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Il Conte e l'Aquila di Mare


Hobo

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Il mare, indifferente, faceva sentire la sua voce, tuono ripetuto di enormi frangenti che si abbattevano sul reef, ricordando continuamente a tutti chi era che comandava.

Anche con la schiena spezzata, sembrava ancora che cercasse di liberarsi dalla lama che le squarciava il ventre. La sua prua ricurva e affilata si protendeva ad arco, alta e slanciata al di sopra del corallo che l’aveva uccisa, quasi cercasse di divincolarsi e spiccare il volo.

Chiunque si fosse ritrovato a passare di lì, sarebbe stato testimone di una scena in grado di rattristare l’animo di ogni buon marinaio.

Irrimediabilmente incagliato sulla barriera corallina, tagliente come un rasoio, c’era ciò che restava d’una nave di un' altra epoca. Bastava guardarla per intuire che doveva essere stata una vera bellezza.

Nonostante fosse stata disalberata, le linee armoniose dello scafo saltavano ancora agli occhi. Quello che doveva essere successo era un insulto alla grazia e alla bellezza di quelle forme. Lunga e filante come una bella donna, se ne rimaneva lì, sbandata sul fianco sinistro, la chiglia spezzata. Come un animale da preda ferito a morte cui non rimane che guardare in faccia il suo assassino, che si avvicina per finirlo.

E in effetti così era: i frangenti del reef non conoscono né riposo né sconfitta ed in poco tempo avrebbero finito il lavoro.

Ed era per questo che gli uomini, i quali un tempo l’avevano resa viva, correndo e affannandosi sui suoi alberi e sui suoi ponti, ora deserti, si erano dati da fare per smontare e trasportare a riva tutto quello che poteva essere utile.

La nave non pareva offesa da quella spoliazione, anzi, era come se fino all’ultimo fosse stata felice di dare al suo equipaggio tutto quello che poteva e, probabilmente, sarebbe stata contenta di sapere che alcune sue parti avrebbero in un certo senso continuato a vivere a terra; di conseguenza era stato forse per questo che aveva resistito agli enormi frangenti senza sfasciarsi, finchè l’ultimo uomo del suo equipaggio non era giunto sano e salvo a terra. Così aveva svolto egregiamente anche la sua ultima missione, ora avrebbe potuto prendere congedo.

 

 

Felix era sempre stato considerato da tutti un bambino irrequieto ed aveva fatto ammattire più di un istitutore, ma questa non era certo una novità in famiglia. I suoi avi erano famosi per aver avuto una vita per lo meno particolare. Il bisnonno aveva servito negli Ussari sotto Federico il Grande, ma solo dopo essere fuggito di casa ed aver fatto il mercenario contro i turchi e contro i rivoluzionari francesi, che lo avevano ucciso, ma non prima che Re Luigi XVI lo nominasse Maresciallo di Francia.

Il padre di Felix non era stato da meno, aveva combattuto in tre guerre ed aveva dovuto rifugiarsi presso la dimora di suo fratello a Dresda perché aveva dato fondo a tutte le sue sostanze, girando l’Europa in lungo e in largo e vivendo al di sopra delle sue possibilità, finchè i creditori non avevano iniziato a braccarlo.

Fu forse a causa di tutto questo che Sua Eccellenza, il Signor Conte Von Luckner Padre, aveva desiderato per suo figlio una rigida educazione prussiana e un futuro negli Ussari imperiali, dove servivano i migliori rampolli di tutta la Nobiltà tedesca.

Probabilmente fu proprio per non dare a suo padre una cocente delusione e per non doversi arruolare in cavalleria, che una mattina di primavera del 1894 un ragazzino aprì silenziosamente un finestra al primo piano della dimora sassone dei Von Luckner, ad Halle, si arrampicò non visto sull’edera e si calò agilmente sul prato del parco.

Era successo infatti che Sua Eccellenza il Signor Conte Felix Von Luckner Figlio, 13 anni, con il beneplacito paterno, aveva potuto assistere allo spettacolo itinerante del “Buffalo Bill Wild West Show”.

Sua Signoria il Giovane Conte ne era rimasto talmente affascinato, che ora era suo più grande desiderio andarsene alla scoperta del Mondo.

Al contrario dei giudizi espressi da alcuni dei suoi insegnanti più esasperati, il ragazzo era sveglio e curioso e, come si sa, la curiosità è sorella dell’intelligenza.

Felix dimostrò da subito prudenza ed una insospettata forza d’animo, qualità rare in un tredicenne. Evidentemente non si lasciò spaventare troppo dalla solitudine; al contrario, cambiò subito il suo nome in Phelax Luedige, dal nome danese della famiglia materna e sparì come un sasso gettato in uno stagno.

