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IL MIO NOME E' JONATHAN.


Hobo

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L’aereo era decollato da pochi minuti. Tutto sembrava andare per il verso giusto, quando in prima classe la signorina Ortega si alzò di scatto dal suo sedile come spinta da una molla.

La graziosa hostess francese fece per rimetterla al suo posto, ma quello che vide la lasciò senza fiato.

La Ortega era irriconoscibile. L’espressione del suo volto appariva spaventosamente sconvolta, le pupille dilatate, la bocca spalancata.

In una mano le era comparsa dal nulla una pistola nera, nell’altra una palla verde. Urlò qualcosa in una lingua che poteva essere tedesco.

Dietro di lei si alzò anche il suo amico. Garcia appariva molto diverso dalla Ortega. L’uomo sembrava freddo e concentrato. Anche lui aveva una pistola e una granata.

Esibì chiaramente a tutti le sue armi, poi si girò dirigendosi verso la cabina di pilotaggio. Non disse nulla.

Una donna iniziò a urlare.

 

 

Domenica, 27 giugno 1976; le 12:27 ora locale.

A bordo del volo Air France 139, decollato da Ellinikon da sette minuti, il comandante Michel Baccos, un pilota con 21 anni di esperienza, sente della grida provenire dalla prima classe.

Baccos pensa a un incendio a bordo, lascia i comandi al copilota e si alza per andare a vedere che succede.

Appena il tecnico di volo Jacques Le Moine gli apre la porta del cockpit, Baccos si trova faccia a faccia con la canna di una pistola.

L’uomo armato lo fa girare e senza dire una parola gli punta l’arma alla nuca e lo sospinge in dietro, verso i comandi dell’aereo.

Baccos capisce all’istante e si rimette ai comandi dell’aereo mentre l’intruso continua a puntargli la pistola alla nuca. Nessuno fiata. Era il primo dirottamento nella storia dell'Air France.

Subito dopo, una voce femminile dall’accento tedesco esce dagli altoparlanti dell’APAS (aircraft public address system). Una voce orribile a detta dei francesi, carica di odio e arrochita dall’eccitazione.

La voce comunica a tutti che da quel momento l’aereo è sotto il controllo del Gruppo “Che Guevara” e dell’Unità “Gaza” appartenente al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

 

Il volo Air France 139, un A-300B4-2C, marche F-BVGG, era diretto da Tel Aviv a Parigi via Atene.

L’aereo era decollato da Lod alle 08:59 con 228 persone a bordo ed era atterrato ad Ellinikon alle 11:30.

Ad Atene, erano scesi 38 passeggeri e ne erano saliti 56, tra essi c’erano anche la signorina Ortega, Mister Garcia e due arabi, tali Fahim al-Satti e Hosni Albou Waiki.

Ad Atene, le misure di sicurezza non erano molto rigide. Il metal detector non era sorvegliato e l’ufficiale che controllava il bagaglio a mano dei passeggeri con la macchina a Raggi X era distratto.

La signorina Ortega e il signor Garcia, che viaggiavano con passaporti sudamericani, in realtà rispondevano ai nomi di Brigitte Kuhlmann e Wilfried Bose, due cittadini tedeschi occidentali, facenti parte dei Nuclei Armati Rivoluzionari di Guerriglia Urbana.

Wilfried Bose era uno stretto collaboratore di Ilich Ramirez Sanchez, universalmente conosciuto come Carlos, the Jackal.

Quel giorno però Bose non lavorava per Carlos, ma per Wadia Haddad, socio fondatore dei gruppi operazioni “speciali” del PFLP (Popular Front for the Liberation of Palestine – Special Operation Group).

La Kuhlmann era la compagna di Bose.

Anche Fahim al-Satti e Hosni Albou Waiki non erano chi dicevano di essere. In realtà si trattava rispettivamente di Fayez Abdul Rahim Jaber, cofondatore del PFLP-SOG e di Jayel Naji al-Arjam, delegato alle relazioni pubbliche del PFLP-SOG.

 

A bordo del volo Air France 139, Wilfried Bose si piazzò dai piloti, la Kuhlmann si impadronì della prima classe, mentre Jayel Naji al-Arjam e Rahim Jaber controllavano la economy.

Bose in cabina avvertì l’equipaggio Air France di avere una certa dimestichezza con il volo e con i comandi degli aerei di linea e che quindi non avrebbe tollerato scherzi da parte dei piloti. Subito dopo ordinò di uscire di rotta e di mettere la prua su Bengasi, in Libia.

A bordo dell’A-300 intanto, delle sacche, presumibilmente piene d’esplosivo, vennero collocate in prossimità delle uscite e tra le file di sedili.

Un passeggero francese provò ad affrontare verbalmente i terroristi. Lo presero e lo riempirono di pugni e calci finchè non svenne.

Uzi Davidson viaggiava alla volta degli Stati Uniti con la moglie Sarah e i figli Ron e Benny. Uzi era un navigatore riservista dell’aeronautica militare israeliana e portava il suo ID militare attaccato sul petto, sopra il taschino destro. Lo strappò e lo ingoiò un attimo prima che i terroristi arrivassero da lui.

Tutti i passeggeri vennero perquisiti alla ricerca di armi, mentre i loro passaporti vennero requisiti e il personale Air France venne obbligato a fornire la lista dei passeggeri. A bordo c’erano 246 persone.

 

Appena l’A-300 uscì di rotta e cessò le comunicazioni, ad Atene scattò l’allarme.

La cessazione delle comunicazioni da parte del Volo 139 venne rilevata anche dai sistemi di monitoraggio elettronico israeliani: il primo ministro di Israele, Yitzhak Rabin venne subito informato.

Alle 13:27, a Tel Aviv, il telefono squillò sottoterra, nel quartier generale della IDF presso la Kyria Military Base, il pentagono israeliano.

Il Sayeret Matkal (conosciuto anche come “The Unit”) venne messo sul massimo stato d’allerta, nell’eventualità che il volo 139 fosse stato dirottato e fosse diretto a Lod.

 

Il primo ministro Rabin formò subito un team d’emergenza con i più importanti ministri e con il capo di stato maggiore dell’IDF Mordechai “Motta” Gur. I timori degli israeliani trovarono conferma quando l’aereo dirottato si diresse in Libia.

Alle 14:58, il volo 139 atterrò a Bengasi. L’A-300 Air France venne fatto parcheggiare in un’area remota dell’aeroporto dove si fermò sotto il sole cocente e venne rifornito con 42 tonnellate di carburante.

A bordo, mentre il calore diventava insopportabile, la passeggera Patricia Martel si decise a praticarsi in qualche modo dei tagli abbastanza profondi. Con il sangue che fuoriuscì, la Martel finse di essere incinta e di avere una minaccia d’aborto.

La passeggera recitò talmente bene la sua parte che i terroristi la lasciarono andare e venne ricoverata in ospedale a Bengasi per poi essere inviata a Parigi con un volo Libyan Airlines.

 

Dopo quasi sette ore di sosta in Libia, il volo 139 decollò da Bengasi alle 21:50.

Con l’arrivo della notte divenne evidente che l’A-300 Air France non si dirigeva verso il Medio Oriente, ma faceva rotta a sud, verso il cuore dell’Africa.

 

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

Modificato da Hobo
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e così iniziò la storia del raid di entebbe da parte degli israeliani... grazie hobo! non sapevo come avessero fatto ad avvertire del fatto che l'aereo era stato dirottato, anche rid ne parla nel numero di questo mese, peccato che non mi è ancora arrivato.

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Grazie. Da quello che ho letto, dicono semplicemente che Israele captò la cesssazione delle comunicazioni e il cambiamento di rotta del volo 139, quindi è possibile che i voli in partenza da Israele siano seguiti e monitorati in volo, ma di più non dicono. Alcuni lati della storia mi sembrano volutamente lasciati sul vago, probabilmente per motivi di sicurezza. Per cui Israele non ne parlla, nè ne parlerà mai credo.

 

 

 

Il dictat

 

Martedì 29 giugno 1976.

L’attività diplomatica pareva a un punto morto, soprattutto perché i terroristi ancora tacevano.

Il primo ministro Rabin e il ministro degli esteri Yigal Allon si stavano dando da fare per convincere la Francia di Giscard D’Estaing e di Chirac ad assumere un ruolo di primo piano nelle trattative: l’A-300 dirottato infatti era dell’Air France e la maggioranza dei passeggeri non erano israeliani. Il governo israeliano era ormai impegnato a tutto campo, quando quel pomeriggio i terroristi si fecero vivi per la prima volta.

Fouad Awad emise un comunicato, diramato dalla radio ugandese, nel quale elencava le sue richieste.

In sostanza, Awad pretendeva la liberazione di 53 terroristi detenuti in 5 paesi. Gente come il giapponese Kozo Okamoto della Japanese Red Army, che aveva ucciso a sangue freddo 24 persone all’aeroporto di Lod nel 1972 e diversi altri.

Di questi criminali, 40 erano detenuti in Israele, 6 in Germania Ovest, 5 in Kenya, uno in Svizzera e uno in Francia.

I terroristi rilasciati avrebbero dovuto essere condotti a Kampala con aerei forniti dai vari paesi in cui erano stati detenuti.

I 40 criminali detenuti in Israele avrebbero dovuto essere condotti in Uganda con un aereo Air France. Da lì, lo stesso aereo avrebbe trasportato i dirottatori e i loro amici al sicuro in una località mediorientale a loro favorevole.

Infine, l’Air France avrebbe dovuto sborsare alla causa del PFLP 5 milioni di dollari americani (di allora) per riavere in dietro l’A-300 dirottato.

La “deadline”, il termine ultimo per soddisfare queste richieste sarebbero state le 14:00 di giovedì primo luglio.

Udite le richieste, il primo ministro di Israele Yitzhak Rabin alzò il telefono e chiamò Mordechai Gur, il capo di stato maggiore dell’IDF e lo convocò per una riunione serale con i più alti vertici politici del paese.

Gur capì subito il perché di quella convocazione: il Capo dello Stato voleva da lui un giudizio riguardo alla fattibilità dell’opzione militare.

Siccome Gur si stava recando a un’esercitazione quando Rabin l’aveva mandato a chiamare, ordinò al suo aiutante di campo, tenente colonnello Hagai Regev di chiamare subito il Kyria.

Regev era in auto sulla strada per Gerusalemme, si fermò subito al primo telefono pubblico che trovò e da lì chiamò il comandante del Reparto Operazioni presso il Kyria, il maggior generale Yekutiel “Kuti” Adam e gli passò l’ordine di Gur: cominciare a pianificare una soluzione di forza.

La riunione della sera con Rabin si era risolta con un nulla di fatto, ma erano emerse comunque almeno due cose importanti.

In sostanza, gli ostaggi erano in mano ai terroristi a 2.200 miglia di distanza da Tel Aviv, in un paese ostile e dominato da uno spietato e volubile monarca: Idi Amin Dada.

Inoltre, le richieste dei dirottatori avevano una nota stridente: i terroristi da rilasciare non si trovavano tutti in Israele, ma in cinque paesi diversi.

Questo significava che in 48 ore si sarebbero dovute mettere d’accordo cinque nazioni differenti: una cosa quanto meno improbabile e questo i terroristi non potevano ignorarlo. Comunque la si rigirasse quindi, il risultato appariva sempre lo stesso: stavano preparando una strage.

Per questo Rabin aveva chiamato Gur, perché il primo ministro di Israele vedeva sempre più chiaramente che se non ci fosse stata la possibilità di risolvere la cosa militarmente, questa volta Israele avrebbe dovuto chinare il capo davanti alle richieste dei terroristi, creando un pericoloso precedente.

 

 

 

La Baia dei Porci

 

 

Sapendo di doversi recare da Rabin e poi dal ministro della difesa Shimon Peres al Kyria, Gur si consultò subito con il comandante dell’Aeronautica, Benny Peled.

Peled, prima di rispondere a Gur, chiamò Shani al 131° Squadron e discusse con lui di navigazione fino a Entebbe e di autonomia del C-130H con carichi differenti, poi si recò al briefing con Gur.

Dopo essersi confrontato con Shani, Peled si era fatto un forte sostenitore dell’intervento aerotrasportato e di un atterraggio “morbido” a Entebbe, cioè senza la copertura di aerei da combattimento.

Numerosi fattori erano ancora lontani dall’essere risolti, ma Peled disse chiaro a Gur che l’Aviazione era in grado di atterrare a Entebbe e di trasportarci una forza di 1.200 uomini completamente equipaggiati.

L’aeronautica ugandese non era una preoccupazione dal punto di vista Di Peled, anche se ancora rimanevano aperti molti problemi, come quello del rifornimento di carburante una volta ripartiti dall’Uganda.

Nonostante l’entusiasmo dimostrato da Peled, Gur rimase assai scettico e lo disse, quando riferì al ministro della difesa le parole di Peled, che era presente.

Shimon Peres, ministro della difesa, a quel punto domandò direttamente a Peled che cosa aveva da proporre e rimase stupito dalla sicurezza dei modi di Peled, il quale rispose:

 

“Voi che cosa desiderate? La conquista di Entebbe o di tutto il paese? Per conquistare tutto il paese mi ci vogliono 1.200 uomini, per controllare Entebbe me ne bastano due o trecento”.

 

Shimon Peres rimase favorevolmente impressionato dall’aggressività del suo comandante dell’Aeronautica, ma i dubbi restavano.

Il generale Kuti Adam invece disse che la proposta di Peled andava attentamente studiata.

Frattanto anche gli uomini di Adam, Ehud Barak in testa, lavoravano sodo.

Si erano riuniti in una stanza del Reparto Operativo del Kyria. Tutti avevano inviato un rappresentante: intelligence, Marina, Aeronautica. Nell’arco della nottata arrivarono anche i rappresentanti dell’Esercito e dei Paracadutisti: il tenente colonnello Haim Oren insieme con il suo ufficiale alle informazioni, il tenente colonnello Amnon Biran. Oren e Biran lavoravano per il maggior generale Shomron, che non era potuto presentarsi.

La mancanza di informazioni certe restava il problema principale.

A un certo punto arrivò il maggiore Iddo Embar dell’aeronautica con la guida Jeppesen dell’aeroporto di Entebbe sotto il braccio. La guida venne aperta sul tavolo insieme a una mappa di Kampala e tutti si chinarono sopra le carte. La guida Jeppesen era penosamente insufficiente, eppure dava vitali informazioni sull’aeroporto di Entebbe.

Una delle proposte più promettenti secondo Ehud Barak era un’operazione combinata tra forze speciali. Secondo questo schema di massima, gli uomini dell’Unità (Sayeret Matkal) avrebbero dovuto lanciarsi sul lago Vittoria, per poi avvicinarsi a riva con degli Zodiac gonfiabili.

Quelli della Marina proposero invece un attacco operato da incursori che avrebbero raggiunto Entebbe dal lago Vittoria dopo aver affittato un battello a Kampala.

Oren dell’Esercito e Paracadutisti propose un aviolancio su larga scala sopra Entebbe per impadronirsi dell’aeroporto.

Muki Betser pensò invece a un aereo civile da mandare dicendo che avrebbe trasportato i terroristi rilasciati secondo le richieste, solo che in questo caso i “terroristi” sarebbero stati gli uomini dell’Unità travestiti da prigionieri.

Come si vede erano tutte proposte generiche, basate sulle scarse informazioni di cui si disponeva. Non si era certi neanche del fatto che gli ostaggi fossero ancora in aeroporto. Almeno due di questi piani erano basati sull’assunto che gli ugandesi sarebbero rimasti a guardare, mentre il piano di Betser venne giudicato troppo rischioso.

All’alba di mercoledì, ci si orientò verso l’assalto aereo e marittimo dal lago Vittoria e Betser telefonò all’Unità dicendo di mettere su un’esercitazione anfibia con paracadute, gommoni e nuotatori che sapessero nuotare per un miglio in mezzo a una palude infernale infestata di serpenti letali e coccodrilli.

Nel frattempo ci aveva pensato Yitzhak Rabin a scartare una dopo l’altra tutte queste proposte. Il primo ministro disse che: “Sarebbero state la Baia dei Porci d’Israele”.

La cosa importante che era venuta davvero fuori era però la mancanza di informazioni: le forze armate stavano girando a vuoto.

Il Mossad fece la sua entrata in scena...

 

 

 

 

 

 

L’Entebbe Hilton

 

Appena atterrato nella notte sulla main runway di Entebbe, l’A-300 era stato fatto avanzare fino all’estremità nord della pista, per poi girare a destra su un raccordo laterale e su una pista obliqua che portava alla vecchia area dell’aeroporto e all’old terminal. Qui l’aereo era stato fatto arrestare a motori accesi.

Gli ugandesi avevano puntato sull’A-300 dei potenti riflettori da segnalazione illuminando a giorno la scena, avevano circondato l’aereo con un cordone di soldati regolari armati di tutto punto, poi avevano fatto scendere tutti i passeggeri, sospingendoli come pecore all’interno del vicino terminal abbandonato.

Una volta scesi tutti i passeggeri e tutto l’equipaggio (257 persone in tutto), al comandante Baccos era stato intimato di spostare il grande velivolo, avanzando sulla pista obliqua fino a immettersi su un raccordo nella parte orientale dell’aeroporto che portava alla vicina pista militare ugandese, lì Baccos ricevette ordine di fermarsi, spegnere i motori e raggiungere tutti gli altri all’old terminal.

L’old terminal era un complesso composto da una palazzina a un piano posta subito a nord di un grande piazzale di parcheggio per i velivoli di linea. A ovest c’erano la grande torre di controllo abbandonata e la dogana che comunicava con il terminal, mentre ad est c’erano i vecchi alloggi dei vigili del fuoco.

Per ironia della sorte, l’old terminal e il new terminal di Entebbe erano stati costruiti anche grazie a denaro e mano d’opera israeliana, all’epoca in cui Israele era in buoni rapporti con l’Uganda.

All’epoca del dirottamento però l’old terminal era ormai in disuso da anni. Si presentava come un complesso abbandonato a sé stesso e infestato dagli insetti, soprattutto da una particolare specie infestante di pappataci portatori di malaria e di tifo petecchiale.

Scesi ormai esausti dall’aereo, dopo ore ed ore di immobilità obbligata, sotto il continuo torrente di minacce e insulti che usciva dalla bocca della Kuhlmann, i passeggeri completamente frastornati vennero ammassati come bestiame nelle due hall dell’old terminal.

Gli ugandesi accesero un vecchio gruppo elettrogeno lì vicino, così gli ostaggi poterono vedere per la prima volta il loro nuovo alloggio.

Il pavimento era ingombro di detriti e rifiuti di ogni sorta. Topi, scarafaggi e ragni grossi come il pugno di un uomo erano dappertutto. Per fortuna non erano letali, ma il loro morso impediva il sonno e lasciava un doloroso arrossamento.

La notte, stranamente, all’interno dell’old terminal faceva freddo, mentre durante il giorno gli ostaggi avrebbero scoperto che la temperatura si sarebbe fatta torrida e l’aria irrespirabile.

I materassi ammassati a terra dagli ugandesi si rivelarono pieni di pulci e quindi si preferì buttarli e dormire per terra sopra qualche straccio lurido.

Ma la cosa peggiore erano i servizi igienici: in pratica non esistevano. Dopo poche volte che i passeggeri li ebbero utilizzati essi si otturarono definitivamente e smisero di funzionare, per cui i rifiuti biologici si accumularono, aumentando il puzzo e gli insetti e compromettendo seriamente le già misere condizioni igieniche.

Fu chiaro a tutti che non si prevedeva una loro lunga permanenza in quel posto.

I terroristi si installarono vicino agli ostaggi, nella vecchia sala vip del terminal, dove trovarono acqua, cibo, armi, letti veri e lenzuola vere.

Gli ugandesi invece, con gli effettivi di circa una compagnia, si stabilirono al primo piano del complesso che un tempo aveva ospitato un grande ristorante.

Sara Davidson racconta:

 

“I terroristi sembravano molto sicuri di sé. Parvero rilassarsi insieme ai loro amici. Arrivarono persino a scherzare con noi. Ci sentivamo come un topolino nelle zampe di un gatto”.

 

 

 

Idi Amin Dada

 

Nel corso del pomeriggio di lunedì 28, all’old terminal aveva fatto la sua comparsa in pompa magna il corteo presidenziale del capo di stato ugandese. Erano arrivati in elicottero, con il dittatore risplendente nella sua alta uniforme piena di medaglie e decorazioni da lui stesso ideata. Sul petto incredibilmente portava anche le ali di paracadutista israeliano, sebbene non avesse mai fatto un lancio in vita sua.

Idi Amin si presentò accompagnato dal figlio di otto anni, vestito con un’uniforme simile alla sua.

Gli ostaggi videro un uomo dall'aspetto imponente e circondato da dignitari e guardie del corpo.

Avvicinò i passeggeri del volo Air France con fare apparentemente gioviale, esclamando: “Shalom! Shalom!”, ma appena uno dei passeggeri gli rivolse la parola chiamandolo “Mr. President”, l’umore di Idi Amin cambiò di colpo.

Un testimone disse che Idi Amin sembrò esplodere dalla rabbia, poi sibilò a un suo lacchè che avrebbe dovuto dire ai passeggeri che da ora in poi si sarebbero dovuti rivolgere a lui come: “His Excellency, Field Marshal, Doctor Idi Amin Dada”.

Subito dopo parve aver riacquistato il controllo e si rivolse direttamente ai passeggeri del volo 139, dicendo che era dispiaciuto per la situazione creatasi e che solo Israele poteva risolvere la cosa, accondiscendendo alle richieste dei dirottatori. Aggiunse inoltre che i passeggeri potevano essere certi che lui avrebbe interceduto presso i dirottatori per ottenere un loro pronto rilascio.

Quella sera, i tentativi dell’ambasciatore francese in Uganda, Pierre Renard, di negoziare con i terroristi caddero nel vuoto.

 

 

 

 

Selektzia

 

Il giorno seguente, il 29, dopo una notte insonne i passeggeri vissero un'altra giornata di apprensione. Il calore tropicale e l’umidità all’interno della costruzione crebbero mano a mano che il disco del sole saliva sopra l’orizzonte e ben pochi tra gli ostaggi avevano il coraggio e l’energia di fare qualcosa di diverso dallo stare seduti a terra fissando il vuoto. Tutti grondavano sudore. I pochi che ancora avevano voglia di parlare discorrevano riguardo alla situazione, il tema ricorrente era quanto tempo sarebbero stati trattenuti contro la loro volontà. Quelli tra loro che si erano addormentati sui materassi gettati sul pavimento dai soldati non avevano chiuso occhio tutta la notte perseguitati dai morsi degli insetti e si svegliarono pieni di prurito e di pomfi violacei.

Se ci si voleva spostare o andare al bagno bisognava chiedere il permesso.

I terroristi avevano fatto un mucchio con i passaporti sopra un tavolo nella piccola hall e ora qualcuno li esaminava uno ad uno mentre altri dirottatori oziavano nelle vicinanze del terminal, sdraiati all’ombra di ombrelloni o allungati su amache che dondolavano pigramente nell’afa.

Sara Davidson teneva un piccolo diario per non perdere la testa. Quella mattina ci scrisse:

 

“Un aereo verrà presto a liberarci, ogni cosa andrà a posto e torneremo alle nostre famiglie”.

 

Gli escrementi fuoriuscirono ben presto dai bagni che divennero inutilizzabili. Il fetore era nauseabondo.

Nel pomeriggio si fece rivedere Idi Amin con il suo seguito. Gli ostaggi, oramai esausti fisicamente e psichicamente, andavano in contro a emozioni contrastanti. Qualcuno addirittura applaudì all’arrivo del dittatore, un altro passeggero invece disse che Idi Amin gli ricordava Hitler e, come si vide poi, purtroppo non aveva tutti i torti.

All’improvviso verso sera arrivarono i soldati ugandesi e con un martello pneumatico presero ad allargare il passaggio tra hall grande e hall piccola.

Alle 19:10 secondo il diario di Moshe Peretz, studente di medicina, Brigitte Kuhlmann prese a separare gli ostaggi di religione ebraica dagli altri, mandando gli ebrei nella piccola hall.

Per chi era sopravvissuto ai campi di sterminio, questa era una visione orrenda e significò rivivere un incubo, reso poi incredibilmente più realistico dal fatto che la Kuhlmann era tedesca.

Nessuno sapeva cosa i terroristi avrebbero fatto alle persone nella piccola hall: era forse giunta la fine? Fu il panico.

Gli ugandesi dovettero usare il calcio dei Kalashnikov per mantenere una parvenza d’ordine in quella follia.

