» dal Breda 25, vecchio velivolo base della scuola, al RO 41, velivolo moderno e quasi bellico, tanto sensibile ai comandi da indurre i nostri istruttori a raccomandarci di non mettere i piedi sulla pedaliera e tenere la cloche tanto leggera quasi da non toccarla: era una prudenza dettata dalla non conoscenza del velivolo che era nuovo anche per loro.

Ma i piu svegli di noi avevano capito subito la macchina e, senza aver fatto l'acrobazia a doppio comando con l'istruttore, nei voli da solista si appartavano sui fianchi della Maiella, dove si sfogavano in catene di giri della morte che la sera si ingigantivano in altre catene di guasconesche confidenze tra noi.

A me le confidenze le fece Lionello Baldi di Lucca, appena laureato in chimica a Pisa con 110 e lode e da tutti stimato per la serietà e la correttezza; a lui potevo credere: mi feci descrivere alcune volte la manovra per provarla alla prima occasione.

Il giorno dopo non ero in turno di volo, ma un collega era a letto con la febbre.

Comandante della linea di volo del RO 41 era il tenente Filippo Dasara che aveva voluto provarmi nell' ultimo doppio comando su quel velivolo e, mi era sembrato, con giudizio positivo: sardo, di poche parole, severo ma giusto, non era facile impietosirlo, ma la mia domanda chiara e decisa di poter prendere il posto del febbricitante non gli lascio alcuna perplessita.

«Va bene, vai su per 20 minuti, ma non fare fesserie! »

Decollo liscio come una piuma e comincio a far quota quando sono lontano dal campo.

Il RO 41 con poco carico di benzina ed un solo pilota, sale come un vero caccia: in pochi minuti sono a livello della cima della Maiella.

Mi avvicino per avere più preciso il suo riferimento e mentalmente ripercorro le fasi della manovra cui mi ha istruito l' amico Baldi:

affondata con 3/4 della manetta sino a 250 km/h, cloche bene in centro, tirata forte all'inizio, piedi leggeri, tutto gas sino al culmine del giro, poi togliere gas gradualmente, seguire lo stabilizzarsi del velivolo e riportarlo in linea di volo.

Ecco, finita l' affondata, comincio a tirare la cloche e a dare manetta.

Il RO 41 obbedisce docile e comincia la salita inebriante; ora sono rovesciato: sopra di me la volta del cielo azzurro, senza riferimenti, incantevole.

Riduco il gas ed il velivolo punta il muso verso la terra dandomi l'ebbrezza di una conquista importante, chiara, autonoma, tutta mia: e il mio primo giro della morte, ebbrezza anche nel nome.

Riempio di aria i polmoni, ma non ho finito l'inspirazione che sento un colpo secco e vedo volare via un pezzo di lamiera e subito dopo un' esplosione sorda, come fa una mina ricoperta di terra; è stato tutto così improvviso ed imprevisto che non ho avuto il tempo di provare paura, ma comincio ad averne adesso: il colpo secco era dovuto al distacco della naca, il rivestimento di lamiera ad anello che copriva il perimetro del motore stellare e lo0 raccordava alla fusoliera (che era, a sua volta, in traliccio metallico ricoperto di tela) e che, evidentemente, lo specialista non aveva fermato bene: l'esplosione era dovuta allo scoppio della tela di rivestimento della fusoliera che si era gonfiata come un pallone perchè l' aria, senza la naca, entrava con forza dal perimetro del motore stellare; la tela ora si staccava a brandelli che si rovesciavano sui piani di coda, indurendo i comandi.

Tolgo istintivamente il gas e, anche a causa del freno aerodinamico esercitato dalla fusoliera senza il rivestimento e per i brandelli che svolazzavano a mo' di paracadute di coda, la velocità diminuisce celermente e restituisce efficienza ai comandi.

Do i flaps e scendo in direzione dell' aeroporto sorvolandolo a bassa quota per farmi vedere dal capitano Craus comandante della linea di volo che nota subito l'inconveniente e ferma l'attività. Faccio il giro campo un po' più corto del solito e vengo in planata con assetto normale: con un piccolo «bum» atterro davanti al comandante, accolto festosamente dai miei colleghi con gli sfottò d' allegra partecipazione.

«Sembravi un merlo in gabbia» è il commento più azzeccato e che mi resterà appiccicato per qualche tempo.

Il capitano Craus ha capito che c' e sotto qualche irregolarità del volo e, secondo la regola militare che nel dubbio e meglio punire, mi affibbia cinque giorni di prigione; non mi pesano molto perchè il giorno dopo è sabato e sarei dovuto andare a Roccaraso con altri tre colleghi «delle Alpi» ad allenarmi per i prossimi campionati universitari di sci.

Ma la presunzione di indisciplina giocherà nel prossimo futuro per punirmi con l' esclusione dall' elenco dei•destinati alla specialita della caccia che è per tutti la più ambita.

Andrò pertanto alla scuola bombardamento di Aviano.

Alla Casa dell'Aviatore troverò il comandante del reparto al quale sono stato assegnato: il capitano pilota Carlo Emanuele Buscaglia, nome già famoso in Italia perchè più volte citato nei bollettini di guerra, combattente molto valoroso, ma, si dice, altrettanto esigente.

Ho un grande desiderio di conoscerlo e nello stesso tempo una maledetta paura: le mie carte non sono proprio in regola: alla scuola aerosiluranti di Gorizia mi è capitata una «disgrazia» e ora mi presento al reparto con quindici giorni di arresti di rigore più trenta di semplice: la massima punizione per un ufficiale.

 

il secondo incidente di volo

E’ successo che, verso la fine del corso di specializzazione, al rientro da un volo di addestramento con sgancio di siluro a salva contro la nave bersaglio Cattaro nella rada di Pola, volevo sorvolare la spiaggia di Sistiana per un saluto agli amici che si stavano crogiolando al primo sole di marzo.

Cinque o sei chilometri prima della spiaggia mi ero abbassato a pelo d'acqua per poter arrivare di sorpresa: era la tattica delle azioni di siluramento: bisognava arrivare fino a circa due chilometri dalla nave sfiorando le onde a pochi metri dall' acqua per giungere di sorpresa sul bersaglio. Volando così bassi vi era modo di sfruttare la rotondita della terra e di non essere avvistati a grande distanza dalle vedette: inoltre, a nostra insaputa, sfuggivamo ai rilevamenti radar.

Ma era in agguato sotto di me un avversario invisibile: «lo specchio d' acqua» che inganna la valutazione dell' altezza anche di alcune decine di metri.

Ci fu uno schianto come di una cannonata contro una campana e le eliche di duralluminio dei due motori laterali si accartocciarono in avanti come fiori di rafia; diedi uno strattone al volantino e il velivolo riprese quota.

Ma con un solo motore quel povero bestione pesante oltre diecimila chilogrammi non poteva sostenersi; lo sentivo cedere a poco a poco, inesorabilmente.

Il secondo pilota e il resto dell' equipaggio mi guardavano preoccupati, sentivo su di me tutta la loro disapprovazione. Ottantacinque metri, ottanta, settantacinque, settanta ...

Che cosa succede quando un velivolo terrestre va in acqua?

Nessuno ce l' aveva detto; evidentemente non era previsto, ma io ci stavo andando.

Cercai le reminiscenze delle leggi d'aerodinamica; ricordai soltanto una conclusione semplicistica, ma efficace, a una lezione di fisica al liceo: l'acqua, mille volte più densa dell'aria, è dura come un sasso, quando un corpo vi batte in velocità.

Intanto la quota cala: sessantacinque metri, sessanta, cinquantacinque, cinquanta ... sento il respiro degli specialisti sulla nuca: sono tutti lì, dietro di me per seguire la mia manovra.

Non posso sbagliare, tutta la responsabilità della fesseria è mia e loro non devono entrarci.

Ricordai quel gioco di ragazzi di tirar scaglie di sassi piatti sul pelo dell' acqua: essi « piastrellano» [rimbalzano] cinque, sei, dieci volte secondo la velocità iniziale; alla fine si fermano un attimo prima di inabissarsi.

Avrebbe fatto così anche il nostro stupendo S 79?

Eravamo a venti metri: ordinai agli specialisti di andare al loro posto e tenersi saldamente ai montanti, al secondo pilota di togliere il contatto e tenni il velivolo leggermente cabrato, ma con carrello e flaps dentro, a velocità ridotta per «piastrellare» sull'acqua.

Quindici metri, dieci, cinque ...

Non avevo perso la calma, gli specialisti erano tutti alloro posto, ma a me non veniva più saliva e la bocca sembrava impastata di colla.

« Bang!»

La previsione non era esatta, il velivolo non «piastrellava» perchè non c' era il rapporto peso-velocità e perchè non aveva il movimento rotatorio della «piastrella ».

Si era come invischiato nell'acqua con un contraccolpo che ci aveva sbattuti violentemente in avanti, e ora sprofondava.

L'acqua passò spumeggiando sul parabrezza; eravamo sommersi, come in un sommergibile; soltanto che non c' era tenuta stagna e tra qualche secondo l'acqua avrebbe invaso tutto.

In quegli attimi il pensiero va a Dio e alla mamma.

E’ un pensiero velocissimo, di passata, non so se varrebbe per la salvezza dell'anima.

Ma ecco ad un tratto l'acqua rifluire dal parabrezza e torniamo fuori nel sole caldo e amico; il velivolo «delfina» dolcemente alcune volte sulla superficie e poi si ferma come un ,gabbiano stanco per il lungo volo.

Attorno a noi regna un momento di silenzio, rotto dall'esclamazione del secondo pilota:

«Ce la siamo cavata, tenente ».

Sembra un ringraziamento; mi ha già perdonato e mi e grato perchè ho tirato fuori lui e gli altri dalle conseguenze temute.

Sono così gli aviatori, senza rancori, generosi e subito sereni.

Dietro di me, in sezione, c' era un altro S 79 che aveva la funzione di filmare lo sgancio da me effettuato nella rada di Pola.

Da bordo l'operatore stava filmando la mia puntata e riprese anche lo schianto nell'acqua.

Quando riemergemmo ci sorvola alcune volte e poi diresse la prua per Gorizia, con la prova filmata della mia fesseria.

Ci eravamo appena rimessi dalla grande paura che ci colse un'altra emozione; l'acqua entrava gorgogliando dalle mille fessure della fusoliera di tela e perciò tra poco il velivolo sarebbe colato a picco.

Non ricordo d'aver dato alcun ordine, ma d'improvviso tutto l'equipaggio era indaffarato a smontare tutto ciò che era smontabile, mentre il più svelto aveva già messo a mare il battellino di gomma che, in pochi secondi, gonfiato con la bombola, si dondolava vicino all' ala.

Dopo alcuni minuti eravamo tutti dentro e con noi un arsenale di oggetti recuperati, come se inconsciamente avessimo voluto rimediare alla perdita del velivolo.

Una barca si stacca dalla riva.

Poco dopo, verso Monfalcone, si vide una scia bianca, forse un motoscafo, che sembrava venire verso di noi.

Non era un motoscafo, ma un idrovolante che presto decolla, punta su di noi e ci sorvola con una bella virata.

Il pilota ci saluta, poi l'aereo si allontana qualche chilometro, ammara e venne flottando sino a pochi metri mentre noi guardavamo stupiti e. ammirati.

Era uno dei famosi Cant Z 506 costruiti nei cantieri di Monfalcone: si apri il portello e un uomo gioviale ci chiese se ci fosse qualche ferito. Rispondemmo di no e il suo sorriso si allarga:

« Vi è andata bene, potevate infilarvi e andare in mille pezzi ».

Poi ci invita a salire senza preoccuparci per l'S 79 che avrebbe galleggiato benissimo finchè un pontone, già partito da Monfalcone, lo avrebbe agganciato.

«Chi sarà quest'uomo sicuro come un padreterno?»

Salii e mi presentai.

«Io sono Testa» rispose; « collaudatore ai cantieri di Monfalcone. Abbiamo visto tutto e temevamo che ci fossero feriti.

Siete stati molto fortunati; ora vi porto a Monfalcone dove vi attende il comandante Stoppani al quale ho già comunicato via radio che siete tutti salvi. »

Gli feci presente che non potevo lasciare il velivolo; egli annuì e chiamo qualcuno dall'interno.

Si presentò un sottufficiale che scese nel batteliino in attesa del pontone.

Ero ancora incerto; il mio interlocutore se ne accorse e mi tranquillizzo:

«Sono anche ufficiale dell'aeronautica e lei non può più fare nulla qui ».

Salimmo e ci accomodammo all'interno senza parlare.

A Monfalcone sul molo ci attendeva il comandante Stoppani, il famoso collaudatore.

Ci accolse con paterna cordialità:

«Telefonerò io al colonnelio Unia» (il comandante della scuola aerosiluranti), «e gli dirò che vi sono mancati i motori: non è vero, ma così la notizia gli farà meno male».

Ci accompagnò alla mensa, poi ci diede una macchina per ritornare a Gorizia.

All'ingresso dell'aeroporto trovai un messaggio: dovevo recarmi subito al circolo ufficiali.

Pensai ad uno scherzo degli amici che volevano brindare al mio «successo ».

Infatti per loro il mio era un successo, una vittoria assoluta.

C'era una gara per chi riusciva a volare più basso sull' acqua e sulla terra e bisognava fornire le prove.

Faggioni qualche tempo prima era rientrato con la coda bagnata;

Pfister gli aveva risposto portando a casa delle spighe di frumento tra gli sportellini del ruotino posteriore.

Era evidente che io li avevo battuti tutti e due!!!!!

Entrai di corsa al circolo e mi trovai in mezzo al salone; di fronte a me dominava la figura del colonnello Grandinetti, il comandante dell'aeroporto, e attorno, schierati e silenziosi, gli ufficiali del campo.

C'erano tutti: i cacciatori della scuola di Botto, Pezze, Morselli e Galbier, gli aerosiluranti della scuola di Unia, Erasi, Pernazza.

«Questo è il cogl@@ne che ha distrutto un S 79 e messo a repentaglio la vita dell'equipaggio, oltre alla sua, per fare una puntata sulla spiaggia di Sistiana. »

Poi, con sguardo impietoso, rivolto verso di me:

« Si tenga agli arresti ».

Si allontanò lasciandomi impietrito con gli occhi gonfi.

«Ha ragione, ha ragione », mi dicevo; «ha detto la verità nuda e cruda. »

Alzai il viso sul mare di occhi immobili.

C' erano proprio tutti: superiori e compagni.

Un nodo mi serrò la gola per la commozione di vedere e sentire la loro comprensione senza parole.

Due giorni dopo il colonnelio Unia mi convocò nel suo ufficio:

«Il suo addestramento è concluso» mi disse, «Lei è stato assegnato al 132° gruppo autonomo in formazione a Littoria. Sarà un reparto di punta della nostra specialità e vi troverà i piloti più esperti e coraggiosi; veda di imparare da loro. Le auguro buona fortuna ».

Non un cenno alla mia « disgrazia ».

Gliene fui grato e partii più leggero verso la nuova destinazione

 

Il gruppo Buscaglia

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«Mi sceglierò un equipaggio di ferro ».

Al primo sottufficiale che mi si presenta con alcuni nastrini sul petto e oltre cento ore di voli di guerra propopgo di venire con me.

«Mi dispiace, sono gia in equipaggio con il tenente Faggioni. »

Tento la proposta con alcuni altri, ma ne ricavo risposte analoghe: tutti già a posto.

Mi toccano cinque pivelli come me, freschi di corsi teorici e senza un'ora di volo di guerra.

Sono cinque ragazzi, svegli, intelligenti e pieni di entusiasmo, ma mi preoccupa il fatto che non abbiano alcuna esperienza anche se ciò mi mette, da questo punto di vista,sul loro piano.

Dopo qualche giorno cominciano ad arrivare i velivoli: non mi azzardo a chiedere nulla, finche Graziani mi annnuncia:

« Il velivolo che e arrivato poco fa da Reggio Emilia è per te. »

Finalmente avevo il mio S 79: il numero 6 della 281°. Sono fortunato perchè c' erano in lista ancora due tenenti anziani prima di me: soltanto qualche giorno dopo saprò che non si è trattato di fortuna, ma di rinuncia da parte dei due tenenti, perchè la somma delle cifre scritte sulla fusoliera fa 17 e in aviazione regna la superstizione.

Scendo di corsa sui campo per vederlo: è nuovissimo; i tre motori Alfa Romeo compatti e possenti come musi di boxer, le eliche tripala con le belle ogive, le marmitte rastremate e a sega, le due mitragliatrici e la gobba sul dorso gli danno un fiero aspetto guerresco.

Per gli inglesi è « il gobbo maledetto ».

Non c'e nessuno sul campo perchè è già suonata l'ora del rancio: gli giro attorno alcune volte per rimirarlo, ne tocco le ali come per una carezza.

E’ il mio aeroplano, non più da spartire con altri piloti, non più con la preoccupazione delle altrui intemperanze.

Tento di aprire il portello, ma è chiuso.

Sulla fusoliera in coda c'e la matricola:

«SIAI-Marchetti SM 79 Off. Reggiane n. 23883 ».

A tavola sono più allegro del solito e Faggioni lo nota. «Hai la fregola?»

«E’ arrivato il mio aeroplano. »

« Allora paghi da bere e dopo pranzo andiamo a provarlo.»

« Come no! »

Con l'ultimo boccone in gola corro a cercare gli specialisti, più felici di me, se è possibile, per la gradita notizia. Faggioni ci raggiunge subito.