Essendo stato da sempre attratto dall’immensità del mare, si recò ad Amburgo, dove, essendo educato e intelligente, non tardò a trovare subito un posto di mozzo a bordo di un tre alberi a vele quadre russo, il Niobe, che faceva la spola tra la Germania e l’Australia.

Un giorno, nell’Atlantico, Luckner racconta che durante un fortunale Phelax Luedige perse l’appiglio e fu scaraventato in mare. La sua situazione era disperata, ma non dovette darsi per vinto perché, sbarazzatosi degli scarponi, iniziò subito a nuotare disperatamente per restare a galla. Così facendo, il ragazzo attirò su di sé l’attenzione di uno stormo di albatri, che iniziarono ad avventarsi su di lui, ferendolo alle braccia ed alle gambe con il loro becco acuminato. La visibilità era quasi nulla per la pioggia e i marosi erano così enormi che, sprofondando nel loro cavo, Luckner perdeva di vista la nave, o ne vedeva solo le tre teste d’albero, al di sopra delle creste delle onde.

Nello stesso tempo, a bordo, era scoppiata un’accesissima discussione. Il comandante del Niobe infatti, giudicando che il rischio per la sua nave era troppo elevato, si rifiutava di filare in mare una lancia di salvataggio per salvare il mozzo. Il primo ufficiale però, spalleggiato dall’equipaggio che aveva preso in simpatia il suo piccolo mozzo tedesco, non fu dello stesso parere del capitano; l’uomo infatti arrivò a minacciare il suo comandante con un mezzo marinaio, riuscendo così a filare in mare un’imbarcazione armata con volontari.

Frattanto, in acqua, il ragazzino si era accorto che stavano finalmente venendo a recuperarlo e, per essere subito individuato dai suoi soccorritori, afferrò con disperazione la zampa del primo albatro che stava tornando a calarsi su di lui per colpirlo. Il grande uccello, con tre metri di apertura alare, iniziò a starnazzare e a battere le ali, beccando con forza ancora maggiore la mano aggrappata alla sua zampa, ma fu proprio quell’albatro che aiutò Luckner a rimanere a galla e ad essere avvistato dai compagni. Il ragazzo venne recuperato infreddolito, spaventato e con le braccia e le gambe coperte di profonde ferite, causategli dalle beccate degli albatri, ma era gli andata bene.

Giunto in Australia, a Melbourne, Luckner abbandonò il Niobe. Girovagò per qualche tempo, finchè non intrecciò un idillio con la figlia del padrone di un ristorante. Oramai non era più il ragazzino scappato dalla finestra del castello di Halle. La vita in mare lo aveva fatto crescere grande e grosso e dimostrava ora più della sua età.

Quando l’idillio con la ragazza finì, fece qualunque lavoro gli capitasse. Vendette opuscoli religiosi per l’Esercito della Salvezza, divenne assistente di un guardiano di un faro a Cape Leeuwin ad Augusta, lavoro che abbandonò quando il guardiano lo scoprì con sua figlia; si unì a una troupe di “fachiri indù”, cacciò canguri per gli agricoltori ed iniziò ad allenarsi perché voleva diventare un pugile professionista, perché dotato di forza e resistenza non comuni.

Phelax Luedige lasciò l’Australia non ancora ventenne e per molti anni vagò in lungo ed in largo sui mari. Fu imbarcato su una dozzina di velieri con varie mansioni, fece pure il cuoco; patì tutte le miserie del navigante, dal naufragio allo scorbuto e visitò i quattro angoli del globo.

Già avanti negli anni, si divertiva ancora a raccontare come a Vancouver venne arrestato per aver rubato una barca per andare a pesca mentre la sua nave era in porto. In Cile fu arrestato per il furto di tre maiali mentre era ubriaco. Alle Hawaii per poco non venne ucciso da uno psicopatico. Il giorno che la sua nave lo lasciò a terra a Tampico, come assente ingiustificato, Luckner trovò lavoro come guardia del corpo del presidente Diaz. Fece l’operaio edile, costruì ferrovie, fece il prestigiatore, si ruppe tutte e due le gambe in due viaggi diversi. In Giamaica lo buttarono fuori dall’ospedale perché era rimasto senza soldi.