I soldati ugandesi presero a ridere e a schernire gli ostaggi terrorizzati, presero una trave, la inchiodarono al muro ai due lati dell’apertura che avevano allargato tra le due hall e obbligarono tutti gli ebrei (indipendentemente dal sesso e dall’età) ad ammassarsi nella hall piccola passando sotto quella trave, così che dovevano chinarsi per entrare.

Lo spettacolo pareva divertire moltissimo soldati e dirottatori.

Un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti per poco non morì di paura nel sentire l’accento tedesco della Kuhlmann mentre gli ordinava di separarsi dagli altri e di passare sotto la trave:

 

“Mi parve di essere ritornato di colpo in dietro di 32 anni. Sentii gli ordini in tedesco, vidi le armi puntate. Mi ricordai della lunga fila di prigionieri e il grido - Gli ebrei a destra! - e mi chiesi com’era possibile che succedesse ancora”.

 

Quel sopravvissuto ricordò all’improvviso ciò che non bisognerebbe mai ricordare. La parola oscena con cui nel mostruoso gergo del lager le SS chiamavano la selezione di quelli che dovevano andare a morire nella camera a gas: Selektzia.

La selezione dell’olocausto.

L’uomo non capì più nulla, non sapeva dove andava e forse non gli importava più. Lo afferrarono e lo scagliarono sotto la trave e nella piccola hall.

 

Nel vedere quella scena inguardabile, il comandante Baccos riunì l’equipaggio Air France e disse che, per quanto lo riguardava, era dovere di ogni comandante restare con i passeggeri fino all’ultimo, per cui lui sarebbe rimasto con gli ebrei.

Tutti i componenti dell’equipaggio, comprese le giovani hostess, seguirono il comandante sotto la trave e nella piccola hall. All'inteno c’erano trovarono 106 persone.

 

Fonti:

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

Modificato da Hobo
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Per motivi presumo "politici" nessuno ha accusato pubblicamente Amin- che se non mi sbaglio voleva addirittura dedicare una statua ad Hitler, anche se pi non se ne fece niente- di essere più che d'accordo con gli organizzatori, anche se ci sono fin troppi elementi che a me- come a molti, credo, fanno pensare questo. Viene anche da pensare che gli organzzatori siano stati quantomeno aiutati da uno o più Stati, perchè nella sua criminalità il piano non sembra nè semplice, nè improvvisato.

Mi spiego, già ci sono membri che hanno ben poco in comune, appartenenti a gruppi di estrema sinistra- che poi si sarebbe saputo appoggiati estesamente, se non addirittura "creati" dalla Stasi- tedeschi con membri dell'organizzazzazione per la liberazione della Palestina: come avrebbero fatto, da soli, a prendere contatto ed ad organizzare il tutto? Certo, non erano sprovveduti, però tutto diventa più lineare se si assume che "qualcuno" in posizione piuttosto alta abbia quantomeno "ispirato" la cosa.

C'è anche la scelta dei tempi, e dei percorsi,che presuppone una conoscenza delle pecche della sicurezza aeroportuale la quale non sembra così facile da sapere (per dei gruppi locali di risorse limitate), e dell'aeroporto di arrivo, guarda caso con un vecchio edificio molto spazioso che poteva essere utilizzato senza preparativi che avrebbero dato nell'occhio.

Quanto agli insetti ed ai ragni, all'epoca tutte le case africane tranne quelle di pochissimi erano più o meno in quelle condizioni se non peggiori, non credo che sia stato scelto un luogo particolarmente sporco per terrorizzare ulteriormente i malcapitati passeggeri

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il comandante Bacos riunì l’equipaggio Air France e disse che, per quanto lo riguardava, era dovere di ogni comandante restare con i passeggeri fino all’ultimo, per cui lui sarebbe rimasto con gli ebrei.

bacos.jpg

 

Michel BACOS

Commandant à bord de l'avion d'Air France détourné sur Entebbé

Modificato da TT-1 Pinto
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Ok.

E' che su uno dei due libri si riferiscono a lui come "Baccos". Da dopo sto post mi correggo ora non ho tempo.

 

 

Per motivi presumo "politici" nessuno ha accusato pubblicamente Amin- che se non mi sbaglio voleva addirittura dedicare una statua ad Hitler, anche se pi non se ne fece niente- di essere più che d'accordo con gli organizzatori, anche se ci sono fin troppi elementi che a me- come a molti, credo, fanno pensare questo.

 

Idi Amin si rivelò un alleato dei dirottatori e questo mutò i piani israeliani, come poi si vedrà

A detta degli israeliani (e credo che sia vero) Israele e l'Uganda erano in buoni rapporti, perfino dopo l'ascesa di Idi Amin. Israele mandò in Uganda diverse società e investì anche soldi. Acqua per il il nord dell'Uganda per esempio, in cui la regione di Karamoja è praticamente desertica e molte altre cose, compresa una missione di istruttori militari, che contribuirono all'addestramento delle forze ugandesi e alla creazione dell'Aeronautica con diversi IAI (Fouga) Magister. L'aeronautica ugandese fu una delle prime in Africa ad avere i jet grazie a Israele.

Idi Amin venne "insignito" del titolo ebraico di Hagai Ne'eman (Grande Condottiero) e inizialmente era amico di Israele.

Idi Amin prese il potere con un colpo di stato il 25 gennaio 1971. Inizialmente apparve una persona ragionevole, ma poi il potere deve avergli dato alla testa perchè divenne crudele, dispotico e megalomane.

Abolì i diritti civili e l'attività politica nel suo paese, perseguitando atrocemente gli oppositori. Fece spese folli e investimenti sbagliati contro ogni consiglio anche israeliano e chi provava a dirgli qualcosa spariva.

I suoi modi portarono prima a un raffreddamento dei rapporti con Israele e poi alla rottura.

Idi Amin voleva gli F-4 Phantom II per attaccare Kenya e Tanzania. Israele glieli negò. Lui si offese moltissimo.

Idi Amin chiese a Israele di saldare gli enormi debiti da lui fatti. Sapeva ovviamente che Israele si sarebbe rifiutata e quando questo accadde si rivolse all'Arabia Saudita e alla Libia per avere prestiti.

Inutile dire che per fare questo passò nella sfera araba e sovietica. Espulse tutti gli ebrei e divenne nemico giurato di Israele mentre il suo paese scivolava nel caos totale.

Nonostante questo venne nominato Presidente dell'Unione Africana.

Idi Ammin dichiarò illegale l'ebraismo in Uganda.

L' 11 settembre 1972 Idi Amin mandò un telegramma al Presidente delle nazioni Unite Waldheim in cui plaudeva all'olocausto.

Tra l'altro vi si legge:

" ... it was where Hitler had burned more than six million Jews" e questo perchè: "all of the German people knew that the Israelis are not a people who work for humanity and because of that they burned them alive and killed them with gas on the soil of Germany".

 

 

Così descrive Idi Amin l'ambasciatore americano in Uganda nel '75:

"Racist, erratic and unpredictable, brutal, inept, bellicose, irrational, ridicolous and militaristic ...".

 

Fonte:

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. Pag. 15.

 

 

Quanto agli insetti ed ai ragni, all'epoca tutte le case africane tranne quelle di pochissimi erano più o meno in quelle condizioni se non peggiori, non credo che sia stato scelto un luogo particolarmente sporco per terrorizzare ulteriormente i malcapitati passeggeri

 

Infatti successe perchè da anni era disabitato (dagli anni '60).

 

 

Se non vi rompe proseguo con il mio riassunto (che quindi non va preso come libro di testo):

 

 

Il viaggiatore

 

Il signore veniva da Londra. Un suo amico che sembrava uno del posto lo stava già aspettando. Si avvicinarono al bancone.

Tutti i documenti dell’uomo erano in ordine: passaporto, visto, licenza di volo. Tutto a posto.

Disse qualcosa a proposito di un reportage scientifico sul lago Vittoria. Scherzò brevemente con la bella ragazza di colore che stava dietro il bancone e firmò i moduli per il noleggio dell’aereo. Pagò in contanti.

I due uscirono al sole sull’aeroporto di Kisumu. Indossarono i Ray-Ban, fecero il giro d’ispezione attorno al velivolo e decollarono nell’aria torrida e immobile.

Sul piano di volo alla voce “destinazione” stava scritto in una bella grafia “Entebbe”.

Il lago Vittoria visto dall’alto in una giornata estiva è una delle sette meraviglie del mondo. Uno sconfinato mare interno di 26.000 miglia quadre che si estende a perdita d’occhio in ogni direzione, da esso origina il Nilo.

La baia di Kavirundo fuggì sotto l’aereo. Subito dopo i due furono sul lago. Si diressero a ovest, seguendo la costa settentrionale, volando sopra una miriade di isolette coperte di jungla verdissima.

Dopo tre ore, il controllore del traffico della torre di Entebbe li autorizzò all’avvicinamento e alla discesa.

Le cose si complicarono da subito: il pilota disse che il carrello non ne voleva sapere di uscire, per cui riattaccò, chiedendo l’autorizzazione a un roundabout. Gliela concessero.

La cosa si ripetè: non era giornata.

L’aereo tentò e ritentò diversi avvicinamenti sull’aeroporto senza risultato.

Il controllore di volo si dimostrò persona paziente e comprensiva ed anzi aveva cominciato seriamente a preoccuparsi, quando per radio il pilota gli comunicò che per quel giorno ne aveva abbastanza a che ci rinunciava: tornavano a Kisumu.

Il controllore rimase interdetto. Gli ricordò di accertarsi di avere abbastanza carburante e gli augurò un felice ritorno. Il pilota dell’aereo gli disse che era tutto a posto e lo ringraziò per la premura dimostrata, virò e rimise la prua sul Kenya.

Dozzine di magnifiche foto dell’aeroporto internazionale di Entebbe erano ora in possesso del Mossad.

 

 

 

Intanto a Tel Aviv …

 

Nelle prime ore di mercoledì 30, il primo ministro Rabin, che nel ’67 aveva portato Israele alla vittoria durante la guerra dei sei giorni, rifiutò di autorizzare i piani proposti dei militari, dicendo che avrebbero rappresentato la Baia dei Porci israeliana. Di conseguenza ordinò che si ricominciasse da capo: l’iniziale entusiasmo per una risposta armata iniziò a scemare e soprattutto il capo di stato maggiore dell’IDF Mordechai Gur si fece dell’opinione che la risposta dovesse essere negoziale e non di forza.

Un volo El Al venne inviato a Nairobi con a bordo un team israeliano che avrebbe dovuto incontrare il governo keniota e sondare il terreno in vista di una possibile richiesta di collaborazione con Israele. Nairobi non era in buoni rapporti con Kampala e il suo despota, ma rappresentava l’unico paese dell’area per lo meno non ostile a Israele. Nonostante questo, i kenioti rimasero freddi dinnanzi alle richieste israeliane e non permisero l’uso militare del loro territorio.

Il fallimento dei militari nel concepire operazioni armate plausibili preoccupò moltissimo Yitzhak Rabin che fu costretto a prendere per la prima volta in reale considerazione la possibilità di accedere alle richieste dei terroristi, pur mantenendo sempre aperta l’opzione militare.

Al contrario di Rabin, Shimon Peres, ministro della difesa, dopo aver parlato con Peled dell’Aeronautica aveva iniziato a credere in una soluzione di forza.

 

 

 

Il Premio Nobel

 

Shimon Peres, vedendo bene che le informazioni scarseggiavano e che per il momento i militari brancolavano nel buio, prese l’iniziativa: chiamò il colonnello Baruch “Burkah” Bar Lev.

Burkah Bar Lev era stato il responsabile della missione militare israeliana a Kampala nel periodo di collaborazione tra Israele e Uganda. Gli israeliani sapevano che Idi Amin, per lo meno ai vecchi tempi, aveva considerato Bar Lev come una specie di amico personale.

Allo scopo di carpire qualunque informazione Idi Amin si fosse lasciato sfuggire, Peres decise di giocare anche questa carta e pregò Bar Lev di chiamare il dittatore ugandese per cercare di sollecitare un suo interessamento in favore dei passeggeri del volo 139.

Bar Lev effettuò diverse chiamate telefoniche internazionali e parlò a lungo con Idi Amin Dada. Conoscendolo e accorgendosi che non era cambiato, ma che era rimasto l’egocentrico vanesio di sempre, Bar Lev cercò di solleticare la smisurata vanità di Idi Amin, dicendogli che tutto dipendeva dalla sue grandi capacità e arrivando a prefigurargli addirittura il Premio Nobel per la Pace qualora fosse intervenuto in favore degli ostaggi.

L’idea parve lasciare estasiato il despota ugandese, che però non sembrò cambiare di un millimetro la sua condotta.

Se sotto questo punto di vista quei colloqui telefonici erano stati un fallimento e gli ostaggi rimanevano ancora a Entebbe, al contrario, essi erano stati una vera miniera di informazioni per gli israeliani. Idi Amin si era mostrato molto sospettoso ovviamente, ma la vanità aveva avuto il sopravvento e come tutti i dittatori anche Idi Amin non aveva resistito alla tentazione di lasciarsi andare a interminabili sproloqui.

L’idea complessiva che Shimon Peres si fece della situazione non gli piacque: Idi Amin non sembrava affatto neutrale, non si limitava solo al mero ruolo di “padrone di casa” con i terroristi, ma li aiutava attivamente facendo partecipare le sue forze armate alla sorveglianza degli ostaggi e alla difesa dei luoghi di detenzione.

Questo cambiava tutto: ora un eventuale contingente d’assalto avrebbe dovuto essere qualcosa di molto più che un semplice team antiterrorismo, ma avrebbe dovuto anche essere in grado di resistere ai contrattacchi delle forze ugandesi.

 

 

 

Il Rashomon

 

Nel frattempo quel giorno finì l’esercitazione interforze nel Sinai e molti ufficiali superiori e subalterni poterono così ritornare alle loro basi.

Tra essi c’erano anche il comandante di Esercito e Paracadutisti, brigadier generale Dan Shomron e il vice di Adam alle Operazioni, colonnello Shai Tamari.

Entrambi erano stati tenuti costantemente aggiornati dai loro subalterni.

Shomron si recò alla Scuola Militare di Stato Maggiore e convocò lì Oren e Biran nella serata.

Tamari, in qualità di vice di Adam, rilevò il comando della pianificazione del possibile intervento militare da Ehud Barak e volle essere aggiornato su tutto quanto era stato pensato nelle 24 ore precedenti. Tamari, come Rabin, giudicò vaghe e irrealistiche le opzioni presentate e ordinò che ogni unità ritornasse alla fase di progettazione.

La possibilità operativa più concreta restava frattanto quelle concepita dal colonnello Ehud Barak, (futuro primo ministro) e cioè un attacco anfibio con incursori, paracadutati sul lago Vittoria, che si sarebbero avvicinati a Entebbe da meridione grazie agli Zodiac gonfiabili.

Sulla carta, l’operazione sembrava buona e di sicuro era la più promettente di tutte. Quella sera chiamarono Shani al 131° e si fece una grossa esercitazione notturna con i C-130 e le forze speciali sul Mediterraneo. Gli Zodiac, appena lanciati a bassa quota dai C-130, come toccavano l’acqua scoppiavano.

Come se non bastasse poi c’era anche un altro problema molto concreto. A riassumerlo ci pensò Muki Betser che aveva partecipato a quell’esercitazione:

 

“I coccodrilli del Nilo che popolano il lago Vittoria sono i più grandi del mondo. Il Sayeret Matkal è la migliore unità speciale del mondo e può combattere contro qualsiasi cosa, ma combattere contro i coccodrilli non è una di quelle cose …”.

 

Ma soprattutto il più grande fattore che avrebbe inficiato tutta quell’operazione era che essa si basava sull’assunto che gli ugandesi si sarebbero mantenuti neutrali, mentre ora Peres sapeva che non sarebbe stato così e che non sarebbe bastato solo liberare gli ostaggi, ma ci sarebbe stato anche bisogno di difendersi dagli ugandesi per poi ripartire subito da Entebbe: necessitavano gli aerei.

Quel pomeriggio il ministro della difesa Peres chiamò Adam e Peled e chiese direttamente a loro come valutavano l’eventualità di un atterraggio a Entebbe con gli Hercules.

Entrambi, sia Peled che Adam risposero che credevano in quell’idea anche se ancora era tutta da valutare. Peres parve essere della stessa opinione e ordinò a Peled e Adam di mettersi a studiare anche la dimensione della forza d’attacco ideale che si sarebbe potuto trasportare in Uganda e poi riportare a casa con gli ostaggi.

Nello stesso pomeriggio, Shomron era con Oren e Biran alla Scuola di Stato Maggiore dell’IDF. I tre si misero a studiare anche loro le varie opportunità. Shomron pensava a un’operazione di paracadutisti in grande stile, con un contingente non solo in grado di prendere e tenere l’aeroporto, ma anche di resistere alla risposta delle forze ugandesi.

Il tenente colonnello Biran ricorda:

 

“Restammo seduti più di due ore e definimmo un concetto operativo, un’idea. Non la chiamerei proprio un piano.

Il nocciolo sembrava essere questo. Gli aerei sarebbero atterrati a una certa distanza dall’old terminal. Una forza d’assalto sarebbe sbarcata dagli aerei e sarebbe andata al vecchio terminal liberando gli ostaggi.

Gli altri aerei di rinforzo avrebbero preso terra solo dopo l’inizio dell’assalto all’old terminal, per non dare al nemico la possibilità di allertarsi troppo presto e di far fallire l’attacco.

Una seconda forza una volta atterrata avrebbe conquistato il new terminal, perché da lì si dominava l’aeroporto, mentre una terza forza avrebbe formato un perimetro difensivo tutto attorno e tra i due terminals”.

 

Data la vastità dell’aeroporto, ci sarebbero voluti dei veicoli per spostarsi in tempi ragionevoli da un punto all’altro, inoltre Shomron e i suoi pensarono anche a dei blindati di supporto e rinforzo e presero anche in seria considerazione la possibilità, come qualcuno dell’Aviazione gli aveva detto, di rifornire gli Hercules con il carburante dei normali serbatoi civili di Entebbe.

Quella sera, Oren tornò al Kyria e andò alle Operazioni da Tamari a sottoporgli l’idea che avevano avuto Shomron, Biran e lui stesso. Tamari non disse né si né no, ma gli ordinò di svilupparla meglio perché gli sembrava vaga e voleva che fosse rielaborata per poi riesaminarla. La cosa restava molto incerta e indefinita e sarebbe rimasta tale fino al giorno dopo, quando iniziò davvero la pianificazione dettagliata.

Il piano di un atterraggio “morbido” a Entebbe quindi iniziò a prendere forma, ma ancora oggi non esiste in realtà accordo tra le varie fonti sul dove e sul chi fu il primo a proporlo e a svilupparlo. E’ ancora tutto coperto dal segreto militare.

Molti anni dopo, il generale Motta Gur dirà:

 

“E’ come un Rashomon dalle mille porte: in cui nessuno potrà mai giungere alla verità ultima. Ci sono almeno cinque persone che rivendicano la paternità di quel piano, ciascuna con la propria versione della storia e in ultima analisi non mi interessa proprio. Ciò che conta è che alla fine la cosa prese corpo”.

E’ comunque chiaro che ci furono molte idee diverse tra lunedì 28 e giovedì primo luglio. E’ anche chiaro che la proposta di atterrare a Entebbe con gli Hercules si precisò nella serata e nella notte di mercoledì, nell’incontro condotto da Shomron alla Scuola Militare.

 

 

I transfughi

 

Nella serata di mercoledì, quale gesto di magnanimità, l’autoprofessantesi “Grande Patrocinatore” della causa degli ostaggi, Idi Amin, liberò di sua iniziativa 47 passeggeri del volo 139; tutti non ebrei e non israeliani, ma quasi tutti francesi e quasi tutti donne, vecchi e bambini.

Essi arrivarono con un volo di linea a Orly, a Parigi, dove il ministro degli esteri francese Sauvagnargues andò ad accoglierli insieme con le famiglie che li attendevano all’aeroporto.

Appena la cosa si seppe al Kyria, una missione dell’intelligence militare capitanata dal tenente colonnello Amiram Levine si recò immediatamente a Parigi per parlare con gli ostaggi liberati.

Levine dovette muoversi con estrema cautela, perché non doveva per nessun motivo farsi vedere dal consigliere dell’antiterrorismo Zeevi, che Rabin aveva già mandato in Francia per coordinarsi con i francesi durante i negoziati con i dirottatori. Se Zeevi avesse visto Levine infatti, avrebbe capito subito che i militari stavano preparando qualcosa e questo avrebbe potuto compromettere le sue qualità di giudizio nei negoziati. Se i terroristi avessero subodorato qualche mutamento negli schemi di Zeevi, avrebbero potuto sterminare gli ostaggi.

Quella sera e per tutta la notte su giovedì gli ostaggi furono intervistati dai servizi francesi, accanto ai quali c’era sempre anche un uomo di Levine.

In questo modo si ottennero cruciali informazioni fresche su tutta la questione. I passeggeri liberati purtroppo confermarono definitivamente i timori di Peres: gli ugandesi appoggiavano attivamente i terroristi e collaboravano con loro. E li avrebbero difesi se necessario.

I passeggeri raccontarono della “room of separation” cui avevano assistito: la separazione degli israeliani e degli ebrei da tutti gli altri e raccontarono anche del comandante Baccos e dell’equipaggio francese che si erano voluti unire agli ebrei. Erano stati tutti visti per l’ultima volta nella hall piccola dell’old terminal.

Dissero che solo un membro dell’equipaggio Air France non aveva potuto unirsi agli ebrei: si trattava del membro più giovane, un assistente di volo diciottenne. Baccos in persona, in qualità di comandante, gli aveva impedito di seguirlo a causa della sua giovane età e l’aveva rimandato in dietro.

Almeno un passeggero non israeliano era stato poi visto nel tentativo di seguire volontariamente Baccos dagli ebrei, ma tutti erano stati respinti in malo modo dagli ugandesi.

Particolarmente utile si rivelò il racconto di un passeggero che era un ex ufficiale delle Forze Armate Francesi, il quale si era subito sforzato di tenere a memoria tutto quello che vedeva e sentiva a Entebbe e che poteva essere utile dal punto di vista militare: quanti terroristi, quanti ugandesi c’erano sul campo, l’aspetto, le armi, la routine giornaliera, il comportamento, dove erano trattenuti gli ostaggi, com’era fatto dentro l’old terminal e molte altre cose che si rivelarono di incalcolabile valore.

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Il compromesso

 

Nella mattina di giovedì primo luglio, a Tel Aviv regnava un’atmosfera cupa. Il primo ministro Rabin convocò di nuovo i vertici dell’IDF. L’ultimatum sarebbe scaduto alle 14:00.

Gur ripetè al capo del governo che, in quel momento, non poteva raccomandare alcuna operazione militare: l’IDF non aveva ancora un piano che potesse risolvere il problema.

In un consiglio con i ministri anziani, fu presa la decisione di compromesso di accedere almeno parzialmente alle richieste dei terroristi e di liberare i criminali, per lo meno i 40 detenuti in Israele.

Così si creava un pericoloso precedente: ora chiunque avrebbe capito che minacciando in modo adeguato lo stato ebraico si sarebbero potuti ottenere comunque dei risultati.

Ma la verità era che in cuor suo Yitzhak Rabin nutriva ancora la speranza e la possibilità della soluzione armata.

Ricorda Rabin:

 

“La mia non era doppiezza, né uno stratagemma per guadagnare tempo. E’ che volevo anche dei veri negoziati, con Israele impegnata a rispettare gli accordi”.

 

Quando la decisione di Israele venne resa pubblica, i terroristi accettarono di spostare in avanti la deadline: la nuova deadline ora sarebbe caduta alle 14:00 di domenica 4 luglio.

 

 

Primo luglio: ore 16:00

 

Frattanto la notte prima a Tel Aviv erano cominciate ad affluire le prime informazioni degne di questo nome: i rapporti di Levine sui racconti dei 47 ostaggi liberati da Idi Amin e le nuove foto dell’aeroporto di Entebbe.

Alla luce dei nuovi dati, Kuti Adam convocò Barak, Tamari, gli altri alle Operazioni e il Comando Interforze per metterli al corrente dei recenti sviluppi e del fatto che gli ugandesi collaboravano con i terroristi.

Dan Shomron, disse che bisognava organizzare un’operazione più in grande stile, per resistere anche agli ugandesi.

Quel pomeriggio, tutti quegli ufficiali, con in più anche Peled dell’Aeronautica, andarono dal ministro della difesa Peres e gli esposero il piano dell’atterraggio a Entebbe di Shomron, rielaborato alla luce delle nuove informazioni. Peres eventualmente lo avrebbe poi esposto a Rabin.