«Prima lo assaggio io, solo con il motorista, poi saliamo assieme. »

E’ chiaro: vuole togliersi la voglia da solo e sappiamo già che assisteremo ad uno spettacolo.

Decolla subito, tiene il velivolo basso sulla pista, in fondo lo solleva un poco e rientra con un impeccabile schneider.

Riabbassa il muso e punta su di noi che siamo già stesi per terra.

Ci sorvola a non più di due metri e poi su, con una forte cabrata, contro il sole e, quando il velivolo sembra fermo appeso al cielo, uno splendido looping d'ala e giù ancora sulla nostra emozione.

Volare con lui è come prendere lezioni di pianoforte da Benedetti Michelangeli.

 

Tornò di li a poco sul campo a tutta birra, a una quota di circa trecento metri, tira su il muso e poi gira lentamente in un magistrale tonneau; seguiamo la manovra senza respirare tanto e incredibile quel che vediamo:

«un tonneau con un bestione da diecimila chilogrammi e tre motori. »

E’ un' esibizione da giornata dell' ala e noi l'abbiamo li casalinga e senza biglietto.

Faggioni atterra. E’ il mio momento.

« Fammi vedere che cosa hai imparato a Gorizia. »

Decollo veloce e come lui mi tengo basso per acquistare velocità.

In fondo al campo cerco di virare stretto, ma la terra così vicina mi consiglia di restituire i comandi: eppure era così facile vederlo fare a lui!

Gli cedo la guida, arrendevole.

«Forza, maestro! »

Ripete il looping d'ala partendo da rasoterra: una manovra elegante, scorrevole, emozionante.

Quando il velivolo, tirato in verticale, arriva in cima alla parabola e si sente che i motori non ce la fanno più a tenerlo su, Faggioni con un tocco leggero come quello di un pianista toglie la manetta al sinistro, affonda lo stesso pedale, e il velivolo fa perno sull' ala puntando poi il muso verso terra.

Subito toglie tutti e tre i motori: la velocità aumenta rapidamente; egli aziona il trim a cabrare e tira contemporaneamente il volantino.

Con naturale dolcezza il velivolo assume a poco a poco l'assetto orizzontale e passiamo sui limite del campo sfiorando le cime degli eucalipti.

«E chiaro? »

« Mi pare di si »

« Allora vieni al mio posto e rifallo tu.

Non preoccuparti del trim, te lo regolero io. »

Inizio con leggera emozione: la puntata, sino a quattrocento chilometri l'ora, il richiamo (Faggioni interviene per indicarmi di tirare con maggior forza all'inizio e poi cedere a poco a poco), la salita in verticale: adesso e il momento delicato; perchè la figura riesca perfetta, bisogna intervenire quando il velivolo raggiunge il punto critico di salita e sta per scadere di coda.

Sbircio Faggioni con sguardo interrogativo: mi fa segno di insistere.

Ho già la mano sulla manetta sinistra, ma Faggioni me la copre con la sua, trattenendomi.

A me sembra già tardi, mi sento appeso come un salame e ho la bocca asciutta.

Finalmente, Faggioni mi accompagna a togliere il motore e io affondo il piede.

Dolcemente l'S 79 fa perno sull' ala e punta il muso possente in candela.

Faggioni comanda il trim, mentre io tolgo i motori.

Ora so tutto e con l' allergia dei vent' anni a riconoscere le difficoltà dei problemi, chiudo la manovra e entro in campo con una trionfale scivolata d' ala.

« Ora lo fai da solo, ma iniziando da cento metri e chiudendo alla stessa quota. »

Provvidenziale accorgimento!

Prima di ripartire ripeto a memoria le operazioni.

Tutto bene: questa volta ho in più il trim. Via!

La prima fase e facile e ho avuto il tempo di ripassarla a memoria.

Ora sono in verticale con i motori che « sbregano » e le ghiandole impaurite che non spremono più saliva.

Guardo l' anemometro che scende: centocinquanta, centoquaranta, centotrenta ... Ma non l’ho osservato prima, quindi a che serve ora?

Mi sento appeso e sbircio a lato, ma al posto di Faggioni c'e Fantuzzi, il mio motorista, che fiducioso osserva la mia apparente sicurezza.

Tolgo il motore, affondo il piede sinistro.

Forse avrei potuto insistere ancora qualche secondo ma il velivolo gira perfettamente.

Ecco, ora il trim.

Dov'e?

Annaspo tra i comandi, mi sbuccio le nocche ma non lo trovo.

Il velivolo col muso verso terra aumenta di velocità precipitevolissimevolmente.

Mi aggrappo al volantino e tiro con tutte le forze, ma il comando e duro e resiste allo sforzo come il collo di un bue che si voglia torcere prendendolo per le corna.

L' assetto dell'S 79 varia impercettibilmente mentre la terra « precipita » verso di noi.

Urlo «Tira », e Fantuzzi, scosso dal fidente torpore, si aggrappa al suo volantino giusto in tempo.

L'S 79, a velocità rabbiosa, sfiora l' erba del prato e poichè, per qualche attimo, insistiamo a tirare, inizia una veloce cabrata, come a voler ripetere la figura; me ne accorgo quando siamo gia a trecento metri.

Restituisco il volantino e meccanicamente porto la mano alle manette: quella di sinistra è al minimo, le altre due al massimo.

Sento la fronte imperlarsi e le palme delle mani bagnarsi di sudore.

Atterro quatto e mogio come un allievo al decollo. Faggioni mi attende rosso in viso.

«Che bisogno c'era di fare il bullo? Volevi incantarmi?»

Cerco di chiarire, ma è troppo in collera.

«Visto che ti senti già professore, da oggi evita di chiedermi consigli, te ne do soltanto uno ancora: ricordati che con te c' e l'equipaggio che non vuol crepare per le tue fesserie. »

Si allontana infuriato ed io non fiato, pensando che è meglio attendere che gli sbollisca l'ira: andrò da lui la sera e gli spiegherò come sono andate le cose.

Ma nel pomeriggio Faggioni parte per Reggio Emilia per ritirare un altro S 79 e lo rivedrò solo dieci giorni più tardi in Sicilia.

La sera Graziani mi prende sotto braccio:

«Faggioni mi ha raccontato tutto; premetto che non ti faccio rapporto perché è la prima volta ho l' occasione di parlare con te di problemi di lavoro e perchè Buscaglia se la prenderebbe anche con Faggioni che ha avuto la debolezza di volerti insegnare cose che non servono a fare la guerra. »

Posso spiegargli tutto con calma e incontro la sua piena fiducia.

«Meglio così, pero ricordati che questi "esperimenti" non servono a fare la guerra. Nei prossimi giorni allenati con il tuo equipaggio, vedi di amalgamarlo e di conquistarne la fiducia: soltanto allora potrai prender parte ad azioni di guerra con la probabilità di successo e anche di riportare a casa la pelle. »

Come una confessione dopo un periodo scioperato, questo colloquio umano e semplice con il mio comandante, mi rasserena.

Mi dispiace soltanto che Faggioni sia partito con la convinzione che abbia voluto fare una bravata.

 

Il gruppo Buscaglia

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tunisia.gifCom.te Luigi Gorrini

 

Sarebbe facile, parlando di un aviatore, dire che fin da ragazzo aveva desiderato volare.

Ma non è cosi; a Luigi Gorrini gli aeroplani non interessavano.

Non si divertiva nemmeno a far volare quei piccoli aerei di carta che i suoi compagni di scuola costruivano con i fogli di quaderno e che volteggiavano in eleganti figure compiendo, entro certi limiti, tutte le manovre di un aeroplano vero.

A Fidenza, Pietro Gorrini, suo padre, aveva aperto un'officina meccanica, e lui passava le ore più belle della sua fanciullezza rovistando alla scoperta di viti, bulloni e pezzi inutilizzabili che raccoglieva e montava dando al tutto una forma che potesse somigliare a una motocicletta immaginaria, imitandone il rumore con la bocca.

***

Si era abituato a mangiare velocemente per finire prima dei familiari e poter cosi andare in officina.

Una volta, sapendo che il padre si sarebbe trattenuto in casa per il consueto sonnellino pomeridiano, si impossesso della Guzzi e, attraverso strade secondarie, si porto sulla via Emilia in direzione di Alseno (un borgo in provincia di Piacenza ove e nato, e non molto distante da Fidenza).

Dopo aver percorso due chilometri, incontrò due motociclisti della Milizia Stradale, che, vedendo un ragazzo in calzoncini corti, alla guida di tanto veicolo, gli intimarono con la mano di fermarsi.

Ma il gesto ebbe per lui lo stesso effetto che può avere per un corridore il segnale di partenza in una gara motociclistica.

Perciò, via a tutto gas, inseguito dalla pattuglia in un polverone indescrivibile.

Buttatosi sulla strada di Vemasca - Bardi che portava a Castelnuovo Fogliani, si diresse a Scipione, sempre tallonato dai militi che non riuscivano ad accorciare le distanze, e giunse presso il torrente Stirone. Ma qui, mentre si aspettava un ponte su cui transitare, si trovò davanti una striminzita passerella di legno costruita per il passaggio dei pedoni. Senza esitazione si diresse sul legname traballante, e con un miracolo di equilibrio si portò sull'altra riva dove prosegui su per i tornanti verso Scipione alto.

In una curva si volse a guardare in basso verso i suoi inseguitori.

Essi erano Ia, fermi davanti a quelle tavole ballerine, su cui non osavano passare.

 

Gorrini compì il primo volo il 15 dicembre bordo di un CR20, che pilotò come solista dopo soltanto tre ore e quarantacinque primi.

Per conseguire il brevetto esegui voli per complessive 25 ore come solo pilota a bordo.

La facilità con cui sapeva adattarsi ai comandi di aeroplani diversi coordinando i propri movimenti a seconda delle caratteristiche delle macchine,lo aveva fatto apprezzare non soltanto dagli istruttori, ma gli aveva fatto guadagnare anche la simpatia degli altri allievi benchè fossero tutti del corso precedente al suo; tanto più che, quando si trattava di combinare qualche scherzo, non si tirava mai indietro.

 

Ma se questo ragazzo era cosi terribile a terra, non lo era di meno quando si trovava per aria; e ben lo potrebbero dire quei turisti che mentre stavano godendosi una gita in mare su una barca a vela al largo di Manfredonia, si erano visti salutare troppo da vicino da due CR.20 tanto che temendo di venire investiti dagli aerei, avevano preferito gettarsi in mare.

Ma uno era rimasto in piedi sullo scafo, e aveva indirizzato un saluto non molto riverente a Gorrini che in quel momento stava cabrando.

Il pilota lo aveva visto benissimo, e con una stretta virata era tornato indietro ed aveva puntato sulla barca cosi basso che, nella richiamata, aveva agganciato la vela con il pattino di coda, e l'aveva letteralmente strappata dall'albero.

Sulla via del ritorno, Scarrone aveva cercato in ogni modo di richiamare la sua attenzione ma inutilmente, perchè Gorrini, credendo che lui si complimentasse per la bella esibizione, sorrideva divertito.

Se ne accorse soltanto dopo l'atterraggio e dopo che l'istruttore, ostentando la più grande indifferenza, gli aveva chiesto:

«Allora, e andato tutto bene?»

«Si»

«A che quota hai volato ?»

«A mille metri»

«…E chi ha steso quella biancheria a mille metri ?»

L'istruttore sapeva molto bene quali potevano essere le conseguenze per il suo allievo se il fatto fosse stato conosciuto dal coman ante, e si incarico personalmente di far sparire la vela mantenendo il più rigoroso riserbo.

****

Gorrini venne affidato alle cure del Serg.Magg. Bortolotti e del Serg. Magg. Ruzzin che era uno spericolato acrobata già ricco dell'esperienza di guerra acquisita nei cieli di Spagna; addestratissimo sotto ogni aspetto, si poteva quasi dire che per lui era più difficile andare a piedi che andare per aria.

Da Ruzzin, Gorrini apprese i primi trucchi del mestiere, l'arte di giostrare per tenersi in coda all'avversario e trovarsi sempre a quota superiore, anche se di solo cinque o sette metri, per assicurarsi il più grande vantaggio in combattimento.

Alle lezioni di finta caccia spiegata a terra, facevano seguito le prove di finta caccia in volo dove tutte le manovre erano rivolte allo scopo di mantenere la posizione di coda mentre l'avversario doveva cercare di svincolarsi.

Una volta Ruzzin lasciò che Gorrini gli si ponesse alle costole, poi tirò su in cabrata inseguito da lui; subito dopo tolse improvvisamente motore e si rovesciò.

Gorrini che gli era sotto, se lo vide cadere addosso come un masso e si buttò in picchiata per evitarlo trasformandosi cosi da inseguitore in inseguito.

«E' un trucco che riesce coi pivelli» gli spiegò dopo.

«Invece di picchiare, avresti dovuto proseguire meno cabrato per portarti fuori dalla linea della mia caduta.

In questo modo saresti rimasto in quota, e mentre io avrei dovuto per forza continuare a cadere, tu avresti potuto approfittarne per picchiarmi addosso.»

Erano le prime malizie del duello aereo, che dovranno riuscirgli utili in seguito, quando si tratterà di porre in gioco la vita stessa.

 

Tratto da Vespa 2 – 85° Squadriglia

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Primo scontro a fuoco

Il 15 giugno tre gruppi da caccia partirono per un'azione combinata di mitragliamento su aeroporti della Provenza.

Il 150° Gruppo attaccò alle ore 13 il campo di Cuers Pierrefeu, mentre alla stessa ora il 23° Gruppo proveniente da Cervere eseguì un attacco al suolo sul campo di Cannet des Maures.

Il 18° Gruppo proveniente da Albenga si era intanto disposto a copertura.

Il sergente Gorrini volava come secondo gregario del capitano Anelli; più avanti si trovava il maggiore Vosilla con due gregari della 83a squadriglia: il maresciallo Francesco Colombo e il sergente maggiore Eduo Parmigiani.

A terra, il mitragliamento era iniziato.

La contraerea reagiva senza riuscire a disturbare l'azione.

Gli aerei francesi cominciavano a esplodere e ad incendiarsi, e dense colonne di fumo si levavano lente verso il cielo.

Nel momento in cui Gorrini stava osservando lo svolgersi dell'attacco al suolo, due Dewoitine 520 uscirono come fulmini dalle nubi, e con due precise raffiche incendiarono i caccia di Colombo e di Parmigiani che si trovavano circa sulla verticale della costa.

Fece appena in tempo a vedere aprirsi un paracadute, poi un altro; ma subito dopo dovette badare a se stesso perchè altri Dewoitine, in sezioni di due, attaccarono la formazione italiana buttandosi in mezzo agli apparecchi che subito si allargarono per impegnare combattimento. Era giunta l'occasione di mettere in pratica tutto il repertorio dei numeri di acrobazia tante volte provati.

Ma il cielo era pieno di aerei: una settantina dei due gruppi in azione, più quelli nemici che non c'era tempo di contare.

Trovandosi più allargato nella formazione, venne preso di mira da una raffica che sfrecciò davanti al muso del suo aeroplano.

Da che parte doveva difendersi?

Quei Dewoitine erano velocissimi e molto maneggevoli oltre che meglio armati (un cannoncino da 20 mm. e quattro mitragliatrici da 7,5 contro le due mitragliatrici da 12,7 del CR 42). Attaccavano da tutte le parti e ormai era nel bel mezzo del calderone.

La violenza delle manovre che era costretto a compiere impediva l'afflusso del sangue al cervello provocando disturbi alla vista.

Gli italiani avevano lo svantaggio di essersi fatti cogliere di sorpresa, ma dopo il primo momento si erano ripresi.

Qualche aereo sprofondava tirandosi dietro una lunga scia di fumo nero.

Un francese attaccò dal basso l'aereo del maresciallo Bartolini e con una raffica gli apri uno squarcio di cinquanta centimetri nell'ala superiore; ma il CR 42continuava a giostrare come se nulla fosse stato.

Mentre Gorrini stava compiendo una virata, si trovò davanti un Dewoitine che nel corso del combattimento si era portato più basso.

La distanza di tiro era molto favorevole, tanto che riusciva a vedere il casco del pilota dentro la cabina.

Ebbe la tentazione di sparare, ma esitò.

Sentiva che se avesse premuto il pulsante, la raffica avrebbe ucciso il francese che non si era nemmeno accorto di essere a tiro.

In quelle condizioni gli sembrava di commettere un omicidio.

Sensazioni di un istante, ma in un combattimento aereo, tutto è questione di attimi, e cosi il Dewoitine si porto fuori dalla linea di mira.

Quando Gorrini si decise a tirare i suoi primi colpi, l'occasione di riportare la sua prima vittoria al suo primo combattimento era già svanita.

Ma dietro a lui un altro CR 42 teneva d'occhio il francese e gli sparò una lunga raffica.

Le traccianti si infilarono nel Dewoitine che precipitò lambito dalle fiamme.

Poi il carosello rallento il suo ritmo e il combattimento si esaurì.

Le formazioni si raccolsero per il rientro.

Si cercò di contarsi a vicenda, ma non era facile.

Qualcuno dei nostri era andato giù, e Gorrini pensava a Colombo e a Parmigiani che aveva visto scendere col paracadute.

Quasi non voleva credere che non fossero più in volo, ma il pensiero che potessero essersi salvati sembrava consolarlo ogni tanto.

Sotto di lui sfilavano il paesaggio della riviera nella bellezza dei suoi colori e il mare coi suoi nastri di spuma lungo le coste francesi e italiane uguali tra loro, senza gli apparenti confini che gli uomini avevano tracciato sulle carte.

