Vai al contenuto

IL MIO NOME E' JONATHAN.


Hobo

Messaggi raccomandati

99 minuti a Entebbe (Simon Dunstan)

 

- “Who Dares Wins” -

Sayeret Matkal: motto.

 

Il Karnaf-Uno prese terra nella notte estiva di Entebbe, come un normale aereo civile. Atterrò in direzione sud-nord.

L’atterraggio fu da manuale. All’ultimo Shani richiamò dolcemente per la flare finale e posò delicatamente le ruote del pesante velivolo sul cemento ancora bagnato dalla pioggia.

La lunghezza della pista permise a Shani di rallentare solo con i freni e senza usare i reverse. Questo permise di non fare troppo rumore inutile.

Pieno d’entusiasmo, Shani cliccò diverse volte sul pulsante radio, per segnalare che l’atterraggio aveva avuto successo, poi spense i due motori interni del C-130, per abbattere ulteriormente il rumore e iniziò ad agire in modo intermittente sui pedali dei freni. Serviva per non surriscaldare troppo i dischi, dato che l’aereo era stracarico.

Le luci del new terminal di Entebbe sfrecciarono sulla destra degli israeliani, mentre il grande aereo decelerava verso nord, fino ad arrivare in fondo alla main runway.

Poco prima dell’estremità settentrionale della pista, sulla destra, Shani cercò il raccordo per la pista obliqua, lo trovò e lo imboccò lentamente con l’Hercules.

A bordo, gli uomini accesero i motori e i fari dei veicoli. Amitzur Kafri ricorda bene che recitò una preghiera per il motorino d’avviamento della Mercedes, poi girò la chiave: stavolta il diesel si accese al primo colpo.

Amir Ofer sulla prima Land Rover mise il colpo in canna nel suo Klatch (Kalashnikov).

 

“Hey! Niente armi cariche a bordo, lo sai!”, lo apostrofò Blumer lì accanto.

“Siamo in guerra”, si limitò a rispondere Ofer senza guardarlo.

 

Tutti misero il colpo in canna.

Il Karnaf-Uno rallentò fino ad arrestarsi sul raccordo. Appena l’aereo fu immobile, gli uomini del Sayeret Tzanhanim saltarono giù subito dalle porte laterali per andare a disporre le luci di atterraggio di emergenza ai lati della pista. Poi si diressero verso il new terminal aspettando il resto della forza in arrivo.

Ora, anche se gli ugandesi avessero spento le luci della main runway, gli aerei che seguivano avrebbero comunque avuto una chance in più.

Anche Shomron, Oren, e altri tre ufficiali della squadra comando scesero e si appostarono ai lati della main runway in attesa dei Karnaf-Due e Tre.

Shomron ricorda:

 

“Era una situazione bizzarra: cinque alti ufficiali israeliani appostati nell’oscurità più completa, circondati dall’erba elefantina, al centro dell’Africa e nel bel mezzo di un aeroporto nemico. Eravamo del tutto soli, avevamo con noi solo i nostri Uzi”.

 

Il Karnaf-Uno intanto era ripartito. Percorse il raccordo, poi girò a destra e fu sulla pista obliqua: era il punto di inizio attacco del Sayeret Matkal. L’Hercules si arrestò per la seconda volta. Shani e gli altri piloti sarebbero rimasti fermi lì in attesa, a motori accesi nel buio, fino alla conquista dell’aeroporto, poi avrebbero portato l’aereo al new terminal conquistato per iniziare il rifornimento. Gli equipaggi dell’Aeronautica indossarono elmetti e giubbotti antischegge, rimanendo al loro posto sul C-130 immobile.

In un attimo, la rampa posteriore fu abbassata del tutto e la Mercedes e le Land Rovers cariche di uomini scesero in velocità.

Una volta a terra, fecero inversione sgommando e svoltando subito a sinistra. In un lampo passarono sotto l’ala destra del C-130, a un pelo dall’elica esterna che ancora girava e corsero sulla pista obliqua verso il vecchio terminal.

Gli uomini si ritrovarono al buio sul suolo africano. Faceva caldo. Era mezzanotte ora locale, l’inizio di domenica 4 luglio.

Amir Ofer racconta:

 

“Ci aspettavamo di vedere leoni, elefanti e giraffe: vedemmo solo una normalissima pista aeroportuale come in ogni altra parte del mondo”.

 

Tuttavia, i grandi formicai che emergevano dal terreno, l’afa e uno strano profumo di fiori, ricordarono a tutti che erano lontanissimi da casa.

Non pioveva più, il cielo era stellato. La luce dei fari delle auto si rifletteva sul cemento bagnato.

Muki Betser ruppe per un attimo il silenzio radio per lanciare il segnale convenuto: regolare i selettori delle armi sul colpo singolo. Erano 30 secondi in anticipo sul percorso previsto: bene.

Si mossero veloci; la Mercedes nera e lucida in testa, le due Land Rovers a seguire in un piccolo convoglio. Tutti con i fari accesi.

Gli uomini a bordo indossavano le tenute da combattimento ugandesi, in tasca il cappellino bianco che avrebbe sostituito a quello d’ordinanza verde una volta all’interno del terminal. Stabilizzarono la velocità sui 60 all’ora, per apparire più disinvolti e destare meno sospetti.

Dopo circa 300 metri svoltarono a sinistra sul raccordo per l’old terminal.

Tutto ebbe inizio rapidamente.

Ai due lati del raccordo comparvero nella luce dei fari due sentinelle ugandesi.

Proprio come all’esercitazione! Pensò Bukhris sulla Land Rover.

Alla vista della Mercedes nera gli ugandesi fecero segnale di arrestarsi. Quello a sinistra si girò e scomparve alla vista. Quello sulla destra si avvicinò camminando nella luce dei fari, poi battè lo scarpone per terra intimando l’alt e iniziò ad alzare il suo Kalashnikov minacciosamente.

A quel punto, Netanyahu prese una decisione fulminea. Disse a Kafri di rallentare, come per fermarsi per l’identificazione, poi ordinò di scartare sulla sinistra per avere una migliore linea di tiro; estrasse la Beretta .22 silenziata e lui, Alex Davidi e Giora Zusman aprirono il fuoco a bruciapelo da una decina di metri. La pistola di Davidi non era silenziata.

L’ugandese cadde, ma il calibro 22 evidentemente non lo aveva ancora ucciso perché ora stava ruotando il suo Kalashnikov per puntarlo sull’auto. Il silenzio notturno fu infranto, il tenente Amnon Peled dalla sua Land Rover fece l’unica cosa possibile: aprì il fuoco sull’africano con il suo Kalashnikov, finendolo.

L’altro soldato ugandese ricomparve subito a sinistra. Invece di ributtarsi di lato nel buio stranamente si mise a correre lungo la pista verso il terminal, rimanendo nella luce dei fari degli israeliani!

Bukhris dalla Land Rover lo eliminò con una raffica della sua pesante GPMG.

A quel punto Netanyahu ordinò di accelerare alla massima velocità verso l’old terminal. Le ruote posteriori della Mercedes fischiarono in una nuvola bianca.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Gli israeliani avanzarono più veloci che poterono, coprendo in pochi secondi i circa 200 metri che ancora li separavano dalla torre dell’old terminal.

I soldati ugandesi posizionati sulla torre di controllo avevano il miglior campo di tiro ed erano pericolosi, per cui Netanyahu ordinò di farsi sotto il più possibile per ridurre l’angolo di fuoco al minimo e complicargli così le cose.

Gli israeliani furono sorpresi di trovare il grande A-300 Air France parcheggiato davanti all’old terminal. Pensavano infatti che fosse in fondo alla pista obliqua [i terroristi invece avevano ordinato a Michel Bacos di spostare l’aereo, forse per tenerci davanti un comizio il giorno dopo, quando pensavano che avrebbero celebrato la capitolazione di Israele, o massacrato gli ostaggi].

Raggiunto il punto di stop ai piedi della vecchia torre di controllo, gli israeliani fermarono le auto. Netanyahu ordinò a Kafri di fermare la Mercedes a motore acceso, poi scese e dette l’ordine di assalto generale.

Gli uomini dell’Unità sciamarono giù dalle due Land Rovers e dalla Mercedes e si mossero verso l’old terminal distante non più di 30 metri da loro.

Si disposero di corsa a triangolo. Muki Betser e Netanyahu in testa.

Si udì un soldato ugandese al piano superiore del terminal gridare:

 

“Maybe the Children of God are coming!”

 

Ma evidentemente il trucco delle uniformi ugandesi funzionava, perchè ancora solo pochi colpi d’arma da fuoco si udivano e il fuoco nemico era erratico e impreciso.

Muki Betser in testa alla colonna sparò per primo a due ugandesi emersi dalle tenebre, poi vide un terrorista (era Wilfred Bose) proprio davanti alle entrate della hall grande.

Gli sparò nell’attimo stesso in cui lo vide, ma quello riuscì a ritirarsi subito dentro la hall, urlando:

 

“Gli ugandesi hanno tradito! Gli ugandesi ci sparano!”

 

Questo confermò a Betser e Netanyahu che il trucco delle false uniformi funzionava eccome (e forse fu l’unico motivo per cui i terroristi non sterminarono subito gli ostaggi).

A quel punto, Muki Betser aveva colmato lo spazio che separava la torre di controllo dall’estremità ovest del terminal. Raggiunto l’angolo del muro si arrestò per cambiare caricatore, ma tutta la forza d’intervento si fermò dietro di lui!

Betser si sporse oltre lo spigolo del muro ed iniziò a fare fuoco sugli ugandesi davanti al terminal uccidendoli.

Netanyahu a quel punto lo superò sulla destra, uscì allo scoperto e gli urlò:

 

“Betser avanti! Betser, avanti!

 

Per un terribile attimo, tutta la forza d’assalto parve incapace di muoversi. I ragazzi esitarono a uscire allo scoperto, come incerti sul da farsi.

Il ritardo anche di pochi istanti poteva causare il disastro completo con lo sterminio degli ostaggi.

Shlomo Reisman della 2° squadra, che si trovava un po’ più in dietro, ricorda vividamente quel momento.

 

“Ci arrestammo ammassati uno sull’altro. Stavamo ripiegati, tesi in avanti nelle uniformi mimetiche, con i raggi dei visori notturni che uscivano paralleli alla canna delle armi”.

 

Goren udì Netanyahu urlare di nuovo: “Avanti! Avanti!”. Poi lo vide scavalcare Betser e superare in corsa l’angolo ovest dell’edificio irrompendo da solo nel piazzale.

Appena gli uomini videro il comandante fare questo si riscossero dal torpore e lo seguirono come trascinati. Il triangolo si riformò dietro Netanyahu che correva sparando. Non era stato che un istante, ma poteva significare morte certa per gli ostaggi.

Nel frattempo, anche Reicher, compresa la situazione, aveva superato Betser. Si lanciarono entrambi verso le due hall, sparando su tutto quello che vedevano.

Yiftah Reicher si buttò con la 4° squadra subito a sinistra nell’entrata della dogana, dove il corridoio e la rampa di scale in fondo a esso conducevano al primo piano.

A quel punto accadde una cosa imprevista. Il sergente maggiore Amir Ofer arrivò come un fulmine stracarico di munizioni. Cercava di riagganciare il suo comandante Amnon Peled, che Ofer credeva essere più avanti.

In realtà, Peled era rimasto impigliato con le fibbie sulla Land Rover ed era saltato giù con un istante di ritardo!

Questo Ofer non poteva saperlo, per cui superò d’un balzo tutti gli uomini che stavano dietro Betser all’angolo della costruzione chiedendosi cosa diavolo stessero facendo ancora lì e arrivò da Netanyahu che incitava gli uomini.

Ofer scavalcò Betser e si buttò all’aperto dietro Netanyahu e dietro Reicher.

Dietro di Ofer c’era Peled che si sforzava di stare dietro all’uomo che invece avrebbe dovuto seguirlo.

Peled non notò nemmeno l’attimo di impasse della forza d’assalto.

Ofer, ricordando gli ordini, voleva stare a non più di un passo dal suo comandante, per cui correva come una lepre sparando all’impazzata, senza sapere che Peled in realtà si trovava dietro di lui.

Non si sa chi arrivò per primo al piazzale illuminato del terminal, se Netanyahu, Ofer o Peled.

Reicher già aveva fatto irruzione nella dogana.

Nel frattempo anche Betser e la sua squadra avevano ripreso a muoversi.

Ofer e Peled si ritrovarono in testa. Peled inseguiva Ofer.

A seguire, c’erano Muki Betser con Goren lungo la parete del terminal, quasi alla stessa altezza di Netanyahu che era più all’esterno sul piazzale, alla destra di Betser.

Ron e Tamir della squadra comando erano un metro dietro Netanyahu.

Sparavano su tutto quello che vedevano. Cerano alcune casse sul piazzale sulla destra. Un ugandese saltò fuori da là dietro e sparò a raffica, fu subito abbattuto.

In quell’istante, sulla sinistra, le vetrate del terminal esplosero in mille pezzi sotto il fuoco di qualcuno.

Un terrorista aveva aperto il fuoco da dietro lo stipite destro della seconda entrata della hall grande: proprio l’entrata cui si dirigeva Ofer.

Ofer che correva in velocità lo vide e fece fuoco su di lui, abbattendolo.

Ofer racconta:

 

“La vetrata del terminal andò in pezzi alla mia sinistra sotto il fuoco automatico di qualcuno che stava sparando da là dentro.

Un proiettile mi passò sulla destra, un altro sulla sinistra, due tra le mie gambe e uno mi ferì leggermente all’orecchio sinistro mentre mi giravo.

Contai 15 colpi sparati su di me, così seppi quanti gliene rimanevano nel caricatore. Solo Dio sa perché non sono morto. Era a meno di 10 metri da me [si vide poi che era a 5 metri, probabilmente il terrorista sparava agli uomini dietro di lui, altrimenti è inspiegabile come Amir Ofer sia ancora vivo].

Gli sparai subito contro. Vidi diversi colpi andare a segno su di lui e lo vidi cadere all’indietro. Balzai all’interno della hall continuando a sparargli addosso anche se era caduto e solo allora mi accorsi che ero solo!”

 

Fayez Abdul Rahim Jaber fu così il primo terrorista a morire.

Fu in quel momento che Goren ricorda che con la coda dell’occhio vide che Netanyahu era stato colpito.

Il comandante cadde in ginocchio sul piazzale, allargò le braccia, disse qualcosa e stramazzò in avanti sul cemento.

Goren urlò: “Yoni! Hanno colpito Yoni!”.

Anche Tamir urlò.

Nessuno si fermò. Erano gli ordini: non fermarsi per nessun motivo.

Erano ormai davanti alla prima porta della hall grande, il punto di dispiegamento della squadra comando e Netanyahu era caduto.

Muki Betser lo superò con la sua squadra.

Intanto Ofer nella sua corsa aveva superato tutti e aveva fatto irruzione nella seconda entrata della grande hall, sparando a Fayez Abdul Rahim Jaber. Il terrorista era caduto dietro lo stipite destro della porta, così Amir Ofer piombò dentro la grande hall sparando in semiautomatico e urlando come un invasato:

 

“Koolam lishkàv! Koolam lishkàw! Everybody lie down! Stay down! Stay down!

 

Siccome sparava a Rahim Jaber, la sua attenzione era diretta sulla destra dietro la porta della hall.

Mentre faceva questo non si avvide di due figure sua sulla sinistra. Ofer aveva visto che il terrorista a terra davanti a lui era morto e si era girato verso gli ostaggi iniziando ad articolare la frase:

 

“Hey! Are you all right?”.