A Shomron, Peres chiese di presentare il piano per tre volte e ogni volta gli richiese perché considerava possibile l’operazione, poi interruppe bruscamente l’esposizione di Shomron per chiedere ai presenti

“Signori, voi quante probabilità si successo pensate che avremmo?”

Shomron ricorda che nella sala si fece il gelo, nessuno se la sentiva di rispondere. Fu Adam a parlare per primo:

“Signor ministro, ci aspettiamo un 50% di probabilità”.

“In altre parole”, ribattè Peres, “Voi non lo sapete. Eppure giudicate fattibile la cosa e me la state raccomandando”.

A quel punto, Peres fissò Gur. Gur gli disse che gli avrebbe risposto solo in una riunione privata. Allora Peres fece uscire tutti. Rimasero solo lui, Gur, Peled e Adam.

Usciti tutti, Gur disse che, per quanto lo riguardava, l’operazione era una follia, lui era ancora sfavorevole e così com’era non l’avrebbe mai autorizzata (spettava infatti a lui l’ultima parola).

Non gli si poteva certo dar torto: non c’era stato il tempo e il piano era ancora poco più che un’idea. Un fallimento non avrebbe significato solo la morte degli ostaggi, ma anche una catastrofe per Israele sul piano nazionale e internazionale.

A quel punto fu ancora Adam che ebbe la prontezza si salvare capra e cavoli (non a caso era il capo del Reparto Operazioni). Si intromise nella discussione, dicendo che secondo lui e anche secondo Ehud Barak, valeva la pena mettersi a lavorare a un progetto più dettagliato, organizzare le truppe per una grande esercitazione completa, ammettendo contemporaneamente anche la possibilità che non se ne sarebbe mai fatto niente. Peled era d’accordo. Alla fine anche Gur acconsentì. Per cui quel pomeriggio Peres andò finalmente da Rabin con qualcosa di concreto da proporgli. Erano le 16:00 di giovedì primo luglio.

Quella sera, le speranze del primo ministro Rabin subirono una brusca impennata.

 

 

Thunderbolt

 

Il piano che Shomron aveva pensato e che lui, Adam e Peled avrebbero continuato ad approfondire per tutta la notte e fino all’alba di venerdì, come aveva detto Gur, era qualcosa di poco meno di una pazzia.

L’idea era raggiungere Entebbe a 2.200 miglia nautiche di distanza, atterrarci, liberare gli ostaggi e ripartire.

La sola distanza era enorme. La rotta di volo passava sopra e vicino a paesi ostili. Era tassativo non farsi rilevare, né tanto meno riconoscere: se i terroristi avessero avuto anche un seppur minimo sentore di una cosa del genere, avrebbero massacrato subito gli ostaggi.

Le possibilità di essere soccorsi se una qualunque cosa fosse andata storta una volta atterrati laggiù, nel cuore dell’Africa, erano pari a zero.

Il Mossad aveva avvertito che almeno la metà degli effettivi delle forze armate ugandesi (circa 10.500 uomini) era dislocata entro un raggio di 22 miglia da Entebbe: era di gran lunga la più grande forza nemica che un’unità speciale da recupero ostaggi si fosse mai ritrovata a dover affrontare: non era più un’operazione antiterrorismo, ma era una missione militare di guerra in piena regola.

Come ciliegina sulla torta c’era il fatto che, una volta ripartiti da Entebbe, i C-130(Karnaf, in Israele) avrebbero avuto carburante per soli 90 minuti di volo, mentre il solo volo d’andata sarebbe durato più di otto ore.

Le incognite quindi erano da far rizzare i capelli a chiunque. Come se non bastasse poi un’operazione del genere normalmente avrebbe richiesto settimane per essere pianificata e simulata: qui c’erano solo quarantottore!

Se Israele avesse fallito, non solo gli ostaggi avrebbero perso la vita, ma sarebbe stata una catastrofe nazionale ed internazionale.

In Israele, la gente solo allora iniziava a riprendersi dallo shock della guerra dello Yom Kippur del ’73, quando solo per un soffio lo stato ebraico non era stato cancellato dalle mappe (e dalla storia), per cui una debacle a Entebbe avrebbe minato la fiducia del popolo israeliano in coloro che lo comandavano, generando negli israeliani la convinzione di essere mal condotti.

Sul piano internazionale poi, un fallimento a Entebbe avrebbe generato negli arabi la convinzione che Israele non era che una tigre di carta e poteva essere battuta e questo a Tel Aviv poneva interrogativi da brivido su cosa avrebbe potuto succedere.

Nonostante tutto questo, l’operazione proposta da Dan Shomron rappresentava per Israele la sola possibilità si potersi sottrarre al ricatto terroristico.

A detta di tutti, autorizzare un’idea del genere è stata la decisione più difficile mai presa fino ad oggi da un capo di stato maggiore israeliano e toccò proprio a Mordechai Gur doverla prendere.

L’operazione era stata inizialmente denominata Stanley da Shomron, dal nome del grande esploratore, ma poi i computers del Kyria che generano nominativi random per le missioni militari le assegnarono il nome di “Wave of Ash”, che non ebbe molto successo presso la truppa, per cui il piano venne definitivamente battezzato “Thunderbolt”.

 

Fonti:

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Heyl Ha Avir - prima parte

 

Il 707 El Al avanzò lentamente fino a quando laddetto a terra non gli segnalò di fermarsi davanti al terminal. Il grande aereo si arrestò con un inchino appena il suo pilota premette sui freni.

Amnon Halivni, riservista e pilota El Al, aveva appena bloccato il suo aereo e iniziato la procedura di spegnimento dei motori, quando, ancora seduto al suo posto in carlinga, notò un ufficiale in divisa dellAeronautica che gli faceva cenno di sbrigarsi e di scendere. Appena sceso, lo fecero salire subito su unauto con targa militare.

 

Anche Rami Levi era appena atterrato a Lod con il suo 707 proveniente da Londra, quando aveva trovato ad attenderlo uno sbrigativo tecnico di volo del 131° Squadron dellAeronautica: non gli dettero nemmeno il tempo di togliersi di dosso la divisa civile della El Al.

 

Tzvika Har Nevo era un riservista navigatore veterano. Quel giorno era a casa sua per preparare un esame universitario della sessione estiva. Squillò il telefono: ordine di presentarsi subito alla base.

Uscì subito di casa e mentre si recava alla base si fermò solo il tempo necessario per acquistare il giornale. Alledicola, incontrò la sorella di uno degli ostaggi: la ragazza era disperata: disse che dovevano fare subito quello che dicevano i terroristi e liberare i criminali detenuti, così suo fratello avrebbe potuto ritornare.

Har Nevo non sapeva che dire e quella scoppiò in lacrime.

Giunto alla base, Tzvika rimase allibito: era pieno di gente che correva da tutte le parti. Ogni stanza, ogni corridoio, erano letteralmente pieni di materiale sanitario, ce nerano delle pile enormi. Gli dissero che stavano allestendo un ospedale volante. Poco dopo, Har Nevo capì perché.

 

La Heyl HaAvir aveva richiamato in servizio attivo tutti gli uomini indicati da Peled e da Shani: uomini con grande esperienza di volo ed esperti nellutilizzo del C-130H. Molti di essi erano anche stati diverse volte ad Entebbe e si ricordavano comera fatto laeroporto.

Vennero tutti riuniti alla base del 131° Squadron Yellow Bird e si formarono subito delle unità di studio: piloti, navigatori, ingegneri di volo, equipaggi di terra. Ognuno preparò un piano dal suo punto di vista, per poi integrarlo con gli altri.

Data la grande distanza da coprire, si vide che lunico aereo dellarsenale israeliano che fosse capace di raggiungere Entebbe con un carico significativo, atterrarci e ritornare erano i C-130H dellAviazione, che in Israele sono conosciuti come Karnaf (Rinoceronte).

Si convocarono tutti gli uomini che avevano servito nella missione militare israeliana in Uganda, affinchè ognuno di loro stilasse un proprio rapporto su ciò che ricordava dellaeroporto internazionale di Entebbe. Poi vennero tutti invitati a rimanere graditi ospiti dellAeronautica Militare fino a nuovo ordine: nessuno protestò.

Latterraggio sullaeroporto nemico avrebbe dovuto essere morbido, cioè senza la copertura di aerei da combattimento. Se infatti i terroristi avessero subodorato qualcosa, avrebbero ucciso gli ostaggi, quindi qualunque azione militare preparatoria classica, tipo far entrare dei caccia nello spazio aereo ugandese, o bombardare la vicina base militare, avrebbe significato morte certa per i passeggeri del volo 139. Di conseguenza larmata aerea avrebbe dovuto atterrare a Entebbe in modo furtivo e, per quanto possibile, senza attirare su di sé attenzioni di nessun tipo fino allinizio dellattacco.

Il tenente colonnello Joshua Shiki Shani ricorda:

 

Iniziammo a fare una miriade di calcoli e venne fuori che i Karnaf erano gli unici aerei in grado di raggiungere Entebbe portando un contingente di uomini e materiali significativo.

Mi riunii con i miei due vice: il comandante degli ingegneri di volo e il comandante dei navigatori e iniziammo a valutare le diverse autonomie con carichi differenti.

Parlammo a lungo di navigazione, meteo, carburante, autonomia, carico pagante … Tutte cose che richiedono tempo per essere studiate.

 

Venne fuori che gli unici aerei in grado di arrivare fino a Entebbe (2.200 miglia, 3.541 km) e tornare erano i due KC-130 da rifornimento in volo dello squadrone e, anche così, i due velivoli avrebbero dovuto imbarcare nella loro stiva il grande serbatoio interno da 3.000 imperial gallons, cosa che avrebbe limitato di molto il numero di uomini che si potevano trasportare e avrebbe impedito del tutto il trasporto dei veicoli, di cui la truppa aveva bisogno per spostarsi a terra e per il supporto di fuoco. Di conseguenza, i due KC-130 vennero scartati, anche se si fecero diverse prove per vedere quanto personale poteva essere imbarcato nella stiva che già conteneva il grande serbatoio da rifornimento in volo.

Un C-130H normale invece aveva tutti i requisiti di carico, ma non di autonomia: una volta ripartito da Entebbe infatti avrebbe avuto carburante per soli altri 90 minuti di volo, poi avrebbe dovuto o atterrare da qualche parte, o rifornirsi in volo.

Le soluzioni a questo problema esistevano; come per esempio il rifornimento in volo dai KC-130 e dai KC-135, ma questo si vide che non avrebbe potuto avvenire senza violare lo spazio aereo di alcuni paesi africani che non stavano collaborando con Israele, come Kenya ed Etiopia, in quanto lunica zona di spazio aereo internazionale dove sarebbe stato realmente possibile rifornirsi legalmente e in tranquillità era la sottile striscia sopra le acque internazionali al centro del Mar Rosso, che per i C-130 ripartiti da Entebbe sarebbe risultata più lontana della Luna, dato che a quel punto essi non avrebbero avuto più abbastanza carburante per arrivarci.

Rischiare le aerocisterne israeliane sopra paesi africani ostili o comunque non collaboranti era francamente un azzardo potenzialmente suicida per la missione, per cui si accantonò la possibilità del rifornimento in volo e si prese in reale considerazione o la possibilità di atterrare in Kenya in emergenza e anche senza il permesso delle autorità keniote, oppure leventualità di usare i serbatoi civili dellaeroporto internazionale di Entebbe.

Venne consultato il comandante degli specialisti rifornitori di terra e si vide che sarebbe stato possibile rifornirsi direttamente a Entebbe con il carburante ugandese dellaeroporto internazionale, a patto di trasportare laggiù il veicolo con la pompa del carburante e almeno 10 specialisti rifornitori dellAeronautica Militare. Si scelse questultima, rischiosissima, opzione perché era lunica possibile. Rischiosissima perché rifare il pieno di carburante a tutti i C-130 della spedizione con una pompa portatile avrebbe richiesto un certo lasso di tempo [non dicono quanto, ma credo che si calcoli in ore]. Tempo durante il quale ci si aspettava che il contingente sarebbe rimasto a terra e circondato, a difendere dalla reazione ugandese gli ostaggi liberati e gli aerei in rifornimento, senza i quali aerei nessuno di loro avrebbe mai potuto lasciare vivo lUganda!

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Heyl HaAvir - seconda parte

 

Riguardo allinserimento, in sostanza Peled e Shani avevano calcolato (giustamente, come poi si vide), che latterraggio notturno a Entebbe con le luci di navigazione e i fari datterraggio dellaereo spenti era possibile.

Conoscendo la routine aeroportuale, quelli dellAviazione israeliana erano giunti alla conclusione che ben pochi a Entebbe avrebbero fatto caso a un aereo in atterraggio al buio e a luci spente (perché sarebbe risultato invisibile da terra) e che ancora meno persone avrebbero capito di che tipo di aereo si trattava una volta atterrato.

Latterraggio avrebbe dovuto avvenire di notte; si sperava con le luci dellaeroporto accese, ma era ragionevole aspettarsi che, non appena avessero cominciato a sospettare qualcosa, gli ugandesi le avrebbero spente.

Atterrare a fari spenti di notte, su una pista non illuminata, in un aeroporto non familiare e con un aereo stracarico è in pratica un suicidio. Gli israeliani decisero che si sarebbero aiutati con lAWADS dellHercules, il sistema per il lancio alla cieca del carico (Adverse Weather Aerial Delivery System).

Gli equipaggi pienamente operativi, i cui uomini erano ritenuti in grado di potere riuscire in una simile impresa si contavano sulle dita di una mano.

Esaminati piloti e navigatori dei C-130 e i riservisti della El Al con esperienza di guerra, Peled e i suoi erano riusciti a mettere insieme non più di otto equipaggi di Hercules giudicati allaltezza della situazione. Erano tutti professionisti di altissima esperienza e quasi tutti erano già stati a Entebbe ai tempi della missione militare israeliana in Uganda.

La scarsezza di equipaggi adatti significava quindi solo quattro aerei, non di più: due equipaggi per ogni aereo, di cui uno dei due di riserva.

Anche se un numero massimo di quattro Karnaf poneva seri limiti alla dimensione del contingente trasportabile, la cosa non era giudicata un male perché comunque una flotta aerea più numerosa avrebbe sicuramente attirato lattenzione e insospettito anzitempo il nemico: era infatti umanamente impossibile far atterrare come se niente fosse unarmata dassalto aereo di 6, 8 o 10 Karnaf senza che il nemico capisse subito tutto. Per cui il numero massimo venne fissato in quattro aerei, con gli ultimi tre ben distanziati dal primo, per permettere alla forza dassalto a bordo del primo C-130 di atterrare come un tranquillo volo civile di linea e di avere il tempo di iniziare lattacco. Solo a inizio attacco, gli altri tre Hercules sarebbero atterrati.

Riguardo allatterraggio notturno su una pista a luci spente, Peled e Shani sapevano che era possibile, anche se pericolosissimo. Tuttavia, il Capo di Stato Maggiore dellIDF, Motta Gur, ne volle avere una dimostrazione pratica o non avrebbe autorizzato loperazione e ordinò unesercitazione notturna sulla pista di Ofira, vicino Sharm el Sheikh.

Motta Gur, a parte tutto, aveva ragione: il primo aereo era quello che avrebbe dovuto trasportare la forza dassalto per uccidere i terroristi e liberare gli ostaggi, ma questo non avrebbe mai potuto essere fatto se prima non si riusciva ad atterrare.

Gur infatti aveva detto a Peled:

 

Il Sayeret Matkal può combattere a Entebbe come a Tel Aviv: per loro il luogo non fa nessuna differenza.

Il problema invece è vostro: se riuscite o non riuscite ad atterrare senza problemi! Voglio una dimostrazione notturna!.

 

 

 

Fonti:

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Heyl Ha’Avir – terza parte

 

E qui c’era un problema: la pista di Ofira è parallela alla spiaggia del Mar Rosso, quella di Entebbe invece è perpendicolare rispetto alla spiaggia sul lago Vittoria. Questo significa che la pista di Ofira al buio sarebbe stata più difficile da trovare, sia con l’AWADS, sia visivamente, rispetto a quella di Entebbe.

Paradossalmente quindi Shiki Shani era più fiducioso di riuscire a Entebbe, aeroporto a lui sconosciuto, piuttosto che a Ofira, che invece conosceva.

Ora, Shani non voleva certo correre il rischio di mandare all’aria tutta l’operazione non trovando al buio la pista di Ofira sotto gli occhi attenti di Gur, per cui giocò d’anticipo (e barò): prese con sé il maggiore Avi Einstein come suo copilota e in meno d’un’ora andarono con un C-130 ad esercitarsi da soli a Ofira, prima di tornare a Lod a riprendere Peled e Gur venerdì sera.

Quella sera attesero il calar del sole, decollarono e Gur ordinò che a Ofira spegnessero tutte le luci. Volarono per qualche decina di minuti nel buio, per adattarsi al volo strumentale, poi si disposero per la discesa a luci spente e Shani accese l’AWADS. L’unica fonte di luce era la Luna, non ancora al primo quarto.

Einstein non aveva creduto mai neanche per un attimo che quell’operazione ridicola sarebbe stata autorizzata sul serio, ma voleva comunque impressionare per bene Gur.

Il C-130 venne giù al buio, con i fari d’atterraggio spenti e le luci sulla pista spente. In cabina c’erano Shani sul sedile sinistro, Einstein a destra e Gur. Nessuno dei due piloti aveva mai fatto un atterraggio di quel tipo. Allungarono tutti e due il collo per guardare fuori: non si vedeva niente!

L’AWADS li abbandonò. Il radar rilevò il recinto metallico a lato della pista di rullaggio parallela alla main runway: Shani si era quindi allineato per atterrare non sulla main runway, ma sulla pista di rullaggio!

Poco prima di toccare, Shani accese i fari d’atterraggio e con orrore comprese di essersi sbagliato, ma ebbe la prontezza di spirito di non farsi vedere sorpreso da Gur. Lì accanto, Einstein e Peled, che stava seduto dietro Einstein, erano due statue di marmo.

Shani corresse bruscamente la discesa sulla sinistra e fu direttamente sulla main runway, ma non insistè nell’atterraggio e non posò le ruote a terra. Al contrario, Shani riattaccò subito, perché atterrare non era necessario e non voleva che gli uomini a Ofira e soprattutto i beduini locali si facessero strane domande su quell’attività insolita, specie alla vigilia del sabato ebraico. Per cui risalì e si rimise in circuito per un secondo avvicinamento.

Questa volta la procedura fu quasi perfetta, con solo un minimo disallineamento, facilmente corretto da Shani.

Seduto dietro di lui, Motta Gur anche se non era un pilota aveva capito che qualcosa non era andato bene al primo tentativo, ma alla fine si congratulò con i due piloti.

Shani riprese quota nella notte, virò a nord e si rimise in rotta per Tel Aviv. Gur sembrava soddisfatto.

Shani e i piloti sapevano anche che la notte successiva, a Entebbe, all’ora in cui avrebbero preso terra, la luna sarebbe già tramontata, per cui l’oscurità sarebbe stata davvero totale, ma non dissero nulla perché non volevano fornire argomenti contro l’operazione.

Se ci fossero stati problemi nel trovare la pista al primo colpo, Shani era determinato ad atterrare lo stesso e disse a Peled:

 

“Racconteremo alla torre di controllo una cosa tipo che siamo il volo 70 dell’East African Airlines e che abbiamo un’emergenza a causa di un’avaria elettrica e gli ordinerò subito di accendere le luci della pista. Non credo che ci siano controllori di volo in grado di rifiutarsi davanti a una richiesta del genere.

Quando capiranno quello che succede, per loro sarà troppo tardi e noi saremo già a terra”.

 

Un’altra cruciale questione era il supporto ai feriti. Quelli della forza di terra richiesero un’unità medica d’emergenza al completo a bordo dell’ultimo C-130, il Karnaf-Quattro e in più Peled tirò fuori dal suo cilindro una cosa mai vista: un Boeing 707 della El Al riconvertito in versione ospedale volante, dotato tra l’altro di un’intera unità di rianimazione e di una sala operatoria al suo interno. Questo aereo impressionante era già pronto, sarebbe atterrato sull’aeroporto di Jomo Kenyatta di Nairobi come volo della El Al e lì avrebbe atteso gli sviluppi della situazione, pronto per i feriti più gravi.

Un secondo 707, versione comando e controllo, avrebbe invece trasportato a bordo i responsabili di tutta l’operazione (Adam e Peled), circuitando in alto da qualche parte [non hanno detto dove], al di sopra di ogni minaccia e sopra il teatro d’operazioni.

Pare che ci siano stati anche altri aerei in gioco: Phantoms di scorta, cisterne, AWACS, AEW e quant’altro, ma non conosco informazioni certe in proposito, né credo che ce ne siano molte perché è possibile, anche se assolutamente non provato, che gli israeliani siano stati costretti a violare (anche se pacificamente) gli spazi aerei di alcuni paesi, per cui la cosa rimane segreto militare.

Pare infatti, per esempio, che i due KC-130 da rifornimento in volo dello squadrone abbiano seguito l’armata aerea, atterrando però clandestinamente sulla superficie di un vasto lago salato nel deserto di Chalbi, nella parte occidentale del Marsabit, nel Kenya settentrionale.

Quel lago salato è a meno di 60 minuti di volo da Entebbe e sarebbe ricaduto quindi entro il raggio d’azione (90 minuti di volo) dei quattro Hercules appena ripartiti a corto di carburante dall’aeroporto ugandese.

Il Karnaf-Quattro, quello che avrebbe avuto a bordo gli ostaggi, avrebbe preso tutto il carburante di cui aveva bisogno dai KC-130 sul lago di Chalbi e sarebbe ridecollato subito diretto in Israele, a più di otto ore di volo.

A quel punto, il carburante rimanente, bastante per un solo Karnaf, avrebbe rifornito uno solo dei tre C-130 restanti, che avrebbe preso a bordo tutti e sarebbe ritornato anche lui in Israele insieme con i due KC-130.

Gli ultimi due C-130 della formazione d’attacco e tutti i veicoli terrestri sarebbero stati fatti saltare sul lago salato.

In realtà però, alcuni dicono che i C-130 sul lago di Chalbi sarebbero stati cinque, per cui non si sa: è molto probabile che comunque da qualche parte, in territorio non ostile, fosse stata allestita una vera centrale di rifornimento clandestina per C-130.

 

c130.jpg

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Aviotrasportati

 

Essendo lui il Comandante di Esercito e Paracadutisti, il brigadier generale Dan Shomron assunse il comando di tutte le truppe di terra nell’operazione.

Dato il timore degli ugandesi, molti, tra cui lo stesso ministro della difesa Peres gli avevano chiesto di pianificare una cosa in grande stile, con un poderoso aviosbarco di paracadutisti su Entebbe, composto da un’intera brigata su tre battaglioni aviotrasportati al completo.

Inizialmente Shomron era stato favorevole a quest’idea, ma poi si vide che essa era inattuabile: infatti prima ancora che il primo paracadutista avesse preso terra, tutti gli ostaggi sarebbero morti per mano dei terroristi.

Peres alla fine gli aveva dato ragione.

Ci si orientò quindi su un contingente enormemente più limitato. Quelli delle forze speciali, come Adam, furono d’accordo: una forza più compatta avrebbe infatti garantito le migliori possibilità di “controllo tattico” sul posto.

Senza saperlo quindi, quelli dell’Esercito erano arrivati per altre vie alle stesse conclusioni di quelli dell’Aeronautica: basarsi su un contingente limitato.

Questo contingente tuttavia avrebbe dovuto essere pesantemente armato e dotato di veicoli per muoversi veloce sul grande aeroporto.

I veicoli poi avrebbero potuto servire anche nella malaugurata ipotesi della distruzione a terra dei C-130: in quella eventualità, tutto il contingente avrebbe usato le jeep armate nel disperato tentativo di aprirsi la strada combattendo verso il confine keniota; le possibilità di soccorrerli da Israele sarebbero state nulle: una volta a Entebbe infatti si sarebbe stati a più di 2.000 miglia da casa e completamente circondati dal nemico.

Innanzi tutto, ci sarebbe stata una forza speciale d’assalto, composta da uomini del Sayeret Matkal (“The Unit”). Questa forza d’assalto sarebbe atterrata ad Entebbe per prima, avrebbe raggiunto l’old terminal, ucciso i terroristi e liberato gli ostaggi, iniziando a proteggerli se necessario dalle prime reazioni ugandesi.

Nel momento esatto in cui sarebbe iniziato l’assalto all’old terminal, sarebbero sbarcate a Entebbe anche una forza d’attacco e una forza di difesa periferica.

