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Marzabotto, verità senza retorica


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Dal corriere di oggi

 

Non fu colpa dei partigiani e le vittime furono 770, non 1830

 

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Il «boia» L’ufficiale delle SS Walter Reder al processo di Bologna del 1951

Chi scende dall'Appennino verso Bologna sotto sera, troverà alla sua sinistra, sui viadotti della Gardeletta, una fetta di montagna di quel pur rado puntinato di verande e lampioncini che lucciola le altre zone poco sopra Sasso. Quell'ombra scura è Monte Sole, teatro nel 1944 di quello che un grande lavoro di Luca Baldissara e Paolo Pezzino chiama semplicemente Il massacro, cioè la storia della Guerra ai civili a Monte Sole (Il Mulino, pp. 628, € 33).

 

Un libro grande e severo sui fatti – ospiti inattesi in un Paese che ha spartito la sua storia fra la chiacchiera politologica e l'arzigogolismo storiografico, lasciando prive più generazioni di una conoscenza senza la quale la più santa delle memorie non può far altro cha afflosciarsi. I fatti che il rigore del lavoro storico mette in fila riguardano quello che la comune retorica civile chiama «eccidio di Marzabotto», settembre 1944, 1830 morti, martiri della Resistenza. Quella retorica, sulla quale incombe fino agli anni Ottanta l'onere di far diventare l'antifascismo di una minoranza disingannata la grammatica della impervia costruzione democratica, ha dovuto arrotondare i dati per potersi comunicare. Così i centoquindici luoghi nei quali si sono consumate una scia di stragi sono diventati «Marzabotto»; le lunghissime e atroci giornate fra il 29 settembre e il 5-6 ottobre, una data per discorsi ufficiali; i 770 uccisi in un'azione militare pianificata di guerra terroristica sono stati annessi agli altri caduti durante la guerra e i bombardamenti; e quelle vite concrete, quelle comunità famigliari, spirituali, politiche trascolorano in una apologetica di cui Baldissara e Pezzino documentano il destino e il senso. Infatti la liturgia civile del racconto del massacro consumato fra le valli del Setta e del Reno vive per decenni di una enfasi che alla lunga si rivela vulnerabile alla manipolazione ideologica fino – sarà così durante l'episcopato del cardinale Biffi – al tentativo di addebitare alla condotta partigiana in quell'angolo appenninico la responsabilità dei morti, vittime di uno scontro di ideologie totalitarie di cui i preti uccisi sarebbero le vittime, anzi, i martiri.

 

Enfasi civile erosa non dal caso: giacché, come spiega Baldissara, «a forza di svuotare di storicità l'esperienza antifascista e quella resistenziale, cioè di ottunderne le contraddizioni, rimuoverne i chiaroscuri, decontestualizzare le vicende, travasando nella realtà storica una rappresentazione sempre più artefatta di esse e di volta in volta funzionale al mutare dei contesti politici, dell'antifascismo e della Resistenza quali fenomeni e processi storicamente determinati restava ben poco». A quelli che il lessico «storichese» chiama i «processi storicamente determinati» è dedicato viceversa il corpo del grande tomo: cioè alla ricostruzione puntualissima di quello che Dossetti definì un «delitto castale» compiuto da «sacrificatori» inseriti in una teologia idolatrica. E arrivati a pagina seicento, ci si rende conto della quantità di imprecisioni ed equivoci dei quali questa vicenda è stata vittima e volàno, a partire dalla memoria difensiva stesa dal comandante tedesco Walter Reder per il processo del 1951, che parlava di una azione militare, senza rendersi conto della atroce verità che quella espressione rivelava. Col passo dello storico di razza Pezzino accumula pagina dopo pagina tutti i pezzi del puzzle: la geografia umana e naturale dei luoghi; le strategie di Reder che non scatena le SS in una azione di furore, ma pianifica la sua operazione sulla base dell'assioma che uccidendo tutti, spariscono i partigiani; i tedeschi in azione e sotto processo. Ampio spazio è dedicato alla brigata Stella Rossa del comandante Lupo, una organizzazione assai poco politicizzata, insofferente alla dirigenza del Cln, comandata da un montanaro vorace a tavola (da qui il nome, non da simbologie militari): fatta di persone del luogo, sulla cui condotta si incentreranno le polemiche quando gli automatismi sulla storia della Resistenza si incepperanno.

