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"Condottieri & Generali": Robert Edward Lee


Ospite galland

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Ospite galland

L'invito, formulato da Pete57, a fornire un profilo biografico del Generale Confederato Robert Edward Lee mi offre il destro di avviare un ragionamento sulla Guerra Civile americana. Evento storico in cui confluiscono differenti linee di tensione della società moderna e che molto ha da dire anche ai nostri giorni.

 

Il primo elemento pregnante del conflitto è la contrapposizione tra un mondo industriale (il nord) ed uno essenzialmente agrario (il sud).

 

Il secondo è costituito dal ruolo preponderante delle forze industriali nella determinazione degli esiti del conflitto.

 

In terzo luogo le nuove rivoluzionarie innovazioni tecnologiche e militari: l'utilizzo delle armi a canna rigata, una nuova veste di impiego della cavalleria, l'apparire (nell'arte occidente della guerra) delle navi corazzate e di mezzi subacquei, lo svolgersi di grandi operazioni anfibie, il vasto impiego delle linee fortificate e trincerate.

 

Ed infine quello sul divenire di una grande nazione che ha in questa guerra un momento formativo essenziale.

 

Più ampiamente la guerra civile americana si palesa come guerra totale in cui la linea di confine tra civili e militari viene a cadere; le rovine di Richmond prefigurano sinistramente quelle maggiori delle due guerre mondiali.

 

In un certo modo si può asserire che tale conflitto sia, unitamente a quella anglo-boera del 1898 ed al conflitto russo-giapponese del 1905, uno dei laboratori di distillazione delle guerre del XX Secolo.

 

Ho voluto, quindi, trattare la materia con larghezza di mezzi al fine di poter offrire al lettore non solo una traccia biografica del grande generale ma anche un quadro – naturalmente per grandi tratti – di quel conflitto, il maggiore combattuto nel Nuovo Mondo. Apro dunque la trattazione una cronologia degli eventi e dei termini peculiari della guerra, poscia affronteremo un'analisi del significato e degli eventi della guerra per arrivare ad esaminare il profilo di Robert Edward Lee. Entrambe le parti sono opera di quello che può considerarsi uno dei maggiori americanisti viventi: Raimondo Luraghi.

 

Concludo rivolgendo il consueto augurio di buona e proficua lettura.

 

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Cronologia della Guerra Civile

 

 

1858

 

16 giugno. Convenzione del partito repubblicano dell'Illinois. Discorso storico di Lincoln, detto della « casa divisa ».

 

 

1859

 

2 dicembre: esecuzione dell'abolizionista John Brown.

 

 

1860

 

6 novembre: Lincoln è eletto presidente.

 

20 dicembre: secessione della Carolina del Sud.

 

 

1861

 

Gennaio e inizio febbraio: secessione del Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas.

 

4 febbraio: si costituisce la Confederazione degli Stati del Sud con capitale a Montgomery nell'Alabama; il suo presidente è Jefferson Davis.

 

12-13 aprile: bombardamento e resa del Forte Sumter.

 

15 aprile: proclama di Lincoln alla nazione e suo appello a 75.000 volontari.

 

Seconda metà d'aprile: allo scoppio delle ostilità, Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord si schierano - con la Confederazione sudista. I dissidenti di Kentucky e Missouri (stati nordisti) creano nel Sud dei governi fantasma, e la bandiera sudista si fregia di 13 stelle.

 

21 luglio: disfatta nordista nella I battaglia di Bull Run.

 

1 novembre: Mac Clellan viene eletto comandante in capo dei Nordisti.

 

1862 - 7 aprile: massacro di Shiloh, prima vittoria nordista.

 

25 aprile: occupazione nordista di New Orleans.

 

2 luglio: si conclude la sanguinosa Battaglia dei Sette Giorni, davanti a Richmond (nuova capitale sudista). Il vincitore Mac Clellan non sa sfruttare il suo vantaggio e viene perciò destituito.

 

11 luglio: Halleck nuovo comandante in capo delle forze nordiste.

 

30 agosto: i Sudisti vincono nuovamente a Bull Run.

 

17 settembre: vittoria nordista ad Antietam.

 

22 settembre: proclama d'emancipazione degli schiavi.

 

 

1863

 

S'inasprisce il blocco nordista contro i porti del Sud.

 

2-4 maggio: battaglia di Chancellorsville in Virginia, con parziale vantaggio dei Sudisti; essi perdono però uno dei loro migliori generali: Stonewall Jackson.

 

1-3 luglio: vittoria dei Nordisti a Gettysburg in Pennsylvania.