La forza d’attacco si sarebbe impossessata del new terminal e della torre di controllo dell’aeroporto (costruiti dagli israeliani). La conquista di queste strutture si era resa necessaria per almeno due motivi: primo, esse si trovano su una piccola scarpata da cui si dominava tutto l’aeroporto e, secondo, da esse si controllava il piazzale APRON antistante il new terminal, dove tre dei quattro Hercules avrebbero dovuto andare a rifornirsi di carburante dai serbatoi civili ugandesi, servendosi della pompa trasportata da Israele.

Il quarto Karnaf invece avrebbe subito preso a bordo gli ostaggi liberati, decollando immediatamente per Nairobi, dove avrebbe preso terra in emergenza con o senza l’autorizzazione keniota. (Oppure, come si pensa, era stata allestita una stazione di rifornimento clandestina in territorio keniota).

La forza di difesa periferica invece si sarebbe schierata tra i due terminal e attorno alla squadra d’assalto e a quella d’attacco al new terminal, appoggiandole nella difesa per resistere al contrattacco ugandese e difendere i rimanenti tre Hercules.

Per aumentare le capacità di appoggio della forza periferica, si giunse alla conclusione di usare le nuove jeep blindate “Re’Em” dell’Esercito: jeep statunitensi M-38A1C, dotate di armamento pesante e mitragliatrici calibro .50 (12,7 mm), che per l’occasione avrebbero portato a bordo anche dei missili anticarro Dragon, con relativo lanciatore.

Evacuati gli ostaggi, per primo si sarebbe ritirato il Sayeret Matkal, raggiungendo con i suoi mezzi il new terminal, dove si sarebbero già trovati gli uomini della forza d’attacco. Per ultimi si sarebbero ritirati quelli della difesa periferica.

Infine, appena riforniti gli aerei, tutti avrebbero dovuto lasciare immediatamente Entebbe.

Dan Shomron pensò ai suoi paracadutisti del Sayeret Tzanhanim, un’unità speciale da ricognizione (con elementi selezionati dalla 55ª e dalla 35ª brigata paracadutisti), per l’attacco al new terminal a alla torre di controllo; mentre per la difesa ravvicinata degli ostaggi e dei Karnaf in rifornimento Shomron ricorse ai fanti della brigata di Fanteria “Golani” (Sayeret Golani), un’unità altamente qualificata dell’Esercito.

Il comandante dei paracadutisti sarebbe stato Matan Vilna’i, mentre il distaccamento della Golani sarebbe stato diretto dal colonnello Uri Saguy.

L’intera operazione era basata sull’effetto sorpresa: se i terroristi avessero avuto il seppur minimo sentore della cosa, avrebbero ucciso gli ostaggi.

 

Tutto il piano non venne mai ritenuto qualcosa di definitivo, ma fino all’ultimo venne gestito come un argomento aperto, cui di volta in volta si apportavano cambiamenti o miglioramenti a seconda delle nuove informazioni che continuamente giungevano a Tel Aviv.

La pianificazione dettagliata di Thunderbolt proseguì per tutta la notte di giovedì, mentre alla base dei paracadutisti vicino a quella del Sayeret Matkal, il generale Adam aveva ordinato la costruzione rapida di una replica in scala reale dell’old terminal di Entebbe, realizzata con assi, tela di juta, tiranti in acciaio e diversi autobus, a simulare i fabbricati dell’aeroporto ugandese.

Siccome la maggior parte degli uomini era a pianificare la missione o in addestramento, il tenente colonnello Rami Dotan, della Logistica dell’Esercito, chiese ed ottenne l’autorizzazione ad usare i cadetti diciottenni dell’Accademia Aeronautica per costruire il simulacro di Entebbe.

Anche i cadetti rimasero poi graditi “ospiti” del Sayeret Matkal, fino a nuovo ordine. All’una di mattina di venerdì 2 luglio, Dan Shomron, Ehud Barak e Iddo Embar dell’Aeronautica avevano lasciato la sala delle Operazioni Speciali al Kyria per recarsi dal primo ministro Rabin e presentarli il piano dettagliato.

Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Gur li incontrò fuori dall’ufficio del primo ministro e volle vedere che cosa avevano preparato.

Shomron e gli altri aprirono la mappa e mostrarono a Gur le varie tappe dell’operazione: a poco a poco videro che Gur si stava rendendo conto che, date le circostanze, poteva essere una cosa fattibile.

Alla fine, Gur prese tutto e disse: “Va bene, presenterò io al primo ministro questa operazione, voi tornate al lavoro”. E si recò da Rabin.

Iddo Embar ricorda:

 

“Quando uscimmo all’aperto, a oriente il cielo si stava già schiarendo mentre il Kyria era ancora avvolto dall’oscurità. La sola auto nel parcheggio era la nostra.

E pensare che per ogni operazione in Libano, anche la più limitata, tutte le luci erano accese e tutti gli addetti erano al lavoro.

Qui invece c’era solo un gruppetto di persone curve sotto il loro fardello. Logico che lo Stato Maggiore ancora non ci prendeva seriamente”.

 

Fonti:

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Il soldato

 

“Se avessi tutte le risposte sarebbe più facile e non mi tormenterei.

… Mi viene in mente il grido triste e pazzo di una commedia che vidi tempo fa:

- Fermate il mondo: voglio scendere! -

Ma non si può impedire al nostro pazzo mondo di continuare a girare. La forza di gravità non ci lascia liberi.

Che ci piaccia o no, vivi o morti (certo sarebbe meglio vivi!) noi ci siamo dentro”.

 

Yonathan Netanyahu in una lettera alla ragazza

 

Il tenente colonnello delle Forze Speciali Yonathan “Yoni” Netanyahu (fratello trentunenne di Benjamin) era stato costretto lontano dal Kyria e dalla base del Sayeret Matkal, di cui era il comandante, a causa di un’importante esercitazione nel deserto del Sinai.

Per tutto il tempo si era tenuto in collegamento con la sua base e con il Kyria, ma alla riunione preliminare con Ehud Barak, che conosceva bene e con cui aveva già lavorato, non era potuto andare e si era fatto rappresentare da Muki Betser.

Mercoledì sera aveva chiesto telefonicamente a Betser:

“Vale la pena che io venga?”.

Betser gli aveva risposto:

“No, è più importante quello che stai facendo là. Qui non si muove ancora niente, se succede qualcosa ti chiamo”.

Netanyahu non era contento di non essere a Tel Aviv. Da quello che gli aveva detto Muki Betser l’opzione militare non era ancora considerata prioritaria, ma Netanyahu pensava giustamente che, qualora lo fosse diventata, tutti avrebbero premuto per vedersi assegnare il compito di liberare gli ostaggi e lui non voleva certo che il Sayeret Matkal si vedesse soffiare questa occasione da qualcun altro e lui voleva esserci.

La notte su giovedì ci fu l’esercitazione con gli Zodiac, che andò male, ma un’altra prova, effettuata la mattina dopo, aveva dato risultati più incoraggianti.

Nelle alte sfere qualcosa aveva cominciato a muoversi, perché i telefoni cominciarono a squillare alla base del Sayeret Matkal.

Avi Livneh, ufficiale alle Informazioni dell’Unità, che si trovava con Netanyahu, racconta:

 

“A un certo punto nella tarda serata di mercoledì qualcosa iniziò a muoversi. Nella notte giunsero molte telefonate. Sembrava che fosse stata emessa una direttiva secondo cui all’Unità avremmo dovuto iniziare a fare dei piani.

Sapendo come vanno queste cose, io percepii subito dal tono che quelli che chiamavano ancora non credevano molto in quello che dicevano, ma le telefonate erano davvero tante”.

 

Poi, nelle prime ore di giovedì, alla base dell’Unità arrivò una telefonata del comandante.

Netanyahu disse: “Tenetevi pronti, la cosa si sta muovendo”. Poi ordinò di tenere tutto pronto per l’alba, anche se ancora al Sayeret Matkal le informazioni, anche le più basilari, erano praticamente nulle e neanche il ruolo dell’Unità era stato definito.

Netanyahu arrivò al Kyria giovedì pomeriggio con ancora addosso l’uniforme da combattimento indossata all’esercitazione. Come ricorda Embar, Netanyahu pareva stanco ed era ancora coperto dalla polvere del Sinai.

Netanyahu andò subito alle Operazioni, dove Ehud Barak e Muki Betser lo aggiornarono, incontrò anche Dan Shomron.

Subito dopo, lasciò Muki Betser al Kyria come collegamento e si recò alla base dell’Unità, dove fece richiamate tutti gli ufficiali che non erano di turno e annullò le licenze e le esercitazioni.

Alle 20:00 Netanyahu prese con se i suoi due luogotenenti, Yohai Brenner, capo di stato maggiore dell’Unità e l’ufficiale alle operazioni Rami Sherman e con loro si recò alla riunione dei comandati di unità, indetta da Shomron al vicino club dei parà.

Shomron informò tutti su Thunderbolt e disse che la mattina successiva (venerdì 2 luglio) alle 07:00 avrebbe emanato gli ordini formali d’operazione.

Yonathan Netanyahu tornò alla base dell’Unità alle 22:00, ora in cui, insieme con Tamir, Brenner, Sherman e Avi Livneh, l’ufficiale alle informazioni dell’Unità, iniziò la pianificazione dettagliata della missione del Sayeret Matkal a Entebbe. Tutti al Sayeret Matkal sapevano che non c’era tempo e avevano una montagna di lavoro da fare. Il maggiore Betser venne richiamato dal Kyria: portava gli ultimi rapporti di Levine sui racconti dei 47 ostaggi liberati. Comparve anche Ehud Barak.

Avi Livneh, come ufficiale alle informazioni dell’Unità, aprì la riunione, mettendo al corrente gli altri di quello che aveva saputo da Biran e dai bollettini che continuavano ad arrivare dagli agenti operativi del Mossad a Kampala.

Livneh e Betser, che era stato in Uganda, fecero due importanti rapporti su quello che conoscevano. Nonostante molte informazioni fossero ancora nebulose, durante quella riunione serale venne gettato il seme del piano d’assalto delle Forze Speciali all’old terminal di Entebbe e vennero prese decisioni vitali.

A mezzanotte ci fu una pausa. Netanyahu fece convocare gli ufficiali subalterni da lui selezionati per una prima presentazione di Thunderbolt, poi si recò al deposito veicoli tattici del Sayeret Matkal, dove ordinò al responsabile, Yisrael Sales, di preparare le Land Rovers che avrebbero usato a Entebbe.

All’una del mattino, cominciò la riunione con tutti gli ufficiali subalterni che ancora non ne sapevano nulla e anzi si chiedevano perché li si fosse trattenuti alla base fino a quell’ora.

La vasta sala cerimonie della Forza Speciale era gremita. Arrivò il comandante, con il suo stato maggiore. Avi Livneh appese una grande mappa dell’Africa al muro in fondo, poi posò una bacchetta al centro di quell’immenso continente, indicò Kampala, a più di 3.500 chilometri da loro e disse semplicemente: “Qui”, poi cominciò a parlare.

Mentre il suo ufficiale alle informazioni parlava, Netanyahu osservava le facce dei suoi uomini: passarono dall’eccitazione allo stupore e poi all’incredulità davanti a quello che sentivano. I giovani ufficiali restavano in silenzio, ma la loro espressione diceva tutto: non potevano credere a quello che sentivano!

Il tenente Danny Arditi ricorda che appena sentì quello che Livneh diceva si arrabbiò: lo avevano costretto alla base fino all’una di notte invece di andarsi a divertire a Tel Aviv per raccontargli quella marea di sciocchezze!

Quella missione era una pazzia, pensavano tutti. Nessun ministro della difesa, nessun capo di stato maggiore l’avrebbe mai autorizzata.

Tuttavia nessuno disse nulla.

Le facce in sala passarono alla rassegnazione e infine alla noia. Tutti sorrisero con sufficienza, quando sentirono che se gli Hercules fossero stati danneggiati dal nemico, si sarebbero potuti usare i veicoli di terra per fuggire in Kenya.

Il Kenya distava più di 200 chilometri in linea d'aria (almeno il doppio su strada) e le jeep già in partenza avrebbero dovuto portare 12 uomini. Quanto personale poteva mai stare aggrappato a una macchina sulle sconnesse strade africane per più di 200 chilometri? Venti persone? Trenta? E gli ostaggi?

Era pazzesco: avrebbero dovuto tirare a sorte tra chi sarebbe fuggito sulle jeep e chi sarebbe rimasto a farsi uccidere a Entebbe!

Danny Arditi ricorda che solo l’elevatissimo grado di addestramento ricevuto nel Sayeret Matkal, nonché una buona dose di autodisciplina, avevano impedito a lui e agli altri suoi giovani colleghi di alzarsi e protestare.

Al contrario, essi iniziarono a fare domande ben precise su quello che avevano appena sentito, per cercare di far intendere al comandante la non fattibilità di quel piano folle.

Il comandante sapeva quello che pensavano gli uomini, lo immaginava: erano professionisti. Il giorno dopo con l’esempio e con le parole avrebbe capovolto la situazione.

Danny Arditi ricorda:

“La sera prima ero convinto che nessuno avrebbe mai autorizzato quella missione, il giorno dopo ero nell’ufficio di Netanyahu e fare pressioni affinchè tutti i miei uomini fossero inclusi nel team. Lo spazio sui veicoli era limitato: tra coloro con esperienza di combattimento c’era una lotta feroce per essere ammessi.”.

Finita la riunione con i subalterni, Muki Betser suggerì di mandare a dormire gli uomini non direttamente impegnati in qualche lavoro, così quasi tutti approfittarono per dormire almeno qualche ora. Avi Livneh ritornò al Kyria per conoscere le ultime novità.

Netanyahu non dormiva già da 24 ore, ma rimase sveglio da solo nel suo studio per approfondire il piano: sapeva che il giorno dopo, nel turbine di esercitazioni e riunioni non ne avrebbe avuto il tempo.

Nel profondo della notte andò anche a fare visita alla vicina base dei parà, dove i cadetti dell’Aeronautica Militare stavano costruendo sotto la direzione di Dotan il simulacro dei due terminal di Entebbe, poi Netanyahu si recò al deposito veicoli tattici delle Forze Speciali, dove Yisrael Sales stava approntando otto Land Rovers a passo lungo come gli aveva detto il comandante. Non si sapeva infatti quanti veicoli ci sarebbe stato bisogno e se i blindati sarebbero arrivati in tempo. Insieme con Sales e i suoi, Netanyahu girò attorno ai veicoli in allestimento, verificò che le protezioni supplementari e le tasche per le granate degli RPG che aveva richiesto fossero al giusto posto. Salì sulle pedane esterne che aveva fatto mettere per i soldati, così sarebbero scesi più veloci. Poi utti salirono a bordo di una delle Land Rover e partirono a tutta velocità nel piazzale antistante gli hangars, per vedere come si comportava il mezzo. Inchiodarono diverse volte, per verificare i freni e provare gli spazi di frenata.

Poco prima dell’alba, arrivarono anche gli specialisti dell’Unità Danny Dagan e Amitzur Kafri. Dissero che i blindati Re’Em erano arrivati e bisognava andare a prenderli in carico e partirono insieme con Sales. Netanyahu li guardò partire davanti all’hamgar, poi tornò a studiare il piano d’operazioni.

Sapeva che l’assalto all’old terminal sarebbe durato non più di 60-90 secondi. In quel brevissimo lasso di tempo, sarebbero accadute un’infinità di cose. I terroristi sarebbero morti, anche alcuni ostaggi sarebbero morti e forse anche i suoi uomini sarebbero morti. Lui, Ehud Barak e il generale Adam erano esperti in antiterrorismo e avevano condotto diverse di queste azioni sul campo: sapevano che i morti si sarebbero potuti calcolare in dozzine, anche tra gli ostaggi. La tragedia di Ma’Alot era nella mente di tutti. Bisognava scongiurare il più possibile il ripetersi di quella tragedia. Bisognava avvicinarsi indisturbati per non dare il tempo ai terroristi di uccidere gli ostaggi. Bisognava riuscire ad arrivargli praticamente addosso prima di sparargli a bruciapelo. Se i terroristi avessero fiutato qualcosa, avrebbero ammazzato tutti i passeggeri.

Ogni uomo che sarebbe entrato nell’Old terminal doveva poi sapere chi c’era sulla sua destra e sulla sua sinistra e che cosa stava facendo. Tutti dovevano essere messi in condizioni di agire automaticamente. Solo così si sarebbero sentiti più tranquilli e non mandati allo sbaraglio e 3.500 chilometri da casa.

Bisognava stabilire inequivocabilmente chi avrebbe fatto cosa in ogni possibile eventualità. Quale squadra avrebbe soccorso un'altra e in che modo.

Netanyahu sapeva per esperienza che in un assalto del genere, il rumore, il fumo e il caos sono tali per cui nessuno sente più nulla. Ecco perché tutto doveva avvenire in automatico e tutti dovevano essere informati dettagliatamente su cosa dovevano fare e quando dovevano farla; su cosa avrebbero fatto i colleghi vicini e su cosa avrebbero fatto il comandante e la squadra di copertura all’esterno.

Per ridurre il più possibile il caos, Netanyahu prese la rischiosissima decisione di comandare personalmente il fuoco di copertura contro gli ugandesi sul tetto del terminal e nella torre di controllo. In questo modo, non ci sarebbero state inutili sovrapposizioni di fuoco su uno stesso punto, mentre magari un altro settore veniva lasciato scoperto.

Lui e la sua squadra comando sarebbero rimasti fuori e davanti al terminal, insieme con una squadra di copertura ravvicinata.

Da quella posizione, Netanyahu avrebbe potuto vedere se una squadra era in difficoltà e decidere chi mandare a soccorrerla.

Queste e molte altre cose vennero affrontate durante le ore di quella notte, in cui la luce nello studio di Netanyahu non si spense mai finchè non fu giorno e non fu di nuovo tempo di riunioni e esercitazioni.

Il maggiore Betser ricorda:

“Il piano che venerdì mattina Netanyahu presentò a noi e alle alte sfere del ministero della difesa era completo di ogni dettaglio”.

La mattina presto, Netanyahu chiamò Reicher e Betser e stabilì l’orario per l’istruzione dell’intera forza in tarda mattinata, poi alle 07:00 si recò alla vicina base dei paracadutisti dove era indetta la riunione con il generale Shomron per l’emissione degli ordini formali d’operazione. Shomron disse ai comandanti d’unità, Netanyahu, Vilna’i dei parà e Saguy della Golani, che voleva i piani operativi dettagliati entro la mattinata.

Netanyahu e Avi Livneh tornarono alla base del Sayeret Matkal. Il colonnello Biran, addetto alle informazioni di Shomron, li seguì con diversi filmati amatoriali in 8 mm presi al tempo della missione militare in Uganda.

Erano quasi tutti filmati di Idi Amin all’aeroporto, di cui si vedeva la struttura. Uno dei filmati invece era girato dalla vecchia torre di controllo e riguardava la visita di Papa Paolo VI in Uganda nel ‘69.

Gli israeliani rimasero sfavorevolmente impressionati dall’ampiezza dei campi di tiro che si potevano avere dal tetto del terminal e dalla cima della vecchia torre di controllo. Da lassù si dominava tutta l’area, a partire dalla pista obliqua e dal raccordo lungo 200 metri che da essa portava fino all’old terminal. Come si poteva fare ad avvicinarsi indisturbati?

 

 

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Maggiore delle Forze Speciali Moshe Betser

 

Ci pensò Muki Betser al Kyria a risolvere definitivamente il problema dell’avvicinamento all’old terminal. Betser, del Sayeret Matkal, era stato in Uganda ai vecchi tempi, con la missione militare israeliana di Burkah Bar Lev e conosceva gli ugandesi, alcuni dei quali aveva personalmente addestrato (pochi, per fortuna).

Betser fece un preciso rapporto sugli ugandesi, basato sulla sua personale esperienza. Nel rapporto tra l’altro Betser diceva che:

 

“Il soldato ugandese è un buon combattente. Il suo addestramento è però di basso livello, specie per quanto riguarda il tiro di precisione. Egli cerca di compensare la scarsa precisione con un aumento del volume di fuoco. Il che lo porta a un eccessivo consumo di munizioni con solo pochi vantaggi riguardo all’aumento dei centri ottenuti. Non ama il combattimento notturno. Non è addestrato a non perdere la testa sotto il fuoco pesante e può andare in confusione sotto il fuoco concentrato dell’artiglieria o dei mortai.

Gli ugandesi non hanno una grande motivazione al combattimento. Al contrario, essi combattono solo in vista di una ricompensa o perché direttamente minacciati dai loro superiori, ma quando combattono lo fanno senza remore o inibizioni di sorta.

Sparano a chiunque senza pensarci due volte, anche a donne o bambini, ma questo non perché essi siano intrinsecamente insensibili, ma perché in realtà sono sotto la costante minaccia di terribili punizioni corporali che possono arrivare anche alla mutilazione, in caso di fallimento o disobbedienza.

Motivo per cui preferiscono sparare piuttosto che riflettere, il che li rende pericolosi (ma anche prevedibili).

Quando un soldato ugandese vi punta addosso la sua arma, significa che la sua prossima mossa sarà aprire immediatamente il fuoco su di voi se non fate subito quello che vi ordina senza fiatare.

Io stesso, anche dopo diversi anni di permanenza in Uganda, mi avvicinavo agli ugandesi armati sempre con le mani ben alzate e le abbassavo solo dopo essermi accertato che mi avessero riconosciuto.

I soldati ugandesi hanno il terrore dei bianchi: ogni volta che ne vedono uno, non importa di chi si tratti, scattano spontaneamente sul presentatarm.

Tutti gli uomini ugandesi che rivestono un qualche ruolo di potere amano esibire la cosa in molti modi: una grande auto europea di lusso è il più diffuso di questi modi, uno status-symbol che costituisce costantemente e ovunque un infallibile lasciapassare ... …”.

 

Non a caso, in quasi tutti i filmati in possesso degli israeliani, Idi Amin e i suoi massimi dignitari comparivano costantemente a bordo di grandi automobili di lusso, quasi sempre nere e lucidate a specchio.

Ecco come avrebbero fatto ad avvicinarsi il più possibile indisturbati: avrebbero indossato armi ed equipaggiamento ugandesi, avrebbero portato i Kalashnikov invece dei Galil e degli Uzi e si sarebbero fatti avanti su un’auto di lusso seguita da un piccolo corteo di scorta.

Il Mossad venne sguinzagliato giovedì notte alla ricerca di una grossa berlina di lusso.

 

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La Mercedes

 

A guardarla da vicino, la Mercedes scovata dal Mossad era un disastro. Nelle prime ore di venerdì mattina due uomini che non si erano presentati avevano consegnato l’auto al cancello della base.

Lo specialista alle armi ed equipaggiamenti speciali dell’Unità, Amitzur Kafri la guardava ora con occhio critico, scuotendo il capo insieme con il suo collega, lo specialista in veicoli semoventi Danny Dagan.

Ai due uomini era bastato sollevare il cofano e metterci il naso sotto per farsi una pessima opinione del precedente proprietario dell’automobile.

Chiunque fosse stato infatti non doveva aver avuto gran cura della sua macchina che, a detta dei Servizi, era stata un taxi.

Tipico del Mossad pensò Kafri: tu gli chiedi una Mercedes nera loro te ne portano una bianca!

Almeno avevano azzeccato il modello.

L’auto, che per l’Unità rappresentava un fattore di cruciale importanza, era un Mercedes serie 200 diesel con cambio automatico, modello long-wheelbase limousine.

Il motore, tanto per cominciare, non partiva più. Non ci voleva un genio per capire che nelle alte sfere non dovevano prendere molto sul serio l’operazione se avevano mandato un catorcio come quello.

Kafri e Dagan presero la Mercedes e la rimorchiarono in uno degli hangar della base dell’Unità, regno incontrastato dello specialista meccanico di battaglione, Avi Razal.

Razal, Kafri e Dagan avrebbero lavorato più di 24 ore filate su quella macchina. Per prima cosa, riportarono in vita il diesel dell’automobile: cosa non da poco perché il motore era un incubo di tubazioni spezzate e fili penzolanti.

Stuccarono e ripassarono tutta l’auto con carta a vetro e la ridipinsero completamente nella livrea diplomatica nera a finitura lucida richiesta da Netanyahu.

Il capo meccanico scoprì che lo chassis dell’auto era vecchio e provato e si deformava facilmente, il serbatoio del gasolio aveva una crepa e perdeva, la batteria era debole e l’alternatore e il motorino d’avviamento funzionavano a singhiozzo.

Si dovette svuotare e asciugare il serbatoio, aprirlo e poi risaldarlo di nuovo. Avi Razal vide che l’albero dell’alternatore si era storto rispetto alla cinghia di attuazione perché la base dell’alternatore si muoveva, di conseguenza la cinghia slittava e sul più bello si poteva spezzare. Questo non era accettabile in una missione speciale.