Ma sentiva che l'armonia della natura non aveva significato se doveva essere sovrastata dalla tragedia.

Quando atterrò venne preso da un tremito che non riusciva a dominare.

La visione dei due apparecchi in fiamme non gli lasciava prendere sonno: il cervello rintronava ancora dello schianto delle esplosioni, del crepitare delle armi e del rombo dei motori.

Poco gli importava se in quella azione erano stati distrutti al suolo Quaranta o cinquanta apparecchi nemici.

Quello che lo angosciava erano i cinque italiani che erano stati abbattuti in quella operazione, e in particolare l’incertezza sulla sorte dei suoi due amici.

 

Vespa 2, 85° Squadriglia

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Erano le ore 11,05.

Dopo aver preso quota, Gorrini si pose alla sinistra del tenente Melis comandante la 85a squadriglia, come suo primo gregario.

Ormai si vedevano luccicare i B.17 sempre più distintamente.

Non si notava la presenza di caccia di scorta.

Il suo Macchi C.205 si arrampicava più velocemente e doveva tenerlo a freno per non sopravanzare il Macchi C.202 del suo comandante. Sentiva di potersi lanciare subito all'attacco, e ogni tanto, non sapendo calmare l'impazienza, gli manifestava con cenni della mano il desiderio di buttarsi all'assalto.

E lo fece con tanta insistenza che alla fine riuscì a strappargli un gesto di consenso.

Era lo spirito del cacciatore, per natura portato ad agire secondo la propria iniziativa, che lo faceva sentire entro certi limiti insofferente della disciplina di gruppo, che lo portava a staccarsene per buttarsi all'attacco, ormai immemore delle brutte esperienze precedenti.

Aveva raggiunto la quota di ottomilacinquecento metri, e di lì scelse l'avversario.

Mentre la caccia italiana dirigeva all'attacco di una seconda formazione, egli si lanciò sull'ultimo aereo di destra della prima formazione dei B.17. Le grandi e lunghe ali del bombardiere brillavano d'argento in tutta la loro superficie; solo sull'estremità dell'ala sinistra spiccava la grande stella bianca entro il disco azzurro.

Le armi di bordo stavano orientandosi contro di lui, ed egli si preparò ad attaccare secondo la sua tecnica personale che lo ha reso famoso per i successi conseguiti.

Era l'attacco a tre quarti di muso,che comportava la salita a quota superiore in coda al bombardiere, costretto dalla disciplina di volo a mantenere la formazione.

Il caccia doveva poi sopravanzarlo e picchiare con una rovesciata davanti per dirigersi subito di tre quarti contro il suo muso a destra o a sinistra con un angolo di circa quarantacinque gradi.

Gorrini eseguì la manovra, e quando si trovò in questa posizione, inquadrò bene il nemico nel collimatore, e a circa duecento metri sparò una prima raffica.

I proiettili andarono a segno, ma senza alcun effetto apparente.

Sparò una seconda raffica colpendo i motori di destra che subito si incendiarono.

Tutto accadde nei pochi secondi che durò questo primo passaggio.

Il suo Macchi C.205 era quasi sopra al B.17 e per evitare di esporlo di pianta ai tiri delle mitragliatrici, uscì a coltello sopra la fusoliera dell'aereo ormai condannato.

Le mitragliere dorsali non potevano eseguire la repentina evoluzione, ed egli si trovò in coda inseguito dal tiro delle altre armi che dalla formazione serrata gli sparavano addosso con un volume di fuoco pauroso.

Mentre stava eseguendo la virata per effettuare il secondo passaggio, vide sfilarsi i primi paracadute.

I due motori di destra continuavano a bruciare rigando il cielo con una lunga scia di fumo nero sempre più denso, mentre parte dell'equipaggio si era già posto in salvo.

Il bombardiere continuava però a mantenersi in linea di volo; bisognava abbatterlo ad ogni costo.

Il piccolo aereo da caccia eseguì il secondo attacco mentre centinaia di traccianti gli si tendevano contro come una rete incandescente.

Finalmente, al terzo assalto, dopo una lunga raffica, l'ala di destra fu nuovamente colpita.

I longheroni non ressero allo sforzo, e cedette di schianto come tranciata da una forza irresistibile.

Pezzi di lamiera infuocata furono proiettati in ogni direzione.

L'enorme aereo, non più sorretto dalla portanza dell'ala infranta, si rovesciò sulla destra e cadde in una strettissima vite verticale mentre l'ala, avvolta dalle fiamme dei due motori, cadeva sfarfallando in un movimento di vite piatta impressole dall'effetto giroscopico delle eliche ancora in funzione.

Gorrini scese fino a cinquemila metri per controllare la caduta della sua vittima.

Sperava vivamente di veder aprirsi ancora qualche paracadute.

Quello che più contava era l'avere impedito che il bombardiere portasse a segno il suo carico offensivo.

Questa volta non aveva mirato alla cabina di pilotaggio, ma ai motori, e sperava che quegli aviatori si salvassero.

Il B.17 andava a frantumarsi esplodendo con tutto il suo carico di bombe a circa un chilometro a nord dell'aeroporto di Nettuno.

 

Questo tipo di bombardiere, tra i più grandi che siano stati impiegati nel conflitto.

L'armamento difensivo permetteva di sparare in ogni direzione compatibilmente con l'angolazione di manovrabilità di ogni arma, in modo che un caccia era praticamente esposto alla reazione difensiva da qualunque posizione attaccasse.

I così detti punti morti erano difficilissimi da inquadrare, e in ogni caso, non potevano essere mantenuti a lungo sotto tiro.

Ogni pilota da caccia aveva le sue preferenze circa il modo di condurre l'attacco.

In genere i tedeschi preferivano attaccare in coda, allo stesso livello dei bombardieri, perchè in tale posizione venivano a trovarsi sulle scie dei tubi di scarico dei motori e non potevano essere facilmente avvistati e presi di mira dai mitraglieri di coda.

Gorrini preferiva attaccare nel modo di cui si è detto, perchè col passaggio a coltello sopra il bombardiere, si poneva nella condizione di virare più stretto offrendo il maggior bersaglio proprio quando il tiro incrociato degli altri bombardieri doveva cessare se non volevano

correre il rischio di colpersi a vicenda.

 

L'armamento del suo Macchi C.205, unito all’ esperienza tattica, alla decisione e al coraggio, aveva vinto la «regina dei bombardieri».

La «Vespa 2» aveva saputo pungere nel punto giusto.

 

Ben sapendo che la corazzatura del nemico, e soprattutto il perfetto equilibrio delle strutture portanti del B.17 facevano di questo aereo un formidabile incassatore di colpi, il tiro doveva essere concentrato nell'unico punto dove la Fortezza volante era più facilmente vulnerabile. Il più grande difetto di questo bombardiere era la facilita con cui prendeva fuoco, sicchè il tiro nell'aerea dei motori era sempre il più efficace.

 

L'esplosione provocata dalla caduta del bombardiere fu così violenta che il Macchi C.205 venne scosso dallo spostamento d'aria.

La fiammata della deflagrazione fu subito avvolta da dense nubi di fumo che si allargarono in volute roteando e salendo rapide verso il cielo. Spettacolo insieme tragico e imponente.

Gorrini ebbe appena il tempo di sentire il sapore della vittoria, che venne subito scosso dal saettare di una gragnuola di proiettili traccianti che passarono davanti al suo apparecchio sulla destra e sulla sinistra perdendosi nel vuoto.

Uno dei caccia americani, un Lockheed Lightning P.38 che accompagnava la formazione dei bombardieri in scorta indiretta e che si trovava sopra lo strato di nubi sotto cui volavano i B.17, aveva ricevuto per radio la chiamata di soccorso, e, messosi in caccia, aveva avvistato l'aereo italiano.

Ora gli si avventava addosso sparando con tutte le sue armi: un cannoncino da 20 mm. e quattro mitragliatrici Colt Browning da 12,7.

La scarica colse di sorpresa il nostro pilota che impreco contro se stesso per non essersi guardato alle spalle.

In un combattimento aereo, la salvezza viene spesso dal torcersi il collo a guardare indietro perchè non ci si può mai fidare a credersi soli. Quando uno meno se lo aspetta e il momento in cui viene attaccato.

Ormai non restava che una velocissima manovra di scampo.

Da quel «manico» che è, sapeva benissimo che una picchiata non sarebbe servita a scrollarselo di dosso, avendo il nemico accumulato una maggiore velocità nell'affondata ed essendo troppo vicino.

In certi momenti il ragionamento e l'intuizione sono un lampo in cui l'istinto, l'intelligenza e l'esperienza si compendiano determinando l'azione.

Un rapido rovesciamento per uscire dalla mira dell'avversario e poi, con una veloce cabrata il Macchi 200 fece la barba alle nubi.

Il Lightning gli era però sempre dietro e sparava, sparava in continuazione tallonandolo con quella tenacia che è caratteristica dei piloti da caccia.

Ma Gorrini aveva ormai forato lo strato di nuvole che gli avevano celato l'insidia e che ora gli offrivano la salvezza.

Adesso doveva contare unicamente sul volo strumentale badando soprattutto all'assetto di volo dell'apparecchio.

Non è difficile, durante il volo nelle nubi, trovarsi senza accorgersene, a volare con la testa in giù.

Posta quindi attenzione all’orizzonte artificiale e all'altimetro, attese che il P.38 proseguisse nel suo veloce volo al di sotto della stratificazione, e poi, uscendone con una stretta virata, riuscì ad avvistarlo e a porglisi in coda.

Ora le parti del crudele gioco si erano invertite ed era il Macchi a tenere•sotto il tiro delle sue armi il caccia nemico che, ora picchiando, ora cabrando, cercava di sfuggire ai colpi di chi, fino a pochi istanti prima, avrebbe potuto essere la sua vittima.

Ancora le nubi erano li ad offrire il loro soffice rifugio, e il caccia americano vi puntò deciso.

Gorrini, dietro, come un segugio che abbia addentato la preda e non la vuole mollare, lo tenne sotto tiro fino a che una esplosione non segnò la fine del caccia nemico che andò a cadere presso il lago di Nemi.

Con il combattimento Vespa 2 si era completamente staccato dalla formazione dei bombardieri.

Si trovava solo nel cielo, con due vittorie riportate in pochi minuti.

Chiunque si sarebbe sentito soddisfatto.

Chiunque avrebbe provato quel senso di liberazione che subentra alla tensione di un duello all'ultimo sangue.

Ma per il nostro pilota questa sensazione fu di breve durata.

Un rapido controllo dell' efficienza del proprio apparecchio, e dei colpi che ancora gli rimanevano,l'istinto del cacciatore e il pensiero che ancora avrebbe potuto contrastare l'incursione impedendo a qualche tonnellata di bombe di raggiungere gli obiettivi, lo spingevano a cercare ancora il combattimento.

Un veloce calcolo della sua posizione in rapporto alla direzione presa dalle Fortezze volanti, gli diceva che avrebbe potuto porsi con successo all'inseguimento.

La velocità di un caccia è sempre superiore a quella di un bombardiere. Se si considera che la massima velocità di un B.17 era di circa cinquecento chilometri, mentre quella del Macchi C.205 si aggirava sui seicentocinquanta, si comprende come fosse possibile riprendere il contatto balistico.

Infatti, tra Sulmona e Avezzano, Gorrini avvistò nuovamente i bombardieri, e mentre prendeva il vantaggio della quota, osservo lo spettacolo pur sempre maestoso ed esaltante che offriva l' ordinata formazione degli aeroplani che procedevano regolarmente intervallati, dondolandosi sospesi nell'aria, sospinti dalla potenza dei loro motori.

Egli scelse il suo nuovo avversario.

Era l'ultimo aereo di sinistra.

E' facile immaginare la sorpresa degli aviatori americani che poco prima avevano visto precipitare il loro gregario di destra ad opera di quello stesso italiano così ostinato che non esitava a buttarsi da solo contro la barriera di fuoco delle micidiali armi di una formazione in volo serrato.

L'allarme, all'intemo del B.17 fu dato probabilmente dal mitragliere di coda che, inginocchiato sotto la parte inferiore del grande timone di direzione, aggiustò il puntamento delle sue mitragliatrici binate mentre il mitragliere della torretta dorsale in plexiglas a prova di pallottole stava manovrando il dispositivo elettrico che muoveva la torretta, per orientare le armi automatiche verso poppa e in alto.

Gorrini intanto, col medio e l'indice appoggiati sulla leva di sparo, stava preparandosi al suo nuovo attacco a tre quarti di muso.

Picchiò a quarantacinque gradi sparando sui motori, contrastato dal tiro della torretta e da quello delle mitragliatrici anteriori.

Ma il brandeggiare a mano queste armi di circa centotrenta chilogrammi non offriva molte possibilità ad un tiro preciso, e il Macchi C. 205, benchè fatto segno dal fuoco di protezione degli altri bombardieri, riuscì, dopo avere innaffiato di pallottole il suo B.17, a portarsi fuori tiro col solito passaggio a coltello.

La sua scarica colpì non soltanto i motori, ma penetro anche nella cabina di pilotaggio che non resse al martellamento delle pallottole esplosive.

Avverti un senso di nausea al pensiero che in quel momento poteva avere ucciso, e ancora oggi, nel raccontare questo particolare, la sua voce assume un tono di accorata emozione; ma l'eccitazione e il nervosismo accumulati nel corso del combattimento sostenuto poco prima, non gli avevano consentito di tener conto dei pochi metri che separavano i piloti dai motori.

Quando la raffica di un caccia colpisce la cabina di pilotaggio, dentro succede il finimondo.

Basta leggere le relazioni di volo di qualsiasi pilota che abbia avuto la fortuna di portare a casa l'aeroplano colpito, per avere un'idea della distruzione che devasta l'abitacolo.

Così in quel B.17 dovevano essere saltati quadranti, maniglie, comandi per la pressione idraulica, manometri per l'indicazione del vuoto e della temperatura dell' olio, i regolatori dei turbocompressori, la girobussola, l'indicatore di virata e sbandamento: insomma, tutto il sistema nervoso centrale dell'aereo.

Gli aviatori abbandonarono l'apparecchio.

Gorrini riuscì a contare l'aprirsi di nove paracadute che si sfilarono l'uno dopo l'altro mentre il bombardiere si manteneva ancora in linea di volo. Egli sapeva benissimo che l'equipaggio del B.17 era composto da più di nove uomini.

Perchè gli altri non si buttavano?

La nausea lo assali di nuovo.

La tensione della battaglia, la consapevolezza di trovarsi in zona sconosciuta (con tutto il da fare che aveva avuto non gli era stato possibile verificare la rotta), di essere solo ed esposto al tiro da ogni direzione, facile preda di altri caccia che da un momento all'altro avrebbero potuto accorrere numerosi, erano tutti elementi che non potevano lasciarlo tranquillo.

Rivoli di sudore gli si versarono da sotto il casco e gli occhiali, sulla faccia.

La tuta ne era inzuppata fino agli stivali.

Ad ogni secondo il pericolo aumentava in progressione, anche in rapporto all'autonomia di volo per il rientro alla base.

Ma ancora non voleva desistere.

Quel bombardiere non doveva arrivare sull'obiettivo.

Mentre stava preparandosi al nuovo assalto pensò che forse l'equipaggio si era già lanciato al completo.

Considero che se ancora l'aeroplano era in linea di volo, era possibile che fosse stato innestato il pilota automatico.

Decise così di colpirne il dispositivo.

Ormai nell'abitacolo non poteva esserci rimasto più nessuno, o vi restavano soltanto dei morti.

Puntò dunque risoluto sulla cabina a tutta manetta, e a duecento -trecento metri apri il fuoco.

Altri due paracadute si aprirono, poi la regina dei bombardieri oscillò lentamente dondolandosi sulle ali con eleganza per l 'ultima volta, e da seimila metri inclinò docilmente il muso verso terra acquistando sempre maggiore velocità mano a mano che scendeva di quota, sino a precipitare diritta scivolando verso la sua fine.

Poco più avanti la divisione Goring veniva bombardata.

Ma per Gorrini non era ancora finita.

Docici P.38 della caccia di scorta gli si avventarono addosso da due lati dall'alto: sei da destra e sei da sinistra, con manovra convergente.

Egli sapeva molto bene che se fosse andato via diritto i caccia sarebbero riusciti a stringerlo per la maggior velocità che erano andati acquistando in fase di picchiata.

L'unica manovra di scampo che poteva fare era quella di precipitarsi verso terra.

Le nubi, questa volta erano troppo lontane.

 

Non deve fare meraviglia se anche in questa seconda fase la caccia americana è intervenuta con un certo ritardo.

Ciò rientrava nei rischi di quel particolare sistema di protezione.

Infatti, come si legge nel libro «Il padrone del cielo» di Johnnie Johnson gli equipaggi delle Fortezze volanti richiedevano soltanto uno schermo protettivo a una certa distanza «fuori dal raggio d'azione delle loro armi di bordo, davanti e di fianco alle loro formazioni.

Qualunque velivolo che superasse quello sbarramento veniva considerato nemico e trattato come tale».

Per questo, chi come Gorrini, riusciva ad infilarsi nella formazione, poteva venire a contatto con la caccia nemica soltanto in un secondo tempo perché aveva qualche possibilità di passare inosservato dalla scorta sempre piuttosto lontana.