 

4 luglio: caduta della piazzaforte sudista di Vicksburg.

 

25 novembre: vittoria dei Nordisti a Chattanooga.

 

 

1864

 

9 marzo: Grant nominato comandante in capo delle forze nordiste.

 

Luglio-dicembre: campagna di Sherman in Georgia.

 

2 settembre: caduta di Atlanta, capitale della Georgia.

 

8 novembre: Lincoln è rieletto presidente degli U.S.A.

 

21 dicembre: caduta di Savannah assalita dalle truppe di Sherman.

 

 

1865

 

31 gennaio: si vota a Washington il XIII emendamento della Costituzione, che abolisce la schiavitù.

 

3 febbraio: Lincoln col segretario di stato Seward riceve tre inviati sudisti per le « trattative di Hampton Roads » che però si chiudono con un nulla di fatto.

 

3 aprile: caduta di Richmond. Il presidente Davis fugge con il tesoro della Confederazione.

 

9 aprile: si arrende ad Appomattox l'Armata sudista della Virginia.

 

14 aprile: assassinio di Lincoln.

 

18 aprile: si arrende l'esercito sudista di Johnston, presso Raleigh (Carolina del Nord). Sherman e Johnston firmano un accordo che implica il ritorno di tutti gli stati secessionisti in seno all'Unione.

 

4 maggio: il gen. Canby riceve dal gen. Taylor la resa delle residue forze confederate in Alabama e Mississippi.

 

10 maggio: il presidente Davis viene fatto prigioniero da un distaccamento di cavalleria e portato a Fort Monroe.

 

26 maggio: il gen. Canby riceve la resa del gen. Kirby-Smith e di tutte le forze sudiste al di là del Mississippi.

 

2 agosto: l'ultima unità sudista combattente, l'incrociatore corsaro Shenandoah, apprende la fine della guerra al largo della California, da un'unità inglese.

 

 

 

Parole della guerra civile americana: il Nord

 

 

Unionisti: i soldati del Nord, in quanto difensori dell'Unione, contro il tentativo del Sud di spaccarla in due.

 

 

Yankees: i Nordisti, voce di gergo. Deriva dalla voce indiana Yankee, che originariamente designava il colono d'origine inglese.

 

 

Federali: sempre i soldati del Nord, che riconoscono e servono il governo federale o dell'Unione (U.S.A.).

 

 

Azzurri: i Nordisti dal colore delle giubbe.

 

 

Unederground Railway Ferrovia Sotterranea: l'organizzazione che aiuta gli schiavi fuggitivi a raggiungere la libertà. Conduttori sono detti i membri di questa organizzazione che provvedono al trasporto e all'alloggio dei fuggiaschi.

 

 

Le Bibbie di Beecher: i fucili. Deriva da una frase del predicatore Beecher, fratello della scrittrice Harriet Beecher Stowe e violento abolizionista, il quale proclama che, con i proprietari di schiavi, il fucile è un argomento più persuasivo della Bibbia.

 

 

Bleeding Kansas o Kansas Sanguinante : espressione molto sfruttata dalla campagna elettorale per indicare lo Stato del Kansas, appena ammesso nell'Unione e diviso dalle lotte tra schiavisti e antischiavisti.

 

 

Honest Abe l'Onesto Abe (diminutivo di Abramo): uno dei soprannomi di Lincoln durante l'infiammata campagna elettorale.

 

 

Unconditional Surrender « Resa Incondizionata »: è quella che viene imposta dal Nord ai Sudisti, e preannunciata fin dal 1863. I soldati yankees, giocando sulle iniziali dei nomi del gen. Grant (Ulysses Simpson) lo chiamano Unconditional Surrender Grant.

 

 

Freedmen's Bureau « Ufficio degli Affrancati »: organismo creato nel 1863, terzo anno di guerra, subito dopo il Proclama d'Emancipazione degli Schiavi, emanato dal Presidente Lincoln.

 

 

Carpetbaggers: gli avventurieri e i profittatori calati dal Nord al seguito delle truppe unioniste, all'epoca della disfatta dei Meridionali. Il nome deriva da « carpetbag », la valigetta ottocentesca in stoffa da tappeto (carpet).

 

 

 

Parole della guerra civile americana: il Sud

 

 

Confederati: nome ufficiale dei Sudisti, in quanto appartenenti alla Confederazione degli Stati del Sud (C.S.A.).

 

 

Rebs: i Sudisti, nel gergo dell'esercito avversario. Deriva dalla parola Rebels, cioè « ribelli ». Sono anche detti Secesh dal termine « Secessíon », ossia Secessione.