Siccome non c’era tempo di mettersi al tornio per rifare un nuovo albero, Danny Dagan si limitò a raddrizzare la base dell’alternatore, fissandola con viti nuove e più grandi in modo che la puleggia della cinghia risultasse dritta. Infine, Roden, un ragazzo dell’Unità del Kibbutz Ma’agan Michael, fornì delle perfette repliche di due targhe diplomatiche ugandesi fatte di cartone, nonchè le bandierine ugandesi da mettere a sventolare sui due lati del muso della Mercedes, appese a due asticelle che Dagan e Kafri saldarono sul muso dell'auto.

Le ruote erano lisce e malandate: in qualche punto mostravano addirittura la carcassa metallica. Kafri e Danny Dagan si recarono all’una di notte di venerdì da un amico a Tel Aviv, lo svegliarono e gli dissero che gli servivano quattro ruote nuove senza domande. I due scrissero poi un pagherò a una settimana su un tovagliolo di carta.

Firmò Dagan, secondo il quale i soldi quel tizio purtroppo li deve ancora vedere.

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Entebbe International Airport

 

Le ultime notizie date a Biran e a Livneh dal Mossad dicevano che il volo Air France 139 aveva preso terra a Entebbe il 28 giugno alle 04:15 ora di Kampala, con 257 persone a bordo.

L’aeroporto internazionale di Entebbe era una grande struttura situata sulla riva nord del lago Vittoria, 22 miglia a sud del centro di Kampala.

L’aeroporto si trovava su una penisola, con a sud il lago Vittoria e a nord una vasta area paludosa. Le acque risultavano infestate da coccodrilli e altri animali potenzialmente letali.

Una strada che correva in direzione sudovest-nordest, quasi tutta posizionata su un argine sopraelevato, collegava l’aeroporto a sud con la capitale ugandese a nord.

L’aeroporto disponeva di tre piste disposte grossomodo come una gigantesca “N”. La pista più grande, la main runway, correva da sud a nord perpendicolare alla riva del lago Vittoria. Dall’ estremità nord della main runway, originava una pista obliqua che costituiva il tratto diagonale della N. La pista obliqua si dirigeva a sudest, fino ad incontrare l’estremo meridionale di una seconda pista che correva anch’essa da sud a nord e che era la pista dell’aeroporto militare, chiuso ai civili.

Vari raccordi e bretelle collegavano le tre piste e i due terminal, il vecchio e il nuovo e andavano studiati attentamente sulle guide Jeppesen.

 

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L’A-300 dell’Air France risultava parcheggiato in fondo all’estremità meridionale della pista obliqua, vicino all’estremo sud della pista militare.

Il new terminal di Entebbe, con la nuova torre di controllo, si trovava su una piccola collinetta alta una ventina di metri, subito a est della main runway, con davanti un grande piazzale di parcheggio e rifornimento.

L’old terminal di Entebbe, ormai in disuso e disabitato da anni, si trovava 1,5 miglia terrestri (2.400 metri) a nordest del new terminal. Dal new terminal non si poteva vedere l’old terminal, nascosto alla vista dalla cima della collinetta sulla cui scarpata ovest sorgevano lo stesso new terminal e la nuova torre di controllo.

Anche l’old terminal era stato costruito negli anni ’60 con soldi israeliani e la ditta di costruzioni Solel Boneh aveva gentilmente consegnato al Sayeret Matkal la sua planimetria.

L’old terminal di Entebbe era una grande costruzione che si estendeva da ovest e est. Esso constava di piano terra e primo piano. La facciata nord dava sull’imbocco della strada che portava a settentrione, verso Kampala; mentre la facciata sud dava sul grande piazzale di parcheggio che un tempo aveva ospitato gli aerei di linea.

A piano terra, andando da ovest a est c’erano: la dogana, due corridoi paralleli con direzione nord-sud che collegavano le due facciate del terminal, una hall grande, una hall piccola, una saletta VIP.

La dogana, il primo corridoio, le due hall e la saletta VIP si aprivano a meridione, sul piazzale, tramite cinque uscite: una per il corridoio della dogana, due per la hall grande, una per la hall piccola e una per la saletta VIP. La saletta VIP era una novità per gli israeliani e non risultava nelle piantine della Solel Boneh perché era stata aggiunta dopo. Gli ostaggi liberati dicevano che i terroristi erano alloggiati nella saletta VIP per cui si dovette tenere conto anche di questo.

Il primo piano dell’old terminal si poteva raggiungere grazie a due scalinate. La prima, la più grande, si trovava in fondo all’estremità nord del primo corridoio, quello della dogana.

La seconda scalinata era invece nella hall grande e portava a un ampio ballatoio interno che sporgeva alla stessa altezza del primo piano dalla parete nord della hall grande. Questo ballatoio dominava tutta quella grande sala e da qui una porta munita di cancello decorato immetteva al primo piano del terminal. Chi controllava quel ballatoio, controllava tutta la grande hall. Andava assolutamente conquistato e tenuto.

Il primo piano aveva ospitato un tempo un grande ristorante. A occidente, il ristorante si continuava in una spaziosa terrazza che costituiva il tetto della dogana, che finiva proprio sotto la torre di controllo.

Subito a occidente della dogana, una bassa costruzione a pian terreno lunga circa 20 metri conduceva alla torre di controllo, era questa un’imponente costruzione alta una trentina di metri da cui si dominava tutta l’area circostante. A oriente della saletta VIP invece c’era la vecchia stazione dei pompieri aeroportuali.

La saletta VIP comunicava con la piccola hall grazie a un corto corridoietto in cui si aprivano dei bagni.

La piccola hall comunicava con la grande hall grazie a una bassa apertura, forse utilizzata per i carrelli delle vivande. Per passarci bisognava chinarsi. Era attraverso questa apertura che i terroristi e gli ugandesi avevano spinto gli ebrei e l’equipaggio francese nella piccola hall.

Sul piazzale a sud, un muretto decorato alto meno di un metro separava lo spazio immediatamente antistante le due halls e la saletta VIP dal piazzale vero e proprio dell’aeroporto. In questo muretto si aprivano tante aperture quante erano le entrate delle halls e della saletta VIP.

Il Mossad diceva che c’erano fino a 10 terroristi alloggiati nella saletta VIP. In genere essi sorvegliavano da fuori gli ostaggi, entrando nelle due hall solo per fare dei giri di pattuglia, altrimenti stavano fuori sul piazzale sotto gli ombrelloni: dentro doveva fare troppo caldo per loro e oramai doveva esserci anche una notevole puzza, perché i bagni per gli ostaggi non funzionavano.

Sopra, al primo piano, c’era l’equivalente di una compagnia ugandese, cento uomini, alloggiata nell’ ex ristorante. Gli ugandesi servivano come anello esterno di sorveglianza.

La mattina stavano appostati in un raggio di una cinquantina di metri dall’old terminal, un uomo ogni 10 metri circa. Delle sentinelle erano appostate a coppie un po’ più lontano. Due di esse controllavano il raccordo d’accesso per gli aerei a ovest, che dalla pista obliqua, portava all’old terminal, lungo poco meno di 200 metri.

Altri uomini stavano di sicuro nella vicina torre di controllo e sul tetto del ristorante e della dogana (coperto da pensiline).

Erano soldati ugandesi regolari, armati di Kalashnikov, pistola e bombe a mano. I terroristi avevano un armamento simile. Gli ugandesi collaboravano con i terroristi. Nel vicino aeroporto militare, si stimava la presenza di circa 500-1000 uomini delle forze regolari ugandesi.

I 47 passeggeri liberati da Idi Amin avevano parlato anche di sacche di esplosivo disposte tutto attorno alle due hall a pian terreno, ma avevano detto che le sacche sembravano finte!

Avi Livneh era propenso a crederci: gli ugandesi alloggiati al primo piano infatti difficilmente avrebbero permesso il minamento dell’edificio sotto di loro, quindi nell’intento dei terroristi quelle sacche avrebbero dovuto servire solo come spauracchio per gli ostaggi.

Gli ostaggi risultavano ammassati in entrambe le due hall. C’erano 257 persone il primo giorno, 47 erano state liberate il 30 giugno, per cui avrebbero dovuto rimanere 210 passeggeri, di cui 95 ebrei e 11 componenti dell’equipaggio francese detenuti nella piccola hall, mentre i rimanenti 104 risultavano ancora nella grande hall.

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Il piano d’assalto dell’Unità all’old terminal di Entebbe

 

Il Karnaf-Uno con a bordo la forza d’assalto sarebbe atterrato sulla main runway sette minuti prima degli altri tre aerei. In quei sette minuti era previsto che Netanyahu conducesse i suoi, vestiti e armati da ugandesi, fino all’old terminal e iniziasse l’assalto.

Sul Karnaf-Uno, insieme con gli elementi d’assalto del Sayeret Matkal, ci sarebbero stati anche alcuni elementi scelti del Sayeret Tzanhanim (i parà), il generale Shomron e metà della sua squadra comando.

I veicoli a bordo del primo Hercules, dato che i blindati erano ormai una certezza, sarebbero stati tre (di più non ne entrano su un C-130H): due Land Rovers armate a passo lungo e la Mercedes nera. Le due jeep avrebbero dovuto essere imbarcate per prime verso prua, mentre la Mercedes, che doveva scendere per prima, avrebbe dovuto essere imbarcata per ultima a poppa. I musi di tutti e tre i veicoli dovevano essere già puntati verso la coda del C-130 e pronti a scendere subito, la Mercedes di Kafri per prima.

Il Karnaf-Uno sarebbe atterrato da sud, si sperava con le luci pista accese ed avrebbe raggiunto l’estremo nord della main runway.

Secondo le guide Jeppesen, subito prima della estremità nord della main runway, sulla destra venendo da sud c’era lo svincolo per la pista obliqua.

Giunto a livello di questo svincolo, il Karnaf-Uno si sarebbe arrestato per il tempo strettamente necessario a sbarcare Shomron, i suoi e quelli del Tzanhanim, i quali sarebbero scesi subito e avrebbero ripercorso in senso inverso la main runway, dirigendosi a sud verso il new terminal e attendendo lo sbarco di tutto il resto della forza prima di espugnare tutto l’aeroporto.

Il comandante dei parà, Vilna’i, aveva avuto un’idea che si sarebbe rivelata vitale: i suoi paracadutisti del Tzanhanim, appena scesi dal primo Hercules, sarebbero corsi subito a piazzare ai due lati della main runway le luci di segnalazione che i parà usano per segnalare le landing areas della loro unità. Queste luci di emergenza stavolta avrebbero invece segnalato la main runway agli altri tre C-130, qualora gli ugandesi avessero spento le luci della pista. Quest’idea, come si vide poi, avrebbe salvato tutta l’operazione.

Sbarcati Shomron e i parà all’imbocco dello svincolo, il Karnaf-Uno sarebbe subito ripartito, immettendosi rullando sullo svincolo e imboccando la pista obliqua verso sud: era questo il punto d’inizio attacco per Netanyahu e i suoi.

Raggiunto quel punto, l’Hercules si sarebbe arrestato per la seconda volta, avrebbe abbassato la rampa posteriore e i tre veicoli, la Mercedes in testa, sarebbero schizzati fuori, poi l’aereo avrebbe richiuso la rampa e sarebbe rimasto a motori accesi in attesa dello sbarco di tutto il resto della forza d’attacco. Appena il new terminal fosse caduto in mano israeliana, il Karnaf-Uno si sarebbe diretto all'APRON del new terminal per iniziare subito a riempire i suoi serbatoi del carburante ormai vuoti.

Netanyahu e la forza d’assalto a bordo della Mercedes e delle due Land Rovers si sarebbero diretti subito all’old terminal, percorrendo la pista obliqua e poi svoltando a sinistra, sul raccordo che portava all’old terminal, lungo circa 200 metri. Avrebbero formato un corteo “in parata”, con la Mercedes in testa e le due jeep gremite di uomini vestiti da ugandesi che la seguivano.

Si sperava che gli ugandesi avrebbero pensato a all’arrivo di Idi Amin, o di qualche altro importante personaggio.

Raggiunte le sentinelle sul raccordo per l’old terminal, Netanyahu e i suoi le avrebbero fatte fuori, sparando con pistole silenziate: Beretta calibro .22 e Smith and Wesson calibro 9 mm, modello 0, le classiche “Hush Puppy” con silenziatore.

L’uso di fuoco pesante dalle auto era invece autorizzato solo nel caso in cui le sentinelle avessero sparato sulla Mercedes. In quel caso, l'effetto sorpresa sarebbe svanito e tutti avrebbero premuto sull’acceleratore per raggiungere il prima possibile il terminal e uccidere i terroristi prima che uccidessero gli ostaggi: la priorità assoluta erano gli ostaggi.

Tutti e tre i veicoli avrebbero avuto i fari accesi. In questo modo si sperava che il convoglio avrebbe potuto sembrare il più disinvolto possibile e ci si augurava anche che la luce dei fari finisse in faccia al nemico, ritardando o impedendogli un chiaro riconoscimento immediato.

Si decise che non c’era modo di occuparsi per prima della torre di controllo perché gli spari avrebbero allarmato i terroristi. Per cui si stabilì di andare dritti fino al terminal, scendere come se niente fosse, senza correre e uccidere per primi i terroristi dentro il terminal, facendovi irruzione di sorpresa.

La torre di controllo sarebbe venuta solo in un secondo tempo: in pratica era un rischio altissimo, perché chi stava sulla torre di controllo, se si fosse accorto di qualcosa, avrebbe potuto iniziare un fuoco efficacissimo sulla forza d’assalto.

La sorpresa era tutto. Sarebbe bastato un grido, uno sparo, per mettere in allarme il nemico. Gli ugandesi sulla torre di controllo avevano un campo di tiro privilegiato. Inoltre, l’irruzione in una stanza che si sa gremita di ostaggi e presidiata da terroristi è praticamente un suicidio per il soldato che la esegue. Egli non può farsi precedere nella stanza dalle granate antiuomo e da raffiche di mitra perché ucciderebbe anche gli ostaggi, per cui è costretto a entrare con la sua arma regolata sul colpo singolo. Il terrorista invece non ha la preoccupazione degli ostaggi ed anzi se ne fa scudo e spara a raffica. Roba da kamikaze per chi deve entrare dentro.

Motivo per cui necessitava il massimo effetto sorpresa possibile.

Al contrario di quello che si pensa, la torcia sotto la canna dell’arma delle truppe d’assalto non serve solo per illuminare l’ambiente in cui si entra, ma serve anche e soprattutto per abbagliare il nemico sulla breve distanza in modo da non permettergli, per quanto possibile, di prendere una mira efficace. (Pare che questa idea venga proprio da Israele).

Durante l’assalto in un edificio però, gli spari e le esplosioni generano un fumo tale che difficilmente si vede bene qualcosa, per cui gli uomini del Sayeret Matkal usarono visori notturni all’infrarosso montati sui loro Kalashnikov fuori ordinanza.

Un’altra idea che ebbero Netanyahu e i suoi (e che è diventata una procedura standard dell’antiterrorismo) è poi quella di fare irruzione urlando ripetutamente un ordine semplice e chiaro: “Everybody lie down!”.

In questo modo si pensa, anzi si spera, che la maggior parte degli ostaggi si butti a terra, mentre la maggior parte dei terroristi rimanga in piedi per rispondere al fuoco. Così si può sparare al nemico senza colpire troppa gente innocente.

Sembra che furono proprio gli uomini del Sayeret Matkal ad avere per primi questa idea. Netanyahu e Betser dettero ai loro uomini anche due megafoni in cui urlare gli ordini ai civili durante l’irruzione: in inglese e in ebraico.

Una volta stabilito che Netanyahu avrebbe comandato (com’era suo diritto) il contingente d’assalto dell’Unità, dato che era lui il comandante del Sayeret Matkal e una volta che Ehud Barak si era fatto giustamente in dietro ed era partito per Nairobi per preparare l’assistenza in loco per il 707 ospedale, gli ufficiali dell’Unità dettagliarono il loro piano.

In comando, Netanyahu, con la sua squadra-comando composta da: il dottor David Hasin, il medico, insieme con un infermiere assistente di Sanità. C’erano poi Tamir, ufficiale alle trasmissioni e un quinto uomo, che in seguito e per volontà dello stesso comandante si sarebbe rivelato essere Alik Ron, un ufficiale riservista veterano, richiamato urgentemente da Netanyahu in persona.

Le altre squadre speciali d’assalto all’old terminal si sarebbero divise il compito dell’irruzione nel terminal e della copertura come segue.

 

1° Squadra, destinata alla prima entrata della hall grande. Composta da:

Il Maggiore Moshe “Muki” Betser

Amos Goren

Alex Davidi

Gadi Ilan

 

2° Squadra, destinata alla seconda entrata della hall grande. Composta da:

Il Tenente Amnon Peled

Sergente Maggiore Amir Ofer, 22 anni, ma già veterano del Yom Kippur

Shlomo Reisman

Ilan Blumer

 

3° Squadra. Stessa destinazione della seconda squadra. Composta da:

Il Tenente Amos Ben Avraham

Dani Fradkin

Gal Schindler

 

4° squadra. Destinata all’entrata della dogana, al suo corridoio e a fare irruzione al primo piano. Composta da:

Il Maggiore Yiftah Reicher (vicecomandante del Sayeret Matkal)

Rani Cohen

Amir Shadmi

 

 

 

5° Squadra. Destinata a seguire Reicher all’entrata della dogana e nel suo corridoio, per poi presidiare il pian terreno. Composta da:

Il Tenente Arnon Epstein

Pinhas Bar El (detto “Bukhris”, 22 anni, il più giovane di tutto il team)

Udi Bloch

Yonathan Gilad

 

6° Squadra. Destinata alla piccola hall. Composta da:

Il Capitano Giora Zusman

Adam Kolman

Yoram Rubin

Amnon Ben Ami

 

7° Squadra. Destinata alla saletta VIP. Composta da:

Il Tenente Danny Arditi

Amir Drori

Aharoni Berkovich

 

8° Squadra. Destinata alla copertura e alla difesa ravvicinata della forza d’assalto e composta da:

Il Tenente Rami Sherman

Amitzur Kafri (lo specialista equipaggiamenti speciali): autista della Mercedes

Eyal Yardenai: autista prima Land Rover

Uri Ben Ner: autista seconda Land Rover

 

Amos Goren e Amir Ofer avrebbero portato anche i megafoni, per ordinare agli ostaggi di buttarsi a terra e restarci.

Amos Goren inizialmente non faceva parte del team, ma salì a bordo del Karnaf-Uno a Ofira, per sostituire un uomo che si era sentito male all’ultimo momento.

Gli uomini di ogni squadra d’assalto si erano impressi nella memoria le varie porte d’entrata che avrebbero incontrato sulla facciata meridionale del terminal venendo da ovest e attraverso le quali avrebbero fatto irruzione: corridoio della dogana, prima porta della hall grande, seconda porta della hall grande, porta della hall piccola e infine la saletta VIP. Avrebbero eliminato tutti quelli che vi incontravano. Nessun elemento nemico doveva essere lasciato in dietro ancora vivo e armato.

 

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Il maggiore Reicher sarebbe arrivato per primo, irrompendo nella dogana con la 4° squadra, seguito dalla 5° squadra di Arnon Epstein. La 4° squadra si sarebbe diretta al primo piano, mentre la 5° avrebbe presidiato e ripulito il pian terreno.

Il maggiore Muki Betser si sarebbe precipitato con la 1° squadra nell’entrata successiva a quella di Reicher: la prima porta della hall grande.

Il tenente Amnon Peled, a seguire, sarebbe entrato con la 2° squadra nella porta successiva a quella di Betser, che era la seconda porta della hall grande. Il tenente Amos Ben Avraham l’avrebbe seguito a ruota attraverso la stessa porta con la sua 3° squadra.

Il capitano Giora Zusman, con la 6° squadra, avrebbe fatto irruzione nella porta successiva a quella di Peled e di Ben Avraham, che sarebbe stata l’entrata della hall piccola, mentre il tenente Danny Arditi sarebbe piombato con la 7° squadra nell’ultima delle cinque porte: quella della saletta VIP dove sarebbero stati gli alloggi dei terroristi.

Nel frattempo, Netanyahu si sarebbe disposto con la squadra comando all’esterno, davanti alla prima entrata della hall grande per prendere le decisioni e dirigere l’azione, pronto a fornire supporto dove richiesto: se necessario anche con la sua stessa squadra comando.

Gli autisti della Mercedes e delle due Land Rover si sarebbero uniti all’8° squadra del tenente Rami Sherman, che aveva il compito della copertura ravvicinata e sarebbero rimasti all’esterno con Netanyahu per aumentare la potenza di fuoco, sparando verso la torre di controllo e verso il tetto del terminal con le GPMG e gli RPG dei veicoli, questo per non permettere che gli ugandesi facessero un fuoco efficace sulla squadra d’assalto.

Il tutto sarebbe durato non più di pochi secondi, durante i quali sarebbero successe molte cose.

Il maggiore Shaul Mofaz, dell’Unità, era stato poi designato da Netanyahu al comando della forza di difesa periferica. Sotto di sè Mofaz avrebbe avuto 30 uomini del Sayeret Matkal e i quattro blindati Re’Em (jeep M-38A-1C blindate e potentemente armate, anche di lanciamissili anticarro Dragon).

La forza di Mofaz sarebbe atterrata con il secondo e il terzo aereo sette minuti dopo Netanyahu sul primo Karnaf. I blindati avevano l’ordine di raggiungere la squadra d’assalto di Netanyahu all’old terminal appena sbarcati dai C-130 e senza perdere tempo ad aspettare l’arrivo degli altri veicoli corazzati per radunarsi.

I blindati avrebbero contribuito al fuoco contro la torre di controllo e poi all’approntamento di un anello difensivo attorno all’old terminal, all’imbocco della strada per Kampala a nord e al raccordo a est con la base militare dei Mig. I Mig, secondo Netanyahu andavano distrutti al suolo anche senza permesso: potevano abbattere gli Hercules quando sarebbero ripartiti.

Il maggiore Mofaz, con la prima coppia di blindati avrebbe raggiunto Netanyahu per dare man forte contro la torre di controllo, poi si sarebbe piazzato sul raccordo ad est, verso la base militare nemica, dove con i blindati avrebbe formato una forza di blocco.

Danny Dagan avrebbe guidato il blindato di Mofaz. Udi Shalvi avrebbe comandato la seconda coppia di blindati e si sarebbe attestato a difesa a nord dell’old terminal, all’imbocco della strada per Kampala con l’ordine di bloccare qualunque tentativo degli ugandesi di raggiungere il terminal da quella direzione.

 

 

“Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan.

“Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.

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Sergente Maggiore delle Forze Speciali Amir Ofer

 

A mezzanotte del 2 luglio, il telefono aveva squillato a lungo nella camera da letto del sergente maggiore Amir Ofer.

Svegliatosi, Ofer aveva risposto ancora intontito dal sonno.

Era rimasto sorpreso nel sentire all’altro capo della linea la voce della segretaria di Netanyahu, cosa quanto meno insolita a quell’ora.

Ordine di presentarsi alla base senza ritardi. Ofer ormai del tutto sveglio si era rizzato a sedere sul letto.

“Che succede? Si va lontano? Aveva chiesto.

“Molto”. Era stata la concisa risposta.

 

Appena arrivato alla base del Sayeret Matkal, Ofer era andato dal suo comandante, il tenente Amnon Peled, per essere ragguagliato sulla situazione. Peled lo mise al corrente di tutto, poi aggiunse:

“L’Unità sarà la punta di lancia della missione e noi saremo la punta di quella punta”.

Ofer ricorda che, come veterano che aveva appena ricevuto la licenza precongedo, non fu molto felice di sapere quella cosa. Sapeva che come soldato anziano (22 anni) l’avrebbero sbattuto sulla linea del fuoco.

Ofer racconta: “Ebbi paura. Solo un pazzo non ne avrebbe avuta. Mi mancavano pochissimi giorni al congedo e quella cosa mi sembrò un cattivo presagio. Avevo già riconsegnato l’equipaggiamento, quando Peled quella mattina mi informò”.

Amir lasciò Peled e si recò in fureria. Per prima cosa, rintracciò la giovane recluta cui aveva passato la sua mimetica prima di andarsene in licenza; trovò il ragazzo e si fece ridare tutto, poi, indossata la sua comoda tenuta da combattimento, andò in armeria a fare “la spesa”. Prese anche lui il Kalashnikov e tutto il resto dell’equipaggiamento alla ugandese. Rimase impressionato da quel che vide:

“L’armeria sembrava il giorno del D-day. Era piena di gente che faceva richiesta di equipaggiamenti d’ogni tipo. Qualcuno aveva messo un lungo tavolaccio davanti al bancone del magazzino che evidentemente non bastava più.