I mitraglieri non guardavano troppo per il sottile quando vedevano a tiro un aereo non preavvisato:

«prima sparavano e poi cercavano di identificare il velivolo sospetto»,

e nessuno dei piloti ci teneva a far da bersaglio.

Tale sistema di scorta aveva tuttavia i suoi vantaggi consentendo quel maggior campo di manovrabilità che la scorta ravvicinata non permetteva in caso di attacco con formazioni pesanti.

Sotto il tiro dei Lightning, e cioè sotto il fuoco concentrato di dodici cannoncini e quarantotto mitragliatrici, Gorrini buttò il Macchi C.205 in picchiata.

Con un colpo di cloche e di piede, dopo una strettissima spirale diresse l'aereo in picchiata affidandosi alla velocità e alla resistenza delle strutture del suo aereo che cominciò a scendere inseguito da sei caccia dai due caratteristici timoni che davano a questo tipo di aereo un aspetto inconfondibile.

Ma forse la salvezza di Gorrini stava proprio qui: in questa caratteristica del P.38 il cui timone di profondità, teso tra i travi di coda, non poteva reggere alle sollecitazioni di una velocità portata al limite di sicurezza, quel limite certamente superato dal Macchi C.205, contro cui il terreno andava ingrandendosi minacciosamente.

L'aereo era tutto un tremito.

All'urlo del motore imballato a tutta potenza, si aggiungevano le preoccupanti vibrazioni di tutte le strutture.

Il metallo sembrava gemere scricchiolando per il formidabile attrito contro l'aria.

L'indicatore di velocità era bloccato sul massimo e la lancetta vibrava non potendo segnare oltre.

Gorrini, col sudore che gli grondava sugli occhi, non riusciva a distinguere bene; sapeva però di aver superato la velocità di collaudo

La lancetta dell’anemometro sembrava voler saltare dal quadrante. Andò oltre gli ottocento chilometri orari.

Ad un tratto, una secca detonazione accompagnata dal lampo di una fiammata sull'ala sinistra, scosse le lamiere del caccia Italiano.

Il pitota pensò di essere stato colpito.

Era invece accaduto che, per i colpi sparati, il cannoncino da 20 mm. collocato nell' ala, si era talmente arroventato che aveva fatto scoppiare la culatta dell'arma provocando uno squarcio con l'asportazione di parte del bordo d'uscita.

Anche qui la fortuna giuoco il suo ruolo, perchè se fosse saltato il bordo d'entrata, l'attrito dell' aria avrebbe tranciato l'ala per intero.

Nello stesso istante, sia per la scossa dell'esplosione, sia per la violenza del vento della caduta in verticale, il tettuccio della cabina fu divelto e proiettato in coda dove dopo aver rotto l'antenna radio, finì per sbattere contro il timone di profondità che si accartoccio in seguito all'urto.

Nella cabina scoperchiata fu tale il risucchio dell'aria, che la carta di navigazione venne strappata di sotto la gamba destra del pilota trattenuto dalle cinghie del seggiolino.

Egli stava ancora picchiando con la velocità di un moderno reattore.

La terra era ormai vicina.

Volse lo sguardo dietro di se.

Dei Lightning non vi era più traccia nel cielo.

Probabilmente, dopo aver visto la fiamma sull'ala, lo avevano considerato abbattuto, e non avevano voluto correre il rischio di far saltare i timoni battendosi in un cosi folle inseguimento.

La volontà era tutta tesa a riportare in linea l'apparecchio, ma era dubbio che le superfici di governo, ridotte in quelle condizioni, potessero dare una adeguata risposta ai comandi.

Occorreva richiamare l'aereo con dolcezza come quando si deve adagiare un ferito.

Gorrini tolse manetta; di velocità ne aveva fin troppa, e tirò lentamente la cloche verso di se.

I piani di coda, nonostante tutto, si muovevano e l'aeroplano cominciò ad alzare il muso.

La linea dell'orizzonte prese a profilarsi dall'alto del parabrezza e a scendere verso la linea del cofano motore.

Il mare si presentò davanti alla prua dell'aereo, ma l'orientamento era impossibile, e senza la carta topografica, i dettagli del terreno sottostante non potevano esser utilizzati.

I criteri della navigazione a vista non offrivano alcun soccorso in quelle condizioni.

Il carburante era agli sgoccioli.

Le munizioni esaurite.

Stava volando a mille metri di quota, ma su quale zona?

Quale direzione prendere per rientrare al campo?

Considerò che quando era partito da Palidoro aveva il sole di fronte, mentre ora se lo trovava sulla destra; ma questo non era un rilievo sufficiente a fare il punto sulla sua posizione.

Occorreva far quota per aumentare il margine di sicurezza nel caso fosse stato necessario lanciarsi col paracadute o planare per un atterraggio di fortuna.

Piano piano, per consumare il meno possibile di carburante salì a milleottocento - duemila metri, e sebbene vi fossero poche probabilità che la radio funzionasse, tento un contatto con la centrale operativa.

«Campanile da Vespa 2! Campanile da Vespa 2! Rispondete!».

Il richiamo fu ripetuto più volte senza risultato.

«Campanile da Vespa 2!»

Ancora silenzio.

Poi una voce prese a gracchiare negli auricolari.

«Vespa 2, avanti! Qui Campanile».

Per Gorrini era la voce dell' Arcangelo Gabriele venuto a prestargli le sue ali per condurlo a casa.

«Campanile da Vespa 2. Rilevate la mia posizione».

Il pilota ripetè quindi una serie di numeri per mantenere il contatto fonico e consentire così il rilevamento radiogoniometrico.

Dopo uno scambio di dettagli tecnici, gli comunicarono che stava volando sopra Pescara.

Ottenuti quindi i gradi della rotta da seguire, ricevette infine le istruzioni per il rientro.

«Fa tremila metri di quota. Motore a millesettecentocinquanta giri».

Il contatto radio gli infuse nuova fiducia.

Il motore funzionava ancora regolarmente.

Solo i comandi rispondevano meno dolcemente alla pressione della mano sulla cloche e del piede sulla pedaliera, ma l'aereo si lasciava governare.

Eseguite tutte le istruzioni, il pilota fu diretto sulle strisce di Palidoro dove il Gruppo aveva già preso terra da tempo.

L'unica preoccupazione era sulla quantità del carburante rimasto.

Già il «televel» destava qualche apprensione.

Dai tremila metri dove il motore rendeva meglio e consumava meno, Gorrini si era ormai portato a bassa quota per andare all'atterraggio.

I campi, le strade, gli alberi sfilavano sotto di lui confondendo i loro colori come macchie variopinte su un nastro che scorreva veloce.

Erano gli ultimi momenti in cui la tensione ritornava a mordere.

Ogni attimo era vissuto nell'attesa di arrivare a terra con l'ultima goccia di combustibile.

Lo sguardo era al tempo stesso sulla pista, sull'indicatore di pressione e di temperatura dell'olio, sull'indicatore di velocità e sul contagiri.

L’orecchio era teso a percepire ogni battito dei pistoni che potevano piantare da un momento all'altro.

L'uomo e la macchina erano corporalmente una cosa sola.

Ad un tratto il motore, come preso da collasso, cessò di battere.

Il disco dell'elica si fece più scuro e si bloccò in una croce con tre braccia tese e immobili.

Ormai non c' era più quota per lanciarsi col paracadute, ed era giocoforza portare a terra l'aeroplano.

Istintivamente il pilota abbasso i flaps e fece uscire il carrello, ma questa manovra fece aumentare fortemente la resistenza opposta dal maggior attrito delle superfici e provocò di conseguenza la diminuzione della velocità, con pericolo di stallo.

Fatti subito rientrare il carrello e i flaps, dopo le imprecazioni di rito, la velocità riprese grazie anche alla leggera picchiata in cui l'aereo era tenuto per sfruttare l' efficienza aerodinamica.

A motore spento la macchina si era trasformata in un veleggiatore del peso di tremilaquattrocento chilogrammi.

La situazione era critica, ma c'erano ancora fondati elementi di speranza.

Attorno a lui il silenzio era rotto dal sibilare dell'aria che s’infilava nell'abitacolo e che lambiva l'aereo come a volerlo sostenere ad ogni costo.

«Ce la farò, ce la farò» seguitava a ripetere a se stesso.

Ma ecco, vicinissimi ed inaspettati, gli si pararono davanti i fili elettrici della ferrovia che correva nei pressi del campo.

Il passaggio era obbligato e l'apparecchio era poco più di una freccia che doveva seguire una traiettoria.

C'era solo un'alternativa: passare sotto quei maledetti fili o saltarli.

Mentre stava considerando che il passarvi sotto sarebbe stato troppo rischioso a causa del breve spazio utilizzabile, i cavi gli si presentarono all'altezza del viso.

Non c'era più ragionamento che tenesse in tale situazione.

D'istinto tirò la cloche al ventre.

Il caccia ebbe un sussulto, e, come scagliato in alto da una folata di vento, passo sopra quel dannatissimo ostacolo per ricadere subito verso terra.

Fuori il carrello e giù gli ipersostentatori.

Le ruote toccarono finalmente il terreno in un modo un pò pesante ma, appena dopo, l'aereo prese a rullare sul campo come in un atterraggio normale.

Gorrini uscì felice dalla carlinga, e il suo fedele Flak, un bellissimo cane siberiano nero che lo aveva accompagnato dalla Grecia, salto festoso sull'ala come tutte le volte al ritorno da ogni missione.

Immediatamente fu circondato dai piloti e dagli specialisti smaniosi di sapere.

Tutti guardavano l'apparecchio, quasi increduli che quella macchina, con un'ala smozzicata, con gli stabilizzatori accartocciati e la fusoliera svergolata, avesse potuto volare.

Soltanto un'ora e mezzo prima era un aeroplano nuovo di zecca, e adesso non era che un rottame da mandare alla demolizione.

«Ebbene, Gorrini, com’è andata?» gli chiese il maggiore Camarda.

«Ho abbattuto due quadrimotori e un caccia».

«Va bene, va bene, però guarda come hai ridotto l'aeroplano!»

Il volo era durato novantacinque minuti.

Furono sparati settecentocinquanta colpi dalle mitragliatrici calibro 12,7 e quattrocentoottanta dai cannoncini calibro 20.

Il dettagliato rapporto del pilota fu accolto con qualche scetticismo.

Il comandante stentava a credere a quanto gli era stato esposto, e non nascondeva le sue perplessità.

Guardò Gorrini con aria mista di sorpresa, incredulità ed ammirazione. Poi, quasi a voler provocare la reazione del suo sottufficiale, gli disse a bruciapelo una battuta che avrebbe fatto perdere la pazienza ad un santone biblico:

«E' impossibile. Non s'è mai visto buttar giù due quadri motori e un Lightning, essere attaccato da dodici caccia e cavarsela in questo modo».

«Comandante, a me è accaduto questo. E poi, gli aerei non sono caduti in mare. Possiamo andare a controllare sul posto», rispose Gorrini lanciando una significativa occhiata in direzione di un Stork Fieseler tedesco che riposava pigramente sul campo.

«Vieni con me» replicò Carnarda dirigendosi verso il piccolo aereo da collegamento.

I due uomini presero posto nell'abitacolo.

Il maggiore si pose ai comandi e decollò immediatamente.

Gorrini, seduto sul seggiolino posteriore, poteva godersi tranquillamente il volo come passeggero.

Quando furono in vista dell'aeroporto di Nettuno videro l'enorme cratere prodotto dall'esplosione del B.17.

«E’ uno, signor maggiore!»

«Va bene, ora scendiamo a vedere».

A terra lo spettacolo era impressionante.

I rottami dell'aereo si trovavano sparsi nel raggio di qualche centinaio di metri.

Certi erano anneriti dalle fiamme, altri luccicavano contorti come carta stagnola e sminuzzati tra le zolle.

Era quasi inutile cercare i resti degli aviatori caduti.

Difficilmente poteva essere rimasto qualcosa di loro.

Tutto sembrava essersi polverizzato nell'esplosione.

I pochi membri dell'equipaggio che erano riusciti a lanciarsi col paracadute erano stati fatti prigionieri dai militi della contraerea, ed erano ancora sotto shock.

Il tempo stava guastandosi, ed era meglio affrettarsi se si voleva arrivare al lago di Nemi presso cui doveva trovarsi ciò che era rimasto del P.38.

La ricerca risultò fortunata perchè appena lo Stork Fieseler toccò terra su un piccolo appezzamento erboso, alcuni ragazzi che erano rimasti nascosti tra i cespugli, uscirono allo scoperto come se giocassero agli indiani, e uno di loro si mise a gridare:

«I motori sono la in fondo! I motori sono la in fondo!»

e indico una direzione guidando sui posto i due aviatori seguito dalla frotta dei compagni eccitatissimi per l'avvenimento.

Qualcuno cercava di spiegare come aveva visto cadere l'aeroplano e scendere col paracadute il pilota che era poi stato catturato dai Carabinieri.

Disceso il pendio di una collina, trovarono un motore e un frammento d'ala.

«E due, signor maggiore!»

«Comincio a pensare che forse valeva la pena di scassare il 205» soggiunse l'ufficiale mentre stavano ritornando sui loro passi per ripartire.

Si trattava ora di ragiungere Sulmona.

Ii tempo stava facendosi sempre più brutto, e intraprendere il volo sulle montagne con un aereo cosi leggero non era una prospettiva molto allettante.

Infatti quando furono sul dorsale appenninico, il vento fortissimo e i frequenti piovaschi resero difficile il governo e l'orientamento, ma anche questa volta tutto finì per risolversi bene.

Gorrini riuscì persino a parlare con il comandante dell'ultima Fortezza volante da lui abbattuta.

Era un ufficiale americano il quale, dopo aver saputo che quel ragazzo biondo di ventisei anni che gli stava davanti, era il pilota Italiano che lo aveva attaccato, volle stringergli la mano complimentandosi per il suo valore e per il suo coraggio.

Tutti sanno con quanta cura i tedeschi perquisissero i prigionieri. Eppure, in quel caso, non si erano accorti che il maggiore nascondeva una minuscola pistola.

L'ufficiale sorridendo si chinò con calma sulla gamba destra, slaccio lo stivale e ne estrasse l'arma offrendola in dono a chi lo aveva abbattuto.

Con questo combattimento Gorrini era diventato famoso.

Il suo nome era comparso sul bollettino di guerra n. 1192.

Il Capo di Stato maggiore dell'Aeronautica lo volle conoscere personalmente.

Telegrammi di congratulazioni gli giunsero da ogni parte.

I quotidiani si occuparono di lui, e così anche alcuni periodici.

Ma ciò che forse gli giunse più gradito furono le lettere di alcuni scolaretti di Sulmona e dei loro insegnanti che esprimevano il desiderio di poterlo avere un giorno fra loro.

 

Vespa 2, 85° Squadriglia

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  • 3 settimane dopo...

048052.jpg ALEKSANDR IVANOVICH POKRYSHKIN

Per gli occidentali Aleksandr Ivanovich Pokryshkin è forse il pilota da caccia sovietico più famoso.

Sotto certi punti di vista enigmatico, era un pilota di caccia estremamente intelligente e fuori del comune, in possesso di una brillante mentalità tattica e delle qualità di un comandante astuto. Pokryshkin era tanto leale quanta franco, qualità che gli valsero un grande rispetto da parte dei suoi colleghi e del pubblico sovietico in generale, ma anche l'ostilità dei capi politici, tra cui Josif Stalin.

Nato il 6 marzo 1913 a Novonikolaevsk (ora Novosibirsk), Pokryshkin si arruolò nell'esercito sovietico nel 1932.

L’anno seguente si diplomò presso la scuola aeronautica di Perm per tecnici dell'aviazione, e dopo un periodo trascorso come meccanico, un incontro occasionale con il grande pilota di caccia sovietico Suprun lo portò a frequentare un corso di pilotaggio.

Pokryshkin si diplomò presso l'accademia aeronautica di Kacha nel 1939.

Nel corso di una carriera operativa che lo vide compiere oltre 600 sortite, Pokryshkin prese parte a 156 battaglie aeree e si vide accreditare 59 vittorie personali, anche se la lista degli assi della V.V.S. di Ivanov Sultanov (1993), basata sulla documentazione sovietica, gli accredita 6 vittorie di gruppo nel suo bottino finale.

Il primo aereo operativo di Pokryshkin fu il MiG-3 e poi egli passo a pilotare i P-39 Airacobra americani, conseguendo notevoli successi durante la guerra aerea sul Kuban nel 1943.

La sua prima esperienza di combattimento ebbe luogo il primo giorno dell'operazione "Barbarossa"; continuò a prestare servizio durante tutta la grande guerra patriottica prima come vice comandante e poi come comandante di squadriglia; divenne in seguito vice comandante e quindi comandante del 16.Gv.IAP.

Nel maggio del 1944 Pokryshkin fu posto al vertice del 9.Gv.IAD e guidò la divisione nelle grandi battaglie aeree che divennero una caratteristica dei combattimenti sia sul Fronte meridionale che su quello settentrionale del Caucaso, come pure sul Primo, Secondo e Quarto Fronte ucraino.

Nel 1948 "Sasha" Pokryshkin terminò il corso dell'accademia militare di Frunze, e nove anni dopo anche quello dell' accademia dello stato maggiore, ricoprendo infine diversi incarichi nella PVO (Comando della Difesa Aerea).

Pokryshkin continuò la sua carriera occupando la posizione di vice comandante in capo della Difesa aerea nazionale, nella seconda meta degli anni '60, e nel 1972 venne promosso al grado di maresciallo dell'aria.