Tra le molte navi sulle quali si imbarcò, Luckner racconta che due furono quelle che lasciarono ricordi indelebili. La prima, norvegese, che lo portò dall’Avana in Australia e poi a Liverpool, sulla quale imparò a parlare correntemente il norvegese. La seconda invece fu il Pinmore, una nave a palo inglese che trasportava legname e su cui compì uno spaventoso viaggio di 285 giorni da Vancouver a Liverpool, durante il quale rischiò di morire di fame e di sete, quando la nave rimase senza viveri al largo di Capo Horn.

Nel 1901 un uomo alto e robusto rimise piede sulle banchine di Amburgo, per la prima volta dopo sette anni. Era un marinaio grande e grosso, ex pugile professionista, con cui nessuno si sarebbe mai arrischiato a litigare. Il ragazzino scappato di casa per andare alla scoperta del mondo non esisteva più. Ora c’era un ventenne dalle spalle larghe e dai bicipiti grossi “come la coscia d’un uomo”, che aveva fatto più volte il giro del mondo ed era stato ai quattro angoli della terra e che parlava correntemente l’inglese, il russo e il norvegese.

Phelax Luedige si procurò subito una copia dell’Almanacco del Gotha, il libro dove sono registrati tutti gli alberi genealogici della grande nobiltà europea e scoprì che era ancora dato per scomparso; ma decise che non era ancora venuto il momento. Continuando a tenere nascosta la sua vera identità, Luedige si iscrisse ad un corso di navigazione per aspiranti sottufficiali della marina mercantile. Preso il patentino, trovò un posto sul Petropolis, un piroscafo della stimata Hamburg-Südamerikanisch Line, che collegava Amburgo con il Sudamerica. Successivamente si trasferiva nelle imperiali forze navali germaniche della riserva, dove in realtà si crede che abbia rivelato la sua vera identità a qualcuno, oppure riuscì a fare non si sa che imbroglio, perché ebbe l’anzianità aumentata di tre anni, una cosa apparentemente inspiegabile (ma per un tipo come lui tutto era possibile) e dopo un ulteriore periodo d’addestramento conseguì i gradi di tenente di vascello; adesso poteva ritornare a casa.

In alta uniforme, i gradi dorati del Kaiser sulle spalline, cinturane, porta spada e feluca, un giovane ufficiale bussò alla porta dell’avita magione di Halle e fu fatto entrare da un ossequioso domestico. Da un’altra stanza udì suo padre esclamare: “ Tenente di vascello Felix Von Luckner ? Ma non può essere! ”.

A quel punto, Felix si fece avanti ed entrò dicendo: “Buon giorno padre! Ho tenuto fede alla mia parola di indossare con onore l’uniforme imperiale!”.

Solo un cuore di pietra poteva rimanere indifferente al tali parole – a tale figlio. L’anziano conte, ufficiale di cavalleria degli Ussari, con le lacrime agli occhi spalancò felice le braccia per accogliere il giovane ufficiale di marina. Non ci sarebbero più state discussioni riguardo alla carriera da seguire.

Quello che era stato Phelax Luedige si applicò quindi negli studi, fino a guadagnarsi i galloni di capitano, nel 1912.

Von Luckner inoltre, memore forse di un certo volo in mare e della zampa di un albatro cui si era aggrappato con la tutta la forza della disperazione, si conquistò anche fama di eroe su giornali e riviste, salvando, in ben cinque occasioni diverse, altrettante persone dall’annegamento e rifiutando, di volta in volta, onorificenze e medaglie che gli venivano offerte.

La sua storia e la sua fama non potevano passare inosservate. Il Kaiser in persona invitò il comandante Von Luckner a corte, dove, tra le altre cose, il giovane ufficiale sbalordì le Loro Imperiali Maestà con i giochi di prestigio che un certo Phelax Luedige aveva appreso in Australia, quando si era aggregato a una compagnia di “fachiri indù”. Avvolto un uovo nel candido fazzoletto del Kaiser, il comandante Von Luckner lo fece sparire, per farlo riapparire subito dopo da dietro un orecchio del Re d’Italia!

Felix prestò inizialmente servizio a bordo della SMS Panther, un esploratore leggero che aveva fatto servizio nelle colonie tedesche in Africa, ma che ora, scoppiata la Prima guerra mondiale, era stato destinato al Mare del Nord e al Baltico.

Stanco dei continui ed infruttuosi pattugliamenti costieri, il tenente Von Luckner si fece lasciare a terra dal Panther, pare grazie all’aiuto di un oscuro amico medico, che lo “operò” d’appendicite senza che in realtà ce ne fosse la necessità. Con questo stratagemma riuscì a farsi destinare a bordo di una nave “vera”, l’incrociatore leggero Helgoland e poi sulla grande Konprintz Wilhelm, una corazzata, a bordo della quale partecipò, come comandante di torre, nientemeno che alla battaglia dello Jutland, dove, gravemente ferito, affrontò il naufragio della sua nave.