 

 

Grigi: ancora i Sudisti, dal colore delle uniformi adottate in occasione del conflitto.

 

 

Dixie e anche Dixieland: gli Stati dl Sud. Nome d'origine incerta, forse derivato dal nome di Jeremiah Dixon, uno dei due agronomi che tracciarono nel XVIII secolo la linea Mason-Dixon, per delimitare i confini territoriali della Pennsylvania e del Maryland. Dixie è anche il titolo della canzone divenuta inno nazionale del Sud.

 

 

Bonnie Blue Flag « diletta bandiera azzurra »: il primo vessillo ufficiale inalberato nel Sud dopo la Secessione (precisamente nel Mississippi) con un'unica stella in campo azzurro.

 

 

Stars and Bars « Stelle e Sbarre »: la bandiera della Confederazione Sudista, in contrapposizione a quella del Nord, con Stelle e Strisce. È formata dapprima da tre strisce orizzontali, rosso-bianco-rosso, con in alto un rettangolo azzurro e le stelle degli Stati. Poi risulta troppo simile a quella del Nord e si decide di adottare un vessillo rosso con croce di S. Andrea azzurra recante sui bracci le 13, stelle degli Stati sudisti.

 

 

Firebrands, Fire-eaters « tizzoni di fuoco », « mangiafuoco »: soprannomi degli estremisti guerrafondai (specie nel Sud) durante la crisi del '60.

 

 

King Cotton « Re Cotone »: il mito della prosperità sudista, fondata sulla coltura del cotone.

 

 

Stonewall «Muro di pietra »: soprannome del generale sudista Thomas Jonathan Jackson, in seguito alla sua valorosa condotta nella prima battaglia di Bull Run, in cui, secondo la frase d'un commilitone, resse l'urto del nemico « come un muro di pietra ».

 

 

Scalawags o Scallawags: nome d'incerta origine, che designa i rinnegati Sudisti, passati al servizio dell'Unione.

 

 

 

LA GUERRA CIVILE FORGIO' L'AMERICA DI OGGI

 

La guerra civile negli Stati Uniti, che noi, europei generalmente chiamiamo guerra « di secessione » (usando un termine del tutto sconosciuto agli americani), fu non solo la più terribile crisi che abbia sconvolto la grande repubblica d'oltre Oceano nel corso dell'intera, sua storia, ma anche il più formidabile conflitto di cui il mondo sia stato testimone, all'infuori delle due guerre mondiali. Il filosofo tedesco Federico Engels la definì correttamente « un dramma senza precedenti »: e noi possiamo ben sottoscrivere tale giudizio. Sfortunatamente il pubblico europeo, abituato da una errata tradizione (che per fortuna si va perdendo) a curarsi ben poco di quanto sia capitato nella storia fuori dal proprio continente, ha sulla guerra civile americana idee quanto mai approssimative e vaghe; visto da lontano, il fenomeno sembra « semplice »: basta invece avvicinarsi ad esso per scoprirne tutta la drammatica complessità.

 

A metà del secolo scorso, mentre il più tremendo conflitto della loro storia andava maturando, gli Stati Uniti d'America apparivano (ed erano) un paese in prepotente sviluppo. Tutto aumentava con ritmo esplosivo: la popolazione (da ventitré milioni di abitanti nel 1850, a trentun milioni nel '60); la produzione agricola, le città, i commerci.

 

Ma l'aspetto più straordinario e stupefacente di questa ascesa era dato senza alcun dubbio dall'imponente sviluppo dell'industria e dei trasporti. Cinquant'anni prima, mentre sul continente europeo si combattevano le battaglie della Rivoluzione francese, un altro, più silenzioso ma non meno radicale rivolgimento si era prodotto in Gran Bretagna: la rivoluzione industriale. Repentinamente « un'ondata di ordigni si era abbattuta sull'Inghilterra »: la vecchia economia, prevalentemente agricola e mercantile, ne era stata sconvolta sin dalle fondamenta, e crollando aveva trascinato con sé le vecchie strutture sociali aprendo la via ad un mondo nuovo, con problemi nuovi.

 

Ora, approssimativamente nel quarto e nel quinto decennio del diciannovesimo secolo, questa immane rivoluzione aveva varcato l'Atlantico, si era insediata in America, vi aveva trovato condizioni ambientali che l'avevano fatta crescere a proporzioni gigantesche. Le nuove macchine (la filatrice, il telaio meccanico, il tornio, la fresatrice, l'alesatrice, azionate a vapore) si diffusero ovunque dando origine ad una serie di officine, fabbriche, stabilimenti: nello stesso tempo il genio pratico ed inventivo degli americani cominciò ad apportare al macchinismo avanzante ulteriori perfezionamenti, fornendo alla rivoluzione industriale nuove formidabili armi.