Infine, nel novembre 1981, Pokryshkin "abbandono" gli incarichi operativi, diventando consulente ispettivo assegnato presso l'Ispettorato generale del Ministero della Difesa.

Quattro anni dopo morì in seguito a una lunga malattia.

 

Gli assi Sovietici della II guerra mondiale.

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Mig-3875.jpgLa nascita di un'asso

Negli anni '30, le gesta di Chkalov con i suoi voli da primato, l'enorme pubblicita data al salvataggio dei sopravvissuti del Chezvuskin (operazione per la quale venne creata e conferita per la prima volta, il 20 aprile 1934, l'onorificenza di Eroe dell'Unione Sovictica) e gli esempi proposti da aviatrici che fecero epoca, come la navigatrice (e poi pilota) Marina Raskova, furono di ispirazione per tutti quei volontari che si arruolarono nell'arma più prestigiosa dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

I piloti assegnati ai reggimenti caccia nel 1941 venivano addestrati molto sommariamente al combattimento aereo, mentre tutta l'attenzione era rivolta all'apprendimento delle tecniche di volo in formazione: le dure lezioni della Spagna e della Finlandia furono praticamente ignorate.

Questa situazione non migliorò fino al 1942: fu solo allora che alcuni validi comandanti di caccia ebbero finalmente la possibilità di condividere con i loro inesperti colleghi ciò che avevano appreso nel corso dei combattimenti aerei.

Ancora traumatizzati dalla decimazione loro inflitta dalla Blitzkrieg (guerra lampo) tedesca, iniziata il 22 giugno 1941, i piloti da caccia sovietici che erano riusciti a sopravvivere alle tremende perdite subite, grazie a una combinazione di pura fortuna e naturale abilita, cominciarono ben presto ad accumulare vittorie: i bersagli offerti dalla Luftwaffe non mancavano di certo in quella prima cruenta estate sui Fronte orientale.

L’ influenza dei "veterani" sulle tattiche di combattimento cominciò lentamente a farsi sentire mentre l'aviazione sovietica entrava nel secondo anno di guerra contro la Luftwaffe.

Piloti esperti cercarono di porre rimedio alla totale inadeguatezza dell' addestramento al combattimento influenzando l'istruzione impartita nelle unità operative, e tra la fine del 1941 e gli inizi del 1942, comandanti come Safanov e Savitsky si guadagnarono una solida reputazione come istruttori di piloti più giovani.

Forse il migliore in assoluto fra loro, fu il tre volte Eroe dell'Unione Sovietica Aleksandr Pokryshkin, al terzo posto fra gli assi dell'aviazione sovietica per vittorie conseguite, che aveva combattuto fin dal primo giorno dell'invasione tedesca.

Quando istruiva i piloti novellini sulle tattiche di combattimento, sottoponeva loro a raffica dei casi ipotetici, che avrebbero dovuto risolvere da soli.

All'inizio della grande guerra i piloti da caccia sovietici pilotavano aerei lenti e armati in modo inadeguato, utilizzando tattiche statiche e difensive, elaborate allo scopo di fornire il massimo supporto alle forze di terra.

Il tipo di formazione maggiormente utilizzata in combattimento era quella serrata, orizzontale e a tre aerei chiamata zveno, e a causa di essa gli obsoleti biplani I-IS e I-152 e monoplani I-16 diventavano facile preda dei Bf 109 tedeschi.

Una manovra difensiva costituita da volteggi, chiamata krug samlotev, veniva usata dai piloti della VVS per garantirsi una copertura reciproca, sfruttando pienamente i pregi degli agili caccia I-16 e I-153.

Mentre i piloti sovietici acquisivano rapidamente esperienza, le tattiche venivano modificate in modo da soddisfare l'esigenza di contrattacchi più aggressivi, cosi da contrastare il dominio dei cieli sovietici da parte della Luftwaffe.

Oltre che dalle tattiche inadeguate, i piloti da caccia della VVS erano intralciati anche dalla scarsa familiarità con i loro velivoli.

Per esempio, durante i primi 18 mesi del conflitto, l' addestramento operativo sul proprio aeroplano era limitato a un'ora o due sullo Yak I o sui LaGG-3, e i piloti che avessero avuto dieci ore di addestramento sul proprio aereo prima di essere abilitati al volo operativo erano una minoranza.

Per questa motivo non costituì una sorpresa l'alto numero di perdite fra i nuovi piloti nelle squadriglie, che comportò poi un ulteriore carico di lavoro per le riserve di aviatori e aviatrici esperti che riuscirono a sopravvivere a quella iniziale carneficina.

Questa situazione non era più tollerabile e perciò, parallelamente all'insegnamento individuale impartito ad hoc dai veterani al fronte, notevoli sforzi vennero compiuti dallo stato maggiore della VVS per migliorare innanzitutto l'efficienza globale in combattimento.

Il perno attorno a cui ruotavano queste nuove tattiche era rappresentato dall'adozione di nuovi tipi di formazioni aeree: anche i sovietici seguirono l'esempio delle altre aeronautiche nazionali volando in coppie.

Il 14 settembre 1942 fu ordinato alle divisioni da caccia di creare delle coppie, o "cacciatori", per pattugliare in prossimità degli aeroporti nemici e intercettare gli aerei in fase di decollo o di atterraggio. Qualche tempo prima, quella stessa estate, era stata usata per la prima volta in azione contro il nemico la picchiata verticale ad alta velocità, in conformità a un'ordinanza emanata il 17 giugno che suggeriva ai piloti della VVS di sfruttare il vantaggio dell'altezza quando si impegnava in combattimento la Luftwaffe.

Durante la battaglia di Kharkov, nell'estate del 1942, nacque la formazione dell' etazherka ("scaffalatura" o "mensola").

Questa tattica prevedeva che coppie di aeroplani volassero a quote diverse e a una certa distanza fra loro: il 16.Gv.IAP fu il primo a utilizzare questa nuova tecnica.

In questa estratto, Pokryshkin descrive la prima volta in cui impiegò la etazherka, sui Kuban, nella primavera del 1943:

Il comandante del reggimento mi ordinò di guidare una sortita di sei caccia per ripulire lo spazio aereo in cui operavano i nostri bombardieri.

Il gruppo era composto da giovani piloti, e così io volevo che la missione fosse per loro anche un esempio pratico, da un punto di vista tattico.

Dopo aver formato la nostra «scaffalatura» di tre coppie, passammo al setaccio velocemente l'area in cui si trovavano i nostri bombardieri.

I piloti del mio gruppo mantenevano una formazione serrata, seguendo ogni mia mossa.

Apparvero dei Me 109.

«Lasciateli perdere», avvisai via radio.

Volevo che ogni azione avesse la massima comprensibilità per i miei ragazzi.

Dopo aver fatto passare i Me 109 (non costituivano alcuna seria minaccia per i nostri bombardieri, che non erano ancora a portata di tiro), attaccai all'improvviso l'aereo numero uno, che faceva parte di una delle coppie nemiche di testa, con un «colpo del falcone» (in russo sokoliny udar, era un attacco a sorpresa condotto con una picchiata quasi verticale).

Il suo gregario, vedendo levarsi delle fiamme azzurre dal caccia del suo comandante, pensò bene di ritirarsi.

Uno dei nostri piloti azzardò il suo inseguimento, il che, a prima vista, poteva sembrare un'ambizione legittima.

Questi, comunque, si ricordò subito che, solo in caso di estrema necessità e soltanto a un mio preciso segnale, un gregario poteva intraprendere un'azione offensiva, e perciò rientrò subito nei ranghi.

Il suo compito, in questo caso, era di coprire il suo numero uno, osservare e valutare la situazione intorno a lui, tenendosi pronto per qualunque evenienza.

Questa disciplina nel combattimento permise la continuazione della nostra lezione.

Un gruppo di caccia nemici si lanciò all'inseguimento dei nostri bombardieri mentre si stavano ritirando dal loro bersaglio, avvicinandosi a noi.

Era impossibile attendere, come avevamo fatto prima.

Detti l'ordine via radio : «Attaccate».

Scendemmo in picchiata e il nemico ruppe la forrnazione.

Io abbattei un gregario e la nostra seconda coppia ebbe la meglio sul suo comandante.

L’esempio pratico aveva funzionato.

Vennero elaborate anche altre manovre in combattimento.

Ancora Pokryshkin:

"Quando scortavamo dei bombardieri, il nostro reggimento attuava una tecnica chiamata nozhnitsy (forbici).

Essa consisteva essenzialmente in questo: una coppia (o alcune coppie) di caccia che scortavano i bombardieri si davano il cambio avvicinandosi e poi allontanandosi l'uno dall'altro senza perdere velocità, dandosi in tal modo reciproca copertura.

Allo stesso tempo i piloti potevano tenere sotto controllo un'ampia zona dello spazio aereo.

Se si illustrasse lo schema di volo con un diagramma, questo avrebbe l'aspetto di una serie di otto incatenati.

La tecnica più disperata adoperata in un duello aereo da qualsiasi aviazione militare nel corso della guerra in Europa fu lo speronamento (taran), adottato inizialmente dalla VVS nei giorni bui del 1941-42.

Quest'ultima conosceva in sostanza tre modi diversi per eseguire un taran, e cioe:

1) Attaccare di coda, affondando l' elica dell' aereo sovietico nei piani direzionali dell'aereo nemico, che con il timone verticale e/o quelli orizzontali danneggiati si sarebbe schiantato al suolo.

2) Speronare con un'ala i piani di¬ezionali dell'aereo nemico, o sfiorare (a bassa quota) con la propria ala quella dell'avversario, così da fargli perdere il controllo.

3) Dirigere direttamente l' aereo contro il nemico: questa tattica finale era adoperata soltanto come extrema ratio.

 

Gli assi Sovietici della II guerra mondiale.

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mig3_fs_11.jpgMiG-3

Primo caccia dell'ormai famoso studio di progettazione Mikoyan-Gurevich a operare con successo al fronte, il MiG-3 era un apparecchio molto complesso da pilotare in tempo di pace e a maggior ragione in combattimento.

Uno dei piloti che fu mandato a combattere a bordo di un MiG-3 fu Aleksandr Pokryshkin, che descrisse sinteticamente il caccia con queste parole:

«Mi piacque subito.

Lo si sarebbe potuto paragonare a un vivace, focoso cavallo: in mani esperte correva come il vento, ma se ne perdevi il controllo finivi sotto i suoi zoccoli».

Il mezzo impiegato da Pokryshkin il 22 giugno 1941 era uno dei 1.289 esemplari del modello che erano stati consegnati alla VVS già all'epoca dell'invasione.

Anzi, esso fu il più prolifico dei tre caccia della nuova generazione allo scoppio della guerra, e se a metà del 1941 rappresentava soltanto il 10 per cento della forza al fronte, questa cifra era salita al 41,2 per cento entro la fine dell'anno.

Essenzialmente una versione perfezionata in tutta fretta del MiG-1, il MiG-3 era stato il risultato di un lavoro di progettazione condotto da Artem I. Mikoyan e Michail Y. Gurevich, ex componenti del gruppo di progettisti di Polikarpov, all'OKB (Studio di Progettazione Sperimentale).

Se Mikoyan e Gurevich erano i direttori del progetto, esso coinvolgeva altri specialisti: i progettisti Brunov, Andriyanov e Seletsky e l'aerodinamico Matyuk.

Dopo una riunione del gennaio 1939 al Cremlino, ancora una volta presieduta da Stalin, nel corso della quale furono emanate le nuove specifiche per gli aerei da caccia, fu creato un nuovo OKB che sarebbe stato diretto da A. I. Mikoyan presso la GAZ (Fabbrica statale di aerei) n° 1 nell'aeroporto di Vnukovo, a Mosca.

lnizialmente denominati I-200, i prototipi del MiG-1 furono guidati da una schiera di piloti collaudatori tra cui A. N. Yekatov, S. P. Suprun, P. M. Stepanovsky e A. G. Kochetkov; anche se Yekatov morì per un incidente causato da un guasto al motore di uno dei primi MiG, gli altri sopravvissero al collaudo alquanto movimentato del MiG-1 e raggiunsero i loro colleghi al1'Istituto Scien¬tifico e delia Ricerca dell'Aviazione Sovietica (NII VVS) nei reparti 401 e 402 IAP, dotati di MiG-3. Anzi, Stepan Suprun e Petr Stepanovsky sarebbero poi divenuti comandanti di questi reggimenti, che dipendevano direttarnente dal Comando Supremo sovietico (VGK): Suprun fu poco dopo abbattuto nei dintomi di Tolochin, presso Vitebsk, e venne sostituito come comandante da K. K. Kokkinaki.

Dal 30 giugno alla fine di ottobre del 1941, il 401 IAP rivendicò la notevole cifra di 54 aerei nemici abbattuti da MiG-3; successivamente il reggimento fu sciolto.

La prima preda di un MiG-3 durante la grande guerra patriottica fu un Domier Do 215 rivendicato dal tenente D. Kokorev la mattina del primo giomo dell' operazione "Barbarossa", seguito poco dopo da uno Henschel Hs 126 da ricognizione che fu abbattuto dalle mitragliatrici del tenente Mironov.

Più tardi, quello stesso giorno, il capitano Karmanov, ai comandi di un MiG-3, rivendicò tre vittorie nel cielo di Kishinev, in Moldavia: tutti e tre i piloti provenivano dal disciolto 401 IAP.

Il 402.IAP di Petr Stepanovsky duro più a lungo del reggimento di Suprun.

Esso fu nel pieno dei combattimenti dall'inizio di luglio: i primi successi toccarono al capitano Afanasij Grigorevich Proshkov, che abbattè un Do 215 a Velikije Luki, e al tenente M. S. Chenosov, che rivendicò la distruzione di un Bf 110 nel cielo di Nevel.

A metà di luglio Stepanovsky fu trasferito dal 402.IAP e nominato comandante della sezione caccia della difesa contraerea del settore occidentale di Mosca, che aveva in linea dieci reggimenti caccia: due di essi, dotati di MiG-3, erano di stanza sull'aeroporto di Tushino.

Molti leggendari piloti della VVS furono "svezzati" in questa sezione caccia, tra cui il futuro pilota collaudatore dell'NII (Istituto di sperimentazione scientifica) Mark Gallai, che avrebbe poi pilotato il primo Me 262 caduto in mani sovietiche.

Durante la difesa di Mosca il MiG-3 fu usato anche come caccia notturno.

Pur non essendo più comandato da Stepanovsky, il 402.IAP continuò ad avere un ruolo significativo negli scontri fra caccia sia diurni che notturni, e per l'inizio di agosto il reggimento era stato annesso alla 57a Divisione aerea mista.

Come componente di questa forza, esso partecipò a operazioni nei cieli di Stara Russa e Novgorod, prima di partecipare all'azione sui Fronte nord-occidentale durante il duro inverno del 1941-42.

Gli ultimi giorni dell'era del MiG-3 videro il 402.IAP attaccare la testa di ponte nemica nella penisola di Taman, all'inizio del 1942.

Con i suoi sfiancati mezzi, che ora cominciavano a mostrare gravi segni di obsolescenza di fronte ai nuovi caccia della Luftwaffe, il reggimento abbandono i suoi MiG-3 verso la fine dell'estate del 1942 e si rifornì di altri modelli.

Il 402.IAP avrebbe continuato a combattere nei cieli di Magnushev, Stargard e Pila, prima di finire la guerra pattugliando il cielo di Berlino a bordo di Yak-9: a quell'epoca i suoi piloti avevano rivendicato più di 800 vittorie.

Venne fuori che l'onnipresente MiG-3 era in grado di operare in tutte le condizioni climatiche estreme che si trovavano nell'URSS, dalle steppe temperate dell'Ucraina sud-occidentale al "deserto" polare che circondava il porto strategico di Murrnansk.

Anche se alla fine i MiG- 3 erano stati ritirati dalle unità operative entro i primi mesi del 1944, questo modello resto in servizio fino alla fine della guerra nei reggimenti caccia della Difesa contraerea (PVO).

Aereo dotato di pregi e difetti, il MiG-3 provocò questo commento da parte di Aleksandr Pokryshkin:

«I suoi progettisti raramente riuscirono a conciliare le caratteristiche di volo del caccia e la sua potenza di fuoco ... i vantaggi operativi del MiG-3 sembravano essere oscurati da certi suoi difetti.

Comunque, questi vantaggi potevano essere indubbiamente essere sfruttati da un pilota che avesse saputo scoprirli».

 

 

Gli assi Sovietici della II guerra mondiale.

 

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Constantin "B?zu" Cantacuzino

Nacque a Bucarest , l' 11 novembre 1905 in una famiglia della nobiltà rumena.

Nel 1933 frequentò la scuola di volo "Mircea Cantacuzino" pagando una somma considerevole per l'epoca, brevettandosi pilota nello stesso anno. Successivamente volò molto in Europa anche come pilota personale del principe G.V. Bibescu.

Nel 1939 fu il vincitore, con un velivolo Bu133, del campionato nazionale rumeno di vola acrobatico.

All'inizio del 1941 diventa capo pilota della compagnia di trasporto aerea rumena LARES, ma poco dopo raggiungere il fronte come pilota da caccia in seno al 53° Gruppo dell'Aviazione rumena su "Hurricane" MK 1.

Dal 5 luglio 1941 al 31 ottobre successivo, quando passò nella riserva ritornando alla LARES, aveva ottenuto 4 vittorie aeree più due probabili. Nel 1943 rientrò in servizio al 7° Gruppo Caccia, equipaggiato con Messerschmitt Bf 109 G, il 26 aprile 1943 al comando del 58° Squadron. In breve tempo (dal 29 giugno al 5 agosto 1943) il suo "punteggio" salì a quota 27 vittorie aeree e il 28 agosto dello stesso anno ricevette la croce di ferro di 1a classe.