 

Fu un attimo, per fortuna Peled era subito dietro di lui; entrò e dato che Ofer era a destra, Peled si girò a sinistra e vide.

Un uomo e una donna accovacciati, Wilfried Bose e la Kuhlmann, stavano per sparare nella schiena a Ofer.

Peled aprì fulmineamente il fuoco su di loro e li falciò un istante prima che uccidessero Ofer.

Ofer si era accorto che era il primo dentro la hall; sentì gli spari dietro di lui si voltò terrorizzato e vide Peled e i corpi dei due terroristi a terra dietro di lui.

Peled aveva ripreso già a muoversi e balzò in avanti nella sala gremita di gente sdraiata a terra.

Ofer vide Peled balzare in avanti nella hall e gli urlò:

 

“Fermati Amnon!”

 

Poi Ofer estrasse il suo megafono cominciando ad urlarci dentro:

 

“Koolam lishkàv! Koolam lishkàv! Everybody lie down! Stay down! Stay down!”.

 

“Tzahal! Tzahal! We are the Israeli Army! ”. [in ebraico e inglese].

 

La cordite, l’eccitazione e tutto quell’urlare avevano fatto perdere ad Ofer la voce che ora si potè sentire solo grazie al megafono.

Proprio in quell’attimo, i due furono raggiunti alle spalle da Betser, Goren e da un altro della squadra di Betser. I tre finirono letteralmente addosso a Peled e Ofer, poi si disposero a ventaglio all’entrata della hall.

Muki Betser avrebbe dovuto entrare dalla prima porta della hall grande, invece era lì nella seconda (avevano sbagliato entrata) e Amos Goren che doveva stare con il suo comandante aveva seguito Betser.

Muki Betser arrivò così veloce che urtò Peled, vide i due terroristi a terra e gli sparò senza accorgersi che erano già morti uccisi da Peled.

I cinque uomini si arrestarono per un attimo puntando le armi in tutte le direzioni e scrutando la hall strapiena di gente.

Una figura si alzò e fece per sparare. Era Jayel Naji al-Arjam.

Amos Goren l’abbattè, i suoi colpi attraversarono il calcio del Kalashnikov del terrorista: se non avessero colpito anche quell’arma, Goren sarebbe morto. [si vide poi che i colpi di Amos avevano colpito il cilindro del Kalashnikov, in quel modo i proiettili del terrorista non avevano più potuto essere estratti dal caricatore e immessi nella camera di scoppio: un altro miracolo].

Tutti e quattro i terroristi che costituivano un pericolo immediato per gli ostaggi erano stati quindi eliminati 45 secondi dopo lo sbarco dalle jeep.

Nel frattempo sopraggiunsero il resto degli uomini della squadra di Peled e di Betser, come pure quelli di Ben Avraham.

Meno di un minuto dopo l’eliminazione delle due sentinelle ugandesi sul raccordo e tre minuti dopo lo sbarco dal Karnaf-Uno, l’obbiettivo primario era stato raggiunto!

La massa degli ostaggi rimaneva immobile.

Qualcuno comunque si mosse. I soldati fecero fuoco e lo uccisero.

Dai passeggeri sdraiati a terra si levò un grido: “Non sparate! Non sparate!”, ma era tardi. Si trattava purtroppo di un ragazzo di 19 anni, Jean-Jacques Maimoni, francese. Era già morto non ci fu nulla da fare.

Un’altra figura si alzò in piedi.

Goren e Peled puntarono e fecero fuoco nel momento stesso in cui si resero conto che si trattava di un ragazzina di 12 anni completamente sotto shock!

Nessuno sa come fecero Goren e Peled ad alzare il tiro. E’ un fatto però che i proiettili passarono sopra la testa della bambina e andarono a conficcarsi nel muro. La ragazzina era terrorizzata ma stava bene e rimaneva lì in piedi da sola a piangere.

Un’atra figura si mosse: un uomo! Ma questa volta si vide subito che era solo un ostaggio in stato confusionale.

Peled e Goren urlarono ripetutamente di non sparare.

Un altro corpo giaceva a terra esanime, una donna.

Si trattava di Ida Borokovitch. Era l’unico ostaggio che i terroristi avevano fatto in tempo a uccidere per rappresaglia: le avevano sparato al cuore.

Sarah Davidson, si era buttata sul figlio per proteggerlo dalle pallottole appena aveva udito i primi spari. Era ancora lì per terra.

Lei e il piccolo Benny stavano bene.

Benny Davidson fu il primo passeggero a capire davvero quello che quegli strani “soldati ugandesi” avevano fatto. Commise l’imprudenza di alzarsi carponi sul pavimento e alzare la testa.

Gli uomini dell’Unità videro un ragazzino dodicenne con i capelli dritti mettersi a quattro zampe sul pavimento, sollevare il capo in mezzo al mare di corpi sdraiati a terra, guardarsi intorno con gli occhi spalancati ed esclamare:

 

“Fooorte!”

Il braccio di suo padre lo tirò subito a terra.

 

Il signor Pasco Cohen, un assicuratore di 52 anni, era stato invece raggiunto da una pallottola vagante al basso ventre, sarebbe morto di lì a poco nonostante gli sforzi dei medici militari che lo soccorsero subito.

Un terzo passeggero, il signor Yitzhak David, il sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, aveva ricevuto una pallottola nella spalla e nel polmone sinistri, ma se la sarebbe cavata ancora una volta.

Sarah Davidson racconta:

 

“Stavo facendo un solitario con le carte sul pavimento, quando udii uno sparo, seguito da diverse grida. Lasciai cadere le carte e mi buttai su mio figlio, poi mi guardai attorno. I terroristi puntavano le armi in tutte le direzioni sembravano confusi.

Iniziò una grossa sparatoria. Qualcuno urlò: “Sono israeliani!”.

Tenni giù la testa di mio figlio, mentre ci appiattivamo ancora di più al suolo. Poi vidi la cosa più bella della mia vita.

Come in un sogno, dalla porta entrò con un lungo balzo un piccolo soldato [era Amir Ofer].

Indossava una tuta mimetica, aveva la faccia nera e uno strano cappellino bianco in testa e stava sparando con un grosso mitra puntato davanti a sé. Uccise un terrorista, poi ci guardò e sussurrò: “Hey! State bene?

Dietro di lui entrarono subito tutti gli altri soldati e uccisero gli altri terroristi”.

 

Gli ostaggi rimanevano a terra sul pavimento della grande hall. Il fumo andava dissipandosi. La sparatoria all’esterno infuriava. Le mitragliatrici pesanti delle Land Rovers e gli RPG avevano aperto il fuoco contro la torre di controllo e gli ugandesi asserragliati al suo interno.

Ordini in ebraico cominciarono a risuonare. Uomini armati correvano da tutte le parti.

 

Ofer e Goren iniziarono a dire al megafono.

 

“Israeli Army! We’ve come to take you home!”.

 

I passeggeri del volo 139 finalmente realizzarono: l’impossibile era successo, quegli strani soldati “ugandesi” erano venuti a riportarli a casa!

Da più parti si cominciò a sentir gridare di gioia:

 

“Nes! Nes!” (Miracolo! Miracolo!).

 

Muki Betser fece il suo rapporto per radio nel suo consueto stile:

 

“Have hostages. Team intact. No casualties”.

 

Ma dal piazzale esterno Tamir gli rispose per radio: “Yoni’s down”.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Grazie, mi limito a riassumere (o a cercare di farlo dato che non volevo farla cos' lunga, ma l'argomento mi ha interessato).

 

L'Hercules-Uno atterra a Entebbe:

 

201104261643204890001.jpg

 

 

 

 

Il Sayeret Matkal assalta l'old terminal con uniformi ugandesi (ricostruzione pittorica, Simon Dunstan).

Notare la Mercedes nera, il comandante Netanyahu che cade, il muso dell'A-300 Air France davanti al terminal.

In fondo Reicher con la 4° squadra fa irruzione nella dogana, la 1° squadra di Muki Betser sfonda nella prima entrata della grande hall, mentre in primo piano Amir Ofer, seguito dal suo comandante Peled e dalla 2° squadra, irrompono attraverso la seconda entrata della grande hall. Notare Ofer in primo piano con il megafono.

Sul piazzale, la 6° squadra, guidata dal capitano Giora Zusman e da Adam Kolman e la 7° squadra del tenente Danny Arditi stanno correndo rispettivamente verso la piccola hall e verso la saletta VIP:

 

201104261642133640001.jpg

 

 

All'epoca del quadro l'artista ancora non sapeva che Muki Betser aveva sbagliato porta, entrando non nella prima entrata, ma nella seconda entrata della hall grande insieme con Peled e Ofer.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Hobo sei il mio appuntamento fisso da quando hai aperto la discussione. :adorazione:

 

Non a caso tempo fa nella discussione sui corpi speciali la mia risposta era stata questa.:rolleyes::

 

Io avrei votato gli israeliani (che nel 1975 si gestirono la Grana Entebbe) che non sono i "13" della marina, ma un corpo speciale per le missione estere. quindi con tutti i problemi di logisitca a volte ostile

http://it.wikipedia..../Sayeret_Matkal

Anche se l'addestramento mi pare breve... :blink:

 

Un aspetto che deve fare riflettere e' il fatto che un soldato di 22 anni fosse un ANZIANO.....credo che solo chi sia nato e vissuto in israele ed abbia avuto 20 anni negli anni 60/70 possa comprendere la loro mentalita' e il loro approccio a certi aspetti, totalmente diverso dal nostro.

Ovviamente poi tutta la vicenda e' molto "israeliana" e credo che nessun altro paese al mondo avrebbe potuto pensare ed organizzare (e gestire) una cosa del genere in quei tempi...

 

Mi permetto di aggiungere un documento fotografico, ma ovviamente questa e' la discussione di Hobo e attendiamo le altre puntate senza disturbare troppo.

La torre del vecchio terminal (ora resturata) nel 1994, con ancora i segni della battaglia.

 

http://commons.wikim...ST-99-05538.jpg

 

Entebbe_Airport_DF-ST-99-05538.jpg

Modificato da nik978
Link al commento
Condividi su altri siti

Questa non è affatto "la mia discussione" sennò diventa un monologo sterile e noioso.

 

Si, Amir Ofer a 22 anni era considerato anziano e aveva già combattuto nella guerra del Yom Kippur del '73 e in molte altre azioni speciali. Lo stesso comandante dell'Unità, Netanyahu, che morì a Entebbe, aveva 31 anni quando gli assegnarono il comando dell'Unità, veniva dal comando di un battaglione corazzato e aveva combattutto nella guerra dei sei giorni ('67) e in quella del Kippur e inoltre in molte altre missioni speciali al comando di Ehud Barak.

Danny Dagan a 42 anni era considerato il vecchio della situazione.

Daltronde è inevitabile che in una Forza Speciale la gente sia giovane.

 

Chi è stato in Israele sa che età hanno i soldati che si vedono in giro. Non si vede un vecchio manco a cercarlo. A Gerico io ho visto normalissime ragazze sui 18 anni guidare i Merkawa e poi la sera mollano tutto e vanno a Tel Aviv a ballare.

E poi se qualcuno vuole info sull'IDF può sempre chiedere... (foto non mia):

 

1167086698354.jpg

 

 

L'impostazione di tutte le forze armate dovrebbe essere in realtà quella di stampo britannico: estremamente precisa, pratica e che bada al sodo. Non ci sono molti vecchi. E non sono richiesti anni, ma mesi per diventare ufficiale e pilota. E a che livelli poi...

L'addestramento del Sayeret Matkal sembra breve forse perchè tutti i ragazzi israeliani hanno già di base un addestramento militare completo che dovrebbe durare 3 anni, quindi non partono da zero. (Se ho capito bene, solo gli ebrei ortodossi, quelli vestiti in modo tradizionale, possono se vogliono essere esentati dal servizio militare, per motivi religiosi. Secondo qualcuno questo non è giusto nei confronti di tutti gli altri).

 

Si, quella da te postata e la vecchia torre di Entebbe, ancora piena di buchi. Dietro si intravede la vecchia area di stoccaggio della Shell. La foto mi pare che guardi verso ovest. L'old terminal dovrebbe essere sulla destra della foto.

Notare l'indicazione dell'altitudine della torre: "3789 ft".

Strana mimetica quel C-130 che si vede.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe (Simon Dunstan)

Seconda Parte

 

Frattanto, le altre squadre proseguivano nel loro assalto all’old terminal.

Giora Zusman della 6° squadra fece irruzione nella hall piccola. Sembrava vuota. La inondò di proiettili. Vide che in quella hall c’era un tavolino con sopra i passaporti degli ostaggi e alcuni letti. Il pavimento era coperto di valigie aperte. Qualcuno gli stava sparando addosso da dietro i letti. In quel mentre entrarono anche i suoi uomini. Bombe a mano volarono nella stanza. Gli spari cessarono.

Delle ombre si mossero nel corridoio a destra. Giora Zusman aprì il fuoco.

La 6° squadra si fece avanti nella piccola hall. In fondo alla sala c’era un cucinotto; dentro c’erano due ugandesi morti.

Arrivò anche Slomo Reisman della 2° squadra.

Reisman avrebbe dovuto entrare con Peled e Ofer nella seconda entrata della hall grande. Piombò invece nella piccola hall con Giora Zusman.

Infatti Shlomo Reisman correndo si era trovato dietro a Muki Betser. Shlomo sapeva che lui doveva entrare nella porta successiva a quella di Betser.

Betser aveva sbagliato porta, saltando la prima entrata della grande hall, per cui aveva sbagliato anche Shlomo Reisman che correva dietro Betser.

Entrando nella hall piccola, Reisman rimase stupito di trovarci il capitano Giora Zusman.

 

“Che ci fai nella mia hall?”, gli domandò allibito Reisman.

 

“Che ci fai tu nella mia!”. Gli urlò di rimando Giora Zusman mentre continuava a fare fuoco verso la sala VIP.

 

Vedendo la piccola hall vuota e credendo che si trattasse della grande hall, Shlomo Reisman lì per lì pensò che gli ostaggi erano stati spostati, magari nel new terminal e fu preso da un terribile scoramento. [Gli israeliani infatti sapevano che gli ostaggi ebrei e l’equipaggio francese erano nella piccola hall, invece non era così].

Giora stava cambiando caricatore, quando si accorse che la squadra di Danny Arditi aveva qualche problema con la sala VIP lì accanto.

La squadra di Arditi, la 7°, era l’ultima tra quelle di assalto. Doveva irrompere nella sala VIP che fungeva da alloggio per i terroristi a est della piccola hall, ma Arditi aveva trovato la porta sbarrata e chiusa da un chiavistello e non riuscivano a forzarla in tempi rapidi. Un uomo di Arditi si dava da fare con un piede di porco, ma dall’interno qualcuno sparava.

Uno di Arditi lanciò una granata attraverso la finestra della saletta VIP, ma la bomba prese una sbarra dell’inferriata e rimbalzò in dietro verso gli israeliani, ferendo abbastanza seriamente a una gamba quello con il piede di porco.

A quel punto Giora Zusman, che si trovava nella piccola hall, indicò con l’AK-47 il corridoietto ormai pieno di fumo a Shlomo dietro di lui e gli urlò: “Pronto ?”.

Reisman annuì.

Subito dopo Zusman gridò ad Arditi che lì da loro c’era un breve corridoio che portava dalla hall piccola alla sala VIP e che si poteva provare a entrare anche da lì e subito dopo Giora e Shlomo Reisman si lanciarono nel corridoietto verso la sala VIP, sparando all’impazzata e facendosi precedere dalle granate antiuomo.