 

Collana "I grandi navigatori"; Vol. "I velieri mercantili", di Oliver E Allen. CDE Gruppo Mondatori

E ovviamente Wikipedia

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Agli occhi dell’ufficiale britannico appena salito a bordo del grande windjammer un po’ vecchiotto tutto sembrava perfettamente regolare, per quanto lo potesse essere un mercantile norvegese appena reduce da una feroce tempesta nell’Atlantico settentrionale.

Era il giorno di Natale 1916 e lo Hero era stato costretto, sotto la minaccia dell’incrociatore britannico Avenger, a fermarsi per un’ispezione in pieno oceano, 180 miglia a sudest dell’Islanda. Si era in guerra e naturalmente; la Marina britannica aveva l’ordine permanente di fermare tutte le navi sospette. Ora, dopo essersi presentato con i giuramenti di rito come il capitano Knudson del tre alberi Hero, 1.500 tonnellate di stazza, proveniente da Cristiania, Norvegia e diretto a Melbourne, in Australia, lo skipper norvegese, in un inglese dal buon accento scandinavo e tra copiosi sputi di tabacco, invitò l’ufficiale britannico sotto coperta per esaminare i documenti di navigazione. Il norvegese sembrava molto allegro per le libagioni natalizie. Bene, pensò l’ufficiale dell’Avenger, perché quell’uomo sembrava un po’ coriaceo. Era un vero gigante, alto almeno un metro e novanta, con una testa massiccia su un collo taurino, muscoli da scaricatore di porto e vocione stentoreo.

Il salone del comandante era in un tremendo disordine, carte sparse dappertutto, biancheria (ricamata con il nome Knudson) stesa ad asciugare, un forte puzzo di kerosene.

“Voglia scusarmi, signor ufficiale!”, disse il capitano, “la mia stufa non funziona troppo bene. Non sapevo che voi signori mi avreste fatto visita oggi”.

Appesa di traverso su una paratia c’era la foto di una giovane bionda con dedica “La tua affezionata Josephine” e sul divano c’era Josephine in carne ed ossa, uno scialle annodato sotto il mento e l’espressione angosciata.

“Le presento mia moglie signor ufficiale”, disse Knudson. “sta soffrendo per un forte mal di denti”. L’ufficiale inglese fu molto comprensivo: “Perdoni signora se le recheremo disturbo, ma dobbiamo compiere il nostro dovere”, disse.

“Fate pure”, mormorò la sofferente e ricadde nel suo mutismo. Mentre raccoglieva i documenti sparpagliati, Knudson offrì da bere al visitatore. “Si deve sempre offrire un bicchiere a un marinaio, inglese o tedesco o americano o da qualsiasi altra parte provenga”. Era il suo credo. L’ufficiale britannico accettò, ovviamente per un miglior rapporto tra i popoli.

I documenti ed il giornale di bordo erano umidi e tutti macchiati, conseguenza della tempesta che avevano appena superato. Mentre l’ufficiale esaminava i documenti, Knudson parlottava in norvegese con il primo ufficiale; a un certo punto disse che gli sarebbe piaciuto avere un giaccone di cammello come quello, per tenersi caldo a nord del circolo polare artico. “E’ ottimo anche per ripararsi dalla pioggia e dagli spruzzi del mare”, rispose in norvegese l’ispettore britannico, che non aveva minimamente accennato al fatto di conoscere la lingua. Knudson lo guardava ora con più rispetto. Infine, esaminate tutte le carte necessarie, l’ufficiale britannico esclamò: “Tutto a posto capitano”. Andandosene, lo avvertì di aspettare un segnale dell’Avenger prima di riprendere il viaggio. Il segnale fu spettacolare: l’Avenger si lanciò a tutto vapore contro lo Hero e accostò all’ultimo momento. Con le bandiere augurò “Buon viaggio”.

E che buon viaggio!

Lo HMS Avenger s’era appena lasciato sfuggire un flagello degli oceani. Il vero nome dello Hero era Seeadler e quel windjammer un po’ vecchiotto era in realtà un corsaro tedesco la cui missione, confortata dai voti speciali del Kaiser Guglielmo II, consisteva nel razziare quante più navi fosse possibile, combinando il fattore sorpresa con la forza.