In autunno si ammalò e venne ricoverato in ospedale rientrando al suo reparto solo il 10 febbraio del 1944.

Il 15 aprile successivo, con un gregario, attaccò una forrnazione di "Liberator" riuscendo ad abbatterne uno.

Il 31 maggio passò al 9° Gruppo Caccia: a quell'epoca aveva raggiunto 36 vittorie in combattimenti aerei.

Il 6 giugno 1944 fu il primo pilota rumeno ad abbattere un P-51 "Mustang" e , più tardi, due P38 "Lightning".

Il 18 agosto successivo divenne comandante il 9° Gruppo Caccia.

Con l'occupazione sovietica della Romania, dopo l'audace volo in Italia a cui segui l'operazione "Reunion" oggetto di questo articolo, la sua attività operativa si ridusse alquanto.

L'ultimo combattimento aereo lo sostenne il 25 febbraio 1945 quando, in coppia con il tenente Darjan, ingaggiò 8 FW 190 F abbattendone uno. Impegnati nel cercare il punto di caduta dell'avversario per convalidare la vittoria, i due piloti rumeni non si accorsero di due Bf 109 tedeschi, nel frattempo sopraggiunti, che li abbatterono di sorpresa entrambi.

Darjan perse la vita ma Cantacuzino sopravisse allo scontro.

Al terrnine del conflitto, nel maggio 1945, con un totale di 56 vittorie aeree certe più 13 probabili - ottenute nel corso di 608 missioni di guerra contro aerei sovietici, statunitensi e tedeschi - risultò il maggiore asso dell' Aeronautica rumena.

Morì in Spagna il 26 maggio 1958.

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L’ Operazione Reunion

 

Per proseguire nello sforzo bellico, agli alti comandi tedeschi era ben presente l'importanza della Romania quale principale paese europeo produttore di petrolio e, in particolare, l'area di Ploesti che da sola comprendeva otto grandi complessi petroliferi con ben 42 raffinerie.

Il giugno 1942 gli Stati Uniti entravano in guerra contro la Bulgaria, l'Ungheria e la Romania, alleate orientali del Reich.

Per il colonnello statunitense Bonner F. Fellers, distaccato al comando britannico al Cairo, il bombardamento aereo dell'area di Ploesti era da considerarsi d'importanza strategica, ma molteplici erano i problemi legati alla ragguardevole distanza tra le basi alleate e i principali obiettivi.

I velivoli, infatti, decollando dall' Africa Settentrionale avrebbero dovuto compiere un tragitto, tra andata e ritorno, di ben 4.200 chilometri!

La prima missione su Ploesti, effettuata il 12 giugno 1942 , non fu certamente un successo, anche se la propaganda statunitense non mancò di magnificame i risultati.

Era infatti necessario un radicale miglioramento della situazione strategica per poter agire più incisivamente e, in effetti, si dovette attendere un altro anno prima che potesse essere lanciato dagli aeroporti libici un ulteriore e più pesante attacco, l' operazione "Tidal Wave" .

Dopo quel noto raid del 1943, passarono alcuni mesi prima che l’ USAAF, ora massicciamente presente anche in Italia (aeroporti della zona di Foggia), raggiungesse una forza adeguata per sostenere un'impegnativa campagna contro i centri di produzione di Ploesti mentre affrontava altri pesanti impegni sull'Europa centrale.

Tra il 4 aprile ed il 19 agosto 1944, i bombardieri della 15th Air Force colpirono il grande complesso petrolifero 19 volte, tanto che si stimò una riduzione nella produzione di idrocarburi dell'80%, ma le locali difese antiaerei, nel loro complesso, rimanevano assai efficaci, avendo abbattuto nel periodo citato ben 223 bombardieri oltre a numerosi dei loro caccia di scorta.

Fu stimato inoltre che più di 1.100 uomini fra piloti ed equipaggi dei bombardieri e dei caccia fossero caduti in mano tedesca.

Il 23 agosto 1944, la Romania si arrese alle forze sovietiche che, provenendo da est, erano avanzate in profondità nel paese.

In quei giorni, tuttavia, avvenne una delle più strane "avventure" della seconda guerra mondiale.

Tutto ebbe inizio il 17 agosto quando 248 bombardieri B-24 H "Liberator" della 15th AF, guidati in quell'occasione dal Lieutenant Colonel James A. Gunn , comandante del 454th Bomb Group (304th Bomb Wing), raggiunsero l'obiettivo principale della loro missione in territorio rumeno. Poco prima di sganciare il carico bellico, però, quattro degli otto apparecchi in testa al gruppo, fra cui quello del comandante, furono abbattuti dalla Flack tedesca.

Tutti i membri degli equipaggi riuscirono a lanciarsi con i paracadute, ma il colonnello Gunn, come altri, fu subito catturato dai rumeni.

Dopo il formale interrogatorio, fu trasferito in un campo di prigionia a Timisul (Bucarest), dove risultò l'ufficiale di grado più elevato tra quelli presenti.

Nonostante i prigionieri non subissero maltrattamenti fisici, le condizioni generali di vita erano spaventose.

Il 23 agosto, con il diffondersi della notizia della resa, improvvisamente le guardie rumene del campo scomparvero.

Il primo intervento del colonnello Gunn fu per mantenere l' ordine, onde evitare che qualche prigioniero si disperdesse nel parapiglia che ovviamente si era generato.

Al fine di garantire l'incolumità a tutti gli ex prigionieri di guerra alleati, dispose che questi sarebbero rimasti a disposizione nella capitale o nelle immediate vicinanze.

La ritirata tedesca diede però inizio ad un pesante bombardamento di rappresaglia sulla città che si aggiunse al generale terrore per la prospettiva di un'imminente occupazione sovietica.

Con qualche sforzo il colonnello statunitense rintracciò alcuni ufficiali rumeni di grado elevato e, dopo alcuni colloqui, fu raggiunto un accordo che permetteva di riunire tutti gli ex prigionieri in un sicuro e vicino aeroporto, pronti per essere trasbordati.

Poichè un diretto contatto con gli Alleati era impossibile da stabilire, dal momento che mancavano installazioni radio o telegrafi funzionanti, fu organizzato il trasferimento nell'Italia occupata dello stesso Gunn, anche al fine di recapitare alle autorita anglo-americane un messaggio di re Michael di Romania che richiedeva, tra l'altro, l'intervento della 15th AF sulle zone limitrofe alla capitale ancora occupate dai tedeschi.

In breve tempo fu organizzato un trasferimento con un vecchio bimotore, ma, dopo soli venti minuti di volo, il velivolo dovette rientrare per problemi ai motori.

Dopo l'atterraggio, il colonnello Gunn fu avvicinato dal capitano Constantin "B?zu" Cantacuzino, che si offri di portarlo in Italia "alla maniera tedesca", ovvero nella fusoliera di un Messerschmitt Bf 109.

Cantacuzino era comandante del 9° Gruppo da caccia rumeno e aveva volato per la Luftwaffe oltre ad essere un membro della famiglia reale.

Il rischio di un simile volo, che Gunn accettò subito di compiere, non era però lieve.

Se fossero stati abbattuti da aerei tedeschi, dalla Flack, dagli stessi Alleati o avessero avuto problemi al motore, ci sarebbero state comunque serie conseguenze per l' americano, rinchiuso nel retro della fusoliera.

Non essendo disponibili mappe dell'Italia, Gunn ne disegnò una, a memoria, della costa italiana sud-orientale e vi indicò gli elementi per l'avvicinamento alla propria base di S. Giovanni, una delle numerose piste di volo che gli Alleati avevano riattato o realizzato ex novo nella piana di Foggia.

Inoltre, consigliò il pilota rumeno di volare basso per evitare i radar, ma quello, forse per motivi di eccessivo consumo di carburante, insistette per una quota di 6.000 metri, cosa che avrebbe certamente messo a dura prova la tolleranza al freddo e alla scarsità d' ossigeno del povero passeggero occasionale!

L' aereo questa volta fu scelto tra i più nuovi: era un Bf 109 G-6, matricola W. nr. 166133, codice 31 bianco, con appena 7 ore e mezza di volo.

Come precauzione addizionale, a scopo identificativo furono dipinte sui lati della fusoliera due vistose bandiere statunitensi e, mentre ciò era in fase di realizzazione, Cantacuzino trasse Gunn da parte e gli confessò che il piano stava diventando troppo conosciuto in giro, tanto da poter essere compromesso e che, quindi, era necessario affrettarsi.

Appena la nuova verniciatura dell' aereo fu terminata, il pilota rumeno fornì una pesante tuta di volo all' americano e lo aiutò ad inserirsi nella fusoliera del velivolo dal lato sinistro, attraverso lo stretto portello quadrato d'accesso all'apparato radio, che per l'occasione era stato rimosso.

Bloccato il portello, decollò quindi immediatamente: erano le 17.20 del 27 agosto.

Dopo due ore e mezza di volo svoltosi senza incidenti, attraversato l'Adriatico e raggiunta la costa italiana, atterrarono indisturbati sul campo pugliese di S. Giovanni di Foggia.

Dapprima vi fu qualche incomprensione fra gli statunitensi e il pilota rumeno, nonostante questi cercasse di spiegare in un fluente inglese la particolare situazione, ma alla vista dell'ufficiale americano che usciva con qualche affanno dal velivolo, tutto si risolse al meglio fra saluti e abbracci cordiali.

I due ufficiali furono subito trasferiti al comando della 15th Air Force a Bari dove le autorità militari statunitensi conobbero l'esatto numero degli aviatori già prigionieri e presenti in Romania.

Riponendo poca fiducia nella pronta collaborazione dell'alleato sovietico, quella stessa notte furono pianificati i richiesti bombardamenti sugli aeroporti ancora in mano tedesca vicini a Bucarest, mentre all'evacuazione dei prigionieri si sarebbe provveduto con dei bombardieri quadrimotori B-17 "Flying Fortress" rapidamente adattati al trasporto di personale.

L' operazione fu denominata "Reunion" e si concluse con un pieno successo in pochi giorni, nella migliore tradizione statunitense di compiere sempre ogni sforzo per il recupero dei propri aviatori.

In sole cinque missioni - condotte nei giorni 31 agosto, 1, 3, 6 e 8 settembre 1944 - 1.161 prigionieri alleati furono trasferiti fuori dalla Romania mediante voli-navetta Bari-Palese/Bucarest e quando i russi completarono l'occupazione dell'intero territorio rumeno, nessun militare alleato era più presente nel paese.

L'asso rumeno rientrò in patria il giorno dopo del suo arrivo, a bordo di un caccia P-51 "Mustang" poichè il suo Messerschmitt non potè essere subito rifornito con benzina adatta al suo motore.

Fino al 25 settembre Cantacuzino effettuò alcuni voli di collegamento con l'Italia; poi ritornò al comando del proprio reparto da caccia per combattere i tedeschi in Transilvania.

Quanto al Bf 109 con il quale aveva raggiunto il Foggiano, il velivolo venne messo fuori uso pochi giorni dopo a seguito della bravata di un pilota statunitense che aveva tentato "alla chetichella" di farlo volare.

 

Tratto da Storia Militare, giugno 2004

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031%20Gruppo%20Buscaglia(85dpi)_JPG.jpgCapitano Carlo Faggioni

L'isola di Rodi era la perla del possedimento italiano nell'Egeo.

L'aeroporto di Maritsa, poco distante dalla città, era bastato per il traffico normale fino al 1940, ma allo scoppio della guerra la Regia Aeronautica aveva costruito un secondo campo di volo presso la costa orientale dell'isola, vicino alla penisoletta dove si trovano gli antichi resti della città dorica di Lindos, ai bordi di un uliveto di piante vecchissime che davano olive grosse come prugne: Gadurrà.

Intorno al campo le solite baracche di legno per il personale, le mense, i circoli ricreativi, gli uffici dei reparti e, tra gli ulivi, le piazzole di decentramento per gli aerei.

Il campo di volo era in leggera discesa verso il mare e finiva a pochi metri dalla riva, dall'altra parte stavano colline piuttosto elevate e, quando il vento spirava dall'interno, il decollo a pieno carico puntando alle alture risultava alquanto difficoltoso.

Il possesso italiano dell'Egeo, stretto tra la costa turca e le isole greche, aveva assunto con la guerra una particolare importanza strategica.

La posizione nel Mediterraneo Orientale era di prima linea sia per l'offesa come per la difesa, avendo a tiro Cipro, le coste siriane e palestinesi, il Canale di Suez e Alessandria; vale a dire la zona delle principali riserve petrolifere inglesi, un passaggio fondamentale per alimentare il fronte dell' Africa Settentrionale, la base della Mediterranean Fleet.

Il punto debole del Dodecaneso stava nella sua lontananza dall'Italia, che rendeva complesso e dispendioso il rifornimento logistico.

Nel marzo 1941, l'aviazione italiana schierava negli aeroporti di Maritsa e Gadurrà due gruppi da bombardamento, uno montato su SM 79 e uno su SM 84, e alcune squadriglie da caccia su CR 42 e 32.

Nella vicina isola di Lero erano stanziate le squadriglie della ricognizione marittima con idrovolanti Cant Z 501 e 506.

Reparti dell'esercito e dell'artiglieria contraerea provvedevano alla protezione delle isole; a Lero la Marina aveva dislocato alcune torpediniere, sommergibili e mas.

Comandava l'Aeronautica dell'Egeo il Gen. Ulisse Longo, era Governatore di Rodi e del Dodecaneso l'Amm. Inigo Campioni.

La campagna di Grecia isola ancor più Rodi e vi portò l'intensificarsi delle incursioni aeree inglesi; l'aviazione italiana vi fu rafforzata nell'intendimento di molestare i rifornimenti inglesi al corpo di spedizione in Grecia.

Nell'ambito di questi provvedimenti, lo Stato Maggiore Aeronautica nel mese di marzo 1941 destina a Gadurrà la 281 a Squadriglia Aerosiluranti con quattro equipaggi: Cap. Carlo Emanuele Buscaglia, Ten. Pietro Greco, Giorgio Sacchetti, Giuseppe Cimicchi.

La specialità degli aerosiluranti non esisteva all'inizio della guerra nell'aviazione italiana, e la sua nascita ebbe una spinta un po' precipitosa dalla delusione che, dopo i primi combattimenti aeronavali, aveva colpito le alte sfere militari constatando gli scarsi risultati del bombardamento aereo in quota contro le formazioni navali inglesi. Così, con la fretta imposta dalla necessità, vennero riprese idee precedenti che non s'erano ancora concretate in chiare esperienze. Inutile ripercorrere oggi la penosa via crucis di progetti e tentativi e polemiche negli anni che avevano preceduto il conflitto, inutile tentar di spiegare la lunga ostilità al siluro aereo che, vista in prospettiva, appare semplicemente assurda.

Poichè non si era pensato a progettare e produrre un velivolo per il siluramento, fu necessario cercare fra gli apparecchi già esistenti.

Non c'era molto da scegliere, visto che quell'aereo doveva essere in grado di portare i 900 kg del siluro con una buona velocità e una larga autonomia, e inoltre doveva essere dotato di ottime doti manovriere per un rapido puntamento sul bersaglio e il successivo disimpegno.

Questo velivolo poteva essere solo il trimotore 79 della Savoia Marchetti.

L'aereo era stato nel periodo prebellico l'asso dei primati e dei prestigiosi voli transatlantici, ed era allora, all'inizio della guerra, largamente impiegato nel bombardamento.

La scelta, benchè obbligata, si rivelò buona, anche se il 79 aveva in se due caratteristiche in contrasto col nuovo impiego: anzitutto una mole eccessiva che ne faceva un agevole bersaglio per l'antiaerea e la caccia avversaria, e poi la necessità di un equipaggio di cinque uomini, troppi per il caso, da prevedersi non infrequente, della perdita di apparecchi.

A guerra finita si potè concludere che l'SM 79 era stato un ottimo silurante, cosi come prima si era distinto nel bombardamento, nella scorta ai convogli, nella ricognizione e anche nella caccia ai sommergibili, con una versatilità che non ha visto l'eguale fra tutti gli apparecchi impiegati nei cieli della seconda guerra mondiale.

Gli equipaggi lo apprezzarono e lo stimarono superiore a tutti gli altri aerei che nel frattempo si tentò di adattare al ruolo di siluranti.

Anche gli avversari gli dimostrarono stima, e ne ebbero quella paura che si condensò nel soprannome di «Gobbo maledetto», suggerito dalla marcata protuberanza dorsale dov'era alloggiata una mitragliera Breda Safat 12,7 mm che fece spesso sudar freddo i caccia attaccanti.

Un capo equipaggio che con SM 79 compì la maggior parte delle sue azioni di guerra così lo tratteggia: «Tanto gobbo e sgraziato a terra, tanto aitante e bellicoso in volo. Esso aveva una grinta di rapace e una delicatezza generosa di nobile destriero. In attacco un'aquila, in fuga un gentil beccaccino, in mare un'amorosa materna papera».

Sotto l'impulso della fretta, il 25 luglio 1940 venne costituito a Gorizia un Reparto Speciale Aerosiluranti, al quale nelle settimane seguenti furono assegnati alcuni piloti e specialisti, oltre a due osservatori della Regia Marina.