 

Nel 1832 fu inventato il telegrafo elettrico; nel 1845 il pneumatico; nel 1846 la macchina seminatrice e la rotativa per la stampa; nel 1849 la turbina idraulica; nel 1852 l'ascensore. Poi le invenzioni seguirono con ritmo torrenziale: il riscaldamento centrale, il vagone-letto, la rivoltella a ripetizione. In breve tempo la produzione industriale americana sali ad un valore di due miliardi di dollari, oltre duemila miliardi di lire italiane attuali [l'articolo apparve nel 1967]; la rete telegrafica raggiunse uno sviluppo di 80.000 chilometri; quella ferroviaria di 50.000; le navi da carico americane superarono i cinque milioni di tonnellate.

 

La macchina a vapore era un po' il simbolo della nuova rivoluzione. Essa annullava le distanze, liquidava gli ostacoli naturali, traversava i deserti, faceva di un immenso, sparpagliato paese, qualche cosa di unito dai suoi legami di ferro.

 

Sotto questo formidabile impulso, una numerosa e combattiva classe di proprietari andava sorgendo e sviluppandosi. Capitani d'industria, padroni di officine, capitalisti, banchieri si andavano sempre più imponendo come i nuovi protagonisti della storia in un'era che già cominciava ad adornarsi dei nomi famosi di Astor, Rotschild, VanderbiIt.

 

Che poi tutto il nuovo, straordinario progresso industriale stesse preparando per l'America una crisi di proporzioni mai viste, pochi lo avevano capito e meno ancora lo credevano. La stessa questione sociale, che era sorta in Inghilterra dalla rivoluzione industriale, a turbare i sonni della classe proprietaria come un gigantesco sinistro fantasma, sembrava inesistente in America. Si, le condizioni della classe operaia, specialmente degli immigrati che si affollavano nei grandi, grigi centri manifatturieri del Nord e del Medio Ovest, erano dure: ma migliori in ogni caso di quelle europee. Senza contare che davanti agli indigenti, agli insoddisfatti, agli sfruttati, si aprivano le distese immense dell'Ovest semisconosciuto e selvaggio ove con una buona carabina in una mano e la zappa nell'altra era possibile ad ogni volonteroso di conquistarsi un pezzo di terra. Chi dunque si opponeva al progresso, al sorgere di un'era nuova?

 

Certo, nella Nuova Inghilterra, nel New York, nel Medio Ovest, nessuno. Ma esisteva un gruppo di Stati ove l'entusiasmo per la nuova rivoluzione industriale non era condiviso affatto. A sud del Potomac si estendeva una terra ove il rombar delle officine non turbava per nulla l'atmosfera. Era un paese ove da secoli esisteva una società preminentemente agricola, patriarcale, in parte, senza dubbio, arretrata e « primitiva ». Popolata da gente fiera, quella terra viveva ancora, in pieno Secolo diciannovesimo, con il metro ed i costumi di duecento anni prima. L'agricoltura che vi si praticava era di tipo primitivo ed estensivo; sulle zolle dei campi gli schiavi negri si curvavano ancora come ai tempi andati, prima della Rivoluzione che aveva fatto l'America. Nelle piccole città, nelle grandi case patrizie o nelle umili dimore dei contadini, si viveva una vita semplice e patriarcale, il cui ritmo era dettato dal volger delle stagioni e dal lavoro dei campi. L'individualismo e la democrazia fiorivano in quella terra come piante indigene: e nello stesso tempo, accanto ad una vita rozza e campagnola, si sviluppava una cultura sofisticata e piena di reminiscenze classiche, ben lontana dal dinamico pragmatismo delle zone industrializzate: gli altri americani definirono quel paese, ultimo baluardo di un'America del passato, con un nome onnicomprensivo: « il Sud ».

 

I meridionali erano in genere ben consci del nuovo, drammatico contrasto, che l'avvento della rivoluzione industriale suscitava tra di loro e il resto dell'Unione: « Non esiste alcuna intrapresa », diceva un noto esponente sudista, « in cui l'uomo sia impegnato, ad eccezione dell'agricoltura, che non necessiti di aiuto legislativo per estendere i suoi profitti... Questi interessi, mossi dal comune intento del bottino, si sono uniti ed hanno operato in modo da usare il governo come strumento delle loro azioni... Ora questa composita schiera di interessi sta in campo contro gli Stati agricoli; e questa è l'origine del conflitto che, come un terremoto, sta sconvolgendo il nostro edificio politico dalle fondamenta ».