Era un’impresa disperata. Il blocco alleato costringeva la Marina imperiale all’inazione. Solo qualche U-boot riusciva a venirne fuori senza venire in contatto diretto con la Royal Navy, a quel tempo la più grande e potente flotta del mondo. Ma gli U-boot avevano un raggio d’azione limitato, a causa della loro ridotta capacità di carburante. L’alto comando tedesco si rese conto che gli unici predatori armati che potessero evitare di venire scoperti dal nemico in alto mare erano i mercantili.

Camuffati e pesantemente armati, alcuni di essi vennero mandati a forzare il blocco sotto le mentite spoglie di navi battenti bandiera neutrale; cominciarono così a predare sulle rotte commerciali lungo le quali gli alleati si rifornivano di vettovaglie e di materiali bellici.

Ma nell’Atlantico e nel Pacifico la Marina tedesca non disponeva di un numero sufficiente di stazioni per il rifornimento del carbone dei piroscafi. Per aumentare le scorrerie predatorie tedesche sulle rotte oceaniche sembrò dunque più che mai opportuna l’idea di riattare un veloce windjammer, apparentemente inoffensivo, non vincolato dal rifornimento di carburante, dotato di armamento segreto e ben nascosto. All’inizio, l’idea fu accolta con irrisione dall’Ammiragliato, ma chi la proponeva non era tipo da scoraggiarsi tanto facilmente.

Il conte Felix Von Luckner, ufficiale di Marina, fece notare a Sua Maestà Imperiale il Kaiser Guglielmo: “Maestà, per il fatto stesso che il Vostro Ammiragliato la considera un’impresa impossibile e ridicola, io sono certo che essa sia realizzabile, poiché anche l’Ammiragliato britannico la riterrà impossibile; non andranno certo a caccia di un’assurdità come una nave corsara travestita da vecchio veliero inoffensivo”.

Così, da questa esigenza e con questi auspici, nacque la Seeadler, l’Aquila di mare.

Il suo comandante, ovvero Knudson, il finto capitano norvegese, era in realtà il Conte Felix Von Luckner. Capitano di corvetta, egli possedeva sia esperienza di navigazione a vela, sia il dono dell’istrionismo; divenne presto celebre come “il Diavolo del mare”.

Per ben 224 giorni, la Seeadler, al comando di Luckner, considerò l’Atlantico meridionale sua riserva di caccia, avventurandosi poi anche nell’immenso Pacifico; vero e proprio predone a vela nell’età del vapore, riuscì sempre ad evitare i convogli militari alleati, catturando ed affondando migliaia di tonnellate di merce.

Alcune sue imprese superarono ogni immaginazione. Quando la guerra giunse al termine, questo guerriero navigatore si era guadagnato il rispetto e perfino l’ammirazione dei suoi nemici britannici e francesi.

C’è un altro aspetto da considerare: la crociera della Seeadler non fu solo una saga marittima, ma rappresentò l’ultima grande impresa navale a vela e, come tale, valse a simboleggiare una svolta decisiva nella storia della navigazione. La Seeadler ed il suo comandante erano un anacronismo in un’epoca ormai dominata da navi a carbone e a nafta sempre più grandi, con tremendi cannoni da 305 mm ed enormi proiettili in grado di perforare una blindatura di 30 cm a 15 chilometri di distanza.

La Seeadler, da vero corsaro qual era, doveva invece contare sulla propria astuzia per catturare la preda. Ultima della sua specie, rese un estremo tributo all’età dei guerrieri a vela, da Blake e Tromp, a Nelson e Villeneuve.

Modificato da Hobo
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L’appellativo di “windjammer” suonava in realtà come un insulto alle orecchie di un marinaio della seconda metà dell'ottocento e inizialmente venne usato, in teoria, per sottolineare le dimensioni per quei tempi spropositate di questi velieri e per indicare navi che probabilmente si sarebbero mosse con goffaggine nel vento degli oceani. La realtà avrebbe dimostrato il contrario.

I windjammers si rivelarono le più possenti e veloci “macchine a vela” mai costruite a memoria d’uomo e non avrebbe potuto essere diversamente.

Ancora un mattino d’ottobre del 1934, una di queste navi appartenenti ad un’epoca ormai tramontata (quella della vela) dette l’ultima è più strabiliante dimostrazione di quello che un windjammer poteva fare se le condizioni gli erano favorevoli.