Dietro di loro comparvero anche Blumer e Tamir il quale, da quando Netanyahu era caduto, non aveva più un compito specifico e ora voleva rendersi utile.

Due persone coperte di sangue e di polvere e con abiti civili a brandelli emersero dal nuvolone di polvere sollevato dalle bombe a mano nel corridoietto. Si fecero in contro ai quattro israeliani, con le mani parzialmente alzate.

 

Giora urlò: “Fermi!”.

 

 

Ma quelli lo oltrepassarono senza fermarsi. Allora Giora ebbe un brutto presentimento, balzò fuori dalla linea di tiro lasciandosi cadere e urlò a Shlomo:

 

“Sparagli Reisman!”.

 

 

Lui infatti non avrebbe potuto fare fuoco senza uccidere anche Reisman, Blumer e Tamir che si trovavano sulla sua linea di tiro dietro i due figuri.

 

Ma Reisman che pensava ancora di venire dalla hall grande e non da quella piccola, gridò a Giora: “No! No! Sono ostaggi!”.

 

Shlomo Reisman non aveva finito di gridare questo che notò una granata appesa alla cintura di uno dei due, allora lasciò partire una raffica dal suo Kalashnikov e ne uccise uno, ma non fu abbastanza svelto. L’altro lasciò cadere sul pavimento la bomba a mano.

Shlomo si buttò su Tamir urlando:

 

“Granaaata!”

 

Fecero appena in tempo a vedere il lampo azzurro del detonatore che la bomba esplose.

Fu un miracolo. Per sua fortuna Giora si era appena scansato dalla linea di fuoco buttandosi verso la saletta VIP, per cui le schegge della granata non lo raggiunsero.

Shlomo Reisman si rialzò assieme a Tamir e a Blumer. Reisman era coperto di sangue e per poco i suoi due compagni non ebbero un infarto credendolo mortalmente ferito, ma poi videro che si trattava solo di un profondo taglio al volto, causatogli da una scheggia della granata.

Facendosi più innanzi, Giora, Shlomo, Tamir e Blumer si imbatterono nel cadavere di un terzo terrorista, gli spararono per maggior sicurezza, poi lo scavalcarono e continuarono ad avanzare armi in pugno vero la sala VIP. Nel frattempo, Arditi e la sua squadra avevano fatto saltare la porta della saletta VIP e vi avevano fatto irruzione con le bombe a mano, insieme ad Amos Ben Avraham, che non avrebbe dovuto essere con loro, ma che, avendo visto che nella grande hall non c’era più nulla da fare, li aveva raggiunti. Tutto questo accadeva al pianterreno.

 

immagine1bx.jpg

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Schema di come si svolse effettivamente (da quel che si sa) l'assalto dell'Unità all'old terminal:

 

4° e 5° squadra per prime nella dogana.

Muki Betser (1° squadra) salta la prima entrata della hall grande ed entra dietro Peled (2° squadra) e Amos Ben Avraham (3° squadra) nella seconda entrata.

Giora Zusman (6° squadra) entra correttamente nella piccola hall, dove si pensava fossero realmente i 106 ostaggi.

Danny Arditi con la 7° squadra non riesce ad aver ragione in tempo della porta della saletta VIP e per fare prima segue Zusman nella piccola hall, per poi lanciarsi nel corridoietto a destra, verso la sala VIP.

8° squadra (Sherman): copertura ravvicinata di tutto il team d'assalto (tra old terminal e torre di controllo).

Sq. Comando (Netanyahu e poi Alik Ron). direzione dell'assalto da davanti all'old terminal (prima porta della hall grande, davanti al muretto).

 

 

(Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu).

 

201104261642532820001.jpg

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Il capitano Yiftah Reicher aveva intanto condotto la sua 4° squadra all’assalto della dogana e del primo piano del terminal.

Negli uffici della dogana e nel suo corridoio al pianterreno, gli uomini dell’Unità si erano scontrati con diversi soldati ugandesi e li avevano eliminati uno ad uno. Poi si erano diretti a nord lungo il corridoio e fino all’altro capo del terminal, dove una solitaria rampa di scale conduceva al primo piano.

La 4° squadra con Reicher in testa si lanciò su per i gradini. Alla sommità delle scale comparvero due ugandesi a Kalashnikov spianati. Reicher li eliminò.

Gli israeliani raggiunsero così il primo piano del terminal.

In cima alle scale, Reicher e i suoi si ritrovarono all’inizio dell’ampia galleria fenestrata che andava verso est: era il ristorante del primo piano. Sulla destra si apriva anche la porta che portava al ballatoio della grande hall. La porta era protetta da una robusta inferriata artisticamente decorata. L’inferriata era chiusa. Da lì, un ballatoio dominava tutta la hall grande in cui stavano gli ostaggi. Il ballatoio andava espugnato e tenuto a qualunque costo perché da lassù si poteva dominare tutto la scena all’interno della hall degli ostaggi.

Reicher non abbattè la porta che dava sul ballatoio con gli esplosivi, ma lasciò invece Amir Shadmi di sentinella a quella porta con l’ordine di sparare su chiunque cercasse di avvicinarcisi; poi lui e Rani Cohen proseguirono a est, lungo le pareti della galleria e nel grande ristorante sparando, lanciando granate e urlando come impazziti.

Nel ristorante non c’era più nessuno, ma per terra era pieno di sacchi a pelo e di cianfrusaglie d’ogni tipo, a indicare che il locale aveva ospitato una grande quantità di ugandesi. I sacchi a pelo avevano preso fuoco con gli spari e le bombe a mano. Il fumo era dappertutto.

Reicher e Cohen si guardarono e si chiesero che fine avessero fatto gli ugandesi. L’unica spiegazione era che fossero fuggiti ai primi spari, saltando dalle finestre!

Una figura umana si mosse. Reicher e Cohen si voltarono e la crivellarono di colpi. Ci fu un enorme frastuono di vetri mandati in frantumi.

Avevano sparato alle loro stesse sagome riflesse in un gigantesco specchio a parete.

Tornarono da Shadmi. Davanti a Reicher stava la grande terrazza occidentale, che altro non era che il tetto della dogana e dalla quale si poteva assistere alla battaglia in corso contro la torre di controllo.

Reicher e Cohen rientrarono nel ristorante. Reicher chiamò subito sul VHF la 5° squadra di Arnon Epstein, che di sotto non era riuscito a trovare il corridoio che portava alle scale al primo piano.

Quell’ala dell’edificio infatti era del tutto sconosciuta agli israeliani e Epstein non sapeva che a pianterreno bisognava percorrere tutto il corridoio dalla dogana fino al lato nord del terminal per trovare la scala percorsa da Reicher.

Epstein arrivò subito e mentre percorrevano il corridoio vicino alla dogana abbatterono alcuni ugandesi sfuggiti a Reicher. Raggiunto il primo piano, la 4° e la 5° squadra si attestarono a difesa del ballatoio sopra la hall grande e in aggiunta parteciparono dalla grande balconata occidentale allo scontro che stava avendo luogo all’esterno contro gli ugandesi appostati nella torre di controllo.

In quel mentre, Peled e Bukhris che uscivano dalla grande hall videro il corpo di Netanyahu riverso a terra nel piazzale antistante il terminal.

Gridarono: “C’è un ferito!” e accorsero.

Rigirarono il corpo e videro che si trattava del comandante, respirava ancora.

Il dottor Hasin arrivò immediatamente con Alik Ron dalla hall grande. Il medico esaminò il ferito e riscontrò i segni di una grave emorragia. Estrasse il pugnale e tagliò gli abiti di Netanyahu. Il ferito era pallidissimo, sul dorso c’era un piccolo foro d’uscita vicino alla spina dorsale, un’altra ferita superficiale stava sul gomito destro. Si vedeva un unico foro d’entrata, a destra sul petto.

Mentre Hasin e Peled facevano questo, alla radio di Netanyahu sentirono Muki Betser che chiamava il comandante.

Hasin rispose e Betser lo scambiò per Netanyahu. Hasin disse a Betser che il comandante era ferito ed era grave. Il comando passava a Reicher che era il vicecomandante dell’Unità. Reicher era di sopra con la 4° squadra, per cui Muki Betser assunse il comando.

Dato che il sangue all’esterno del corpo di Netanyahu era poco, Hasin ne dedusse giustamente che l’emorragia doveva essere interna e che quindi la cosa era grave perché non poteva essere arrestata senza intervento chirurgico. Hasin era senza infermiere. Prese subito un accesso venoso centrale e iniziò a infondere plasma fresco per cercare di bilanciare le perdite dovute all’emorragia. Tamponò come meglio poteva le ferite esterne, poi richiese l’evacuazione immediata del ferito.

Nella hall grande intanto Muki Betser stava parlando con gli ostaggi. Essi gli dissero che nella hall piccola c’erano ancora passeggeri. In realtà si sbagliavano, quelli che avevano visto erano i terroristi abbattuti da Giora Zusman e da Shlomo Reisman, cui nel frattempo si era aggiunto anche Ilan Blumer.

Quando Blumer tornò dalla saletta VIP, Amir Ofer fu contento di rivederlo vivo. Infatti i due si erano persi di vista all’inizio dell’attacco e Ofer temeva che Blumer fosse morto.

Al primo piano rimbombavano i colpi di Reicher e Cohen. Ofer non esternò molto il suo sollievo, ma andò da Blumer con un Kalashnikov ugandese in mano e gli disse: “Ma guarda che bel mitra ho trovato!”.

Reicher scese dal primo piano sparando ad altri ugandesi, poi condusse la sua squadra lungo l’altro corridoio al pianterreno, quello che serviva solo come passaggio di servizio per il personale aeroportuale, tra dogana e hall grande. Reicher volle accertarsi che anche quel passaggio fosse vuoto e non ospitasse nemici.

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe

 

“Rhinos into Africa!”

 

Frattanto, sbarcati tutti, Shiki Shani era rimasto brevemente in attesa con Karnaf-Uno sulla pista obliqua con tutte le luci del velivolo spente.

Alle 00:06 ora locale era atterrato anche il Karnaf-Due, seguito a ruota dal Tre.

A quel punto, Shani spostò di nuovo in avanti le manette e ridette gas ai due motori esterni. Il grande Hercules si mosse in avanti.

Shani girò a destra in direzione del new terminal tutto illuminato. Dietro di loro, Karnaf-Due di Nati Dvir si apprestava a raggiungere il suo punto di inizio attacco. In quell’istante le luci a terra si spensero, tutto l’aeroporto piombò nelle tenebre.

 

Il maggiore Nati Dvir, pilota del Karnaf-Due, aveva posato le ruote sulla main runway ancora perfettamente illuminata.

Dal Karnaf-Due in atterraggio tutti avevano potuto assistere alla comparsa nel buio dei traccianti e dei lampi delle esplosioni del combattimento che proprio allora stava avendo inizio all’old terminal.

A bordo del secondo Hercules, Dvir e il tenente colonnello Biran si erano sentiti sollevati nel vedere che la prima parte dell’operazione cominciava come previsto.

Anche il Karnaf-Due atterrò da sud a nord.

Mentre il grande aereo rullava decelerando sulla pista, un furgoncino gli si affiancò in velocità filando lungo una stradina di servizio che correva parallela alla pista.

Dalla carlinga, Dvir e Biran videro che era un camioncino dei pompieri con i fari e i rotanti sul tetto ben accesi e lampeggianti.

Da bordo del C-130, gli israeliani avevano visto i pompieri ugandesi sul furgoncino allungare il collo per guardare esterrefatti il Karnaf-Due comparso dal nulla sulla loro destra.

All’improvviso Dvir e Biran li videro sbandare, inchiodando i freni. I fari e la sirena sul tetto del furgone si spensero di botto, mentre il camioncino spariva in coda all’Hercules.

Quasi nello stesso momento in cui le luci del furgone scomparvero, anche quelle dell’aeroporto sparirono. L’oscurità inghiottì ogni cosa.

Dvir e Biran ricordano che le luci si spensero in rapida successione, come quando si premono tre interruttori uno dopo l’altro: prima le luci della main runway, poi quelle del raccordo che conduceva al new terminal, per ultime quelle dell’APRON.

Gli ugandesi avevano finalmente capito e l’aeroporto era ora completamente avvolto dalle tenebre.

A bordo del Karnaf-Tre, il maggiore Arieh Oz non ebbe neanche il tempo di capire quanto era nei guai. Si trovava in quel momento in corto finale ad appena 40 metri sopra la pista, quando le luci dell’aeroporto si erano spente. La pista gli era svanita di colpo da davanti agli occhi.

Fu come se una botola gli si fosse spalancata sotto i piedi. Per fortuna aveva l’AWADS acceso e, soprattutto, i paracadutisti del Sayeret Tzanhanim avevano disposto le luci di segnalazione d’emergenza ai lati della main runway.

Oz richiamò istintivamente e balzò con il suo C-130 stracarico verso quella doppia fila di lucine.

Saltò i primi 800 metri di pista, ma alla fine toccò e atterrò colpendo violentemente il cemento. Il C-130H dette quel giorno un’altra conferma della sua proverbiale robustezza, sopportando la durezza di quell’impatto senza danni e senza feriti a bordo.

Dietro di loro intanto, Halivni, che aveva visto tutto dal Karnaf-Quattro, stava già apportando le dovute correzioni alla sua discesa d’atterraggio.

Frattanto Dvir e Biran erano arrivati con il Karnaf-Due all’estremità nord della pista. Svoltarono a destra sul raccordo per la pista obliqua, la raggiunsero e scaricarono le prime due M-38 blindate del maggiore Shaul Mofaz e la jeep comando del generale Shomron.

Mofaz con i 16 uomini dell’Unità e i due blindati si diresse subito verso l’old terminal. Danni Dagan era l’autista del blindato di Mofaz, mentre Omer Bar Lev comandava l’altro mezzo. Erano armati fino ai denti, compresi i missili Dragon.

Mentre Mofaz schizzava via sui blindati, il tenente colonnello Moshe Shapira si mise alla guida della jeep comando.

Biran invece alzava la lunghissima antenna del veicolo, che avrebbe permesso le comunicazioni anche con il 707 del comando che volteggiava da qualche parte a 10.000 metri.

Montata l’antenna, anche Biran saltò a bordo della jeep comando.

Lui e Shapira partirono a razzo per recuperare Shomron, Oren e i tre altri ufficiali del comando che aspettavano nel buio ai lati del raccordo, fin da quando erano sbarcati dal primo Hercules.

Mentre i veicoli scendevano dall’aereo, anche i 17 parà balzarono giù dal Karnaf-Due. Corsero verso il punto di riunione con i loro compagni del Sayeret Tzanhanim, i quali li aspettavano nel buio con il colonnello Vilna’i ai bordi della main runway, dove avevano appena finito di piazzare le luci d’emergenza.

Riunitosi al grosso dei suoi uomini, Vilna’i si mise alla testa dei suoi 69 parà e li condusse senz’altro verso sud, alla volta del new terminal e della nuova torre di controllo: andavano espugnati entrambi.

Una volta che il suo loadmaster gli segnalò che la stiva era vuota, Dvir ritirò la rampa e dette motore, dirigendosi anche lui alla volta del new terminal sullo stesso percorso già imboccato da Shani.

In coda a Dvir era intanto sopraggiunto anche Karnaf-Tre. Oz arrivò al punto di inizio attacco sulla pista obliqua e scaricò la seconda coppia di blindati, comandata da Udi Shalvi e i 30 uomini della Golani con la loro Land Rover, poi anche Oz ripartì verso il new terminal.