 

In realtà, mostra Pezzino, le modalità dei falliti tentativi di annientare la Stella Rossa con due operazioni della primavera, spiegano perché gli uomini di Monte Sole si siano subito dati alla macchia all'arrivo del 16° battaglione delle Waffen SS: convinti di essere i soli ricercati, pensano che anche questa volta gli inermi saranno salvi. Invece una truppa di giovani nazisti, dalle mostrine illeggibili, agisce con metodicità in un'opera di sterminio lunga, verrebbe da dire paziente, che si protrae per giorni. Pezzino la porta sotto gli occhi del lettore casa per casa, fienile per fienile, nome per nome, smitizzando leggende ed evocando la sequenza di atrocità (e le puntiformi generosità) che a conti fatti lasceranno sul terreno 216 bambini e 554 adulti. Fra loro ci sono coloro che vengono legati e uccisi in sostanza su due piedi; ma anche quelli che vengono in un primo tempo salvati perché trovati incolumi o solo feriti sotto le montagne dei cadaveri, e che poi, messi a ricovero in altre case, verranno ritrovati e ammazzati nelle operazioni «conclusive» di questa strage che alla fine avrà bisogno di un colpevole, Reder, da accusare, da condannare, da liberare in una sequenza che è quella della memoria. Accanto, coloro che si salvano per caso e devono scavare la fossa ai corpi resi ingombranti dalla rigidità o sfarinati dagli incendi che non li hanno cremati, ma solo cotti; o quelli che si salvano correndo giù fino a Bologna, credendo vivi o ammazzati i figli, i parenti, gli amici, e destinati a scoprire solo dopo molti mesi cosa era sopravvissuto di loro e di sé. E qualcosa del genere capita anche al lettore de Il massacro, catturato da una scrittura asciutta e severa, e inchiodato a quei fatti che bucano più dell'enfasi, e rendono capaci di leggere in una montagna di cui la storia sa far parlare il buio.

 

Alberto Melloni

Modificato da iscandar
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  • 2 anni dopo...

Le stragi naziste non erano conseguenti ad una logica di scontro: attacco->rappresaglia, ma ad una logica di bruciare le navi.

Dopo una strage nessuno nel gruppo avrebbe disertato.

Il primo atto verso una giovane recluta che veniva dalla Germania era metterlo in un plotone di esecuzione.

Ma quale italia del vino, sole e donne. Qui eri promosso assassino e stavi con il gruppo (compgnia, battaglione) oppure se disertavi ci sarebbe stato qualcuno che ti avrebbe tagliato la gola.

Questa e solo questa è stata, per fare un esempio, la logica della strage di Pedescala (Vicenza).

Nel padovano un gruppo di tedeschi in ritirata segnò la sua marcia con un assassinio ogni 5 km, prendevano un ostaggio, avanzavano di 5 km, ne prendevano un'alltro e ammazzavano quello precedente. Potete star certi che nessuno, ma proprio nessuno avrebbe disertato

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Forse intendeva, che per il tedesco disertore non ci sarebbe stato rifugio nei villaggi italiani, in quanto assassino con le mani sporche di sangue, anzichè soldato che fa il suo dovere, avrebbe trovato un parente delle vittime con la rabbia accecata di vendetta pronto a tagliarli la gola.

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Forse intendeva, che per il tedesco disertore non ci sarebbe stato rifugio nei villaggi italiani, in quanto assassino con le mani sporche di sangue, anzichè soldato che fa il suo dovere, avrebbe trovato un parente delle vittime con la rabbia accecata di vendetta pronto a tagliarli la gola.

Esatto.

Era la scelta di creare un solco d'odio incolmabile. Scelta non solo dei tedeschi. Anche i partigiani Yugoslavi la adottarono. Azioni che dovevano provocare rappresaglia.

Solo che i tedeschi, come ogni cosa che facevano, portarono il sistema a livello scientifico.

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