Il tavolo era fatto con assi poggiate su dei cavalletti ed era letteralmente sepolto sotto una montagna di caricatori, nastri di mitragliatrice, bombe a mano, armi ed equipaggiamenti di ogni tipo e lì attorno tutti si davano da fare a ritirare quella roba, mentre altri uomini sopraggiungevano.

Gli addetti non stavano più dietro alle richieste.

Io sorpresi me stesso. Ligio al regolamento com’ero feci richiesta di tutto quanto, così mi ritrovai per le mani anche la torcia di segnalazione per l’atterraggio degli elicotteri. Quale elicottero sarebbe mai venuto a salvarci nel cuore dell’Africa?

Sorrisi amaramente tra me e me e rimisi giù quella luce di segnalazione che non mi sarebbe mai servita.

L’addetto dietro al bancone mi guardò stupito. Lui non sapeva nulla dell’operazione. Me ne andai senza spiegazioni e quello rimase lì a guardarmi mentre mi allontanavo stracarico di armi”.

Ofer ancora non poteva saperlo, ma sarebbe stato il primo soldato israeliano che gli ostaggi avrebbero visto arrivare.

 

Ufficiale riservista Alik Ron

 

Al contrario di quelli che bisognava rifiutare, Netanyahu richiamò in servizio attivo Alik Ron, un ufficiale con cui aveva combattuto nella guerra del Kippur.

Ron sarebbe ritornato da un’esercitazione dei riservisti solo venerdì pomeriggio. Netanyahu pensò di richiamarlo prima di allora, ma non lo fece per non insospettire gli altri riservisti che lo avrebbero visto andarsene senza spiegazioni.

Nel pomeriggio di venerdì, i riservisti ritornarono coperti di polvere e con ancora tutto l’equipaggiamento. Iniziarono a smontare e a ripulire le armi prima di riconsegnarle in armeria e salire sugli autobus per tornare a casa.

Alik Ron stava con i riservisti. Era un veterano, aveva notato subito che c’era qualcosa di strano alla base: la gente andava di corsa e rispondeva a mezze parole e inoltre nel vasto spiazzo aperto al di là della rete Ron aveva visto il nuvolone di polvere sollevato dalle Land Rovers e dagli uomini in addestramento. La cosa non era affatto inusuale in una base delle Forze Speciali, ma quando uno che conosceva lo fermò e gli disse: “Sbrigati, Netanyahu ti aspetta. Sei in ritardo!”, allora Ron fece due più due e capì tutto.

Yonathan Netanyahu gli disse che c’era un posto per lui nella squadra comando. Ron accettò e corse al deposito a fare “la spesa”: l’esercitazione generale di Thunderbolt, nella vicina base dov’era stato costruito il simulacro dell’Old terminal, era infatti già cominciata.

Il deposito armi era pieno di riservisti che riconsegnavano il loro materiale. Con la fretta che avevano di andare a casa, Ron ricorda che non si accorsero nemmeno che lui stava facendo il contrario.

Alik andò al bancone e richiese tutto quanto gli aveva detto Netanyahu. Sotto gli occhi distratti dei riservisti, Alik incominciò a ricevere zaino, Beretta calibro 22 silenziata, due mimetiche da jungla e buffetteria ugandesi, pugnale, caricatori per la pistola, torce da segnalazione, corda e moschettoni da scalata, ambulanzeria, granate a frammentazione, granate al fosforo fumogeni, mine antiuomo, nastri da 7,62 per la RPD.

I riservisti intorno a lui non si accorsero di nulla neanche quando Alik Ron posò sul bancone il suo Galil 5,56 mm d’ordinanza che aveva usato all’esercitazione e l’addetto andò a prendergli un Kalashnikov, posandoglielo sul bancone con i caricatori.

Ron racconta che, con l’abitudine, nel combattimento sulla breve distanza lui non aveva più voluto nient’altro che il Kalashnikov.

Per non dare nell’occhio con quella montagna di roba, Alik si diresse nella sua cameretta e buttò tutto sul letto, tranne il Kalashnikov che mise sotto il letto. Si sdraiò e attese che i riservisti salissero sugli autobus e se ne andassero dalla base.

Di colpo però entrò il suo compagno di camera, lo vide sdraiato sul letto in mezzo a tutto l’equipaggiamento e rimase interdetto:

“Ma che fai? Non torni in città con noi?”

“Tu vai pure, io devo parlare con Betser”. Gli rispose Ron.

“Ma sei matto? Betser rimarrà in riunione fino a domani e quelli là sono gli ultimi autobus in partenza! Ma Fa come ti pare!” .

Detto questo il riservista se ne andò con gli altri.

Rimasto solo, Alik Ron si spogliò. Poi si rivestì da ugandese e corse all’esercitazione che era già in corso alla vicina base dei parà.

 

Il Vecchio

 

Il sergente Danny Dagan era lo specialista in mezzi semoventi del Sayeret Matkal. Non era uno delle Forze Speciali, ma ne faceva comunque parte a tutti gli effetti.

Durante la guerra del Kippur, come molti altri civili israeliani, anche Dagan aveva preso la sua auto privata ed era andato al fronte. La sua idea era semplice: rendersi utile.

Danny si era spinto da solo fino al fronte di operazioni nord, sui monti del Golan, al confine con la Siria e aveva iniziato a presentarsi da tutti i comandanti di unità che incontrava: fanteria, carristi, paracadutisti, genio, artiglieria, logistica … Gli avevano detto tutti no, finchè non aveva bussato alla porta del giovanissimo comandante di un battaglione corazzato: Yonathan Netanyahu gli aveva risposto semplicemente: “Benvenuto a bordo”.

Dagan si era guadagnato la stima di tutti, scendendo almeno due volte al giorno dai monti per trasportare i rifornimenti per i carristi e i loro carri. Di qualunque cosa si trattasse, Danny Dagan non diceva mai di no: ormai aveva lasciato per sempre gli abiti civili.

Fu durante quella guerra che Dagan affinò le sue qualità di meccanico e imparò a riparare qualunque veicolo a motore, dalla jeep, al camion, al carro armato.

Quando Netanyahu aveva lasciato i carri per le Forze Speciali, Dagan l’aveva seguito in qualità di soldato di carriera distaccato alle Forze Speciali.

Quando quel venerdì mattina, Danny Dagan lasciò temporaneamente Kafri e Razal nell’hangar con la Mercedes per andare a bussare alla porta del comandante, Netanyahu non si stupì: se l’aspettava.

Danny Dagan ricorda che era rimasto sulla porta e se ne era uscito dicendo al comandante dell’Unità:

“Ecco la questione: io vengo con voi”.

Netanyahu aveva sollevato lo sguardo dalla mappa, sembrava stanco. L’aveva guardato senza rispondere.

Danny Dagan, con i capelli brizzolati e suoi 42 anni, era di gran lunga l’uomo più vecchio del Sayeret Matkal. Se ci fosse stato da marciare per fuggire in Kenya non ce l’avrebbe fatta e includere lui significava escludere qualcun altro.

Per colmare quel silenzio, Dagan aveva aggiunto:

“Se i veicoli si scasseranno e si scasseranno, nessuno li riparerà come me, lo sai”.

“Lascia stare”, aveva ribattuto Netanyahu; “Mi hai convinto, vieni con noi”.

Dagan ricorda che per poco non aveva urlato di gioia, invece si era limitato ad esclamare:

“Ok! Raduno i piloti e vado a prendere quei blindati: i ragazzi non li hanno ancora visti, gli faccio vedere come si guidano!”.

Netanyahu aveva acconsentito.

Danny Dagan stava uscendo, quando di colpo si era ricordato anche di un’altra questione:

“Comandante ci sarebbe un altro problema …”.

Netanyahu l’aveva prevenuto: “Lo so, lo so: il compleanno di tua moglie è stasera, ha invitato anche me. Non preoccuparti, ci penso io”.

Dagan era schizzato via, temendo che se fosse restato il comandante avrebbe potuto cambiare idea e lasciarlo a casa.

Irena Dagan ricoda che Yonathan Netanyahu la chiamò di persona:

“Pronto Irena? Si senti c’è un problema per stasera …

Te l’immaginavi eh? Senti non possiamo venire, ma ti giuro che la settimana prossima Danny ed io metteremo su per te una festa che la metà basta”.

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La prova generale

 

La giornata di venerdì venne spesa dalla forza d’attacco per sperimentare quello che era stato messo sulla carta. Sarebbero stati presenti anche il capo di stato maggiore dell’IDF Mordechai Gur e il generale Peled dell’Aviazione.

Alle prime luci, i paracadutisti e quelli della Golani iniziarono a radunarsi alla base dei parà, insieme con i veicoli che avrebbero usato a Entebbe. Di, lì a poco, sarebbero arrivati anche i quattro Hercules del 131°.

Gli uomini del Sayeret Matkal erano ancora alla loro base. Indossarono le tenute ugandesi e l’equipaggiamento, poi si riunirono nella sala cerimonie della base: c’erano tutti, da Netanyahu fino all’ultimo uomo, anche quelli che non avrebbero fatto parte della missione.

Il comandante, seguito dal suo stato maggiore salì su una lunga pedana e dette il via al briefing generale. Bisognava informare gli uomini fino all’ultimo dettaglio e c’erano delle novità giunte da Parigi.

Avi Livneh aprì la riunione, dicendo che quella mattina i terroristi avevano deciso di rilasciare i 104 ostaggi non israeliani e non ebrei che rimanevano detenuti nella hall grande. Questo probabilmente perché ormai si sentivano sicuri di aver vinto e di aver dimostrato che la volontà di Israele poteva essere piegata.

Significava che ora restavano solo le 106 persone (gli 11 membri dell’equipaggio Air France più le 95 persone di religione ebraica, quasi tutte di cittadinanza israeliana), a quanto si sapeva ancora rinchiuse nella hall piccola, ma era possibile che fossero state spostate nella hall grande. Questo era un problema. Se da un lato infatti semplificava le cose perché gli ostaggi sarebbero stati probabilmente tutti in una stanza sola, dall’altro non si sapeva in che stanza fossero (hall grande o piccola), ma non ci si poteva fare niente.

Dopo Livneh, fu la volta di Netanyahu che salì in pedana ed espose il piano d’assalto dell’Unità. Gli uomini ascoltarono in silenzio quello che il comandante aveva da dire. Netanyahu non nascose i rischi e le incognite della missione, che come tutti potevano immaginare erano dovuti in gran parte all’enorme distanza e soprattutto al fatto che non c’era stato tempo: il piano approntato secondo lui era il massimo umanamente possibile.

Finita l’esposizione, cominciarono le domande, che erano molte. Una delle più pressanti fu quella riguardo all’arrivo dei blindati. Netanyahu stabilì che sarebbero arrivati come scendevano dagli aerei senza perdere tempo a radunarsi. Questo parve rincuorare gli uomini, che poche ore prima erano arrivati a minacciare di scavalcare la via gerarchica e andare direttamente dal ministro della difesa a dirgli come secondo loro stavano le cose.

Al contrario, la tranquillità, la sincerità e la sicurezza dimostrata dal loro comandante parvero fare presa sugli animi e i soldati sembrarono cambiare atteggiamento.

Tutti vennero dettagliatamente informati su quello che ci si aspettava da loro, su cosa avrebbe fatto l’uomo sulla loro destra e quello sulla sinistra e chi avrebbe fatto cosa in ogni eventualità umanamente prevedibile.

Di più non si poteva fare secondo lui, disse Netanyahu. Quella battaglia sarebbe appartenuta a tutto il popolo di Israele. Quel piano era il massimo che si era riusciti a mettere insieme. Non c’era stato tempo per nient’altro e chi non se la sentiva, era libero di venire a dirglielo privatamente nel suo ufficio: meglio avere meno uomini, ma motivati, che un numero superiore di combattenti, ma divorati dal dubbio. La vita di 106 persone dipendeva dalle loro azioni: se avessero attaccato e fallito, per Israele avrebbe significato il disastro. “Una volta a Entebbe”, disse Netanyahu ai suoi, “ognuno si comporti come se tutto dipenda solo da lui”,

Gli uomini iniziarono una lotta feroce per essere ammessi.

Nonostante questo in realtà lo stato d’animo generale rimase quello secondo cui quell’operazione non sarebbe stata mai autorizzata da nessuno. La mancanza dei pezzi grossi, che invece normalmente si facevano vedere alla base del Sayeret Matkal prima di ogni operazione, aveva convinto gli uomini che quella missione non sarebbe mai stata realmente presa in considerazione.

Nonostante questo,le prove e i tests continuavano. Per prima cosa, bisognava provare e riprovare tutte le armi previste per l'assalto, dalle Beretta .22, ai Kalashnikov, ai Dragon.

Ogni uomo si recò al poligono a fare fuoco con le sue armi, sparando anche con tutti i caricatori che si sarebbe portato dietro, per vedere se funzionavano o si inceppavano. L’armamento scelto dalla squadra d’assalto dell’Unità era sovietico, come quello ugandese.

C'erano i Kalashnikov, la 7,62 RPD e la pesante DSHK 12,7 mm montata sulle jeep. Alik Ron racconta che con l’abitudine la migliore arma per il combattimento sulla breve distanza secondo lui è proprio l’AK-47.

Quelli delle Land Rovers avevano anche gli RPG, un’arma con cui non tutti avevano dimestichezza, per cui gli uomini che conoscevano già quei lanciarazzi portarono quelli ancora inesperti al poligono per fargli vedere come si usavano.

Non c’erano visori notturni per tutti i Kalashnikov, per cui alcuni uomini della forza periferica dovettero ripiegare sulle Uzi per le quali i visori notturni abbondavano.

Gli altri portarono un enorme armamentario: Galil, M-60, bombe a mano, Uzi, lanciagranate M-79 da 40 mm, granate lanciabili da fucile, mitragliatrici pesanti calibro .50, il tutto insieme con una quantità spropositata di munizioni. Gli uomini erano stracarichi, ognuno si portava dietro mediamente una quarantina di chili di materiali vari.

Così bardati corsero tutti alla prima esercitazione prevista nella giornata alla vicina base dei parà, dov’era il simulacro dei terminals di Entebbe.

Si cominciò con lo sperimentare la disponibilità di spazio sui vari veicoli della forza e a bordo degli Hercules. Gli uomini iniziarono a salire e scendere sempre più velocemente dalle jeep e dagli aerei, provando ogni volta diverse combinazioni di sistemazione a bordo.

Netanyahu andò da Kafri sulla Mercedes e cominciò a girarci intorno, entrando e uscendo svariate volte dall’auto. La macchina, configurata come limousine, aveva tre divanetti: quello di guida, quello intermedio e quello posteriore. Netanyahu la studiò minuziosamente. In Uganda la guida era all’inglese, quindi con posto di guida a destra. La Mercedes purtroppo aveva invece la guida a sinistra, ma non ci si poteva fare nulla. Si sperò che gli ugandesi se ne fossero accorti il più tardi possibile.

Gli uomini della forza speciale cominciarono a esercitarsi ripetutamente su come salire e scendere dall’auto il più velocemente possibile e su come trovare la maniera di farci entrare due squadre d’assalto ad equipaggiamento completo: in quel modo la Mercedes era piena da scoppiare. Si rischiava di impigliarsi con le fibbie e le cinture, per cui gli uomini limitarono al massimo la buffetteria e tolsero le cinture ai Kalashnikov, riempiendosi le tasche di caricatori.

Kafri stava alla guida, con Netanyahu seduto alla sua destra nel posto del passeggero. Dietro, sul divano di mezzo, si misero Muki Betser, Alex Davidi e il capitano Giora Zusman. Sul divanetto posteriore stavano altri quattro uomini. Erano pigiati come sardine.

Provarono e riprovarono diverse posizioni a bordo per le armi. Alla fine decisero che avrebbero tenuto i Kalashnikov verticali, stringendoli tra le ginocchia davanti a loro. Gli uomini davanti e quelli ai finestrini avrebbero impugnato le Beretta e le Smith and Wesson silenziate. In quelle condizioni, Netanyahu pensò che il rischio di far partire un colpo dalle armi una volta tolta la sicura prima dell’assalto era eccessivo e alla fine decise che avrebbe tolto un uomo dal divano posteriore.

Frattanto, anche gli uomini delle Land Rovers stavano facendo esperimenti simili a quelli sulla Mercedes.

Una volta decisa la sistemazione migliore sulle auto si trattò di imparare a caricarle a bordo degli Hercules con velocità e con precisione millimetrica, dato che anche 2 cm e 2 secondi in più o in meno potevano fare la differenza. Gli autisti iniziarono a salire (in retromarcia) e a scendere in velocità dai Karnaf, dopodiché tutta la forza salì a bordo dei grandi aerei. Tutti sapevano della missione, ma gli uomini delle forze speciali non sapevano se i piloti conoscevano tutto e viceversa, quelli dell’Aviazione non sapevano se i fanti erano già al corrente della cosa, per cui nessuno aprì bocca con gli altri.

Gli Hercules iniziarono a rullare velocemente come se fossero appena atterrati a Entebbe. Il Karnaf-Uno (Shani non era ai comandi: si stava esercitando all’atterraggio cieco a Ofira) arrivò nel finto punto di inizio attacco, sbarcò la mezza squadra di Shomron e il Sayeret Tzanhanim, poi ripartì, raggiunse come un fulmine il secondo punto di stop, abbassò la rampa posteriore e ... Non accadde nulla!

Il C-130 se ne rimaneva lì inchiodato, con a rampa abbassata e i motori al massimo che sollevavano una tempesta di polvere, ma i veicoli non si vedevano.

Kafri sulla Mercedes infatti aveva girato la chiave nel cruscotto della vettura, ma il motorino d’avviamento era rimasto silenzioso.

Disperato, Amitzur Kafri sbattè le mani sul volante, abbassò il finestrino dell’auto, sporse fuori la testa e urlò a Yardenai, il conducente della prima Land Rover che si trovava dietro alla Mercedes dentro la stiva dell’Hercules:

“Spingimi Eyal! La maledetta non parte!”.

Yardenai capì al volo e con la sua Land Rover spinse la Mercedes giù per la rampa e fuori dalla stiva del Karnaf-Uno. Grazie alla spinta, il motore della Mercedes riprese vita e si avviò, ma a bordo Netanyahu e gli altri erano preoccupati: e se fosse successo in Uganda?

Appena a terra, svoltarono subito a sinistra e il corteo passò sotto le due gigantesche eliche in movimento dei due motori di destra del C-130: si era calcolato infatti che sotto le pale c’era appena lo spazio sufficiente per far passare le Land Rovers senza decapitare gli uomini che ci stavano sopra.

Il corteo corse verso il simulacro dell’old terminal. Sul finto raccordo, Netanyahu sulla Mercedes si imbattè nelle “sentinelle” nemiche (due uomini della Golani) che lui stesso aveva disposto nei punti secondo lui più convenienti per il nemico e studiò l’angolazione migliore con cui eliminarle dalla macchina con le pistole silenziate.

Poi si diressero all’old terminal dove altri uomini simulavano i terroristi, gli ostaggi e gli ugandesi e tutti si esercitarono, provando e riprovando, a riconoscere le varie porte da cui avrebbero fatto irruzione.

Frattanto, anche i paracadutisti e quelli della Golani si stavano esercitando ad espugnare il new terminal e la nuova torre di controllo, rappresentati da diversi autobus vecchi e nuovi, alcuni dei quali disposti uno sull’altro.

Surin Hershko era sergente nella squadra mortai dei parà e si stava esercitando ad espugnare il simulacro del new terminal di Entebbe. La sua squadra doveva conquistare il terrazzo del primo piano del new terminal. Tutti i soldati ugandesi che avrebbero incontrato andavano uccisi, ma non si doveva far male ai civili dell’aeroporto nemico. Hershko racconta:

“Noi venivamo da un’esercitazione sul Golan. Ci dissero di mollare tutto e di scendere dalle montagne. Io e 13 altri della mia unità.

Non ci dissero nulla riguardo al motivo, ma la notte prima dell’esercitazione ci parlarono di un palazzo di tre piani dove si erano asserragliati dei terroristi e che avremmo dovuto espugnare. Nessuno ci aveva parlato di Entebbe, ma quando vedemmo i Karnaf ed arrivarono le jeep blindate e ci dissero di iniziare a vedere in quanti riuscivamo a starci noi capimmo tutto.

Conoscevo già Yonathan Netanyahu. L’avevo conosciuto a un’esercitazione in cui c’erano anche i miei mortai. Io ero abituato con gli altri comandanti di battaglione, che non sapevano molto del mio lavoro, per cui sparavo con i mortai quello che volevo, giusto per fare un po’ di fumo sul campo e accontentare tutti, ma con Netanyahu fu subito tutto diverso. Arrivò e io vidi che tutti lo rispettavano. Non se ne stava al comando di battaglione, ma si muoveva in prima linea. Sapeva cosa chiedermi e quando chiedermelo e mi dava lui stesso le giuste correzioni da fare. Avevamo il nostro veicolo di trasporto mortai, ma appena arrivò, Netanyahu fece scendere l’autista e lo assegnò immediatamente alla mia squadra, mentre sul veicolo mise il suo autista personale, che mi disse: - Sta attento, guarda come dirige il test, come arriva dappertutto -

Vidi un comandante estremamente preparato e determinato. Quando seppi che avrebbe comandato lui le Forze Speciali a Entebbe mi sentii molto sollevato”.

L’esercitazione proseguiva. Peled dell’Aeronautica non ci capiva molto di tutti quei soldati che correvano ovunque. Gur al contrario pareva apprezzare e aveva un aria soddisfatta.

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Il giorno prima

 

Alle 16:00 di venerdì, Netanyahu prese il suo autista e in macchina con lui si recò per l’ennesima volta al Kyria a Tel Aviv, per spiegare il piano d’assalto dell'Unità al ministro Peres.

All’entrata del Kyria, la sentinella di guardia non voleva farli passare perché non risultavano. Netanyahu scese, alzò di persona la sbarra e fece cenno al suo autista di muoversi.

La riunione con il ministro della difesa durò 50 minuti. Peres ne uscì soddisfatto e disse che avrebbe raccomandato l’autorizzazione dell’operazione al primo ministro Rabin. Netanyahu ritornò alla base dell’Unità e si rimise al lavoro sul piano con Avi Livneh, che avrebbe dovuto recarsi all’ennesima riunione notturna dei Servizi.

Durante la notte, l’attività proseguì.

Kafri, Dagan e Razal continuarono il lavoro sulla Mercedes. A fine esercitazione, Netanyahu aveva lasciato un biglietto per Dagan: “E’ imperativo che l’auto funzioni”.

Danny Dagan si era rimesso al lavoro sulla Mercedes, ma non prima di dire a Netanyahu che aveva un amico che possedeva una Plymouth Fury che avrebbe potuto andare come sostituta della Mercedes, qualora in ultimo Dagan non se la fosse sentita di autorizzare l’uso dell’auto tedesca.

Netanyahu gli aveva detto: “Bene! Va a prendere l’auto del tuo amico e testiamola sugli Hercules. Digli che le Forze Armate lo risarciranno di qualunque danno alla sua auto”.

Dagan era andato dall’amico ed era tornato con la Fury, ma questa si era rivelata 60 cm troppo lunga per entrate nel C-130 con le due Land Rovers, per cui era stata scartata e ora Dagan stava dando il meglio di sé sulla Mercedes: tutto pareva girare attorno a quella macchina, anche se Yisrael Sales aveva detto che in casi estremi si sarebbe potuta usare anche la sua grossa Audi verde e anzi aveva già consegnato le chiavi al comandante dell’Unità.

Nel frattempo, Amitzur Kafri aveva ricevuto da Netanyahu l’ordine di preparare anche diverse cariche esplosive. Le più grosse, da demolizione, sarebbero servite durante la ritirata, per minare le piste e i raccordi che gli israeliani si sarebbero lasciati alle spalle mentre ritornavano agli Hercules. Queste cariche sarebbero state ritardate di 10-15 minuti e avrebbero avuto il duplice scopo di sfondare il fondo delle piste e di dare l’impressione agli ugandesi che gli israeliani fossero ancora in linea.

Le cariche più piccole invece avrebbero dovuto servire per abbattere eventuali porte sbarrate.

Si fece notte, ma le luci alla base rimasero quasi tutte accese.

Bukhris nella sua branda non riusciva a dormire. Non aveva molta paura, ma c’era un pensiero che lo teneva sveglio: lui era l’ultimo rimasto della sua squadra nell’elenco per l’operazione a Entebbe.