Infine, alle 00:08 ora locale, anche Karnaf-Quattro di Amnon Halivni prese terra sano e salvo a Entebbe.

Il Karnaf-Quattro arrivò in fondo alla pista, girò a destra e raggiunse anche lui il punto di inizio attacco, dove scaricò il pick-up Peugeot con la pompa del carburante avio.

Al contrario dei tre colleghi che l’avevano preceduto, Halivni non partì verso il new terminal, ma imboccata la pista obliqua con l’Hercules, la percorse per un buon tratto e si arrestò poco prima del raccordo per l’old terminal. Lì scaricò anche il secondo pick-up Peugeot, i 20 fanti della Golani e tutto il personale medico con il loro materiale, poi Halivni fece fare inversione al grande velivolo, tirò i freni e rimase in attesa con solo i due motori esterni in funzione.

Il pick-up con la pompa del carburante avio, insieme con i 10 tecnici rifornitori dell’Aeronautica corse al new terminal verso i serbatoi civili dell’aeroporto, per approntare il cruciale rifornimento degli Hercules.

I fanti della Golani invece salirono a bordo del loro pick-up e formarono un perimetro, attestandosi a difesa del Karnaf-Quattro sulla pista obliqua.

Il personale medico allestì un ospedale da campo di fianco all’aereo, poi il dottor Elan Dolev, responsabile di tutta l’equipe medica, dichiarò per radio di essere pronto a ricevere i primi feriti.

Giunti in prossimità del new terminal, Vilna’i fece disporre i suoi paracadutisti su una lunga fila, proprio di fronte al new terminal. I paracadutisti si appostarono in perfetto silenzio nell’erba alta in attesa del segnale di inizio attacco.

Vilna’i e i suoi ufficiali si disposero al centro dello schieramento e iniziarono a studiare attraverso i visori notturni il new terminal illuminato.

Era una costruzione a un solo piano. Le sue luci funzionavano. Nulla dimostrava che gli ugandesi all’interno sospettassero alcunché. C’era pochissima gente a quell’ora di notte, niente uniformi.

Una grossa scala esterna, che si arrampicava attorno a un pilastro di cemento quadrato, portava sul terrazzo del new terminal.

Studiando la scala esterna, Vilna’i ordinò a un suo ufficiale di salire subito lassù con i suoi uomini a inizio attacco per poi di piazzarsi lì sul tetto.

Per non causare perdite inutili tra i civili ugandesi, Vilna’i ordinò anche che i Galil dei suoi fossero messi in sicura, poi uscì dalla fila da solo, alzò la destra guantata chiusa a pugno e la alzò ed abbassò ripetutamente: avanzare!

In silenzio, i paracadutisti scattarono in avanti nelle tenebre. L’unico rumore che produssero fu quello dell’erba che frusciava contro di loro.

Penetrarono nel new terminal con le baionette inastate, ma senza sparare.

All’interno, trovarono qualche civile che guardava attonito quegli strani soldati mimetizzati comparsi dal nulla e che ora irrompevano con i fucili spianati attraverso le entrate del terminal.

Il coraggioso Surin Hershko ancora non sapeva che Vilna’i aveva ordinato alla sua squadra di salire sulla scala esterna, quindi seguì gli altri e penetrò tra i primi al pian terreno del new terminal.

Una volta là, Nehemiah, suo comandante di battaglione, mandò Surin e diversi altri al primo piano.

Il primo piano risultò praticamente deserto e Surin vide attraverso i finestroni i suoi compagni che salivano di corsa sulle rampe della scala esterna, ma questa non poteva essere raggiunta dall’interno. Anche i compagni da fuori videro Surin e gli fecero cenno di scendere, uscire a risalire da loro.

Surin lo fece. Appena uscì, udì la sparatoria in corso all’old terminal e incontrò Vilna’i che gli fece cenno di salire sulla scala esterna.

Surin salì. Fatte poche rampe di scale attorno al pilastro quadrato udì un rumore, ma poiché il new terminal appariva ancora del tutto calmo e i suoi amici erano appena saliti su quelle scale, Surin pensò che fossero loro e lasciò in sicurezza il suo Galil.

In questo modo Surin era praticamente disarmato quando andò a sbattere contro il poliziotto aeroportuale ed il civile ugandese che scendevano a capofitto le scale, in direzione opposta alla sua.

Se la pianta del pilastro attorno a cui salivano i gradini non fosse stata quadrata, Surin forse avrebbe potuto vedere i due ugandesi. Così invece finì loro addosso appena girato l’angolo.

Il poliziotto terrorizzato sparò a Surin due colpi da meno di un metro. Il primo proiettile mancò Surin, il secondo gli spezzò il collo.

I due ugandesi sparirono. Surin stramazzò all’indietro sulle scale sanguinando abbondantemente.

Uditi gli spari, Vilna’i e gli altri accorsero. Surin Hershko pagò il prezzo più alto rimanendo paralizzato per sempre dal collo in giù.

Quei due colpi di pistola del poliziotto ugandese furono i soli spari uditi durante la conquista del new terminal.

Il new terminal e la sua torre erano ormai in mano israeliana.

La nuova torre di controllo aveva presentato qualche problema, perché era in cima a una scarpata alta 20 metri e i parà avevano dovuto scalarla con corde e ramponi.

I civili ugandesi, in gran parte operai aeroportuali, vennero raggruppati al pian terreno e gli venne impedito di uscire. Non gli venne fatto alcun male.

Vilna’i rimase in attesa degli Hercules che dovevano arrivare lì al new terminal per iniziare il rifornimento e qui si sfiorò un’altra tragedia.

Sul Karnaf-Uno, Shiki Shani, una volta sbarcati uomini e veicoli sulla pista obliqua, aveva atteso l’atterraggio del secondo e del terzo Hercules, poi aveva ridato subito motore, proseguendo sul raccordo per il new terminal, ancora completamente illuminato. Poi gli ugandesi avevano spento le luci delle piste.

Poco dopo, Shani era stato raggiunto anche dal Karnaf-Due di Dvir sulla bretella per il new terminal.

Secondo la guida Jeppesen, il raccordo dalla pista obliqua al new terminal avrebbe dovuto essere rettilineo, invece faceva una S con gomito di 90°!

Arrivati a quella svolta inattesa, Shani inchiodò i freni di Karnaf-Uno per non finire fuori pista e lui e Avi Einstein erano rimasti per un lungo momento a scrutare le tenebre davanti a loro, per capire dove portava adesso quella curva imprevista.

Poco dietro di loro, Dvir, su Karnaf-Due, stava avanzando al buio anche lui convinto che il raccordo fosse dritto.

All’improvviso invece Dvir aveva visto con orrore l’enorme coda del Karnaf-Uno emergere dalle tenebre proprio davanti a lui!

Dvir aveva premuto disperato sui freni: Karnaf-Due si era arrestato del tutto a due metri dalla coda del primo Hercules. Solo per un miracolo non si era avuto il disastro completo.

Shani riprese a muoversi e i due Hercules raggiunsero finalmente il piazzale davanti al new terminal, dove attesero l’arrivo del Karnaf-Tre (informato nel frattempo che il raccordo non era rettilineo come sulle guide).

Lì, sotto la protezione dei paracadutisti, i tre aerei iniziarono ad essere riforniti dai tecnici dell’Aviazione, che erano già arrivati con il pick-up che trasportava la pompa del carburante.

Vilna’i chiamò Shomron dicendogli che erano padroni dell’aeroporto. A quel punto gli israeliani potevano accendere tutte le luci pista che volevano, per permettere il decollo dei loro aerei.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

“Ci arrestammo ammassati uno sull’altro. Stavamo ripiegati, tesi in avanti nelle uniformi mimetiche, con i raggi dei visori notturni che uscivano paralleli alla canna delle armi”.

 

credo che più che visori notturni siamo mirini laser , errore del traduttore e non tuo ,ovviamente

 

 

ps su rid scorso numero parlano di entrebbe , circa i rifornimenti degli herkules pare che vi fosse un accordo col kenya per permettere il rifornimento in territorio sicuro senza rischiare di non trovare kerosene nell' aeroporto . In cambio i kenioti chiesero di essere aiutati a respingere la inevitabile rappresaglia di Amin e che i caccia fossero distrutti

 

l' aiuto keniota oltre a quello francese e usa fu determinante nella fase preparatoria dell assalto sopratutto con la raccolta di informazioni .

Modificato da cama81
Link al commento
Condividi su altri siti

Hai ragione, anche io c'ho pensato, ma sono arrivato alla conclusione che non sia affatto un errore.

 

Se si guardano le interviste pubbliche dei maggiori protagonisti (Betser, Ofer, Goren, Dagan...), non ce n'è una che combacia. Per esempio: uno dice che erano in 29, l'altro dice che erano in 34 ad assaltare il terminal. E così via.

 

Penso che sia una cosa voluta. Concordano tutti sulle cose principali, ma sui metodi e sui dettagli come i visori o i laser discordano, o confondono le acque: lo fanno apposta per non parlare di armi, equipaggiamenti, procedure e tattiche che devono restare segreti, per motivi di sicurezza.

 

Quello dei visori notturni non è un errore di traduzione.

Shlomo Reisman dice proprio così: "... con i raggi dei visori notturni che uscivano paralleli alle canne dei fucili." (Entebbe 1976.L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu; pag.151).

Anche io ho pensato che in realtà forse si trattava di mirini laser, ma cerco di rimanere fedele a quello che leggo, sennò è tutta una minchiata.

 

Riguardo alla storia del Kenya, dammi tempo che ci arrivo eh eh eh eh eh eh...

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe

 

La Forza di Difesa Periferica del Sayeret Matkal

 

Appena sceso dal Karnaf-Due, il comandante della forza di difesa periferica del Sayeret Matkal, Shaul Mofaz, si era subito diretto alla volta dell’old terminal con le sue prime due jeep blindate.

Anche Mofaz rimase stupito di trovare davanti al terminal l’A-300 dell’Air France. Là la battaglia infuriava. Danni Dagan guidava il blindato di Mofaz. Si immise a tutta velocità sul raccordo lungo meno di 200 metri che portava al teminal, mentre Omer Bar Lev lo seguiva con la seconda M-38.

Dagan chiamò sul VHF per avvertire che arrivavano, in modo da non farsi sparare addosso dalla squadra d’assalto.

Gli rispose Alik Ron, che aveva preso in pugno la squadra comando da quando Netanyahu era caduto e ora dirigeva il fuoco esterno contro gli ugandesi della torre di controllo.

Gli ugandesi stavano dando prova di notevole cocciutaggine, rispondendo colpo su colpo agli israeliani. O erano molto ligi al dovere, pensò Alik Ron, oppure erano terrorizzati da quello che Idi Amin poteva fare loro nel caso che si fossero arresi.

In ogni caso, quegli ugandesi rappresentavano un problema perché con il loro fuoco impedivano agli ostaggi di uscire dall’old terminal.

Come arrivarono i due blindati, Ron chiese a Mofaz di unirsi alle due Land Rovers e di iniziare a combattere contro il nemico asserragliato nella torre di controllo.

Mofaz decise di lasciare in loco il suo blindato, ma di mandare invece il blindato di Bar Lev a oriente: sul raccordo che conduceva alla pista militare e alla vicina base dei Mig, poi scese e corse all’interno dell’old terminal in cerca di Muki Betser.

Bar Lev partì a razzo con i suoi otto uomini, mentre Danny Dagan sulla M-38 attaccò la torre di controllo.

Per prima cosa Dagan fece puntare il potente proiettore del mezzo blindato contro le finestre della torre, in modo da abbagliare gli ugandesi, poi gli israeliani iniziarono a rovesciare sugli ugandesi tutto il fuoco pesante di cui erano capaci: un torrente di fuoco si abbattè sulla torre di controllo.

Dagan sulla sua M-38 ricorda:

 

"Puntammo il nostro riflettore sulla torre di controllo, per accecarli. Alla richiesta di Alik Ron, gli sparammo con tutto quello che avevamo tranne i Dragon. Anche se io ero il pilota, mi sentii in dovere di contribuire. Appena smettevo di guidare, afferravo il mio Kalashnikov e facevo fuoco, poi lo mettevo giù e ricominciavo a guidare e così di seguito. Sparai su tutto quello che vedevo”.

 

Intanto, gli uomini delle due Land Rovers dell’Unità avevano deciso spontaneamente di spostare i loro due veicoli piazzandosi sempre sotto la torre di controllo, ma più a oriente: tra essa e l’old terminal e da lì stavano anche loro facendo fuoco sulla torre di controllo con le calibro .50. Coprivano ogni finestra e ogni squarcio che si era aperto nelle pareti della torre, in modo da impedire agli ugandesi al suo interno di instaurare un fuoco organizzato verso il piazzale del terminal.

Subito a est delle Land Rovers, il tenente Arnon Epstein e Bukhris avevano preso posizione all’angolo occidentale del terminal e coprivano la torre e lo spazio di 20 metri tra questa e il terminal.

A un certo punto Bukhris si sentì dare un colpetto sulla spalla sinistra. Il ragazzo si voltò e vide la canna di un Kalashnikov con dietro un volto africano che gli stava mormorando qualcosa.

L’ugandese aveva scambiato Bukhris per uno di loro a causa della finta uniforme e della tintura nera sul viso.

Quando però Bukhris si voltò, il soldato africano vide gli occhi spalancati del ragazzo e capì.

I due si guardarono allibiti per un istante che a Bukhris sembrò eterno, poi il ragazzo urlò: “Arnon!”

Lì accanto miracolosamente Arnon Epstein, che si era girato pure lui a guardare, aveva capito tutto e uccise l’ugandese una frazione di secondo prima che sparasse in faccia a Bukhris.

Da quel che si sa, fu quello l’ultimo caduto ugandese all’old terminal.

A quel punto infatti la forza d’assalto era riuscita ad eliminare ogni minaccia immediata contro gli ostaggi all’interno del terminal e nelle sue immediate vicinanze, fatta eccezione per gli ugandesi asserragliati sulla torre di controllo, che però erano costantemente tenuti sotto tiro dalle Land Rovers e dal blindato di Dagan.

In quel momento arrivò anche seconda coppia di blindati, sbarcata nel frattempo dal Karnaf-Tre. Queste altre due M-38 blindate erano al comando di Udi Shalvi ed avevano il compito di sbarrare la vecchia strada che a nord dell’old terminal passava sopra la palude e arrivava fino a Kampala. Da quella strada si temeva che potessero arrivare i temuti rinforzi ugandesi.

Shalvi arrivò da ovest, raggiunse la torre di controllo e svoltò a sinistra. I due blindati abbatterono una recinzione ed entrarono nella vecchia area appartenuta alla Shell Oil dirigendosi a nord, ma lì trovarono sulla loro strada un enorme cumulo di rottami e detriti di ogni tipo per cui tornarono in dietro.

Passarono vicino al gruppo elettrogeno che riforniva di corrente l’old terminal. Lo fecero saltare, mettendo al buio tutto il complesso, poi furono ancora una volta sotto la torre di controllo.

Qui Shalvi vide la Mercedes ferma e a motore acceso, con i quattro sportelli aperti; svoltò nuovamente a sinistra sotto la torre e stavolta trovò un passaggio a nord che lo portò dietro l’old terminal, dove un grosso cancello separava l’area del terminal dall’imboccatura della strada che portava a settentrione.