I passeggeri e l’equipaggio del piroscafo britannico accalcavano i ponti per ammirare quell’imponente veliero, che pareva un’apparizione d’altri tempi: l’agile scafo bianco e i quattro alberi altissimi ed inclinati sotto il vento teso erano letteralmente ricoperti da una foresta di vele candide come neve. L’intera nave sembrava una nuvola bianchissima che correva sulla superficie del mare, apparentemente senza alcuno sforzo. Per il capitano Sven Eriksson il suo Herzogin Cecilie, un quattro alberi finlandese, partito da Belfast e diretto a Port Lincoln in Australia, dove avrebbe caricato grano, nonostante i suoi 32 anni di vita era tutto meno che un rudere anacronistico nell’era delle macchine.

Il comandante del piroscafo, avvistato davanti a sé il veliero, chiamò la sala macchine e dette ordine di dare tutto vapore; avrebbe offerto ai suoi passeggeri un ricordo indimenticabile. Avvicinatosi al vecchio veliero, lo avrebbe superato con una mossa emozionante, tagliandogli la rotta, per poi proseguire su Rio de Janeiro, dov’erano diretti.

Accortosi delle intenzioni del comandante del piroscafo, Eriksson decise che non si sarebbe arreso senza combattere ed ordinò a tutto il suo equipaggio di salire a sbrogliare le vele fino ai controvelacci, mentre il piroscafo si avvicinava. L’Herzogin Cecilie ora presentava al vento tutti i suoi quattromila e duecento mq di tela pesante e balzò in avanti.

Lavorando furiosamente ai grandi verricelli sul ponte, gli uomini del veliero, robusti ragazzi di vent’anni dai muscoli d’acciaio, cresciuti alla dura scuola della vela d’altura, avevano capito le intenzioni del loro comandante e ora si gettavano a capofitto nell’impresa, bracciando gli immensi pennoni della loro nave, in modo che l’enorme velatura prendesse ancora meglio il vento che andava rapidamente rinforzando e che soffiava ora con forza quasi di burrasca, a 35 – 40 nodi.

La prua dell’Herzogin Cecilie scintillava superba al sole, acquistando sempre più velocità. 16 nodi, 17, ora 18. L’impavesata sottovento era ormai completamente lambita dalle onde. Enormi cavalloni presero a spazzare sibilando il castello di prua. Solo la forza congiunta di due uomini aggrappati alla pesante ruota del timone gli consentiva di tenere la rotta. Il comandante a poppa osservava, la testa reclinata all’indietro, ora il vento, ora le vele.

Per un lungo momento veliero e piroscafo furono fianco a fianco. Molti dei passeggeri della nave a vapore lanciarono grida d’incitamento. Poi, a poco a poco, successe l’incredibile. Lentamente, ma con determinazione il grande veliero superò in velocità la nave passeggeri ed iniziò a distaccarla.

Mentre il transatlantico restava inesorabilmente sempre più indietro, il suo comandante fece lanciare tre fischi con la sirena a vapore della nave, riconoscendo incredulo la propria sconfitta, quindi, in segno di saluto per il vincitore, fece ammainare ed issare di nuovo la rossa bandiera britannica, l'Herzogin Cecilie rispose educatamente facendo lo stesso con la bianca bandiera finlandese. Le due navi si separarono, seguendo rotte diverse, gli alberi dell’Herzogin Cecilie sparirono all’orizzonte. Il suo breve, orgoglioso trionfo era finito, ed era del tutto improbabile che avrebbe potuto ripetersi.

 

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La Pass Of Balmaha non era una nave tedesca; essa era entrata in possesso della Marina germanica come preda di guerra, in modo rocambolesco e per puro caso.

Il windjammer da 4.500 tonnellate di stazza lorda, noto per la sua velocità (che con vento normale e a pieno carico si aggirava sui 10 nodi), stava infatti viaggiando in Atlantico alla volta di Arcangelo, in Russia, nel 1916, trasportando un consistente carico di cotone per una ditta americana, quando era stato fermato dall’incrociatore corazzato britannico Victorian al largo della costa norvegese. Gli inglesi, forse per accaparrarsi il prezioso cotone, o forse non convinti da qualcosa, avevano requisito la nave ed il carico; avevano lasciato a bordo della Pass Of Balmaha un equipaggio di preda composto di Royal Marines ed avevano intimato al comandante americano, che aveva preteso che le sue proteste fossero messe per iscritto, di obbedire e di fare vela per Kirkwall, alle Orkney Islands, per un’ispezione più approfondita nella grande base della Royal Navy di Scapa Flow: non ci arrivarono mai; la Pass Of Balmaha incontrò sulla sua nuova rotta l’U-36, che la bloccò, l’abbordò e con un equipaggio di preda di sommergibilisti tedeschi la fece attraccare nella base germanica di Cuxhaven.