Sapendo di essere il più giovane di tutti, di non essere mai stato in guerra e che c’erano altri “pretendenti” con ben altra esperienza che la sua, Bukhris temeva di essere cancellato all’ultimo momento, così se ne era uscito dalla sua camera ed era andato a chiedere se c’erano novità.

L’ufficiale responsabile l’aveva tranquillizzato: nessuno l’avrebbe cacciato e poi Netanyahu lo conosceva personalmente e aveva scritto di suo pugno il suo nome nell’elenco degli ammessi, se ancora non l’aveva cancellato, difficilmente l’avrebbe fatto in seguito.

Bukhris infatti conosceva di persona il comandante. Il ragazzo aveva appena passato la durissima selezione per il Sayeret Matkal. Era successo che si era talmente allenato in montagna da aver riportato una frattura da sforzo in un piede; motivo per cui non aveva potuto sostenere le ultime prove nella sessione prevista e non aveva potuto recarsi a ricevere le ali dell’Unità con i suoi compagni nella consueta cerimonia serale.

Al contrario, aveva dovuto risostenere l’ultima prova notturna a fuoco reale: lui da solo con un altro collega.

Netanyahu, come sempre, aveva voluto venire di persona a presenziare all’ammissione delle nuove reclute nell’Unità, anche se stavolta erano solo due. A fine prova li aveva chiamati entrambi per nome nel buio, aggiungendo:

“Stasera non c’è tutto il Sayeret Matkal schierato a ricevervi, ma ci siamo solo noi. Questo non toglie nulla all’azione, che anzi per me è ancora più commovente. Questo è un esame privato, che lega me, come comandante, a voi due”.

Poi Netanyahu gli aveva stretto la mano e dentro il palmo del comandante Bukhris, ancora ansimante per la prova, aveva sentito che c’erano le ali del Sayeret Matkal: era rimasto lì impalato nel buio, fradicio di sudore, a stringere quelle ali nel pugno chiuso senza poterle vedere. (Il distintivo dell’Unità è segreto: non si indossa sull’uniforme e nessuno dei non addetti ai lavori conosce i volti e i nomi di coloro che fanno parte di quella Forza).

Bukhris sapeva che avrebbe anche potuto non fare ritorno da Entebbe, ma dopo aver parlato con l’ufficiale di servizio se ne andò a dormire: era improbabile che lo cancellassero dalla missione.

 

Anche Amir Ofer non dormiva. Lui e Shlomo Reisman avevano chiamato Blumer e se ne erano andati nella camera di Ofer, avevano spento la luce ed ora erano tutti e tre sul pavimento a regolare i visori notturni dei Kalashnikov. Erano tutti veterani. Reisman ricordava l’azione all’hotel Savoy di Tel Aviv, in cui il fumo delle esplosioni e l’oscurità per poco non avevano provocato il disastro; lui stesso era stato ferito e un suo compagno era rimasto ucciso.

I visori notturni all’infrarosso sono utilissimi per prendere la mira sulla breve distanza, nel fumo e nel buio, ma bisogna regolarli bene, perché dove arriva il raggio del visore arriva il proiettile, quindi bisogna essere precisi nel montaggio: è questione di vita o di morte.

Provati i visori, Ofer e la sua squadra riaccesero la luce, aprirono i dossier e ristudiarono tutta l’operazione per imprimersela meglio nella memoria. Studiarono anche la via migliore per squagliarsela da Kampala via terra, qualora gli Hercules fossero stati distrutti: la cosa appariva disperata, ma possibile, anche se il Kenya distava più di 200 chilometri.

Anche Danny Dagan nell’hangar di Razal stava studiando la mappa del Kenia. In linea d’aria il confine keniota distava 193 chilometri da Kampala. La strada invece, che superava i 200 chilometri e costeggiava la riva settentrionale del lago Vittoria. Era lungo quella strada che correva la via più breve per scappare via terra in Kenya. Si sapeva che le strade africane moltiplicano la distanza; per non parlare delle forze ugandesi …

Dagan andò da Sales. Insieme fecero due conti sui pesi e decisero di saldare agganci supplementari per altre taniche di benzina sulle Land Rovers già stracariche.

Netanyahu intanto proseguiva il lavoro con Livneh, il quale non avrebbe potuto seguirli a Entebbe. Avi Livneh, ufficiale alle informazioni dell’Unità, doveva andare assolutamente a una riunione notturna con le alte sfere dei Servizi, in vista dell’approntamento di qualcosa che avrebbe riguardato quasi sicuramente cosa avrebbe fatto Israele dopo Entebbe, specie dopo un eventuale fallimento del tentativo di salvataggio. I contenuti della riunione cui si recò Livneh sono tuttora segreti.

Netanyahu lavorò con i suoi per tutta la notte. Solo alle prime luci della mattina trovò finalmente il tempo di dormire qualche ora: non riposava da più di 48 ore.

Andò a casa sua, un piano sotto all’appartamento di Ehud Barak e per poco non si addormentò esausto sotto la doccia. La sua ragazza fece appena in tempo a metterlo sul letto che lui già dormiva, mentre il cielo già spuntava l’aurora.

 

“Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan.

“Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.

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Quella mattina di sabato, giorno sacro per la religione ebraica, lattività alla base dellUnità raggiunse il suo massimo. Quasi nessuno aveva chiuso negli ultimi due giorni. Tutti gli uomini destinati alla missione erano pronti e già si cominciava a controllare e ricontrollare ogni voce dellequipaggiamento che si sarebbe portato. Lapprovazione o meno della missione ora dipendeva dal potere politico e non più dai militari: gli ostaggi ancora a Entebbe erano prigionieri ormai da una settimana e lultimatum dei terroristi sarebbe scaduto il giorno dopo.

A Tel Aviv verso le 09:00 sarebbe cominciata una lunga riunione dei ministri di Israele, Rabin in testa, che si sarebbe protratta ben oltre il decollo della forza dintervento: si calcolava infatti che si sarebbe potuto dare lautorizzazione formale alla missione anche quando gli aerei si sarebbero trovati già in volo. Il problema era che raggiunto il punto di non ritorno, la forza dattacco non avrebbe avuto più il carburante per tornare in Israele in caso di un annullamento di tutta loperazione. Per cui la decisione andava presa prima gli la forza raggiungesse quel punto in Mezzo al Mar Rosso.

Di prima mattina, Netanyahu, che era ritornato poco dopo lalba, andò con Shomron dal generale Adam a ricevere gli ultimi ordini formali, poi tornò alla base dellUnità e parlò personalmente con ogni uomo che sarebbe partito con lui.

Gli ufficiali subalterni avevano avvicinato il loro superiore diretto, il capitano Giora Zusman, dicendogli che non si sentivano ancora sicuri riguardo ad alcuni punti della missione e che a loro sembrava ancora organizzata in modo affrettato. Zusman lo riferì a Netanyahu che indisse una riunione tattica con i suoi ufficiali, nella quale venne esaminata lintera gamma delle domande possibili. La riunione avrebbe dovuto durare 15 minuti, ne durò 50, ma alla fine tutti ne uscirono soddisfatti.

Successivamente Netanyahu corse a Lod per il briefing con i comandanti delle altre unità coinvolte e con i piloti.

Nel frattempo per gli uomini del Sayeret Matkal non cera altro che lattesa. Tutto lequipaggiamento era preparato e verificato. Bisognava solo aspettare. Lattesa fu snervante a detta di alcuni. Molti si misero a dormire sul loro equipaggiamento, convinti che non si sarebbe mai andati da nessuna parte.

Bukhris a un certo punto venne preso dallo sconforto. Andò da una sua ex compagna di scuola, YaEl, che era una delle segretarie di Netanyahu e le dettò uno scritto per i suoi genitori, in caso non fosse tornato.

Poi allimprovviso, nella mattinata, quella calma apparente venne infranta. Arrivarono gli autobus in una lunga fila e si disposero in attesa sul piazzale. Gli uomini vennero chiamati per nome e contati, poi iniziarono a salire a bordo degli autobus.

Allultimo momento, Kafri e Dagan, che ormai lavoravano ininterrottamente sulla Mercedes dalla notte del giovedì precedente, si accorsero che la pittura nera applicata venerdì notte, asciugandosi, creava chiazze di colore di tonalità differente, per cui i due specialisti iniziarono a darsi da fare sullautomobile con bombolette spray di nero lucido, per dare più uniformità al colore.

Stavano lavorando ancora attorno allauto con quelle bombolette, quando Dagan si fermò di botto e alzò lo sguardo, guardandosi intorno: il familiare frastuono della base allimprovviso era scomparso, per cedere il posto a uno strano silenzio.

Vedendo lamico, anche Kafri smise di spruzzare vernice e fissò Dagan stupito, poi anche lui realizzò: Ci hanno lasciato qui!

I soldati dellUnità erano saliti sugli autobus in attesa proprio davanti allhangar dove Kafri e Dagan stavano verniciando il Mercedes e tutti avevano dato per scontato che loro si fossero accorti, per cui nessuno li aveva avvertiti.

I due specialisti non potevano crederci!

Gli uomini dellUnità che non erano stati assegnati alla missione e che bighellonavano lì intorno ormai stavano sghignazzando apertamente.

Dagan e Kafri buttarono le bombolette di colore, coprirono le targhe ugandesi, salirono sulla Mercedes e corsero a Lod, dove la forza dintervento si stava imbarcando sui C-130H dellaviazione.

 

"Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo netanyahu.

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Il volo dei Rinoceronti

 

Sul piazzale di carico di Lod, Kafri si diresse con il Mercedes sotto la coda del Karnaf-Uno. Fece inversione e salì in retromarcia nella stiva dell’aereo, posizionando la macchina sui fermi esattamente dietro le due Land Rovers che erano già a bordo e con il muso puntato verso l'uscita.

Nel frattempo, la forza dell’Unità venne raggiunta anche dagli uomini del resto della forza d’intervento, i paracadutisti e quelli della Golani. Il piazzale ormai era ingombro di personale ed equipaggiamenti di ogni tipo.

A un certo punto arrivò Avi Livneh, ufficiale alle informazioni dell’Unità, con un plico di foto recentissime dell’old terminal. Livneh andò da Netanyahu per commentarle con lui e consegnargliele.

I cinque C-130 iniziarono a scaldare i motori, avviandoli uno dopo l’altro: il rumore crebbe d’intensità e ora bisognava urlarsi nelle orecchie per farsi capire.

Un ufficiale dell’aeronautica militare corse dal dottor David Hasin, medico dell’Unità e gli disse che aveva ricevuto una comunicazione dal comando secondo cui il suo infermiere rimaneva a terra a causa di un problema di spazio sui veicoli. Ad Hasin la cosa non piacque e andò a protestare da Netanyahu: senza infermiere, disse, la sua operatività come medico sarebbe scesa in pratica della metà, ma non ci fu nulla da fare, non c’era posto.

A questo punto, Kafri e Dagan ricordano di aver visto paracadutisti e uomini dell’Unità salutare con un bacio qualche segretaria della loro base, che li aveva seguiti fino a lì.

Il comandante della forza difensiva periferica, il maggiore Shaul Mofaz, raggiunse il suo pilota a bordo di Karnaf-Due, il maggiore Nathan (Nati) Dvir: era quella la prima volta che i due trovavano il tempo per stabilire insieme i codici e i segnali da dare agli uomini per l’apertura del portellone del C-130, per lo sblocco dei fermi dei mezzi e il loro scarico al suolo. Questa non era certo una procedura di routine e rende l’idea della scarsità del tempo avuto a disposizione.

Infine comparvero sulla pista anche Shimon Peres, ministro della difesa e Mordechai Gur, capo di stato maggiore di Zahal, venuti a salutare di persona gli uomini in partenza prima di recarsi al vertice di Tel Aviv. Tutti gli sguardi si puntarono su di loro.

Shomron e Netanyahu andarono da Peres e da Gur, assicurando loro che il piano era fattibile. La questione cruciale era però se il via all’operazione sarebbe stato concesso: l’assenza di un’autorizzazione formale pesava ancora come un macigno su tutta la missione.

Peres e Gur, dissero che c’erano buone probabilità, ma qualcuno degli uomini rimase comunque dubbioso.

Alla fine, tutto il personale venne chiamato sotto gli aerei. Gli uomini, piegati in due sotto il peso degli zaini, si allinearono in due file parallele sotto la coda del C-130 cui erano stati assegnati e cominciarono a salire a bordo, spingendosi fino a prua nella stiva degli Hercules per far posto a quelli che salivano dietro di loro.

Gli aerei erano molto più carichi che alle esercitazioni.

 

Sul Karnaf-Uno del tenente colonnello Joshua “Shiki” Shani:

29 (qualcuno dice 34) uomini della forza d’assalto del Sayeret Matkal di Netanyahu.

52 paracadutisti del Tzanhanim.

Il generale Shomron, il tenente colonnello Haim Oren e metà della loro squadra comando e infine le due Land Rovers e la Mercedes.

 

Sul Karnaf-Due del maggiore Nathan “Nati” Dvir:

16 uomini del Sayeret Matkal con il maggiore Shaul Mofaz (equipaggi della prima coppia di blindati).

L’altra metà della squadra comando, con il tenente colonnello Biran, la loro jeep-comando, due jeep blindate M-38A1C e 17 altri paracadutisti.

 

Sul Karnaf-Tre, del maggiore Aryeh Oz: la seconda coppia di M-38 blindate con i loro 16 uomini, insieme con 30 fanti della Golani e la loro Land Rover.

 

Infine Karnaf-Quattro (matricola militare 4X-FBQ/420), pilotato dal maggiore Amnon Halivni, portava a bordo i due pick-up Peugeot, uno per la Golani, l’altro con la pompa del rifornimento carburante, insieme con 10 tecnici rifornitori dell’Aviazione, 20 altri soldati della Golani e i 10 uomini dell’equipe medica di supporto con tutto il loro materiale ospedaliero.

 

I quattro C-130H (più un quinto di riserva) appartenevano tutti al 131° Squadron.

Le matricole militari degli aerei erano: (4X-FBA/102; 4X-FBB/106; 4X-FBT/435; e infine 4X-FBQ/420).

 

Imbarcato tutto e assicurato il carico nelle stive, gli equipaggi degli aerei dichiararono uno dopo l’altro di essere pronti.

Il quinto C-130 rappresentava la riserva qualora uno dei primi quattro Karnaf avesse avuto malfunzionamenti e si sarebbe fermato a Ofira in attesa.

Shani a bordo dell’aereo di testa si dichiarò pronto a muovere e, ricevuta l’autorizzazione, dette motore.

Sulle prime, l’Hercules-Uno stracarico parve quasi voler restare ostinatamente al suo posto sul piazzale, ma subito dopo, dapprima impercettibilmente, poi sempre più velocemente, le grandi ruote del carrello iniziarono a girare. L’aereo si mosse diretto alla pista di rullaggio, dietro di lui tutti gli altri. La missione era iniziata.

Arrivato in fondo alla pista di rullaggio, il Karnaf-Uno voltò di 180° sullo svincolo e si immise sulla pista di decollo arrestandosi per eseguire gli ultimi controlli prevolo. Ricevuta l’autorizzazione, Shani decollò da Lod. Erano le 13:20 ora di Tel Aviv.

Dietro a Karnaf-Uno decollarono in perfetto silenzio radio tutti gli altri aerei, distanziati di 5 minuti l’uno dall’altro.

Questo non era dovuto solo al fatto che non dovevano ritrovarsi nella scia dell’aereo che li precedeva, ma i decolli distanziati erano stati studiati per ingannare eventuali osservatori nemici che di sicuro non mancavano mai sulle spiagge di Tel Aviv e a bordo dei pescherecci sovietici e che non dovevano certo vedere cinque C-130 israeliani decollare tutti insieme e virare a sud.

Il Boeing 707 comando e controllo, con a bordo i generali Adam e Peled, sarebbe decollato invece diverse ore dopo gli Hercules (quattro ore dopo), perché essendo molto più veloce li avrebbe raggiunti sull’Uganda in tempo per dare il via al raid.

Appena decollati, i cinque C-130 presero rotte iniziali apparentemente diverse, ma poi si diressero tutti su Sharm el Sheikh.

Il volo dei cinque aerei verso Ofira, sulla punta meridionale della penisola del Sinai, fu difficilissimo.

L’aria torrida a livello del deserto ribolliva letteralmente di turbolenza e i velivoli venivano sbattuti da tutte le parti.

A bordo degli Hercules stracarichi, gran parte dello spazio era occupato dai veicoli e dall’equipaggiamento per cui gli uomini avevano dovuto arrangiarsi a trovare posto dove capitava, in ogni anfratto rimasto libero.

Le panchine pieghevoli laterali in tela rossa, che correvano lungo la fusoliera, erano state smontate per fare spazio; gli uomini quindi si erano buttati meglio che potevano sul fondo del pianale di carico, sopra e dentro i veicoli e nell’angusta fessura che rimaneva tra il fianco dei mezzi terrestri e la fusoliera dell’aereo. Alcuni si erano adattati a sdraiarsi in coda, sulla rampa di carico dell’aereo, ma questa era inclinata, per cui scivolavano e dovevano puntellarsi con zaini e materiali vari. Altri avevano provato a stendersi sotto i veicoli, ma questi ultimi sobbalzavano continuamente sulle loro sospensioni a causa della turbolenza, per cui il fondo dei mezzi sbatteva continuamente addosso ai soldati, che si tolsero subito da là sotto, rassegnandosi a sedere con la schiena contro la fusoliera e limitandosi ad allungare soltanto le gambe sotto il ventre dei mezzi. Muoversi da un punto all’atro era praticamente impossibile, a meno di non camminare sopra qualcuno.

Il caldo iniziò a farsi sentire, andando ad aggiungersi alla scomodità di quelle sistemazioni improvvisate; ma la cosa peggiore erano le turbolenze e, nonostante gli sforzi, anche i più resistenti tra gli uomini iniziarono a vomitare.

A bordo il puzzo divenne ben presto insopportabile. Agguerriti commandos, ammessi nell’Unità solo attraverso una selezione spietata, iniziarono a sentirsi male come bambini con il mal di mare.

Il sergente maggiore Amir Ofer, dell’Unità, così ricorda quel volo brutale.

 

“Il volo a Sharm el Sheikh fu il più difficile che io abbia mai fatto. Mi vomitai addosso molte volte, ero messo veramente male. Il volo a bassa quota per sfuggire ai radar ci esponeva alla turbolenza. Quando raggiungemmo Sharm, capii che, se quelle condizioni fossero continuate, non avrei potuto reggere ancora per molto. Il dottore arrivò e mi diede delle pillole contro il mal d’aria e mi disse che ero così disidratato che avrei potuto collassare da un momento all’altro, per cui da quel momento in poi avrei dovuto mandar giù una di quelle pillole ogni ora per tutto il tempo di volo”.

 

Il pianale del Karnaf-Uno era ormai coperto di vomito e di gente che sembrava agonizzante.

Proprio durante l’atterraggio a Ofira, un pilota civile della compagnia israeliana Avira per poco non mandò all’aria tutto, quando, atterrando a Sharm con il suo aereo di linea, appena vide i cinque Hercules miliari esclamò alla radio: “Hey! Ma c’è una festa giù alla base!”.

All’arrivo a terra, un uomo dell’Unità stava talmente male che dovette essere sbarcato contro la sua volontà e sostituito da un elemento della riserva: il sergente Amos Goren.

Gli uomini restanti scesero sulla pista mentre i C-130 venivano riforniti di carburante. Quelli della forza d’assalto dell’Unità si sbarazzarono dell’uniforme israeliana e indossarono le tenute mimetiche ugandesi con il tipico berretto verde con visiera. Per motivi di sicurezza infatti Netanyahu aveva ordinato che i suoi soldati indossassero la normale uniforme da combattimento israeliana, questo per passare inosservati al momento del loro imbarco in Israele.

In seguito, a bordo del C-130 non c’era stato lo spazio per cambiarsi per cui ora gli uomini si cambiavano lì sulla pista a Ofira. Avevano con loro anche un cappellino bianco da mettere quando si sarebbero ritrovati dentro l’old terminal, in modo da evitare di ammazzarsi a vicenda.

Una volta ad Ofira, per la forza d’attacco si presentava ora più che mai il problema dell’autorizzazione governativa. A terra sulla pista della base, il brigadiere generale Dan Shomron, comandate di tutte le forze a terra dell’operazione, decise di arrangiarsi, contattando per radio il suo collega ed amico il segretario del primo ministro, brigadier generale Ephraim (“Froika”) Furer. I due concordarono che la forza d’attacco avrebbe comunque continuato nel suo percorso, con la riserva mentale che c’erano ancora almeno quattro ore di volo prima del raggiungimento del punto di non ritorno. Furer infine disse che comunque il primo ministro, Yitzhak Rabin, era apparso incline a dare il via ufficiale.

Nel frattempo sul piazzale il comandante dell’Unità, Netanyahu, aveva radunato gli uomini della sua forza d’assalto per un ultimo briefing.

Non si sa quand’è che arrivò l’autorizzazione ufficiale: alcuni hanno detto che arrivò mentre erano a Ofira, altri invece dicono che arrivò mentre erano già sul Mar Rosso da un pezzo.

 

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Lasciare Ofira non fu facile per i quattro C-130. La pista della base corre lungo la spiaggia parallela alla costa orientale della penisola del Sinai.

All’estremo settentrionale, la pista di Ofira sale su una piccola collinetta. A causa dei venti prevalenti quel giorno, i quattro Hercules dovettero decollare in direzione nord. Questo significava che per loro l’ultimo tratto di pista sarebbe risultato in leggera salita e gli aerei erano stracarichi.

Shani sapeva che il decollo in quelle condizioni non sarebbe stato uno scherzo. Il peso normale al decollo del C-130H è pari a 70.307 chili. In tempo di guerra è usualmente ammesso un peso massimo al decollo (MTOW o maximum takeoff weight) di 79.379 chili precisi, ma alle operazioni speciali quel giorno l’Hercules-Uno era stato richiesto di decollare con un MTOW pari a 81.647 chili.

Con una temperatura dell’aria a livello del mare pari a 37,8° C, che avrebbe ridotto di un buon 30% la potenza dei motori e con quel fondo non esattamente ottimale il C-130 avrebbe avuto bisogno di ogni millimetro della pista lunga 2.400 metri.

Ricevuta l’autorizzazione al decollo, Shani mollò i freni, dette tutta potenza e si sorprese a sperare per il meglio.

A detta degli uomini dell’Unità che erano a bordo, l’accelerazione di decollo dell’Hercules fu penosamente lenta, mentre la collinetta all’estremo opposto della pista balzava loro in contro sempre più velocemente. Nel rombo delle turbine, gli uomini ammutolirono e si lanciarono sguardi inequivocabili.

Shani sfruttò fino all’ultimo metro di pista, poi richiamò dolcemente il volantino e finalmente fu in aria. La cima della collinetta passò sotto di loro e poi sparì dietro l’aereo.

Appena in volo, Shani si accorse subito che il suo aereo non ne voleva sapere né di far quota, né tanto meno di virare. Il C-130 si manteneva a stento in aria a neanche 50 metri di quota, volando una manciata di nodi appena al di sopra della velocità di stallo e non solo, ma, come Shani provava ad inclinare l’ala per virare, si accendeva subito il cicalino dell’avvisatore di stallo e il grande velivolo iniziava subito a vibrare.

Shani fu quindi costretto a volare diritto e perfettamente livellato per più di quindici miglia subito dopo aver lasciato la pista e prima che il suo aereo riuscisse ad accumulare abbastanza velocità da poter virare senza stallare.

Solo allora il pilota israeliano si immise in una cauta virata sulla destra ed anche così vide che non poteva superare un angolo di bank di più di 5 gradi o il suo velivolo decelerava e andava in prestallo.

A causa di tutto ciò e dell’ampiezza di quella virata a est, i quattro C-130 si ritrovarono fuori della rotta prevista e furono obbligati a sorvolare rasoterra un tratto di spazio aereo saudita: cosa assolutamente non autorizzata.

Usciti da quell’ampia virata di 180°, gli aerei misero la prua a sud-sudovest, disponendosi in formazione allargata lungo un arco di una decina di chilometri e mantenendosi sempre a non più di 60 metri al di sopra delle acque azzurre del Mar Rosso per sfuggire ai radar civili e militari: davanti a loro 2.400 miglia piene d’incognite.

Appena usciti dalle acque territoriali saudite a 30 metri sul livello del mare, i piloti dei quattro Hercules badarono bene a immettersi lungo la sottile striscia di acque internazionali al centro del Mar Rosso, che avrebbero percorso verso sud e fino all’Eritrea e all’Etiopia. La Somalia e i francesi a Gibuti andavano accuratamente evitati.

I Quattro Karnaf volavano bassi e veloci, in completo silenzio radio e cercando di sfuggire ai radar egiziani sulla loro destra e a quelli sauditi sulla sinistra.