Una volta là, i 16 uomini sue due blindati presero posizione dietro il cancello e si scontrarono con diversi ugandesi sbandati che cercavano di svignarsela scavalcando il cancello. I blindati li fecero fuori e per poco non abbatterono anche gli uomini della squadra di Reicher che, scovati gli ugandesi durante il rastrellamento dell’old terminal, li aveva inseguiti fino lì. Erano passati poco più di dieci minuti dall'atterraggio del Karnaf-Uno.

Gli uomini di Shalvi videro anche diversi altri ugandesi che scappavano come lepri. Non persero tempo a inseguirli e li lasciarono andare.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe

 

L'evacuazione

 

A quel punto la forza d’assalto era riuscita ad eliminare ogni minaccia immediata contro gli ostaggi all’interno del terminal e nelle sue immediate vicinanze, fatta eccezione per gli ugandesi asserragliati sulla torre di controllo, che però erano costantemente tenuti sotto il tiro dalle armi delle Land Rovers e degli uomini dell’Unità non direttamente impegnati nel rastrellamento del terminal e nella conta degli ostaggi.

Mentre Udi Shalvi si attestava con i blindati a nord dell’old terminal, Alik Ron ricevette da Betser l’ordine di recarsi al Karnaf-Quattro, appena atterrato, che doveva imbarcare i passeggeri del volo 139 e i feriti.

Betser aveva sentito per radio che il quarto Hercules si era arrestato a ovest un po’ troppo lontano dall’old terminal per cui ci voleva qualcuno che lo raggiungesse e che lo guidasse in sicurezza più vicino a loro.

Il maggiore Betser racconta:

 

" Gli ostaggi avevano dato chiari segni di shock. Non gli si poteva certo dire semplicemente: 'Correte in quella direzione finchè non trovate un grande aereo', ma bisognava trasportarli e verificare che nessuno si smarrisse nel buio e soprattutto bisognava far avvicinare di più il Karnaf-Quattro.

 

Alik Ron abbandonò la sua posizione davanti alla hall grande, da dove dirigeva il tiro dei veicoli contro la torre e fece venire Blumer.

Passando accanto ad Hasin che soccorreva Netanyahu, Ron ricorda che era talmente scosso che arrivò a minacciare l’ufficiale medico:

 

“Meglio per te se lo curi bene, o te la vedi con me!”.

 

Ron, che in seguito si sarebbe scusato con Hasin, prese Blumer con sé e i due si incamminarono cautamente verso ovest con i visori notturni e i Kalashnikov in posizione di fuoco.

Prima furono sul raccordo del terminal e dopo 200 metri sulla pista obliqua. Sul raccordo si imbatterono nella jeep comando di Shomron, che volle sapere cosa stessero mai facendo lì e quindi nel corpo di una delle due sentinelle ugandesi abbattute all’inizio dell’azione. Ron si fece dare la radio da Blumer e chiamò per radio per avvertire che stavano arrivando all’Hercules-Quattro, in modo da non farsi uccidere dai soldati della Golani che circondavano l’aereo.

Giunti sotto il Karnaf-Quattro sulla pista obliqua, videro che l’intero corpo della Sanità era sbarcato e aveva preso posizione a 50 metri dal C-130, assistendo i primi feriti in arrivo.

Ron e Blumer corsero da Halivni in cabina e gli spiegarono in cosa consisteva la richiesta di Muki Betser. Halivni conosceva bene l’aeroporto per cui capì subito dove si sarebbe dovuto portare con il C-130 senza finire nel fuoco degli ugandesi nella torre di controllo. Ron e Blumer scesero dall’Hercules e rifecero il percorso inverso.

Halivni girò l’aereo e fece avanzare il Karnaf-Quattro sulla pista obliqua fino a raggiungere, senza imboccarlo, lo svincolo del raccordo per l’old terminal, 151 metri esatti a ovest della torre di controllo assediata.

Halivni arrestò l’aereo, tirò i freni a rimase in attesa a motori accesi e con la rampa posteriore abbassata.

Come tutti gli altri dell’Aeronautica, anche Halivni e i suoi avevano indossato elmetti e giubbotti antischegge.

Halivni racconta:

 

“Restammo in attesa, ognuno al suo posto. Potevamo sentire le esplosioni e gli spari alla torre di controllo e vedevamo i traccianti volare dappertutto nel buio intorno all’aereo. Ognuna di quelle pallottole avrebbe potuto facilmente penetrare nel velivolo.

Ricordo che mormorai diverse volte la preghiera

– Dio aiuta Israele! Che l’aereo parta senza essere colpito. –”.

 

 

Intanto all’old terminal, Shaul Mofaz era andato da Betser nella hall grande per rendersi conto meglio della situazione e aiutare a portar via gli ostaggi. Nel farlo passò di fianco a Netanyahu esanime con Hasin che lo soccorreva lì accanto.

La scena era illuminata dalla luce arancione degli incendi di diversi materassi, che erano stati incendiati dai proiettili roventi.

Dal blindato di Mofaz, Dagan e gli altri sparavano ininterrottamente alla torre di controllo con le .50 e con gli RPG.

Mofaz decise che ne aveva abbastanza; urlò agli ostaggi e ai soldati che li aiutavano:

 

“Sbrigatevi maledizione!”

 

Ma quasi tutti i passeggeri erano in stato confusionale e dovettero essere accompagnati come bambini; diversi di loro poi si ostinavano a voler trasportare con sé i propri effetti personali e il bagaglio!

Mofaz e gli uomini dell’Unità glielo vietarono. Un soldato dell’Unità racconta:

 

“Se non fossimo stati sotto il fuoco, sarebbe stato divertente. Era quasi impossibile separarli dalle loro cose. Tornavano in dietro a prenderle. La cosa più importante per loro erano le loro valige! Dovemmo letteralmente strappargliele di mano e spingerli con decisione verso l'uscita.”.

 

Appena un gruppo di passeggeri veniva fatto uscire, La forza di copertura ravvicinata alzava un vero muro di fuoco contro la torre di controllo, in modo da obbligare gli ugandesi a tenere giù la testa, poi i passeggeri venivano caricati il più in fretta possibile su una delle Land Rover. Al volante di esse, Amitzur Kafri ricorda:

 

“Gli ostaggi salirono in massa, si aggrappavano a tutto quello che potevano. Mi parve di trasportare all’Hercules una piramide umana. La mia arma era finita sotto di loro per cui non avrei potuto usarla! Per fortuna non ce ne fu bisogno”.

 

Il dottor Hasin aveva medicato le ferite del comandante, ma non poteva fare nulla per l’emorragia interna, tranne infondere plasma in vena: Netanyahu stava morendo. I bendaggi applicati sul petto e sul dorso del ferito servivano più che altro a segnalare le ferite all’anestesista e ai chirurghi. Non c’era altro da fare. Hasin richiese per radio l’evacuazione immediata del ferito con precedenza assoluta.

Arrivò Rami Sherman, comandante della forza di copertura ravvicinata. Scansò rudemente Tamir alla radio, vide Netanyahu in coma e aiutò Hasin a deporlo su una Land Rover. Poi Sherman strappò letteralmente l’autista dal posto di guida, assegnandolo immediatamente alla linea del fuoco e si mise personalmente al volante. Hasin rimase con altri feriti.

La jeep era già carica di passeggeri, ma appena videro che si caricava un ferito grave, scesero tutti spontaneamente e si incamminarono a piedi.

Dagan dal blindato ordinò ai suoi fuoco a volontà contro la torre di controllo, mentre Sherman metteva a tavoletta l’acceleratore della Land Rover urlando a Bukhris di saltare su subito.

Bukhris lì accanto fece appena in tempo a balzare sulla jeep di Sherman in movimento. Si mise subito alla calibro .50, la voltò e lasciò partire una lunga raffica interminabile, mentre Sherman imballava il motore come se volesse fonderlo, accelerando sempre più sul raccordo. La torre di controllo si allontanò sempre più velocemente dietro di loro.

Bukhris continuò a sparare con la mitragliatrice pesante finchè la canna incandescente non iniziò a fumare e gli avambracci non iniziarono a dolergli ed anche così continuò a fare fuoco sugli ugandesi mentre il pianale della Land Rover scompariva sotto un tappeto di bossoli roventi.

In un attimo furono all’Hercules. Sherman inchiodò. La Land Rover pattinò per un buon tratto prima di arrestarsi sotto la coda. Sherman saltò giù e rintracciò Dolev, poi lui e Bukhris presero Netanyhu e lo consegnarono nelle mani dei medici, dopodiché ripartirono per l’old terminal.

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe

 

L’evacuazione seconda parte

 

Gli uomini dell’Unità proseguivano intanto nell’arduo compito di accompagnare al Karnaf-Quattro gli ostaggi sotto shock. Nessuno doveva essere abbandonato.

Portato a termine uno scrupoloso rastrellamento dell’old terminal e della zona immediatamente circostante alla ricerca di ugandesi o di ostaggi dispersi, vennero chiamati anche la Land Rover e il pick-up Peugeot della Golani per dare una mano al trasporto dei passeggeri liberati.

Gli uomini del Sayeret Matkal iniziarono a caricare gli ostaggi liberati sulle jeep, dando la precedenza alle donne, ai vecchi e ai bambini. Gli uomini che potevano camminare venivano riuniti in piccoli gruppi e spediti a piedi lungo il raccordo, dove i fanti della Golani li stavano aspettando.

Ogni volta che partiva un veicolo carico di passeggeri, dalle due Land Rover dell’Unità sotto la torre di controllo e dal blindato di Dagan partiva un uragano di fuoco, per impedire agli ugandesi di sparare sugli ostaggi in partenza.

Come prima cosa, nella hall grande, Mofaz e Peled rintracciarono Amir Ofer, che parlava inglese meglio di loro e gli dissero di trovare subito il comandante del volo 139, il capitano Michel Bacos.

Ofer lo trovò e si fece dire da lui quanti erano di preciso i passeggeri rimasti. Bacos disse che dovevano esserci esattamente 105 persone e non 106: una passeggera infatti, Dora Bloch, era disgraziatamente stata trasportata all’ospedale di Kampala.

Gli israeliani spiegarono bene a Bacos e ai suoi cosa dovevano dire ai passeggeri per fare prima e per correre minor rischi possibili.

Per prima cosa, tutti dovevano ritrovare le scarpe, perché i terroristi avevano ordinato loro di togliersele e quindi erano scalzi.

Ofer ricorda che nel fumo e nel frastuono generale il tecnico di volo francese Jacques Le Moine gli passò accanto conducendo diversi passeggeri: era scalzo.

Amir Ofer lo prese per un braccio e per farsi sentire gli urlò:

 

“Le scarpe! Le scarpe!”. Indicando i piedi scalzi del tecnico.

 

Il tecnico di volo ubbidì e tornò in dietro a cercare le sue scarpe in mezzo al caos di lenzuola, bagagli aperti e materassi bruciati che regnava sul pavimento della hall.

Niente da fare: Le Moine non trovava le sue scarpe. Allora il francese disperato ritornò scalzo.

Ofer gli fece cenno con la testa che aveva capito e gli disse di andare comunque avanti anche se era scalzo, ma all’uscita della hall un ragazzo dell’Unità che stava a copertura degli ostaggi, notò il francese scalzo, lo fermò e lo rimandò all’interno a cercare le sue scarpe.

Il balletto ricominciò, finchè Ofer non capì quello che succedeva e avvertì la sentinella di lasciar passare il tecnico di volo scalzo.

Racconta Ofer:

 

“Era una situazione abbastanza buffa. Io non avevo ancora compiuto 23 anni e quel tecnico di volo francese che aveva la responsabilità di 300 persone veniva da me con aria sconsolata a dirmi come potrebbe fare un bambino: ‘Non trovo le mie scarpe! Lui mi ha detto di cercarle, ma io non le trovo!’

Gli feci gesto che andava tutto bene, gli dissi che poteva andare anche scalzo e mi incamminai verso la sentinella per avvertirla”.

 

Ad un certo punto, un passeggero emerse dal fumo e si presentò agli israeliani. Era Ilan Hartuv, il figlio di Dora Bloch che era stata trasportata all’ospedale di Kampala perché si era sentita male a causa del cibo.

Ora Ilan era indeciso se andarsene con la forza d’assalto venuta a liberarlo, oppure restare con la madre a Kampala. Pensava di restare.

Mofaz e Ofer lo dissuasero: restare avrebbe significato morte certa.

Per Hartuv fu una decisone terribile da prendere, ma non c’era nulla da fare per sua madre.

Ofer squadrò l’uomo da capo a piedi, poi chiese a Bacos di mandare qualcuno dell’equipaggio francese a sorvegliare a vista Hartuv mentre venivano trasportati sull’Hercules-Quattro, in modo che l’uomo non facesse pazzie tipo allontanarsi per restare a terra.

 

Alcuni ostaggi risultavano leggermente feriti da schegge di vetro e detriti caduti durante la sparatoria.

Ofer avanzava controcorrente, in mezzo alla marea umana di passeggeri diretti alle uscite del terminal, per raggiungere il fondo della sala e assicurarsi che nessuno fosse rimasto in dietro.

Arrivato in fondo si voltò e vide una giovane, probabilmente una hostess dell’Air France, che non riusciva a muoversi.

Ofer mise il Kalashnikov a tracolla e la soccorse subito. La ragazza era in abiti molto succinti. Ofer pensò che doveva essersi spogliata a causa del gran caldo, come aveva visto fare a molti altri ostaggi.

La giovane lo vide e cominciò a piangere e a urlare:

 

“Sono colpita! Sono colpita!”.

 

Ofer fece per ispezionarla, ma lei glielo impediva.

Allora Ofer spazientito la prese con decisione e le disse di indicargli dove era ferita. La ragazza gli mostrò l’interno di una coscia, ma Ofer vedeva solo un graffietto assolutamente superficiale, per cui per accertarsi che non ci fosse nulla di più grave afferrò la giovane e la esaminò per bene. Quella per fortuna non aveva niente, ma andò in crisi isterica e sembrò andare in coma.

Peled arrivò e domandò ad Ofer che cosa stesse facendo. Amir spalancò le braccia disperato. Peled vide la ragazza in piena crisi isterica e capì:

 

“Portala fuori subito! Sbrigati sergente!”

 

“Aiutami!”

 

Peled aiutò Ofer a issarsi la giovane svenuta sulle spalle, poi i due uscirono dalla hall deserta e in fiamme.

Appena Ofer, oberato dal peso della ragazza, fece un passo fuori dall’uscita della hall, una pallottola di piccolo calibro gli passò vicino alla testa: lo spostamento d’aria gli scompigliò i capelli.

Il sergente si piegò ancor di più e partì a razzo, mentre velocemente faceva un calcolo mentale:

 

“Se quel colpo mi era stato sparato da un uomo che si stava spostando a 300 metri da me, la prossima pallottola mi sarebbe passata a tre metri. Ma se si trattava di uno sulla torre di controllo a 30 metri da me, la prossima pallottola mi sarebbe entrata in testa.

Presi la ragazza che avevo in spalla e me la girai sul collo: adesso se mi avessero sparato la pallottola se la sarebbe presa lei.

La cosa curiosa è che tempo dopo la vidi in TV mentre raccontava che noi non c’eravamo preoccupati molto dei passeggeri e che solo un ragazzo, il suo eroe, l’aveva salvata caricandosela in spalla...”.

 

Intanto la fiumana di passeggeri arrivava al Karnaf-Quattro. Danny Dagan faceva la spola tra il terminal e l’aereo con la sua M-38 blindata, stendendo un ombrello di fuoco protettivo a copertura di quei passeggeri che non avevano trovato posto sulle jeep e dovevano arrivare a piedi fino all’aereo.