Ora, nello splendido windjammer, immesso in un bacino di carenaggio dell’area più vecchia e meno frequentata del porto di Bremerhaven, pochissimi avrebbero forse riconosciuto la Pass Of Balmaha, americana, ma costruita in Scozia nel 1878.

La nave in bacino posava la chiglia su grosse tacche di legno mentre decine e decine di lunghi pali dello stesso materiale erano stati disposti orizzontalmente, come puntelli, tra le pareti in cemento del bacino ed i fianchi dello scafo d'acciaio.

Ufficialmente la nave (mercantile) si trovava in bacino per “fare carena”, ma sentinelle della Marina imperiale, fucile in spalla, montavano la guardia su tutta l’area, controllando chiunque vi entrasse o ne uscisse ed inoltre un osservatore attento avrebbe potuto rimanere incuriosito dal fatto che alcuni degli uomini in tuta da operaio, che lavoravano sotto lo scafo, probabilmente per “deformazione professionale”, si erano in diverse occasioni scambiati inavvertitamente il saluto militare.

Per prima cosa, gli specialisti della Marina avevano praticato un’apertura attraverso la coperta ed i ponti, per piazzare sulla chiglia, preventivamente irrobustita, uno dei nuovi motori marini da 1.500 Hp di Rudolf Diesel. Questo avrebbe permesso alla nave di poter manovrare anche in completa assenza di vento.

Era stato poi scavato attraverso il dritto di poppa, appositamente riprogettato, lo spazio per l’alloggiamento dell’albero dell’elica a quattro pale, cosa che non era esistita sulla Pass Of Balmaha.

Gli artefici della nuova nave – Luckner in testa – realizzarono una delle più memorabili mascherate della storia della Marina. Dalla chiglia, al ponte di coperta, quel tre alberi divenne un misterioso labirinto di finte pannellature, spazi nascosti, falsi percorsi (che avrebbero potuto ingannare anche il più pignolo degli ispettori, conducendolo in altrettanti “cul de sac”), passaggi e porte segrete.

Oltre agli alloggi per l’equipaggio di 64 uomini, vennero istallati anche alloggi nascosti per circa 400 prigionieri. Von Luckner in persona insistette perché questi alloggi fossero il più confortevoli e comodi che fosse possibile e che fossero dotati di sufficiente areazione, di un servizio igienico e di libri e riviste per passare meglio il tempo. I prigionieri, secondo Luckner, avrebbero dovuto sentirsi più ospiti che prede. Al di là delle motivazioni umanitarie, che comunque non mancavano nel Conte, c’era però anche un ben più concreto motivo: Von Luckner non voleva certo che dei prigionieri maltrattati si mettessero a creare problemi a bordo, o peggio ancora, a mandare all’aria sul più bello, con tumulti e rumori, l’avvicinamento dei corsari alle loro prede.

All’interno dello scafo venne poi trovato lo spazio anche per 500 tonnellate di nafta per il motore e per circa 400 tonnellate di acqua dolce.

Sul ponte di coperta, il piccolo fumaiolo era orientabile e smontabile, mascherato da false sovrastrutture e conformato in modo che difficilmente il fumo che ne sarebbe uscito sarebbe andato a sporcare di nero le vele più basse. Come armamento, vennero montati due potenti cannoni navali da 105 mm, uno a dritta, uno a sinistra, anche loro accuratamente mascherati da false casse di legno, che avrebbero efficacemente simulato un falso carico, apparentemente posato sulla coperta. Tramite un accurato sistema di verricelli e funi, le pareti di queste finte casse per imballaggio si sarebbero abbattute sul ponte, scoprendo i cannoni quando ormai per la nave avversaria non ci sarebbe stato più nulla da fare..

All’interno dello scafo vennero ricavati spazi anche per nascondere fino al momento giusto i fucilieri di Marina, che all’ultimo sarebbero balzati fuori per abbordare la nave nemica.

Carpentieri esperti ed istruiti (o minacciati) affinchè mantenessero il più completo riserbo su ciò che avevano fatto e visto, istallarono false pareti mobili e passaggi nascosti nelle cabine del comandante, degli ufficiali e dell’equipaggio. In questo modo, ci si sarebbe potuti spostare non visti nella nave, scomparendo in un punto dello scafo, per riapparire inaspettatamente in un altro. Come già detto, la nave alla fine risultò un vero labirinto.

Da ultimo infine, il nero dell’elegante scafo della Pass Of Balmaha sparì sotto abbondanti mani di bianco. La nave era oramai del tutto irriconoscibile. Ora veniva la parte più difficile: darle una nuova identità ed un nuovo passato; la Pass Of Balmaha semplicemente sparì nel nulla e comparve la Seeadler, ufficialmente nave scuola della Marina imperiale tedesca.