Con enorme sollievo di tutti, sul mare la turbolenza si rivelò quasi inesistente. Gli uomini provarono a trovare posizioni un po’ più confortevoli e cercarono di vedere se gli riusciva di riposare: li aspettavano 8 ore di volo.

Al contrario dei commandos nella stiva, i piloti non potevano distrarsi un solo attimo. Il volo di guerra basso e veloce è molto impegnativo.

Oltre ad evitare i radar, dalla cabina di ogni Hercules diverse paia di occhi scrutavano la superficie del mare attraverso binocoli navali. Gli ordini erano di evitare qualsiasi imbarcazione: nessuno per quanto possibile doveva vedere quattro C-130 israeliani a bassa quota che correvano a sud. Questo significava che ogni volta che si avvistava una nave, si scartava sulla destra o sulla sinistra di diverse miglia per tenersi alla larga da occhi indiscreti e quindi si usciva di rotta, per poi ritornarci dopo aver fatto accurati calcoli una volta aggirato il pericolo. Se i terroristi fossero stati informati, avrebbero sterminato gli ostaggi, di questo erano profondamente consci ogni pilota e ogni navigatore a bordo degli Hercules.

Con il sopraggiungere del tramonto e della notte, le cose migliorarono un po’ e protetti dall’oscurità ci si servì del radar per evitare le imbarcazioni. Il volo comunque rimase molto stressante per i piloti, che quindi si alternavano ai comandi ogni poche decine di minuti.

 

 

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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A bordo degli Hercules tutto era calmo. Vigeva l’oscuramento, nessuno usava luci di nessun tipo, solo la luce delle stelle filtrava dagli oblò. Il frastuono dei motori riempiva la stiva e scoraggiava le conversazioni. Ogni uomo rimaneva fermo al suo posto solo con i propri pensieri, lo sguardo apparentemente perso nel vuoto; i più fortunati dormivano, sballottati dalle vibrazioni dell’aereo. All’esterno l’oscurità era totale.

A bordo di Karnaf-Uno i paracadutisti si erano buttati ai lati della Mercedes e delle due Land Rovers, mentre gli uomini dell’Unità stavano nel mezzo, sul tetto dei veicoli e al loro interno. Il morale era alto. Qualcuno riusciva a parlottare e di tanto in tanto si poteva udire nel buio qualche parola pronunciata al di sopra del rombo delle turbine.

Tutti quelli che potevano guardavano invidiosi Rani Cohen che appena decollati da Ofira aveva detto a tutti che l’operazione secondo lui non sarebbe mai stata autorizzata, si era buttato sul pianale della sua Land Rover e si era addormentato all’istante e da allora dormiva tranquillo e beato.

Nessuno se l’era sentita di svegliarlo per dirgli che l’autorizzazione invece era arrivata: Rani lo avrebbe scoperto comunque molto presto.

A un certo punto, Netanyahu si alzò dal suo posto e si mosse verso poppa, aggrappandosi con le mani agli appigli della fusoliera e cercando di calpestare meno gente possibile.

Il maggiore Betser lo seguiva. I due raggiunsero Amos Goren e gli dissero di seguirli. I tre uomini si arrampicarono sopra la Mercedes, superarono i soldati sdraiati sul tetto e sul cofano dell’auto e si lasciarono cadere nello spazio tra il muso della vettura e la rampa inclinata del C-130.

Amos Goren era l’uomo salito a bordo ad Ofira per sostituire il ragazzo che si era sentito male, per cui conosceva solo sommariamente i dettagli del piano d’assalto all’old terminal ed ora Netanyahu aveva intenzione di istruirlo a dovere riguardo al suo ruolo nell’operazione. Goren e Ofer tra l’altro avrebbero portato anche i megafoni per farsi sentire meglio dagli ostaggi al di sopra della sparatoria. Dato poi che Goren avrebbe fatto parte della 1° squadra d’assalto, Netanyahu aveva chiamato anche Muki Betser, che sarebbe stato il suo comandante.

Goren ascoltò attentamente tutto quello che i due ufficiali gli dicevano. Alla fine, Netanyahu estrasse di tasca uno di quei sacchetti di carta per il mal d’aria e alla luce rossa di una torcia tattica vi disegnò sopra uno schizzo dell’old terminal, comprendente le vie di accesso e i percorsi d’attacco delle varie squadre d’assalto. Poi consegnò tutto a Goren dicendogli che, qualunque cosa fosse successa, il suo posto avrebbe dovuto essere sempre e comunque a non più di un passo dal maggiore Betser. Goren fece cenno con la testa che aveva capito e infilò il sacchetto con lo schema in una tasca (lo ha conservato fino a oggi).

Netanyahu e Betser si alzarono e andarono a sedersi sui sedili davanti della Mercedes. Chiacchierarono per un po’e scherzarono con Amitzur Kafri che continuava a girare attorno alla “sua” auto e ora ispezionava le asticelle delle bandierine ugandesi saldate sul muso.

Netanyahu estrasse dalle tasche un libro e cominciò a leggerlo. Era un thriller: “The way to dusty death”, di MacLean. Forse lo fece perché tutti gli uomini lì attorno potessero vedere il comandante in mezzo a loro e perfettamente tranquillo.

Poco dopo l’aereo entrò in una turbolenza, l’automobile sobbalzava talmente che Netanyahu e Betser scesero. Netanyahu si recò in carlinga dai piloti.

L’ampia cabina ampiamente vetrata del C-130 era ingombra di ufficiali, qualcuno addirittura seduto per terra o su sgabelli di vimini. Le luci degli strumenti illuminavano la scena, mentre fuori regnava l’oscurità più completa.

Nella cabina del C-130H ci sono cinque sedili: pilota, copilota, sedile del navigatore nel mezzo e due sedili laterali lungo la parete di destra del cockpit, per il tecnico di volo e il vice-navigatore. Gli altri ufficiali erano seduti sul pavimento della carlinga.

Sul sedile anteriore di sinistra stava Shani, il comandante; su quello di destra il maggiore Avi Einstein, copilota.

Rami Levi, della El Al, era il pilota di riserva e ora era immerso nella lettura delle guide Jeppesen sugli aeroporti africani. Era lui quello che avrebbe dovuto parlare con la torre di Entebbe e convincerli a lasciarli atterrare con le luci della pista accese.

Levi decise che si sarebbe finto un pilota partito dall’aeroporto keniota di Kisumu. Si sedette per terra in un angolo e iniziò a ripetere meccanicamente le frasi che avrebbe raccontato al controllore di Entebbe, per imprimersele nella memoria. Fatto questo aprì una mappa dell’Uganda sul piancito della cabina e con una guida dell’aeroporto di Entebbe cominciò a tracciare lo schema di discesa verso Kampala e il suo aeroporto.

Gli addetti al carico dei C-130, volendo, funzionano anche da vivandieri. Ne entrò uno con una bella torta. Netanyahu ne prese un pezzo per sé e un altro lo offrì a Shani che era ai comandi.

Shani glielo rimandò in dietro: “Dammene uno dal centro della torta, non uno dai bordi: la crosta te la mangi tu!”.

Netanyahu si finse scandalizzato e disse qualcosa a proposito di certi elementi dell’Aeronautica, poi gli mandò un pezzo morbido dal centro del dolce. Tutti sorrisero.

Netanyahu si rivolse a Shomron e quest’ultimo chiese ai piloti la loro posizione e una stima del tempo che rimaneva. Ottenuta la risposta si rimise a parlare con Netanyahu e Oren. Decisero che sarebbero scesi con o senza luci sulla pista. C’era anche il comandante dei parà, Matan Vilna’i e il discorso finì su Idi Amin.

Netanyahu se ne usci dicendo che, per quanto lo riguardava, se Idi Amin si fosse trovato nell’aeroporto al momento del loro attacco, l’avrebbe ucciso senz’altro.

Oren sorrise e disse che non avevano l’autorizzazione ad uccidere un capo di stato, ma Netanyahu parve irremovibile: se avesse incontrato Idi Amin sulla sua strada, non gli avrebbe permesso di restare nel numero dei vivi.

 

 

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Nel retro dell’Hercules, la maggioranza degli uomini ormai dormiva. Braccia, gambe e piedi calzati in stivaletti da jungla pendevano da tutte le parti alle angolazioni più strane, oscillando all’unisono con i sobbalzi dell’aereo.

I pochi rimasti svegli si tenevano occupati come meglio potevano, controllando e ricontrollando le armi, i visori notturni e l’equipaggiamento. Un uomo dell’Unità aveva smontato il suo Kalashnikov alla luce delle stelle ed ora lo stava spolverando con un pennello da barba.

Il sergente maggiore Amir Ofer ricorda che non riuscì a chiudere occhio nonostante fosse già un veterano e non dormisse da 24 ore. Si sentiva inquieto, non si vergogna di ammettere che aveva paura e il pensiero che, se loro avessero sbagliato qualcosa e si fosse perso l’effetto sorpresa, i terroristi avrebbero fatto un massacro di innocenti non gli faceva prendere sonno. Ofer racconta:

 

“Ad un certo punto, durante il volo, sapemmo che avevamo superato il punto di non ritorno. Oramai non si poteva più tornare: non avevamo più abbastanza carburante, quindi anche volendo era impossibile. Molti ragazzi si addormentarono, ma io non ci riuscii. Rimasi seduto con i miei pensieri, ripassando mentalmente i miei compiti e quelli dei miei uomini. Ripetei il piano tra me e me credo all’infinito”.

 

Bukhris della 5° squadra se ne rimase seduto per tutto il tempo nel sedile di guida della Land Rover: Kalashnikov sulle ginocchia, la pesante GPMG posata al suo fianco nel mezzo della vettura, sguardo fisso davanti a sé perso nei suoi pensieri.

Muki Betser chiamò Goren e Ofer e gli consegnò i megafoni, concordando con loro che cosa avrebbero dovuto ordinare gli ostaggi. La cosa più semplice per tutti risultò essere che i due avrebbero dovuto urlare nei megafoni: “Everybody lie down! Stay down!”, in inglese e poi in ebraico.

Il sergente dei parà Surin Hershko ricorda che non riusciva a dormire. Era seduto per terra tra i suoi sul Karnaf-Uno, con la schiena appoggiata alla fusoliera; il fondo d’acciaio era troppo duro e non aveva spazio per le gambe, allora decise di allungarle davanti a lui e sotto la Mercedes, ma ad ogni turbolenza il fondo della vettura gli batteva sui piedi, per cui le tirò fuori e le rannicchiò come meglio poteva, ma stava scomodissimo.

Dietro la paratia che separa la carlinga del C-130H dalla stiva, ci sono due cuccette per il personale di volo. Sul Karnaf-Uno, la cuccetta inferiore era rotta, ma quella superiore funzionava. Netanyahu andò a sdraiarsi su quella superiore, ordinò di essere svegliato 30 minuti prima dell’arrivo e si addormentò all’istante, nonostante il rumore dei motori.

Poco dopo arrivò anche Shani, guardò Netanyahu dormire e non se la sentì di sloggiarlo. Non era procedura usuale che il personale trasportato dormisse nelle cuccette dei piloti, indipendentemente dal grado, ma, pensò Shani, quell’uomo addormentato di lì a qualche ora avrebbe comandato un attacco in cui avrebbe avuto il 50% di probabilità di essere ucciso: lo lasciò dormire, ma si mise al suo fianco nella stessa cuccetta ed anche lui si addormentò a fianco di Netanyahu.

Frattanto, l’aereo continuava il suo volo nella notte tropicale, mentre prima il Mar Rosso e poi l’Africa scorrevano sotto il suo ventre metallico.

Evitarono di misura il radar sovietico a Berbera, in Somalia. Raggiunto il punto concordato sul Mar Rosso meridionale, prima della Somalia e dei radar francesi a Gibuti, gli Hercules virarono uno dopo l’altro per sudovest, facendo rotta verso l’Etiopia. Avevano volato per più di mille miglia sul Mar Rosso a una quota che in nessun punto aveva superato i 60 metri.

 

Sull’Etiopia gli Hercules poterono finalmente abbandonare il volo a bassa quota e salire fino a 2.000 piedi (circa 600 metri), dove avrebbero volato più veloci e risparmiato carburante e dove eventuali armi contraeree etiopi non avrebbero potuto raggiungerli. Poterono fare questo perché il sistema radar etiope era così obsoleto che difficilmente avrebbe individuato con precisione i quattro aerei a quella quota.

Shani nella cuccetta accanto a Netanyahu non era riuscito a dormire a lungo, il pensiero di un atterraggio a luci spente e il fatto che tutto, comprese le vite degli ostaggi, quelle dei suoi amici e l’immagine internazionale di Israele sarebbero dipese dalla sua abilità nell’atterrare in quelle condizioni, era cosa che gli toglieva il sonno e gli aumentava i battiti cardiaci, per cui Shani cedette presto il posto nella cuccetta a Rami Levi, che andò a coricarsi accanto a Netanyahu.

Gli Hercules superarono verso sud il confine etiope e furono sopra il grande lago Rodolfo.

Continuarono a sudovest e passarono sul Kenya nord-occidentale, diretti su Kampala. Il cielo sopra gli aerei si coprì di nubi cariche di umidità e di quando in quando la pioggia rigava il parabrezza dei C-130; cominciarono a captare la torre di Entebbe: un pilota della British Airways che decollava in orario.

A bordo dell’aereo di Shani, Netanyahu era stato svegliato per tempo. Chiamati i comandanti di squadra, ordinò l’approntamento generale: mancavano meno di 30 minuti all’azione.

L’armata aerea era quasi arrivata sul grande lago Vittoria vicino a Kisumu quando la fortuna voltò le spalle ai quattro Hercules e una tempesta tropicale si abbattè su di loro, investendoli con tutta la sua furia. Non ci fu modo di evitarla. Come accade ai tropici, la cosa fu improvvisa. Le stelle scomparvero. I lampi squarciavano le tenebre illuminando a giorno gli aerei. Le gocce di pioggia si abbattevano sui velivoli come sassi, mentre i tuoni riuscivano a coprire anche il rombo dei motori.

Alla luce dei fulmini, tutti videro che stavano volando tra due strati di nuvoloni neri, uno sopra gli aerei e l’altro sotto.

La superficie del lago Vittoria era sparita sotto le nuvole. I fulmini cadevano tra i due strati nuvolosi e tutto attorno agli aerei, accecando i piloti e facendo loro perdere la visione notturna, mentre nella stiva archi violacei di elettricità statica scoccavano tra i finestrini della fusoliera.

Gli aerei, carichi com’erano, vennero sbattuti come fuscelli. Mantenerli in quota fu una vera impresa.

Qualcuno nella stiva del Karnaf-Uno, dove gli uomini facevano del loro meglio per non finire scagliati a fracassarsi le ossa contro la fusoliera o contro i veicoli, trovò anche il coraggio di urlare sopra tutto quel frastuono: “Thunderbolt! Thunderbooolt!”.

La tempesta sul Kenya settentrionale almeno un lato positivo però lo ebbe: diminuì l’efficienza di tutti i radar dell’Africa orientale.

Giunti al punto di separazione, i tre aerei che seguivano il Karnaf-Uno presero una rotta obliqua e scesero di quota nella pioggia, rallentando ed entrando in un circuito circolare d’attesa sopra il lago Vittoria, per dare il tempo alla squadra d’assalto di andare avanti. Ormai non mancava molto.

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

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Il Profeta

 

Nell’old terminal di Entebbe, la grande tempesta aveva svegliato tutti, strappando gli ostaggi al sonno agitato in cui erano scivolati, per riportarli all’atroce realtà in cui si trovavano.

Nel fragore del fortunale, i disgraziati passeggeri del volo 139 si erano fatti istintivamente ancora più vicini gli uni agli altri sul pavimento della piccola hall illuminata a giorno dai fulmini.

Porte e finestre avevano preso a sbattere con forza, con rumore simile a spari, al punto che gli ugandesi avevano dovuto accorrere per fissarle e assicurarle alla meno peggio.

All’improvviso, pioggia e vento avevano spalancato le entrate del terminal ed erano penetrati violentemente all’interno, portando via con loro l’afa e il puzzo che vi regnavano.

Per la prima volta da una settimana a quella parte gli ostaggi avevano potuto, inaspettatamente, respirare una boccata d’aria fresca.

La disperazione e l’apatia avevano da giorni conquistato i cuori della gente. Il solo fatto di sperare ancora in qualcosa provocava sofferenza e anche soltanto l’accennare a un eventuale salvataggio in extremis poteva generare una lite furibonda. L’ultimatum sarebbe scaduto il giorno dopo e Israele non aveva dato ancora alcun segno che facesse pensare ad una sua volontà di accedere alle richieste dei terroristi. Il giorno seguente forse tutti gli ostaggi sarebbero stati massacrati.

Come se non bastasse poi, vomito e dissenteria, causati dal cibo intossicato servito dagli ugandesi, erano andati ad aggiungersi alle sofferenze degli ostaggi, rendendo la loro permanenza coatta nella piccola hall di Entebbe un vero calvario. La signora Dora Bloch si era sentita male a causa del cibo e i terroristi avevano acconsentito a un suo trasporto all’ospedale di Kampala, ma non avevano permesso al figlio di seguirla ed ora Ilan Hartuv era in angoscia per il destino di sua madre.

I passeggeri ormai si erano rassegnati ad una sorte tanto atroce quanto ineluttabile. Avevano accettato la realtà per quella che era e nulla importava più. Tutti giacevano nella passività e nella rassegnazione.

Tutti meno Benny Davidson, 12 anni.

Nel boato dei tuoni, in mezzo al rombo del vento, sua madre, Sara Davidson, l’aveva abbracciato e stretto a sé sul pavimento della hall.

Benny Davidson forse decise in quel momento che non era più un bambino: ora doveva essere lui a fare coraggio a sua madre.

“Mamma”, le aveva detto, “Vedrai: verranno a salvarci”.

Ancora oggi Sara Davidson non sa dire dove trovò la forza di non scoppiare in lacrime davanti a suo figlio. Fatto sta che non lo fece. Si limitò ad accarezzargli i capelli. Suo padre e un altro passeggero erano riservisti dell’Aeronautica e avevano spiegato più volte a tutti che Israele era semplicemente troppo lontano per un salvataggio.

Madre e figlio rimasero in silenzio sul pavimento, a guardare la tempesta insieme con gli altri. I tuoni e il vento cancellavano qualsiasi altro rumore, la pioggia batteva sui vetri e la luce dei fulmini irrompeva attraverso le grandi vetrate del terminal.

Sara Davidson ancora non poteva sapere quanto profetiche si sarebbero rivelate le parole del figlio. All’insaputa dei passeggeri del volo 139 e oramai a poche miglia da loro, quattro Hercules stavano affrontando quella stessa tempesta, lottando nelle tenebre sopra le acque del lago Vittoria.

Presto, un altro genere di lampi sarebbe balenato nel buio a Entebbe.

 

 

“May the Almighty bless the way of warriors”

Yitzhak Rabin a conclusione della sua autorizzazione definitiva a Thunderbolt

 

Il Karnaf-Uno frattanto proseguiva ormai isolato, diretto a ovest sul lago Vittoria.

Mancavano meno di 30 minuti al touchdown. Ogni uomo a bordo venne chiamato a un controllo finale dell’equipaggiamento. Torce e visori notturni vennero provati ancora una volta sui Kalashnikov e regolati sulla “optimum killing distance”.

Tutto il personale iniziò a spalmarsi su mani e viso la crema mimetica nera da combattimento.

Rani Cohen, che i suoi compagni avrebbero voluto malignamente lasciare a dormire fino all’ultimo come un bambino sulla Land Rover, era invece stato svegliato dalla tempesta ed ora stava effettuando gli ultimi controlli con gli altri.

Amitzur Kafri sbucò da sotto la sua Mercedes e vide Alik Ron risalire di corsa verso prua, scavalcando tutti, per poi lanciarsi come un matto in cabina dai piloti: si era svegliato per ultimo, aveva fame e ingurgitò tutti i dolci rimasti. Le briciole gli rimasero appiccicate sul volto. Le mescolò con una tintura opaca nera.

Nella stiva si accesero le luci rosse. Nel chiarore color sangue, gli uomini sbatterono le palpebre, poi andarono a prendere ciascuno il suo posto sulle due Land Rovers e sulla Mercedes.

Frattanto, anche il Boeing 707 comando e controllo di Adam e Peled aveva raggiunto la zona d’operazioni, volando lungo la normale rotta sud della El Al per Città del Capo.

Bruscamente, così com’era arrivata, la tempesta se ne andò. Rimase però la pioggia a bassa quota.

Per la prima volta fu stabilito il contatto tra il 707 e la forza d’assalto. Si era abbondantemente fuori dalla portata delle radio arabe, per cui si poteva fare a meno dei codici e parlare in ebraico. Peled chiese a Shani se vedeva già Entebbe.

Shani rispose di no e proseguì nel suo volo. La sua rotta finale lo portò a ovest e fino a una grossa isola sul lago Vittoria, presa come riferimento, sopra la quale virò bruscamente a nord di circa 90°, portandosi così di fronte alla main runway di Entebbe che era perpendicolare alla spiaggia sul lago Vittoria.

Il grande velivolo era già in assetto per l’atterraggio con le luci di navigazione spente.

Rami Levi frattanto chiacchierava già da un pezzo con i controllori di volo di Entebbe, i quali si dimostrarono gentili e professionali e guidarono in modo impeccabile il “volo 70 della East African Airlines” lungo il suo sentiero di discesa. Non ci fu bisogno neanche di inventarsi un’avaria elettrica. I civili ugandesi sembravano proseguire nella normale routine aeroportuale come se nulla fosse: la mancanza di sicurezza era totale!

Se andava bene agli ugandesi, andava ancora meglio per la forza d’assalto.

Shani immise il Karnaf-Uno nel tratto finale del circuito del traffico. La pioggia tuttavia non gli faceva vedere ancora niente, fino a quando però, a circa 2 miglia dall’aeroporto, uscì di botto dall’acquazzone e finalmente vide le luci della pista di Entebbe: erano perfettamente accese!

La tensione era al massimo. Tutti continuavano a verificare con gli occhi e con le mani di aver preso tutto quanto, fatto questo si guardarono l’un l’altro in attesa.

A questo punto, Netanyahu face una cosa che ancora nessuno gli aveva mai visto fare. Venendo dalla carlinga dei piloti, ancora privo della buffetteria e delle armi, percorse tutto il C-130 da prua a poppa.

Si aggirò con semplicità in mezzo ai suoi uomini, guardandoli negli occhi e rivolgendo ad ognuno una parola, un sorriso, un gesto d’incoraggiamento. Chiamò tutti per nome mano a mano che li incontrava. Non dette alcun ordine.

Andò dal più giovane di tutta la forza, Bukhris, sulla Land Rover, per stringergli la mano. Scherzò brevemente con lui, scompigliandoli i capelli.

Raggiunse la Mercedes, si voltò e disse:

 

“Ciascuno ricordi la sua parte. Non esitate ad uccidere: la vita degli ostaggi dipende da noi. Non dovete temere nulla: siamo noi i migliori sul campo. Buona fortuna”.

 

Poi Netanyahu indossò il suo equipaggiamento e andò a prendere il suo posto sulla Mercedes, sul sedile davanti, alla destra di Kafri che guidava.

Muki Betser andò da lui e gli disse di ricordarsi di non stare troppo vicino alla squadra d’assalto: non doveva esporsi troppo, era il comandante e c’era bisogno di lui. Netanyahu annuì e i due si strinsero la mano.

Tutti si chiedevano come sarebbe stato fuori: faceva caldo o freddo in Uganda? Pioveva ancora? Era meglio portare abiti pesanti?

Frattanto Shani continuava a far scendere l’aereo a luci spente verso la pista che invece era tutta illuminata. Non poteva crederci!

Poco prima di toccare, Shani abbassò parzialmente la rampa posteriore del C-130. In questo modo gli uomini nella stiva poterono vedere che la tempesta era passata, non pioveva più e il cielo notturno era pieno di stelle.

Il vento portò loro un’aria tropicale umida e calda.

Sotto l’aereo, tutti videro correre le acque nere del lago Vittoria e infine le luci e il cemento della pista: erano ancora accese! Il trucco aveva funzionato!

In alto, da qualche parte a 10.000 metri, Adam sul 707 lanciò nell’etere il segnale:

 

“Over Jordan!”

 

Che significava che la forza d’assalto stava prendendo terra a Entebbe con successo.

Subito dopo, a bordo del Karnaf-Uno ci fu lo scossone del carrello che toccava per la prima volta il suolo ugandese.

 

 

Fonti:

"Entebbe, the most daring Raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan.

"Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.

Modificato da Hobo
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