Per impedire che i civili si perdessero a causa del buio e della confusione, il colonnello Uri Saguy della Golani aveva ordinato che i suoi fanti si disponessero ai due lati del percorso dei passeggeri, formando una specie di imbuto che convogliava gli ostaggi liberati direttamente verso la rampa abbassata del C-130 fermo in attesa alla fine del raccordo per l’old terminal.

Gli ostaggi sembravano molto provati e apparivano stranamente apatici e indifferenti. Bisognava afferrarli e spingerli avanti nella stiva per fare spazio a quelli che continuavano a salire.

Una volta a bordo dell’Hercules, i passeggeri del volo 139 se ne rimanevano in piedi, muti e immobili sotto le luci al neon della stiva. Sembravano svuotati di ogni energia.

Lì vicino, a fianco del Karnaf-Quattro, gli ufficiali del Corpo di Sanità stavano intanto soccorrendo i feriti. Netanyahu era stato trasportato lì.

Il colonnello medico Elan Dolev, anestesista e comandante di tutto il team sanitario a Entebbe e il dottor Ephraim Sneh dei paracadutisti avevano fatto l’impossibile per cercare di strappare Netanyahu alla morte, ma non ci fu nulla da fare: l’emorragia interna era stata troppo grave. La vita di Netanyahu fuggì via e il suo cuore smise di battere; a nulla valsero i ripetuti tentativi di rianimarlo del dottor Dolev.

Il corpo di Netanyahu venne avvolto in una coperta di alluminio e imbarcato sull’Hercules-Quattro.

I passeggeri che salivano la rampa dell’aereo videro il cadavere e chiesero chi fosse. Gli assistenti di sanità glielo spiegarono.

Arrivarono anche i due passeggeri gravemente feriti durante l’irruzione dell’Unità nella hall: Pasco Cohen, con un proiettile nel bacino e Yitzhak David, il sopravvissuto ai campi di sterminio che era stato colpito al polmone sinistro da una pallottola di rimbalzo.

Vennero trasportati a bordo anche i due passeggeri deceduti: Jean-Jacques Maimoni e Ida Borokovitch.

I 16 fanti della Golani facevano intanto del loro meglio per sospingere verso l’Hercules la massa dei passeggeri che scendeva dalle jeep.

Bisognava avere mille occhi, perché gli ostaggi liberati erano come imbambolati e bastava un niente perché uscissero dalla fila e si perdessero nelle tenebre ai lati della pista.

Uri Saguy ordinò ai suoi uomini un conteggio dei civili che salivano a bordo sul Karnaf-Quattro.

Gli uomini della Golani iniziarono a contare ad alta voce le persone che passavano loro davanti dirette alla rampa del C-130. I fanti facevano tutto ciò che era in loro potere per contare e contemporaneamente non perdere di vista un solo civile, ma quel conteggio si rivelò impraticabile. La confusione e l’emozione erano eccessive per tutti: nessuno dei ragazzi della Golani arrivava mai allo stesso risultato degli altri.

Cominciarono ad arrivare anche i primi componenti dell’equipaggio Air France e allora quelli della Golani chiesero il loro aiuto per conteggiare i passeggeri.

I membri del Corpo di Sanità iniziarono a smontare l’ospedale da campo per poi riallestirlo all’interno del C-130 in modo da poterci trasportare i feriti ed essere pronti a decollare appena possibile.

 

 

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

99 minuti a Entebbe

 

L'evacuazione terza parte

 

Nel frattempo, Omer Bar Lev e gli uomini del secondo blindato erano rimasti soli. A bordo della loro M-38 erano corsi a est secondo gli ordini di Mofaz ed ora erano appostati all’estremità del raccordo orientale: di fronte a loro la pista militare di Entebbe.

Al loro arrivo la zona appariva del tutto quieta, ma ora l’aeroporto militare ugandese sembrava in fermento, si vedevano ombre correre da tutte le parti.

Attraverso il suo visore notturno un caporal maggiore di Bar Lev osservava i Mig parcheggiati.

Nel piazzale nord si contavano tre Mig-17, su quello sud invece si vedevano distintamente cinque Mig-21. Gli aerei erano visibilissimi, argentei nella loro livrea metallica e con le sgargianti coccarde ugandesi.

Quegli aerei non erano un pericolo diretto per la squadra a terra, ma rappresentavano una minaccia mortale per gli Hercules.

Il caporal maggiore distolse l’attenzione dal suo visore e si voltò a guardare Omer. Non c’era bisogno di parole: ma che cavolo stavano aspettando!

Omer Ber Lev si fece passare al radio VHF e chiamò Mofaz suo superiore diretto, per fargli presente che Netanyahu aveva ordinato di distruggere i Mig anche senza autorizzazione.

Mofaz e la sua equipe erano impegolati con gli ostaggi e ne avevano fino al collo, così la richiesta di Bar Lev cadde nel vuoto e Omer rimase con la radio in mano e senza ordini.

Non avendo ricevuto risposta, alla fine Bar Lev decise autonomamente: scansò un suo uomo e si mise personalmente alla calibro .50. Da meno di 200 metri aprì sui Mig un fuoco d’inferno. I suoi lo imitarono.

Spararono con tutto quello che avevano, le . 50, le M-60 e anche con gli RPG.

Gli otto Mig furono sbriciolati.

Almeno tre di essi eruppero subito in enormi esplosioni a forma di fungo, che illuminarono a giorno la scena fino all’old terminal, mentre il cherosene fuoriuscito dai serbatoi squarciati si incendiava sulla pista, creando un mare di fuoco arancione.

Nell’udire quel gigantesco boato, al terminal tutti si voltarono verso le esplosioni dei Mig. Persino alla torre di controllo per un attimo ugandesi e israeliani smisero di sparare, osservando affascinati il vasto incendio giù alla base militare.

Mofaz allargò le braccia e sollevò gli occhi al cielo, chiedendosi chi aveva di sua iniziativa aperto il fuoco sugli aerei militari nemici, ma Biran e Oren inaspettatamente lo rassicurarono: il generale Adam, dal suo 707, aveva appena dato l’ordine di attaccare i Mig, tuttavia loro non avevano ancora potuto comunicarlo a Omer Bar Lev, il quale comunque, come tutti potevano vedere, doveva aver già agito da solo.

Così, l’ordine di Adam fu eseguito anche se non per via gerarchica.

Illuminati dal vasto incendio dei Mig sulla pista militare, gli Uomini del Sayeret Matkal portavano intanto a termine l’evacuazione degli ostaggi. Tra gli ultimi civili a lasciare l’old terminal c’erano il comandante Michel Bacos e i due riservisti dell’Aeronautica uno dei quali era Uzi Davidson.

Insieme a Ofer e agli altri, Bacos e Davidson si accertarono che nessuno fosse rimasto in dietro.

Ripercorsero in lungo e in largo le due hall dell’old terminal che erano state la loro prigione per una settimana. Avendole trovate del tutto vuote e invase dal fumo degli incendi, anche Bacos, Davidson e l’altro riservista si decisero ad avviarsi a passo spedito verso il Karnaf-Quattro. Raggiunto sani e salvi l’aereo vi salirono a bordo .

Appena Amnon Halivni seppe che Bacos era a bordo del suo Hercules, per la prima volta da quando erano decollati da Ofira si alzò dal posto di pilotaggio e scese nella stiva per incontrare il comandante francese.

La stiva era stracolma di gente in piedi e ammutolita. Nella metà anteriore della fusoliera era stato riallestito il piccolo ospedale volante, con le barelle disposte su due livelli e fissate a entrambi i lati della stiva e a un’incastellatura al centro dell’aereo. Il personale sanitario si prendeva cura dei feriti, mentre i morti erano stai avvolti in coperte termiche e disposti nelle barelle inferiori. Tra essi c’era anche il corpo di Netanyahu.

Il maggiore Halivni riconobbe subito Bacos, grazie alla sua divisa Air France; il pilota israeliano si fece largo in mezzo alla ressa di gente e raggiunse il comandante francese.

Halivni strinse la mano a Bacos e si fece dire la lui a quanto doveva ammontare il conteggio esatto dei passeggeri, poi chiamò il loadmaster del suo C-130 e gli ordinò la conta dei civili a bordo.

Bacos rassicurò Halivni, dicendo che lui aveva già verificato e che c’erano tutti, ma Halivni fu irremovibile e insistè per il conteggio con il suo loadmaster, ordinando anche che i nomi dei passeggeri venissero man mano scritti su un foglio, che avrebbe fatto da manifesto di carico dell’aereo.

Il loadmaster e gli addetti al carico del C-130 si misero al lavoro, ma anche stavolta la conta dei passeggeri, anche ripetuta più volte, si rivelò impossibile: troppa confusione.

I passeggeri stessi cercarono di tranquillizzare Halivni dicendogli che si erano contati tra di loro e che non mancava nessuno. Persino Ilan Hartuv, disperato per sua madre, era presente.

Alla fine, Halivni stesso, non soddisfatto, tentò di contare personalmente i passeggeri, ma anche lui si avvide che era impossibile. Michel Bacos e i passeggeri comunque lo convinsero: si erano contati da loro ed erano tutti. A bordo c’erano 105 persone compreso l’equipaggio Air France.

Non c’era più tempo per nulla ormai. Non si poteva più indugiare, i rischi stavano diventando inaccettabili. Halivni e il suo C-130 erano fermi da 26 minuti nei pressi dell’old terminal e a tiro degli ugandesi nella torre di controllo. Solo il buio e il fuoco continuato degli uomini del Sayeret Matkal li aveva protetti fino ad allora, ma adesso bisognava andare.

Amnon Halivni si decise, invitò Bacos in carlinga e avvertì tutti di prepararsi al decollo immediato.

Rimessosi ai comandi del suo aereo, Halivni contattò Adam sul 707. Lo mise al corrente che aveva preso a bordo tutti gli ostaggi liberati, poi chiese e ottenne l’autorizzazione di Adam per lasciare Entebbe.

Fatto questo, Halivni chiamò Shomron e chiese che venissero accese le luci dell’aeroporto.

Dalla nuova torre di controllo, appena conquistata, i paracadutisti che non conoscevano gli interruttori accesero le luci di tutto l’aeroporto. Davanti agli occhi di Halivni come per magia riemersero dalle tenebre le luci di tutte le piste e dei raccordi.

Halivni effettuò gli ultimi controlli, poi mollò i freni del Karnaf-Quattro e si mosse verso nord sulla pista obliqua, girò a sinistra e si immise sulla main runway completamente illuminata.

Una volta là, dette tutta manetta e alle 00:52 ora locale il Karnaf-Quattro decollò da Entebbe diretto a sud, portando finalmente via da lì tutti gli ostaggi liberati.

Appena decollato, una volta in salvo sul lago Vittoria, Halivni virò con decisione a sinistra, facendo prua a est e verso la salvezza dell’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi, dove Halivni era ben deciso ad atterrare in emergenza con o senza autorizzazione: il suo Hercules aveva carburante per meno di 90 minuti di volo.

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Vittoria a Entebbe

 

Il decollo del Karnaf-Quattro con gli ostaggi a bordo era stato visto da tutti gli uomini che si trovavano in quel momento al new terminal per il rifornimento dei tre C-130 rimanenti.

Shiki Shani era seduto al suo posto di pilotaggio a bordo del Karnaf-Uno e stava sorvegliando il rifornimento del carburante, quando aveva visto le luci di tutto l’aeroporto accendersi e aveva udito per radio Halivni che chiedeva e otteneva l’autorizzazione al decollo.

Subito dopo, l’Hercules-Quattro era passato a tutta velocità sulla main runway davanti al new terminal e Shani aveva udito dalla carlinga del suo aereo le urla degli uomini che esultavano alla vista del Karnaf-Quattro che lasciava Entebbe.

In quel momento, tutti seppero che l’obbiettivo primario della missione era stato raggiunto.

Sul piazzale APRON del new terminal, c’era anche un C-130 ugandese. Era l’aereo di Idi Amin, che proprio il pomeriggio precedente era ritornato in volo dalle Mauritius, dove aveva presenziato a una conferenza dell’Unione Africana.

Gli israeliani si guardarono bene dal distruggere quel velivolo: se infatti uno dei loro C-130 fosse stato danneggiato, avrebbero senz’altro usato l’Hercules di Idi Amin per andarsene.

Anche se gli ostaggi erano ormai in volo per Nairobi, la situazione per gli uomini che restavano a Entebbe non era per niente rosea.

I tecnici dell’Aeronautica stavano facendo del loro meglio per rifornire i tre Hercules rimanenti con il carburante dei serbatoi civili di Entebbe, ma Shani sapeva che la cosa avrebbe potuto richiedere ore.

Ore durante le quali avrebbe potuto succedere di tutto: il Mossad aveva avvertito che c’erano più di 10.000 soldati ugandesi nel raggio di 20 miglia lì attorno. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo.

Giù all’old terminal frattanto, gli uomini del Sayeret Matkal si prepararono a sganciarsi dagli ugandesi. Il vecchio terminal di Entebbe si presentava con le pareti crivellate di colpi, avvolto da fumo nero e con le finestre rischiarate dagli incendi che lo divoravano al suo interno.

Dall’interno della torre di controllo, incredibilmente, gli ugandesi sparavano ancora, anche se il loro ritmo era completamente cambiato: si erano accorti che ormai nel terminal non restava più neanche un ostaggio e quindi sparavano più per salvare la faccia che per altro e non si esponevano più come prima.

Muki Betser decise che ormai era inutile restare lì ed era ora di raggiungere gli altri al new terminal. Chiamò Mofaz e gli disse che se ne andavano. Mofaz si preparò a coprirli con i blindati.

Shlomo Reisman si mise accanto a una delle due Land Rovers dell’Unità e iniziò a fare l’appello; aveva un foglio di cartoncino su cui spuntava i nomi con una matita.

Chiamò ogni uomo della forza d’assalto per verificare che fosse presente. Arrivò a “Netanyahu Yonathan” e uno gli rispose che era stato evacuato perché ferito; allora anche Reisman si ricordò che con la coda dell’occhio aveva visto pure lui il comandante cadere a terra, ma poi era stato talmente coinvolto nel combattimento da dimenticarsene.

Completato l’appello, tutta la forza del Sayeret Matkal risalì sulla Mercedes e sulle due Land Rovers usate per l’assalto. Amitzur Kafri sempre alla guida della sua Mercedes.

Gli ugandesi nella torre di controllo videro che gli israeliani se ne andavano e ricominciarono un fuoco d’inferno. Danny Dagan dalla M-38 blindata riprese a sparare contro la torre con i suoi uomini, mentre il “corteo in parata” della Mercedes e delle due Land Rovers spariva nelle tenebre alla volta del new terminal.

La disposizione del corteo era la stessa dell’andata: la Mercedes in testa e le due Land Rovers a chiudere il convoglio, facendo fuoco anch’esse sulla torre di controllo, per coprire la ritirata.

Mentre il Sayeret Matkal si sganciava, un tiratore ugandese nella torre di controllo ebbe la sua occasione di affacciarsi a una finestra da dove lasciò andare una lunga raffica di Kalashnikov all’indirizzo degli israeliani.

Per fortuna, la sua mira faceva pena e non colpì nessuno, ma a bordo della Mercedes Muki Betser esclamò: “Dio mio! Quel bastardo è veramente cocciuto!”.

E all’improvviso, così com’erano cominciati, gli spari e le esplosioni all’old terminal cessarono. Il complesso rimase deserto, avvolto dal fumo e rischiarato a giorno dall’incendio che divampava sulla vicina pista militare.