All’inizio i servizi tedeschi misero gli occhi sulla Maleta, una nave norvegese (e quindi neutrale) che si sapeva ferma a Copenaghen. Di conseguenza, una bella mattina, un certo Phelax Luedige si presentò sul molo a Copenaghen, dove la nave norvegese stava scaricando merci, in attesa di ripartire per Cristiania, più o meno lo stesso giorno in cui anche la Seeadler avrebbe casualmente preso il mare. Luedige si fece assumere come scaricatore, ma la sua vera missione era fregare il giornale di bordo e tutti i documenti della Maleta per garantire alla Seeadler la sua falsa identità.

Con astuzia, Phelax Luedige lo scaricatore di porto si conquistò la simpatia del guardiano notturno della Maleta, studiandone accuratamente le abitudini. Una notte in cui tutto l’equipaggio della nave era sceso a terra e il guardiano notturno era scivolato nel sonno, Luedige salì furtivamente a bordo e tagliò le cime d’ormeggio della Maleta, ma senza segarle del tutto. In questo modo, appena la marea si fosse abbassata, la nave, abbassandosi rispetto al molo, avrebbe provocato la rottura degli ormeggi, già indeboliti dal coltello di Luckner. Non appena questo successe e lo schiocco sonoro delle cime che si spezzavano richiamò l’attenzione del guardiano, che si precipitò a prua, Phelax Luedige si infilò in cabina, facendo sparire tutti i documenti della nave; fatto questo, non visto, si dileguò.

Nonostante il successo di quest’impresa però, la fortuna parve voltare le spalle ai tedeschi perché la Maleta prese il mare in anticipo, quindi per non far risultare contemporaneamente in mare due navi con lo stesso nome, i tedeschi si dovettero cercare un’altra nave cui andare a fregare i documenti. La scelta cadde sulla Carmoe, norvegese pure lei, ma si scoprì all’ultimo che era sotto sequestro degli inglesi a Kirkwall. Vennero allora prese in considerazione diverse navi, finchè non si arrivò all’Irma, sempre norvegese, i cui registri ed il cui libro di bordo però risultarono così maltenuti e deteriorati, che a bordo della Seeadler si dovettero inscenare gli esiti di una falsa tempesta per giustificare il cattivo stato delle carte di bordo.

Riguardo all’equipaggio della nave pirata, anch’esso era assolutamente non convenzionale. Il Conte Von Luckner scelse personalmente i suoi 64 uomini ad uno ad uno e molti di loro risultavano tra i più indisciplinati ed intolleranti dell’autorità di tutta la Kaiserliche Marine. Tuttavia, erano tutti uomini dotati di coraggio, di un’intelligenza non comune, indipendentemente da come avevano deciso d’usarla e tutti parlavano almeno una lingua straniera; molti parlavano norvegese ed inglese, come il loro comandante e tutti avevano un carattere indipendente, erano abituati a prendere da soli decisioni anche drastiche e a contare solo su sé stessi. Uno di loro, un ragazzino di nome Schmidt, venne scelto per il suo aspetto glabro ed “aggraziato”, che gli sarebbe tornato utile quando avrebbe dovuto immedesimarsi nel ruolo di Josephine, la giovane moglie del capitano norvegese Knudson...

Siccome poi Schmidt non parlava norvegese, allora venne istruito per tacere e simulare un terribile mal di denti.

Quanto a Knudson, il Conte Von Luckner, per entrare meglio nella parte, mise via la sua pipa tedesca a cannello corto e rispolverò la vecchia abitudine, appresa a bordo delle navi norvegesi, di masticare una buona cicca di tabacco macerato in succo di prugne, tenendola tra il labbro inferiore e i denti e sputando di quando in quando pezzi di tabacco, secondo una tipica abitudine degli uomini di mare norvegesi. Inoltre, come diceva Luckner, “masticare tabacco è molto utile, perché ti da tempo di pensare a quello che dici. Se qualcuno ti fa una domanda imbarazzante, tu puoi spostare la cicca da una parte all’altra della bocca, stringere adagio le labbra e sputare deliberatamente per terra prima di rispondere, con eleganza...”.

Alla fine, a metà novembre, la finta Irma, documenti completamente falsi, carico fasullo, pesante armamento nascosto, equipaggio di delinquenti-attori e l’amabile capitano Knudson con dolce consorte al seguito, era ormai pronta a sgusciare fuori da Bremerhaven, per forzare il blocco inglese.

Modificato da Hobo
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