Il 12 agosto, dopo una preparazione sommaria, cinque aerei partirono per l' Africa Settentrionale: i pochi lanci eseguiti avevano dato un'idea approssimata dei problemi connessi allo sgancio del siluro, al suo infilamento in acqua e al percorso che poteva compiere; avevano anche permesso di fissare qualche norma empirica sulla quota e sulla velocità necessaria per l'attacco.

I velivoli erano gli stessi del bombardamento con l'aggiunta del dispositivo per l'aggancio di due siluri, ma si capì subito che l'aereo poteva portarne solo uno.

Non esisteva alcuna apparecchiatura per il puntamento.

La prima azione fu ispirata dal bisogno di un'affermazione qualsiasi atta a sollevare il morale del fronte interno fino a quel momento alquanto depresso.

Come tutte le azioni improvvisate, non potè avere buon esito.

Il 14 agosto decollarono dalla base di El Adem presso Tobruch cinque velivoli con capiequipaggio i Magg. Dequal e Fusco, i Ten. Buscaglia e Copello, il S.ten. Robone, che attaccarono le navi alla fonda nel porto di Alessandria.

Il lungo volo ai limiti dell'autonomia, la direzione obbligata da nord-ovest per lo sgancio dei siluri oltre il frangiflutti, i bassi fondali del porto costituirono gli elementi negativi per l'azione, che si concretizzò nel lancio di due siluri senza alcun danno per le navi inglesi.

Tre aerei atterrarono fuori campo per esaurimento del carburante e due di questi furono recuperati, l'equipaggio del Magg. Fusco fu fatto prigioniero.

Nessun successo, dunque, ma pure era un inizio e anche la dimostrazione di una volontà.

Buscaglia scrisse più tardi: «Con esattezza forse non si saprà mai ciò che accadde quella notte, si capi però che un nuovo mezzo potente e micidiale era in mano nostra per portare la distruzione e l'annientamento nella flotta mercantile nemica».

Fu principalmente chiaro che i piloti e gli specialisti degli aerosiluranti avevano bisogno di una lunga e complessa preparazione, che doveva essere condotta sulla base di studi adeguati.

Nei mesi seguenti, ai quattro aerei e ai quattro equipaggi fu lasciata una certa liberta operativa.

Su segnalazione dei ricognitori partivano in sezioni di due apparecchi o anche isolatamente; dopo una serie di voli infruttuosi e qualche tentato siluramento dall'esito incerto, si cominciarono a registrare risultati concreti.

Il primo successo fu quello del 17 settembre, quando il Ten. Buscaglia e il S. ten. Robone in sezione silurarono insieme, allargo della costa cirenaica, l'incrociatore KENT che poco prima aveva bombardato Bardia.

Poichè non s'era potuto distinguere quale dei due siluri fosse andato a segno, l'onore del primo siluramento aereo fu attribuito ad ambedue gli equipaggi.

La nave venne colpita a poppa presso le eliche «e assai ardua fu l'impresa di rimorchiare il KENT ad Alessandria», dopo di che l'incrociatore restò in riparazione per dodici mesi.

Il reparto aveva intanto assunto la denominazione ufficiale di 278a Squadriglia Aerosiluranti e s'era imposto lo stemma scanzonato dei quattro gatti arrabbiati sul siluro - due bianchi per propiziare fortuna sugli attaccanti, due neri per mandare iella sugli attaccati - col motto che polemicamente sintetizzava la situazione

«Pauci sed semper immites» che si può tradurre

«Pochi ma sempre aggressivi».

Il giorno 14 ottobre il Cap. Erasi, che aveva sostituito il Magg.

Dequal passato a comandare un reparto di bombardieri a tuffo, attaccò al crepuscolo l'incrociatore LIVERPOOL che scortava un convoglio a sud-est di Creta.

La nave fu colpita nella parte anteriore ed ebbe la prua asportata «proprio a proravia della plancia»; potè essere rimorchiata e rimase ai lavori per dodici mesi.

Anche gli inglesi diedero in questa periodo la chiara dimostrazione dell' efficacia del siluro aereo, ed inflissero gravvissime perdite alla nostra flotta ancorata a Taranto.

Il 3 dicembre Erasi e Buscaglia segnarono un altro punto al loro attivo andando a visitare la baia di Suda nella parte settentrionale dell'isola di Creta.

Gli aerei, arrivando dall' Africa, avevano scavalcato i monti dell'isola ed erano piombati sugli ancoraggi dalla parte di terra.

La via di attacco fu tanto inaspettata che i due siluri avevano già colpito l'incrociatore GLASGOW prima che le navi alla fonda e le batterie di terra aprissero il fuoco contraereo.

L'Amm. Cunningham, principale interessato come comandante della Mediterranean Fleet, commenta: «Ma questo fatto non diminuisce il valore degli attaccanti e l'ottima qualità dei siluri italiani».

Visto che la nuova specialità dimostrava di essere vitale e prometteva altri consistenti successi, il 28 ottobre 1940 veniva costituito sull'aeroporto di Merna (Gorizia) il 1° Nucleo Addestramento Aerosiluranti al comando del Ten. Col. Carlo Unia, col compito di scuola addestramento dei piloti e degli specialisti di volo per allestire nuovi reparti della specialità.

Il nucleo si assunse anche l'impegno di mettere a profitto gli insegnamenti che potevano derivare dall'attività che si stava svolgendo.

Alla fine dell'anno una nuova squadriglia era pronta e veniva destinata ai campi della Sicilia per le operazioni del Mediterraneo Centrale.

Intanto la squadriglia pioniera, quella dei «Quattro gatti», cedeva alcuni equipaggi ai nuovi reparti in costituzione.

La 281a Squadriglia al comando di Buscaglia, promosso nel frattempo Capitano, cominciò ad operare ai primi di marzo 1941 dall'aeroporto di Grottaglie (Taranto) e venne quindi spostata, come gia si è visto, a Gadurrà, dove fu aggregata al 34° Gruppo B.T. (bombardamento terrestre) del Magg. Vittorio Cannaviello, che gia contava nelle sue squadriglie due sezioni di due aerosiluranti ciascuna.

La vita all'aeroporto di Gadurrà si era fatta dura da quando l'osservazione aerea inglese aveva qui localizzato il centro dell'attività che dava tanto disturbo al traffico navale della zona: le incursioni con bombardamenti, spezzonamenti e mitragliamenti si erano fatte quasi quotidiane.

Il collaudo operativo della squadriglia si ebbe alla mattina del 2 aprile in un'azione combinata di siluramento e bombardamento diretta a intercettare un convoglio inglese in navigazione a sud di Creta.

Vi parteciparono due aerei della 281a (Ten. Cimicchi e Sacchetti con l'osservatore Pardini) e una sezione del 34° Gruppo (Magg. Cannaviello e Ten. Barbani) oltre a tre bombardieri in quota.

Cimicchi affondo il piroscafo HOMEFIELD di oltre 5.000 tonn., e tre altri piroscafi furono colpiti, come più tardi ammise anche l'Ammiragliato di Sua Maestà.

Al crepuscolo della stessa giornata, il Cap. Buscaglia attaccò lo stesso convoglio colpendo un grosso piroscafo.

La specialità si stava facendo le ossa, i piloti e gli specialisti

(motoristi, marconisti, armieri, siluristi, elettricisti, montatori) accorrevano numerosi - tutti volontari - al Nucleo Addestramento di Gorizia e al 2° Nucleo presto istituito a Capodichino.

Ai primi di aprile si sparse a Gadurrà la notizia che la squadriglia avrebbe ricevuto il rinforzo di due nuovi aerei coi capi equipaggio Ten. Mario Spezzaferri e Carlo Faggioni, che dovevano arrivare il 5 aprile nelle prime ore del pomeriggio.

Il comandante Buscaglia non conosceva personalmente Faggioni, che arrivava preceduto dalla fama di espertissimo istruttore alla Scuola Bombardamento di Aviano. Cimicchi, che l'aveva avuto compagno alla Scuola di Applicazione di Firenze, ne parlò a mensa come di un pilota insuperabile.

Buscaglia aveva dimostrato a tutti di sapere il fatto suo come aerosiluratore e come comandante, ma sapeva anche di non essere un grande pilota.

Forse pesava ancora su di lui il giudizio negativo col quale un suo superiore, agli iniizi della carriera, lo aveva proposto per l' esonero dal pilotaggio; poi lo scoppio della guerra aveva sanato tutto perchè anche un pilota mediocre poteva servire.

E adesso si trovava a comandare la più attiva tra le squadriglie degli aerosiluranti italiani.

Dovette provare un qualche fastidio nel pensare di trovarsi accanto un asso del volo; il pensiero, segreto ma trasparente, poteva essere: «Vedremo. La guerra è un'altra cosa dalla scuola».

I velivoli di Spezzaferri e Faggioni arrivarono puntuali volando in sezione stretta ala contro ala.

Buscaglia e Cimicchi osservano la manovra che è condotta ad alta velocità portando gli aerei in leggera picchiata fino a sfiorare l'erba del campo per poi prendere quota e scomparire oltre le colline.

La sezione torna ancora e punta fin quasi a toccare gli ulivi, cabra e vira stretta come se fosse un velivolo solo, inizia il planeed escono i carrelli apprestandosi all'atterraggio; è chiaro che lo spettacolo vuol essere il biglietto di presentazione.

Buscaglia non dice parola ma ha i muscoli del viso tirati.

Gli aerei toccano terra assieme; Faggioni, gregario di destra, è forse troppo veloce e tenta la frenata, ma l'apparecchio mal bilanciato comincia a imbardare e gli prende la mano, esce di pista sulla destra dove stanno alcuni caccia CR 42 appena arrivati, con l'ala abbatte e capovolge il primo, investe il secondo sul muso e lo trascina con se facendolo a brandelli mentre la gamba destra del carrello cede, l'ala fa perno e scava il terreno mettendo l'aereo di traverso, le tre eliche macinano un altro biplano.

Buscaglia ha uno scatto incollerito:

«Piloti del genere nella mia squadriglia non ne voglio»,

Quando Faggioni si presenta, pallido e teso, nell'ufficio del comandante, Buscaglia lo investe con parole di fuoco.

Solo dopo che l'ira è un po' sbollita, s'intromette Cimicchi:

«A quel che mi risulta, e il più bravo pilota che io conosca. Dagli modo di riabilitarsi»,

Buscaglia non dice ne si ne no.

 

Tratto da Carlo Faggioni e gli aerosiluranti italiani

Modificato da Dave97
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Buscaglia ha uno scatto incollerito:

«Piloti del genere nella mia squadriglia non ne voglio»,

Quando Faggioni si presenta, pallido e teso, nell'ufficio del comandante, Buscaglia lo investe con parole di fuoco.

Solo dopo che l'ira è un po' sbollita, s'intromette Cimicchi:

«A quel che mi risulta, e il più bravo pilota che io conosca. Dagli modo di riabilitarsi»,

Buscaglia non dice ne si ne no.

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Modificato da Blue sky
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Nato per Volare

I circoli e le mense ufficiali dei campi dell'aviazione militare si assomigliavano tutti nell' atmosfera: quasi sempre vi regnava un'animazione che si poteva senz’altro chiamare chiasso.

La mensa di Gadurrà non faceva eccezione, ma alla sera del 5 aprile 1941 l'irritazione di Buscaglia e l'avvilimento di Faggioni non lasciavano spazio alle chiacchiere, alle solite barzellette e agli scherzi piu o meno vivaci.

Tutti cenarono in silenziosa fretta e ciò fu contro le regole che volevano una festa speciale ad ogni nuovo arrivo.

Faggioni si fermò pochissimo, quel tanto da non passare per maleducato, l'ambiente gli pesava addosso e chiese di essere accompagnato all'alloggio nella palazzina requisita che distava un paio di chilometri dall'aeroporto.

Qui potè andare a dormire, ma non dormì

Gli tornavano alla mente le vicende di quella giornata.

Il yolo era cominciato a Grottaglie, dallo stesso campo dov'era stato allievo ufficiale, e questo gli era sembrato di felice auspicio.

Era un sentimento condiviso dai suoi compagni di volo: il secondo pilota Di Gennaro, il motorista Gaeta, il marconista Capaldi, l'armiere Baioni.

Da Grottaglie a Rodi tre ore e quaranta minuti di volo tranquillo; era l'avvicinamento alla guerra, per la quale tutti su quell'aereo si sentivano preparati.

Poi quel fatto li, l'imbardata, i visi dei compagni pallidi e allibiti. Possibile che tutto debba rovinare per un incidente?

Eppure era un fatto veramente grave.

Preparati alla guerra si, ma non a una brutta figura.

E le parole dure del Comandante avevano un solo significato.

Impossibile dormire.

Cosa diranno ora Di Gennaro, Gaeta, Capaldi e Baioni?

Volontari tutti, doppiamente volontari perchè prima aviatori e poi aerosiluranti.

Avevano fiducia nel loro capo-equipaggio, e invece la manovra è stato un disastro; bisogna tentar di capire, forse ne aveva colpa la gamba del carrello o il freno o ci sarà stata una buca sulla pista, si dovrà controllare domani.

Ci dev' essere una spiegazione a un fatto così enorme, mai successo dall'inizio della carriera.

Sei anni di volo. Sei anni sono tanti per un giovane.

Da quella mattina del 21 giugno 1935 all'aeroporto di Pisa; l'istruttore - tutti ricordano il primo istruttore - era il S.ten. pilota Scotti, un voletto intorno al campo - di ambientamento come si usa dire - appena un assaggio, e si era sentito subito nel suo elemento.

Tutto era cominciato quando gli studenti del Regio Liceo-Ginnasio di Carrara erano stati condotti al teatro Animosi per ascoltare la conferenza di un ufficiale pilota di aviazione.

Per questa era stata necessaria la scappata da casa dopo aver letto il bando d'arruolamenti per ufficiali piloti di complemento nella Regia Aeronautica. Il babbo non avrebbe mai dato il suo assenso.

Carlo, che intanto era passato a Pisa e poi a Siena, mentre aveva il suo da fare al corso allievi ufficiali, riprese i libri di latino e di greco, di matematica e filosofia e di tutte le altre materie del liceo classico, per far contento il babbo e terminare gli studi.

Doppio comando, giro di campo, doppio giro di campo, «decollo» che vuol dire finalmente solo in cielo, salita a 1000 metri, a 1500 metri, a 2000 metri di quota, rettangolo, serie di otto.

Ebbe una licenza, diede gli esami al suo liceo di Carrara e fu promosso. Finalmente, in novembre il brevetto militare, l'aquila con la corona sul petto e il grado di Sottotenente Pilota.

Ce l'aveva fatta!

Che il brevetto militare fosse un quasi niente per un pilota lo capì arrivando al reparto.

Era stato destinato all' 11° Gruppo da Bombardamento, 4a Squadriglia del Cap. Reinero.

A Lonate Pozzlo gli allenamenti s'infittivano giorno dopo giorno e comportavano a volte sei e anche sette voli nella giornata, con l'istruttore o come solo pilota.

Dopo qualche tempo, agli apparecchi da scuola si sostituirono i velivoli da bombardamento SM 81.

Era veramente un'altra cosa.

E’ meraviglioso dominare l'aereo, fare pattuglia di giorno e di

notte, addestrarsi al tiro in caduta, al volo cieco in tendina, eseguire navigazioni su mare e su terra, fare esercitazioni di spezzamento e mitragliamento in picchiata.

I sette mesi di lavoro intenso e senza soste ebbero il loro culmine in un raid del maggio 1936 da Lonate a Furbara e ritorno senza scalo, in formazione con tutta la squadriglia, per un'azione di bombardamento e mitragliamento sul poligono di Furbara.

La navigazione duro 4 ore e 45 minuti e coprì oltre 1.200 chilometri a 5.000 metri di quota.

Già era passato un anno.

E poi il capitolo d'Africa.

Quella si ch'era stata autentica vita di pilota!

45° Gruppo, 22a Squadriglia del Cap. De Geronimo. L'aeroporto era nuovo e bene attrezzato, si volava sulla «vacca» - il trimotore CA 133 -la lenta e fidata «Caprona» tuttofare dal profilo antiquato.

La guerra in Etiopia era ufficialmente finita nel maggio con l'occupazione di Addis Abeba.

In realtà era stato sconfitto e disperso il grosso dell'esercito abissino ma restava da occupare il paese e, mentre una parte delle nostre truppe stava rimpatriando, già cominciavano ad arrivare dall'Italia i primi gruppi di lavoratori civili per mettere mano alle molte cose da fare.

Il reparto si spostò sulla base di Dire Daua per un primo ciclo operativo che allargo le sue azioni nella zona a nord di Addis Abeba, dove la strada tra Dessie e la capitale era fortemente minacciata: spezzonamenti, sorvoli a bassa quota, qualche raffica di mitragliatrice. Appoggio ai presidi di Debra Sina e Debra Brehan, ricognizioni sui monti Ancober e Ierer.

Lui, pivello, dovette cominciare come secondo pilota; c'era tanto da imparare sull'altipiano, dove le condizioni atmosferiche cambiavano facilmente e i temporali si formavano improvvisi e violenti.

Le grandi piogge avevano trasformato il campo in un pantano, ma la «Caprona» se la cavava in tutte le occasioni se il pilota la sapeva governare.

Dopo una pausa, un secondo ciclo di operazioni molto più lungo e impegnativo, intrapreso questa volta come primo pilota capo equipaggio, in appoggio alla colonna Geloso che, finita la stagione delle piogge, riprendeva il compito di occupare la regione dei Galla e Sidama.