Rimanevano solo i quattro blindati di Shaul Mofaz. I due di Udi Shalvi attestati nell’area a nord dell’old terminal, all’imboccatura della strada per Kampala e gli altri due, comandati da Mofaz: uno, quello di Danny Dagan, ancora davanti all’old terminal, l’altro, di Omer Bar Lev, davanti alla base militare in fiamme.

Giunti al new terminal, gli uomini dell’Unità trovarono i tre C-130 che si rifornivano di carburante, ci sarebbe voluto tempo.

Nonostante questo, la forza d’assalto non indugiò. Kafri con la Mercedes salì per primo a bordo del Karnaf-Uno, seguito a ruota dalle due Land Rovers.

Gli uomini del Sayeret Matkal avevano appena finito di fare questo, quando per via gerarchica giunse dal 707 di Adam la notizia in cui tutti segretamente speravano: il governo di Nairobi aveva aperto agli aerei israeliani, anche a quelli militari, l’aeroporto Jomo Kenyatta! Subito dopo arrivò l’ordine di decollo generale. Non c’era più alcun motivo di restare lì a Entebbe!

Il personale rifornitore israeliano, entusiasta, chiuse i rubinetti e gettò le manichette del carburante.

Il Karnaf-Uno era già caricato e pronto, non c’era motivo di esporsi inutilmente al pericolo, per cui Shani lasciò il piazzale e si portò subito all’estremità nord della main runway, da dove alle 01:12 ora locale decollò per Nairobi con il contingente del Sayeret Matkal a bordo.

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Vittoria a Entebbe seconda (e ultima) parte

 

A quel punto Solo gli Hercules Due e Tre restavano ancora a Entebbe: bisognava recuperare la forza difensiva periferica dei blindati che in quel momento si stavano ritirando dalle loro posizioni a nord dell’old terminal.

I due blindati di Udi Shalvi, all’entrata nord dell’old terminal, avevano appena sparato con gli RPG a due veicoli che avevano provato ad avvicinarsi sulla strada proveniente da Kampala. Il primo di quei veicoli aveva preso fuoco in mezzo alla strada: sembrava un camion militare e pareva che ci fosse una mezza compagnia ugandese nei dintorni, anche se, da quello che si poteva vedere, il nemico era ancora lungi dall’essersi organizzato.

Udita la chiamata di decollo generale, Mofaz diede l’ordine di ritirata verso gli Hercules. Ciascuna coppia di blindati si sarebbe ritirata a turno dall’old terminal tra i fumogeni, coprendo la coppia che seguiva. Le due M-38 di Shalvi andarono per prime.

Omer Bar Lev invece, sull’ultimo blindato, ricevette l’ordine di posizionare sulle piste e sui raccordi, che avrebbero percorso ritirandosi, le cariche esplosive ritardate che Netanyahu aveva fatto preparare a Kafri. Si sperava che queste cariche esplodendo avrebbero creato nel nemico la falsa impressione che gli israeliani fossero ancora in linea e inoltre avrebbero danneggiato il fondo delle piste, ostacolando i movimenti degli ugandesi.

I quattro blindati avevano appena riguadagnato l’old terminal deserto e stavano dirigendosi verso la pista obliqua e lo svincolo per il new terminal, quando Mofaz ricevette dal 707 comando e controllo l’ordine di andare a ispezionare l’Airbus A-300 dell’Air France, ancora parcheggiato davanti all’old terminal, per assicurarsi che non vi fossero ostaggi dimenticati.

Il generale Adam infatti aveva saputo da Halivni che il conteggio degli ostaggi liberati era stato impossibile e non era rimasto soddisfatto, per cui voleva che fosse fatto anche quell’ultimo controllo.

Mofaz non scoppiò dalla gioia: sapeva che lì attorno non c’era più nessuno e che invece gli ugandesi potevano essere dappertutto, ma eseguì comunque l’ordine personalmente e disse a Dagan di tornare in dietro con la M-38 blindata.

Danny Dagan aveva sentito anche lui l’ordine di Adam alla radio, fece inversione sul raccordo dell’old terminal e tornò in dietro con il blindato, evitando con cura di finire sulle cariche esplosive appena piazzate.

Sceso dalla M-38, Mofaz si diresse personalmente all’A-300, seguito dai suoi. Salirono la scaletta del grande aereo passeggeri, ma non salirono a bordo temendo che fosse stato minato dai terroristi, Gli israeliani si limitarono invece a lampeggiare con le torce dai finestrini e a fare voce in ebraico e in inglese per eventuali ostaggi all’interno: nessuno rispose. La zona era deserta.

Stavano scendendo dall’A-300, quando dalla vecchia torre di controllo gli ugandesi ricominciarono a sparare.

Mofaz decise che poteva bastare e ordinò la ritirata.

In quel momento, Danny Dagan sentì per radio che la coppia dei blindati di Udi Shalvi aveva ormai raggiunto il Karnaf-Tre al new terminal. A bordo di quell’aereo c’erano già anche la Land Rover e i 30 uomini della Golani.

Il maggiore Aryeh Oz si dichiarava pronto al decollo e in attesa sulla main runway.

Sei paracadutisti chiamarono per radio da sud, dalle vicinanze della nuova torre di controllo e dissero di aver distrutto una jeep ugandese dotata di cannone senza rinculo SPG-9 su una collinetta a sud del new terminal e che non potevano escludere che ci fossero altri veicoli nemici di quel tipo nelle vicinanze.

Anche i parà si stavano ritirando verso l’ultimo Hercules ancora presente sul piazzale del new terminal: il Karnaf-Due del maggiore Nati Dvir.

Finalmente anche l’ultima coppia di blindati con Mofaz a bordo arrivò al new terminal, lanciando fumogeni per coprire la loro ritirata sull’Hercules-Due.

Mofaz e i suoi salirono più rapidamente che poterono a bordo del Karnaf-Due, dietro di loro vennero di corsa anche i paracadutisti.

L’ultimo mezzo israeliano che rimaneva ancora al new terminal di Entebbe era la jeep-comando di Shomron.

Biran e Oren stavano comunicando al Adam sul 707 che stavano lasciando Entebbe. Fatto questo dissero che avrebbero interrotto le comunicazioni perché avrebbero dovuto ripiegare l’antenna per entrare nel C-130, poi chiusero tutto, ripiegarono la lunga antenna e si imbarcarono con la jeep. Era tempo.

A quel punto, anche Karnaf-Due, l’ultimo aereo israeliano a Entebbe, cominciò a rullare sul raccordo per la main runway, dietro il Karnaf-Tre che lo precedeva sulla pista.

Uscendo dal parcheggio dall’APRON, per poco Dvir non finì con le ruote in un fosso a lato del raccordo per la main runway.

Dvir avvertì Oz sull’Hercules-Tre di ritardare il decollo: in caso di danni all’aereo di Dvir infatti, avrebbero provato a rifugiarsi tutti a bordo sull’aereo di Oz.

Per fortuna non ce ne fu bisogno, anche se gli ugandesi si stavano facendo sempre più sotto.

Finalmente anche Dvir raggiunse il Karnaf-Tre sulla main runway.

I due aerei israeliani decollarono subito uno dietro l’altro.

L’ultimo C-130, il Karnaf-Due, staccò le ruote dal suolo ugandese alle 01:39 ora locale, novantanove minuti esatti dopo l’atterraggio ad Entebbe del primo Hercules con il contingente d’assalto.

Sugli aerei appena decollati, che in quel momento viravano ad est sul lago Vittoria, gli uomini guardarono in dietro verso Entebbe. L’aeroporto era ancora illuminato dal vasto incendio dei Mig alla base militare. Ai due lati della Main runway si vedevano ancora le due file di luci di segnalazione, posizionate dai paracadutisti del Sayeret Tzanhanim. Poi gli aerei accelerarono e scesero di quota nella notte e l’aeroporto scomparve.

 

 

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Epilogo

 

“Maggiore! Maggiore!”

 

Una voce di donna lo stava chiamando. Il colonnello Dolev distolse l’attenzione dal ferito che stava curando e guardò la ragazza che voleva mostrargli qualcosa. Lui era colonnello, non maggiore, ma non disse nulla.

La giovane aprì il palmo della mano. Quando Dolev vide cosa c’era dentro il suo cuore saltò un battito: nel mezzo della stiva stracolma di passeggeri la ragazza teneva tra le dita una granata WP (white phosphorus) del tipo “mini-hand”, di quelle che usano solo le Forze Speciali perché scoppiano facilmente e non si possono dare al personale di leva.

 

L’Hercules-Quattro aveva lasciato Entebbe da circa un’ora e Halivni si stava già apprestando all’atterraggio a Nairobi, quando Dolev era stato chiamato dalla ragazza con la bomba a mano.

La stiva di carico del C-130 era piena fino all’inverosimile dei 105 ostaggi liberati, frammisti ai 20 fanti della brigata Golani, ai feriti e ai 10 uomini del personale sanitario militare.

La gente esausta si era buttata dappertutto e quella ragazza si era seduta sulla buffetteria che i medici avevano tolto di dosso a Netanyahu quando avevano cercato di rianimarlo.

Un tascapane di quella buffetteria era pieno di bombe a mano e una di esse, la granata WP, doveva essere rotolata sul pianale di carico del C-130 durante i momenti convulsi dell’imbarco dei passeggeri liberati e della fuga da Entebbe.

Solo Dio sa cosa abbia impedito a quella granata di esplodere: è quasi sicuro che venne calpestata da decine di persone!

Non ci voleva molta fantasia per immaginare gli effetti dell’esplosione di una carica incendiaria al fosforo a bordo di un aereo in volo.

Dolev non disse nulla alla ragazza. Si fece dire dove aveva trovato quell’oggetto, prese la buffetteria di Netanyahu e consegnò tutto agli uomini della Golani, dicendo loro che forse era meglio cercare altre granate, eventualmente cadute sul pianale della stiva in mezzo ai passeggeri. Per fortuna non venne travato altro. Ormai comunque erano arrivati.

Il Karnaf-Quattro atterrò all’aeroporto Jomo Kenyatta di Nairobi un’ora dopo aver lasciato Entebbe.

L’aereo venne fatto parcheggiare in un’area sorvegliata dai militari kenioti e venne subito iniziato il suo rifornimento di carburante. Agenti del GSU (Kenya Security General Service Unit) salirono a bordo e chiesero se c’erano feriti gravi tra i civili. Halivni rispose di si.

Pasco Cohen, che aveva una pallottola nella pelvi e che i medici militari erano riusciti a stabilizzare durante il volo, venne subito ricoverato in ospedale a Nairobi, dove venne immediatamente avviato all’intervento chirurgico d’urgenza. Purtroppo le condizioni di Cohen era critiche e l’uomo di 52 anni morì sotto i ferri del chirurgo.

Al contrario, Yitzhak David, il sopravvissuto ai campi di sterminio, che aveva un proiettile nel polmone sinistro, venne anche lui operato e sopravvisse.

Nel frattempo il governo keniota aveva aperto gli aeroporti agli aerei militari israeliani e quasi subito atterrarono allo Jomo Kenyatta anche il 707 comando e controllo con a bordo il generale Kuti Adam e il generale Peled.

A seguire, arrivarono a Nairobi anche gli altri tre C-130 della forza d’attacco. Una volta atterrato, Shiki Shani sul Karnaf-Uno spense i motori del suo aereo per la prima volta da quando erano decollati da Ofira, più di 12 ore prima.

I feriti militari vennero subito trasferiti sul 707 ospedale che da tempo era in attesa a Nairobi. Anche Surin Hershko era tra quei feriti, ma per la sua colonna vertebrale non ci fu nulla da fare e da allora è rimasto su una sedia a rotelle.

I quattro Karnaf della forza d’intervento vennero circondati da un cordone di soldati kenioti, ma tutti si dimostrarono estremamente cortesi e disponibili con gli israeliani.

Adam aveva vietato ai militari di scendere dagli aerei, ma il suo ordine venne disatteso e quasi tutti scesero dai C-130. Fu lì, sul piazzale dell’aeroporto Jomo Kenyatta che gli uomini del Sayeret Matkal appresero da Ehud Barak, che li aspettava in Kenya, della morte del loro comandante.

Rimasero increduli: sapevano che era stato ferito, ma nessuno immaginava che fosse morto. La disperazione si diffuse e andò a sommarsi allo spossamento fisico e mentale. Danny Dagan si sedette a terra sulla pista di fianco all’Hercules-Uno e si mise a piangere.

Mofaz era distrutto. Arrivarono quelli della Golani e gli diedero la buffetteria di Netanyahu con le bombe a mano. Mofaz la consegnò ad Amitzur Kafri.

I kenioti proposero agli israeliani di rimanere e riposarsi, ma il generale Adam ordinò di partire appena pronti.

Tutte le donne, i vecchi e i bambini vennero trasferiti dal Karnaf-Quattro sul 707 ospedale, molto più veloce dei C-130, che decollò immediatamente alla volta di Israele.

Il Karnaf-Quattro di Halivni che era stato il primo ad atterrare a Nairobi fu anche il primo a lasciarla alle 02:04 ora locale, con a bordo i rimanenti passeggeri del volo 139, quelli ancora in condizione di affrontare il lungo volo di ritorno sul C-130.

Appena riempiti i serbatoi, anche gli altri tre Hercules lasciarono Nairobi in ordine sparso.

Il viaggio di ritorno avrebbe richiesto ben 12 ore. Non sarebbero più passati sopra l’Etiopia, né su nessun altro paese potenzialmente ostile, ma avrebbero volato direttamente ad est e sull’Oceano Indiano, aggirando il Corno d’Africa, transitando attraverso il Golfo di Aden e lo Stretto di Bab el Mandeb, da cui avrebbero poi risalito verso nord il Mar Rosso.

Quando l’ultimo Karnaf lasciò Nairobi diretto in Israele, dal Boeing 707 comando partì il messaggio di “missione compiuta”.

A Tel Aviv tutto il Consiglio dei Ministri presieduto da Rabin, riunito in riunione straordinaria fin dal lancio di Thunderbolt, esultò. L’euforia fu tale che si iniziò a brindare “alla vita” (“L’Chaìm” in ebraico) con lo champagne. Vennero subito informate tutte le famiglie dei passeggeri liberati. Nessuno ancora sapeva che Yonathan Netanyahu era morto.

 

 

 

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Triumph and Tragedy (Simon Dunstan)

 

Il volo di ritorno fu interminabile, anche se i venti dominanti li favorirono e ci misero meno del previsto.

La notizia della morte di Netanyahu aveva scioccato tutti e nessuno aveva voglia di parlare. Il sole sorse mentre i quattro Hercules volavano sulle acque internazionali del Mar Rosso.

All’alba, Shiki Shani, che stava ascoltando la radio a bassa frequenza, captò Uganda Radio. Immediatamente passò la trasmissione sull’interfono di bordo. In quel modo tutti poterono sentire Idi Amin Dada mentre alla radio di stato annunciava in pompa magna la “vittoriosa riconquista dell’aeroporto di Entebbe”.

In un’altra situazione tutti si sarebbero sbellicati dalle risate, invece gli uomini si limitarono solo a sorridere amaramente. La morte di Netanyahu aveva tolto loro ogni voglia di festeggiare. Era quasi come se la missione fosse fallita.

Il maggiore Mofaz racconta che quando apprese della morte del comandante per lui fu come se tutta quell’operazione non fosse valsa la pena.

Un paio d’ore dopo, Shani captò anche l’Israel's Army Network, dove apprese che in quel momento loro erano su tutte le radio e TV del mondo. La BBC a Londra stava trasmettendo un servizio speciale su quello che era appena accaduto. Tutti si stavano preparando ad accogliere degnamente i vincitori che in quel momento stavano ritornando.

Gli uomini a bordo dei quattro C-130 non furono felici di tutta quella inaspettata celebrità: erano isolati e vulnerabili sopra il Mar Rosso, con l’Egitto e l’Arabia Saudita sui loro fianchi che in ogni momento potevano far decollare degli intercettori, davanti ai quali i Karnaf sarebbero stati del tutto indifesi. I quattro piloti decisero quindi di scendere ancora una volta sotto i 60 metri per sfuggire ai radar, ma poco dopo ebbero una bella sorpresa: alla radio vennero chiamati dai piloti di diversi F-4 Phantom-II, decollati proprio per andare a raggiungerli sul Mar Rosso e scortarli fino a casa.

Circondati dalla scorta ravvicinata dei Phantoms, i quattro Karnaf passarono rombando a bassa quota sopra Eilat. Shani e tutti gli altri poterono vedere che la gente gremiva la spiaggia e le strade della cittadina e salutava festosamente gli aerei che passavano. Le bandiere israeliane sventolavano dappertutto, mentre praticamente da ogni balcone e terrazzo della città pendevano coloratissimi striscioni di benvenuto.

In fine, alle 09:43 ora di Tel Aviv, il Karnaf-Quattro di Halivni prese terra alla base aerea di Tel Nof. Yitzhak Rabin e quasi tutti i ministri del governo erano lì ad aspettarli.

Atterrarono uno dopo l’altro anche tutti gli altri C-130. Gli ostaggi vennero radunati in una sala della base e venne ufficialmente chiesto loro di non raccontare a nessuno quello di cui erano stati testimoni. Poi vennero fatti salire di nuovo sull’Hercules-Quattro, che li trasportò all’aeroporto internazionale di Lod (ora Ben Gurion) a Tel Aviv, dove tutto il mondo li attendeva.

A Tel Nof, Shimon Peres andò da Reicher e da Betser e chiese loro di vedere il corpo di Netanyahu; poi Peres chiese a Betser come era morto.

Betser non aveva molta voglia di parlare, rispose solo: “He went first, he fell first”.

Sebbene quasi tutti avessero dormito durante il volo di ritorno, gli uomini del Sayeret Matkal erano esausti ed emotivamente distrutti. Nonostante il ricevimento ufficiale, essi cercarono in tutti i modi di dileguarsi.

Kafri prese Dagan con sé e gli disse di chiamare Zusman, Davidi e gli altri, di salire sulla Mercedes e di andarsene. Fu esattamente quello che fecero: presero l’auto che li aveva accompagnati a Entebbe, uscirono da Tel Nof e ritornarono alla base dell’Unità a Kfar Sirkin. Parcheggiarono la Mercedes in un hangar. In seguito provarono a riaccenderla: non partì più.

Al loro arrivo a Lod, gli ostaggi appena scesi dal C-130 trovarono ad accogliergli le loro famiglie e, al di là del cordone dei poliziotti, videro che c’era una folla in delirio.

Tutti urlavano, piangevano e si abbracciavano, ma per le famiglie di Maimoni e di Cohen quello fu invece un giorno di disperazione.

Martine Maimoni, sorella di Jean-Jacques, ricorda:

 

“A un tratto in mezzo alla folla festante sentimmo agli altoparlanti: ‘La famiglia Maimoni è attesa nella sala tal dei tali per comunicazioni che la riguardano’.

Appena entrammo un soldato ci disse che Jean-Jacques era morto. Mio padre lanciò un urlo orribile. Mia madre svenne, mentre tutti lì attorno stavano ridendo e festeggiando”.

 

Intanto, alla base dell’Unità, la compilazione dei rapporti di fine missione attendeva gli uomini stremati. Nonostante fossero stanchissimi, tutti i partecipanti alla missione si diressero nella sala briefing per la compilazione dei rapporti.

In quella sala scoprirono che ad attenderli c’erano il padre fondatore del Sayeret Matkal, il brigadier generale Avraham Arnan, insieme con il nuovo comandante dell’Unità, Amiram Levine, quello dell’intelligence militare che era andato a Parigi ad intervistare gli ostaggi liberati da Idi Amin.

Arnan si congratulò con ogni singolo uomo dell’Unità.

Levine, che aveva richiesto la tenuta da combattimento di Netanyahu, la consegnò ad Amitzur Kafri.

Mentre Kafri maneggiava l’equipaggiamento che era appartenuto al suo comandante caduto scoprì tra la buffetteria una pallottola di Kalashnikov. Il proiettile era completamente deformato: era quello che aveva ucciso Netanyahu.

Due delle bombe a mano dentro il tascapane risultarono poi danneggiate dai proiettili della raffica mortale. Era incredibile che non fossero esplose addosso al comandante.

Terminato di compilare il suo rapporto finale sull’operazione, mentre si faceva sera Kafri, completamente esausto, prese il tascapane di Netanyahu con le bombe a mano e si allontanò verso il poligono della base. Là, in mezzo a un uliveto, scavò una piccola buca e ci mise dentro le granate. Poi ci aggiunse un carica di PE4, collegò il detonatore e si allontanò srotolando il filo elettrico dietro di sé.

Raggiunse una trincea, si lasciò cadere al suo interno, poi fece detonare la carica di PE4. L’esplosione di quelle bombe a mano secondo Kafri è l’ultimo atto di Thunderbolt.

 

La tragedia comunque non era ancora finita. Quella stessa mattina di domenica 4 luglio infatti, una Peugeot 504 con targhe dell’SRB (State Research Bureau) la temutissima polizia segreta ugandese, si fermò davanti all’ospedale Mulago di Kampala. Ne scesero due uomini in abiti civili, erano il maggiore Farouk Minawa dell’SRB e il capitano Nasur Ondoga, capo del protocollo di Idi Amin.

Minawa e Ondoga si diressero presso il reparto numero 6, corsia B, là dov’era ricoverata Dora Bloch, la passeggera del volo 139 (madre di Ilan Hartuv) che si era sentita male per il cibo ed era stata ricoverata in ospedale.

I due uomini dell’SRB presero quella donna di 75 anni, la caricarono in macchina e la portarono a Lugazi, una cittadina 48 chilometri a est di Kampala. Una volta là la uccisero e buttarono il corpo in una vicina piantagione di canna da zucchero, dove sarebbe stato ritrovato anni dopo.

Va detto che almeno un medico o un infermiere ugandesi ebbero il coraggio di protestare. Sparirono anche loro nel nulla e di essi non si è saputo più niente.

Idi Amin volle poi che gli agenti dell’SRB andassero a prendere anche i controllori di volo che avevano permesso agli israeliani di atterrare a Entebbe.

Erano tre, si chiamavano Lawrence Mawanda, Mohamed Muhido e Fabian Rwengyembe. Non avevano alcuna colpa, ma Idi Amin era stato umiliato da Israele e qualcuno doveva pagare. I tre uomini vennero strappati alle loro famiglie e tradotti nel terribile carcere di Katabi.

Vennero uccisi in modo barbaro, con lunghi chiodi piantati nel cranio. I loro corpi vennero spappolati con dei martelli pneumatici e buttati in pasto ai coccodrilli del lago Vittoria.

Successivamente Idi Amin ordinò il massacro dei Karamojong, una minoranza etnica di origini keniote, che rivendicava dei territori di confine che ricadevano in territorio ugandese: oltre 3.000 persone appartenenti all’etnia Karamojong vennero trucidate.

Non contento, due anni dopo Idi Amin invitò in Uganda una delegazione ufficiale keniota, capeggiata dal Ministro dell’agricoltura del Kenya, Bruce Mackenzie, un fidato collaboratore del presidente Jomo Kenyatta.

Al momento del ritorno della delegazione in Kenya, Idi Amin fece portare diversi doni, tra cui una grossa testa di antilope impagliata. Il 24 maggio 1978, mentre il jet con la delegazione keniota tornava in patria dall’Uganda, l’aereo con Mackenzie a bordo esplose in volo sopra le Ngong Hills, lungo la grande Rift Valley. Tutti i passeggeri morirono.

Come se non bastasse, ad una successiva riunione del Consiglio delle Nazioni Unite, il ministro degli esteri Juma Oris Abdalla richiese una condanna formale di Israele a causa del raid di Entebbe che secondo lui dimostrava: “... la barbarie e la cupidigia sioniste”.

La mozione cadde nel vuoto.

Il comandante Michel Bacos, per la sua coraggiosa decisione di rimanere con gli ebrei ricevette una lettera di biasimo dalla compagnia e fu sospeso.

I passeggeri del volo Air France 139 continuano ancora oggi a ritrovarsi nell’anniversario del giorno della loro liberazione, il 4 luglio.

Il corpo di Yonathan Netanyahu è stato sepolto a Gerusalemme nel cimitero militare del monte Herzl. Prima di Entebbe, il suo nome e quello del Sayeret Matkal erano pressoché sconosciuti al grande pubblico, ma dal giorno del raid essi divennero una vera icona di coraggio, di spregiudicatezza e di sacrificio.

In omaggio all’uomo che più di ogni altro aveva lottato affinchè alle forze armate israeliane venisse concesso di andare a liberare con la forza i passeggeri del volo 139 prigionieri a Entebbe, l’operazione Thunderbolt venne ribattezzata “operazione Yonathan”.

Il successo dell’operazione Yonathan contribuì a risollevare il morale degli israeliani dopo il disastro sfiorato della guerra del Kippur, ridando loro fiducia nelle loro forze armate.

Il blitz a Entebbe rimane ancora oggi una delle più incredibili e azzardate operazioni militari di tutti i tempi e ha fissato i nuovi standards in base ai quali vengono oggi giudicate la preparazione e lo svolgimento delle operazioni delle Forze Speciali di tutto il mondo.

 

 

 

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces. Simon Dunstan"

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu".

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Passeggeri del volo 139 deceduti:

 

Jean-Jacques Maimoni, 19 anni, francese: ucciso da fuoco amico

Pasco Cohen, 52 anni: ucciso da fuoco amico

Ida Borokovitch, 56anni, russa: uccisa dai terroristi

Dora Bloch, 75 anni: uccisa a Kampala il 5 luglio 1976 (e non il 4 come ho scritto)

 

Forza d'assalto all'old terminal di Entebbe (Sayeret Matkal):

 

Squadra Comando:

 

Ten. Col. Yonathan "Yoni" Netanyahu: comandante di tutta la Forza e del Sayeret Matkal

Alik Ron: ufficiale riservista

Tamir: ufficiale alle comunicazioni

David Hasin: medico

 

1° Squadra, destinata alla prima entrata della hall grande. Composta da:

Il Maggiore Moshe “Muki” Betser

Amos Goren

Alex Davidi

Gadi Ilan

 

2° Squadra, destinata alla seconda entrata della hall grande. Composta da:

Il Tenente Amnon Peled

Sergente Maggiore Amir Ofer, 22 anni, ma già veterano del Yom Kippur

Shlomo Reisman

Ilan Blumer

 

3° Squadra. Stessa destinazione della seconda squadra. Composta da:

Il Tenente Amos Ben Avraham

Dani Fradkin

Gal Schindler

 

4° squadra. Destinata all’entrata della dogana, al suo corridoio e a fare irruzione al primo piano. Composta da:

Il Maggiore Yiftah Reicher (vicecomandante del Sayeret Matkal)

Rani Cohen

Amir Shadmi

 

 

5° Squadra. Destinata a seguire Reicher all’entrata della dogana e nel suo corridoio, per poi presidiare il pian terreno. Composta da:

Il Tenente Arnon Epstein

Pinhas Bar El (detto “Bukhris”, 22 anni, il più giovane di tutto il team)

Udi Bloch

Yonathan Gilad

 

6° Squadra. Destinata alla piccola hall. Composta da:

Il Capitano Giora Zusman

Adam Kolman

Yoram Rubin

Amnon Ben Ami

 

7° Squadra. Destinata alla saletta VIP. Composta da:

Il Tenente Danny Arditi

Amir Drori

Aharoni Berkovich

 

8° Squadra. Destinata alla copertura e alla difesa ravvicinata della forza d’assalto e composta da:

Il Tenente Rami Sherman

Amitzur Kafri (lo specialista equipaggiamenti speciali): autista della Mercedes

Eyal Yardenai: autista prima Land Rover

Uri Ben Ner: autista seconda Land Rover

 

 

 

Forza di Difesa Periferica del Sayeret Matkal (30 uomini):

 

Maggiore Shaul Mofaz: comandante della Forza e della prima coppia di blindati

Danny Dagan: comandante del primo blindato, prima coppia

Omer Bar Lev: comandante del secondo blindato, prima coppia

Udi Shalvi: comandante della seconda coppia di blindati

Arik Shalev: medico

 

Truppe di supporto, Paracadutisti e Brigata Golani:

 

Colonnello Matan Vilna’i: comandante dei Paracadutisti

Colonnello Uri Saguy: comandante distaccamento Brigata Golani

Surin Hershko: sergente paracadutista.

Colonnello Medico Eran Dolev: comandante di tutta l'equipe medica di supporto (Hercules-Quattro)

Ephraim Sneh: medico, Comando Fanteria e Patracadutisti

 

Velivoli Hercules dell’ Heyl Ha’Avir:

 

Ten. Col. Joshua “Shiki” Shani: comandante del n° 131° Squadron “Jellow Bird” e pilota dell’Hercules-Uno

 

Magg. Avi Einstein: copilota dell’Hercules-Uno

Maggiore Rami Levi: pilota di riserva Hercules-Uno

Tzvika Har Nevo: navigatore Hercules-Uno e capo-navigatore

Magg. Nathan “Nati” Dvir: pilota Hercules-Due

Magg. Arieh Oz: pilota Hercules-Tre

Magg. Amnon Halivni: pilota Hercules-Quattro

 

Governo e Stati Maggiori

 

Yitzhak Rabin: Primo Ministro di Israele

Shimon Peres: Ministro della Difesa

Ten. Gen. Mordechai “Motta” Gur: Capo di Stato Maggiore di Zahal

Magg. Gen. Yekutiel “Kuti” Adam: Capo Reparto Ricerca e Operazioni di Zahal

Magg. Gen. Benjamin “Benny” Peled: Comandante dell’Aviazione

Col. Ehud Barak: ex.comandante del Sayeret Matkal, distaccato al reparto Operazioni

Avi Livneh: ufficiale alle Informazioni del Sayeret Matkal

Magg. Iddo Embar: Informazioni dell’Aeronautica Militare

 

 

IDF: Israel Defense Forces

(The) “Kirya”: il “Pentagono” israeliano. E’ il quartier generale di tutte le forze armate israeliane. Situato a Tel Aviv. Dispone anche di numerosi livelli sotterranei.

“Zahal”, o “Tzahal”: termine ebraico che indica tutti gli uomini in armi di Israele (Forze Armate).

 

In tutti i libri che mi è capitato di leggere, il nome del Ten. Col. Yonathan “Yoni” Netanyahu è scritto con la “Y” e non con la “J” come ho fatto io nel titolo della discussione, quindi se è possibile pregherei di correggere il titolo, perchè ho sbagliato.

E con questo HO FINITO per davvero di rompere. Qui è Hobo, chiudo.

Modificato da Hobo
Link al commento
Condividi su altri siti

Crea un account o accedi per lasciare un commento

Devi essere un membro per lasciare un commento

Crea un account

Iscriviti per un nuovo account nella nostra community. È facile!

Registra un nuovo account

Accedi

Sei già registrato? Accedi qui.

Accedi Ora
×
×
  • Crea Nuovo...