La base del gruppo, comandato dal Magg. Ascensi, era prima a Iavello, poi a Imi, o Imei come dicono laggiù, o Hima come sta scritto sulle carte geografiche, in una zona squallida con un clima perfido.

La malaria fiaccava il corpo e deprimeva lo spirito; alla mensa l'antipasto obbligatorio era una buona dose di chinino.

Insetti, scorpioni, pulci , serpenti. Nessuna vegetazione intorno al campo.

Vita primitiva e durissima sotto le tende con un calore d'inferno che si alternava a piogge torrenziali,pronti a decollare in qualsiasi momento anche con gli equipaggi dimezzati dalla malaria e dalla dissenteria: ricognizioni lungo le strade, inseguimento e spezzonamento di qualche nucleo di armati sulle montagne, trasporto materiali, rifornimento ai presidi, appoggio alle colonne avanzanti.

Alla fine dei sei mesi di attività, di nuovo a Mogadiscio, tutti lieti del ritorno in un posto decente, tutti festeggiatissimi e assediati di domande.

Quand'era tornato in Italia, sul libretto di volo stavano elencate più di duecento ore di volo di guerra, e altre novanta dei cosiddetti voli di pace cioè lontani dalle zone calde.

Lo avevano ammesso alla Scuola di Applicazione delle Cascine per il passaggio nel servizio permanente effettivo.

Proprio alla scuola delle Cascine le sue qualità di pilota avevano trovato i più ampi riconoscimenti da parte dei superiori e dei compagni di corso, quelle qualità che l'atterraggio a Rodi aveva cancellato.

Alla Scuola Bombardamento di Aviano aveva fatto l'istruttore per quasi due anni di seguito.

Da lui centinaia di allievi avevano imparato tutto quello che occorre sapere per stare in aria alla guida di un trimotore, e soprattutto a decollare e atterrare in qualsiasi aeroporto o striscia di terra senza scassare.

Ad Aviano aveva incontrato per la prima volta il suo aereo, l'SM 79, ed era stato un amore a prima vista che l'aveva legato a quell'insieme di ferro e di legno dal profilo pacifico in terra, dalla grinta aggressiva in volo, non mezzo ubbidiente ma amico Fedele.

Un amore che doveva durare fino in fondo.

Nel periodo di Aviano era maturato l'evento più importante della sua vita.

Ormai dalla tarda estate del 1939 la guerra, pur combattuta da altri, aveva fatto sentire la sua voce; nessuno poteva illudersi di lasciarla da parte, nel suo avvicinarsi c'era qualcosa di fatale che non poteva essere eluso.

Chiese subito di essere assegnato a un reparto combattente, ma la sua domanda fu chiusa in un cassetto; risultarono tutti vani i suoi tentativi di smuovere il comandante della scuola, che non voleva privarsi di un istruttore di volo tanto capace.

La battaglia per andare in un reparto operativo era durata sei mesi e alla fine aveva ottenuto di essere trasferito al Nucleo Addestramento Aerosiluranti di Gorizia.

Ancora una volta s'era accorto che c'erano molte cose da imparare. L'aeroporto di Merna era un ambiente vivo di piloti entusiasti e smaniosi di attaccare subito col siluro una nave in combattimento. Invece bisognava applicarsi allo studio dei problemi dinamici del siluro in aria e in acqua, alla valutazione dell'angolo «beta» di attacco per far incontrare il siluro con la nave in movimento, eseguire in volo puntamenti in bianco dopo aver considerato velocità e rotta della nave, per finire con il lancio del siluro in esercitazione contro un bersaglio navigante.

Il natante usato per le esercitazioni era la ormai declassata Regia Nave AUDACE, proprio quella che nel novembre 1918 aveva attraccato per prima a Trieste.

L'addestramento era forzatamente affrettato perchè mancava il tempo, e lo Stato Maggiore aveva bisogno di personale da impiegare subito per colmare i vuoti e rinforzare le poche squadriglie già in azione.

A fine marzo Faggioni aveva potuto scegliere il suo equipaggio: 2° pilota M.llo Pasquale Di Gennaro, motorista Serg.M. Nicola Gaeta, marconista 1 ° Av. Giovanni Capaldi, armiere 1 ° A v. Delio Baioni.

E ora si trovava a Gadurrà su un letto che non dava pace, e il sonno non veniva.

E domani?

 

Tratto da Carlo Faggioni e gli aerosiluranti italiani

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Combattendo insieme con Buscaglia, Faggioni aveva assimilato l'attitudine a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà e ai pericoli;

di suo aggiungeva una particolare abilità al pilotaggio che tutti gli riconoscevano.

«Nella mani di Faggioni il 79 diventava un bolide agilissimo e uno strumento di precisione.

Puntava deciso sull'inizio del campo, basso fino a tenerci col fiato in sospeso, e andava avanti così, un po' sotto la linea di volo, che pareva dovesse raschiare il prato o falciare l'erba; chi era sull'apparecchio aveva l'impressione di essere seduto per terra ... ».

Alla squadriglia, Faggioni s'era subito conquistato una sua posizione: Buscaglia se lo teneva sempre vicino e lo consultava in ogni occasione, gli specialisti di volo facevano a gara per trovare posto sul suo aereo, perchè sapevano che alla perizia e all'ardimento accoppiava la necessaria capacità di agire per il bene di tutti.

E tutti gli volevano bene per il tratto sincero e modesto che lo distingueva:

«Certo nella vivacità degli occhi neri e mobilissimi che illuminavano il lungo volto buono e nell'aperto riso della sua bocca grande e schietta c'era qualcosa che colpiva. Ma il meglio non si rivelava: il meglio stava dentro ed era costituito dal suo coraggio, dal suo modo onesto e diritto di pensare e dalla sua lealtà».

 

Un giorno che pare eguale a tanti altri, squilla il solito telefono al comando squadriglia; ci segnala che questa volta è in mare il grosso della Mediterranean Fleet con due corazzate, tre o quattro incrociatori, una decina di cacciatorpediniere. L'avvistamento è a nord-ovest di Alessandria, Lat. 31°17' Long. 29°30'; l'ordine è di decollare tutti.

E infatti partono tutti, cioè i soliti tre: il primo a prendere il volo alle 11,00 è Graziani, poi Cimicchi e infine Faggioni.

I superiori comandi devono assegnare all'azione una grande importanza, perchè alla prima telefonata con gli ordini fa seguito quella personale del Gen. Longo.

E’ anche chiaro che in una missione così vicina alle coste egiziane ci potrà essere l'incontro con la caccia.

Intanto c'e da pensare a un paio d'ore di volo in mezzo alle nuvole nere che ingombrano tutto il cielo dai 500 metri in sù, con un vento teso che fa apparire il mare tutto bianco, mentre raffiche di pioggia fanno ballare gli aerei.

Poco prima delle 13,00 le navi sono in vista e Graziani decide di tenersi allargo aggirando la formazione in modo da effettuare l'attacco da sud: la pattuglia quindi fa un lungo giro finchè s'intravvedono sulla destra le secche di Alessandria.

La manovra si rivela valida perchè lo schienlmento protettivo che le navi minori offrono alle due corazzate è tutto sul lato nord.

I velivoli non sono ancora stati avvistati, volano radenti sul mare, ma quando il capo pattuglia deve cabrare per portarsi alla quota di sgancio, allora scoppia l'inferno e le navi sputano tutto il loro fuoco. Graziani sgancia contro la prima corazzata, non vira per timore di collisione coi gregari e tira diritto tra le due navi da battaglia, che più tardi si saprà essere la QUEEN ELIZABETH e la BARHAM.

Il fotografo di bordo, l'Av. Di Paolo, scatta una foto che diventerà famosa: vi si vede la BARHAM tanto vicina e tanto nitida che sembra di poterla toccare.

L'invidia e le malelingue insinueranno che fosse un trucco fotografico.

Anche Faggioni e Cimicchi lanciano incassando parecchi colpi

dalla contraerea, poi picchiano derapando e via a zig zag tra il fuoco degli incrociatori e dei cacciatorpediniere.

I tre aerei volano più bassi delle murate delle navi, granate scoppiano tutt'intorno e li scuotono riempiendoli di schegge.

Graziani incassa un gran colpo che apre un largo squarcio sull'ala destra, poi un altro sulla metà destra del carrello che fuoriesce dal suo alloggiamento.

Il velivolo si piega verso la parte colpita e scade contro la superficie del mare: il pilota tenta di riportarlo in assetto orizzontale manovrando gli alettoni ma il tentativo non ha esito; interviene il motorista Scaramucci che riduce la potenza del motore di sinistra e da il «+ 100» a quello di destra equilibrando la minore portanza dell'ala. Poco prima di toccare l'acqua il velivolo si riprende e può continuare il volo benchè a velocità molto ridotta.

Il secondo di Graziani, M.llo Di Gennaro, ricorda: «Che volò per circa 600 Km. con tanti danni! Poco motore perchè l'ala sembrava volersi spezzare con quel foro al centro, con il semicarrello destro fuori e la gomma afflosciata.

Dopo due ore e mezzo di volo con una vibrazione continua, uno sforzo enorme di braccia e di piedi per tenere il giusto assetto a velocità ridotta, ma l'SM 79 ubbidisce alla volonta degli uomini...».

Faggioni e Cimicchi aspettano Graziani e lo affiancano per difenderlo in caso di attacco della caccia che, probabilmente per le avverse condizioni atmosferiche, non si fa vedere.

Il ritorno è un duro calvario che va sorbito minuto per minuto, col cuore in gola, con pazienza e con fiducia.

In vista dell'isola di Rodi i due gregari tirano manetta e atterrano per far apprestare gli aiuti d'emergenza.

Graziani si presenta basso sul campo e tocca terra facendo correre l'aereo sul semicarrello efficiente: ma quando smaltisce velocità la gamba colpita cede e l'ala s'impunta sulla pista facendo ruotare l'aereo che striscia sulla pancia in una nube di polvere.

Le ambulanze accorrono ma il loro intervento, grazie a Dio, e superfluo, gli uomini sono tutti salvi.

Gli equipaggi stimano di aver colpito le due corazzate, ma ammettono che la necessità di scansarsi dal tiro contraereo non ha permesso di osservare l'esito dell'azione.

Il servizio di intercettazione radio tedesco di Rodi, avendo captato e decrittato le comunicazioni tra la flotta inglese in mare e il comando di Alessandria, conferma che le due navi da battaglia hanno comunicato di essere state attaccate dagli aerosiluranti e colpite.

Il fotografo Di Paoli sviluppa e consegna una serie di foto che fanno stupire il Governatore del Dodecaneso Amm. Campioni e il Comandante dello Fliegerkorps gen. Geisler.

L'Ammiragliato britannico, anche dopo la fine del conflitto, non ammise mai che in quell'occasione le due navi da battaglia fossero state colpite, e sostenne che i siluri erano passati a breve distanza.

Poichè non consta che l'una o l'altra delle due corazzate sia entrata in bacino per riparazioni, è probabile che questa volta la verità sia inglese.

Ma, qualunque sia stato l'esito, l'azione del 13 ottobre 1941 va ricordata come un fatto di eccezionale coraggio degli aerosiluranti italiani.

 

 

Il 10 aprile era il lunedi di Pasqua.

Mentre gli equipaggi stavano riuniti per la cena, arrivò dall'osservatorio del Circeo la segnalazione che un convoglio di navi da carico con la protezione di numeroso naviglio da guerra si stava avviando alla testa di sbarco.

La cena rimase a meta.

L'accordo con l'aviazione tedesca prevedeva un attacco con bombe in quota un paio di minuti prima dell'arrivo degli aerosiluranti italiani: fu raccomandato di fare attenzione ai palloni frenati che tutte le navi portavano con se per difendersi dagli aerosiluranti che, volando bassi, potevano incappare nel cavo d'acciaio.

«Ricordo quella riunione di volo.

Faggioni fu conciso e preciso come sempre, le ultime parole prima della partenza (accompagnate dal solito pugno scherzoso sulla spalla) furono: "Addosso alle panzone da carico, ma se capitasse per caso, facile e sicura una nave da guerra, non risparmiatela! Una e saremo dei piccoli re!"

Una ne voleva per mostrare che attaccavamo le navi da carico per necessità, ma preferivamo batterci con le navi più armate. In quel momento egli aveva sulle labbra il suo ironico, distaccato sorriso, e ci guardava come se noi stessimo ricevendo da lui un premio: quello di poter combattere.»

Gli aerei pronti per l'azione erano cinque: prima pattuglia Faggioni, Valerio, Pandolfo; seconda Bertuzzi e Sponza.

Alle 22,15 iniziarono i decolli col solito lumino a fondo pista. Pandolfo incappò in una buca e danneggio il carrello per cui dovette fermarsi.

Gli altri quattro si avviarono sulla rotta ormai nota di Orvieto-Viterbo-Civitavecchia-Tirreno-conversione su Anzio.

Sponza fu l'ultimo a decollare; non avendo potuto tenere il contatto con Bertuzzi, raggiunse Faggioni e divenne suo gregario.

Il volo sul mare fu, come al solito, a quota bassissima: i piloti s'erano ormai bene allenati.

Il primo a giungere in zona fu Bertuzzi, che sgancia contro una nave da 5.000 tonn. e potè filare via veloce.

Qualche minuto dopo arrivarono insieme Faggioni, Valerio e Sponza quando ormai l'allarme era generale, i riflettori pettinavano il cielo e i caccia notturni si trovavano in volo.

I tre aerei si aprirono per cercare ciascuno il suo bersaglio, investiti dal violento e preciso fuoco contraereo navale e terrestre.

Si sa che Valerio si buttò con estrema decisione dentro il cerchio di fuoco e ripete più volte l'attacco prima di sganciare il siluro.

Conosciamo tutti i particolari dell'azione di Sponza dalle testimonianze dell'equipaggio.

Di Faggioni sappiamo solo che scomparve, e insieme con lui il secondo pilota Gilardi, il motorista Scaramucci, il marconista Pianticelli, l'armiere Gianni.

A Lonate arrivò un unico aereo, quello di Bertuzzi che, dopo aver superato una vasta zona temporalesca, atterrò con l'aiuto del gonio campale.

L'aereo di Valerio, forse danneggiato durante l'azione, superati gli Appennini sulla via del ritorno incappò nella bufera e si schianto sulle colline presso Medesano (Salsomaggiore); il secondo pilota Jasinski, che era riuscito a buttarsi col paracadute da bassa quota, si salvava rompendosi una gamba.

Il Ten. Copello disse che sul mare di Anzio erano stati recuperati il berretto e la borsa di carteggio di Faggioni.

 

In un suo «Ricordo di Faggioni», lo scrittore e pilota Pagliano che gli fu amico scrisse di lui molte cose e tra l'altro ricordò quel periodo del novembre 1942 quando l'operazione «Torch» nell'Africa Settentrionale francese aveva fatto capire che la guerra era giunta ad una svolta decisiva: «Eravamo alla fine del '42.

Con lo sbarco anglo-americano nei porti dell' Africa Settentrionale Francese e la conseguente creazione di una catena pressochè ininterrotta di basi aeree lungo la costa, l'attività degli aerosiluranti era divenuta quanto mai dura.

Di volta in volta gli equipaggi si assottigliavano; Buscaglia era caduto nella rada di Bougie; ogni uscita ci costava la perdita di qualcuno.

Il morale delle gente non poteva mancare di essere scosso. Avevo parlato con molti aerosiluranti e, incontrandomi con Faggioni, gli riferivo tutto quanto aveva formato oggetto delle mie osservazioni.

«Faggioni ascoltava attento, perchè tutto quanto riguardava la sua specialità lo interessava.

Alla fine, quando gli sembrò che dal complesso dei discorsi che mi erano stati fatti trasparissero soprattutto apprensioni e incertezze sulla continuazione di un'attività che si rivelava sempre più costosa, parlo lui.

«Non aveva l'abitudine di giudicare gli altri e non mi fu mai dato di trovare un elemento così sereno.

Neppure quella volta volle giudicare. Mi disse soltanto che secondo lui gli altri avevano ragione, ma che quando si ragiona troppo si finisce per concludere poco.

"E dura, lo so. Ma sino a che ce la faccio, io continuo così"

«Ricordo che mi si inumidirono gli occhi.

Era già il periodo in cui, più o meno apertamente, si sentiva che qualcosa di molto triste stava maturando.

Era già il periodo in cui la volontà di reazione si andava affievolendo, mentre sempre più palesi affioravano i dubbi e le incertezze.

E quella frase, gettata lì, alla buona, con quel tanto di accento carrarese che la rendeva più spontanea, era come una frustata.

La riferii a tutti; mi pareva una bandiera e un esempio».

Faggioni continuò, come aveva promesso.

Continuò anche quando ormai la guerra apparve irreparabilmente perduta.

E nel momento in cui il governo italiano sanzionò la sconfitta, di fronte al troppo disinvolto cambio di posizione decise che era giusto e necessario continuare; perchè la volontà e l'energia di un soldato devono tendere solo a combattere.

In questa sua azione Faggioni fu veramente una bandiera che sventolò alta sopra i contrasti e le disgrazie di quell'oscuro e triste periodo, fu un grido che risuonò forte ed entrò nelle coscienze e sollevò molti prostrati, che mosse animi sensibili e intrepidi.

Sul suo esempio modellò un reparto di uomini coraggiosi che lo seguirono nel combattimento e infine, dopo la sua scomparsa, adottarono il suo motto:

« …sino a che ce la faccio, io continuo così»

Tratto da Carlo Faggioni e gli aerosiluranti italiani

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