 

Così i rapporti tra il Mezzogiorno e il Settentrione degli Stati Uniti, che invero non erano mai stati amichevoli, rischiavano di diventare drammatici sotto la spinta della rivoluzione industriale che scatenava nuove forze, costruiva un nuovo mondo, il quale minacciava di distruzione o di assorbimento tutte le sopravvissute società del passato.

 

Che tutto ciò dovesse sboccare in un conflitto armato, ben pochi lo prevedevano intorno agli anni cinquanta. Il Sud, lento a decidere come tutti i paesi contadini, era andato maturando per gradi il proposito della secessione: ma molti nel Nord avevano sottovalutato queste intenzioni, ritenendo si trattasse solo di vane minacce. Certo è che la subitanea crisi, la quale portò nell'aprile del 1861 allo scoppio di una tra le più terribili guerre che l'umanità avesse mai visto, colse tutti di sorpresa, nel Sud come nel Nord: di colpo, l'arma della critica aveva ceduto il passo alla critica delle armi, e non c'era più tempo adesso di stare a discutere sulle cause e sulle responsabilità della guerra.

 

Per il governo di Washington tutto era chiaro, o almeno tutto sembrava chiaro. Sin dalle sue prime dichiarazioni, la Casa Bianca stabilì la propria posizione: il Sud era uscito dall'Unione per non sottomettersi alla volontà della maggioranza (i meridionali iniziarono il movimento secessionista dopo che Lincoln era stato eletto Presidente degli Stati Uniti). Come tali erano ribelli: con la forza delle armi sarebbero quindi stati costretti a rientrare nell'Unione, la cui restaurazione costituiva l'unico, essenziale scopo di guerra del governo centrale.

 

C'era, è vero, la vecchia, odiosa istituzione della schiavitù dei negri, esistente negli Stati del Sud; e da parecchi anni si era formato nel Settentrione un movimento abolizionista che la criticava con parole di fuoco: ma gli abolizionisti erano, nel Nord, una esigua minoranza e il governo unionista dichiarava apertamente di non voler avere niente a che fare con essi. Lo stesso Partito repubblicano, durante la campagna elettorale che era culminata nella vittoria di Lincoln, aveva chiaramente, inserito nel proprio programma una aperta sconfessione dell'abolizionismo, impegnandosi invece a rispettare la schiavitù esistente nel Sud, se necessario mediante un apposito emendamento costituzionale.

 

Che questi fossero i sentimenti della schiacciante maggioranza dei combattenti unionisti, non si può dubitare: basta scorrerne le lettere per rendersene persuasi. E poi ben tre dei principali Stati schiavisti: il Kentucky, il Maryland e il Delaware, si erano schierati con il Nord: ed un quarto, il Missouri, era almeno per metà favorevole al Settentrione.

 

D'altra parte nel Sud si diceva nella maniera più esplicita che la difesa della schiavitù aveva ben poco a che fare con la secessione e la guerra. Alcune tra le più eminenti personalità meridionali (primo fra tutti il generale Lee) erano apertamente ostili alla schiavitù, che consideravano una istituzione arretrata e odiosa. Né si faceva alcuna obiezione al principio della maggioranza. Solo, si statuiva che l'Unione americana in base alla Costituzione era composta di Stati sovrani i quali si erano uniti per la difesa degli interessi comuni; che il Partito repubblicano aveva raccolto voti solo nel Nord, e che quindi era un partito sezionale, non nazionale; che (a parte la schiavitù) il suo programma non teneva alcun conto degli interessi economici, sociali, politici del Sud, il quale sarebbe stato ridotto ad una minoranza tollerata; e che nessuno al mondo poteva imporre a degli Stati sovrani di rimanere in una Unione la quale, invece di tutelare gli interessi di tutti i suoi componenti, fosse diventata strumento di una parte degli Stati contro l'altra.

 

Tuttavia, mentre il conflitto proseguiva e diventava sempre più sanguinoso, questi astratti principi giuridici andarono rivelando tutta la loro insufficienza. Sia il « principio dell'Unione » che avrebbe obbligato tutti gli americani ad accettarne le leggi, sia i « diritti degli Stati » ad una vita autonoma nei confronti dell'Unione stessa, si andavano rivelando poco più che astrazioni giuridiche: e nessuno poteva certo essere chiamato a battersi e a morire per delle astrazioni.

 

Per il Sud non era difficile dare un contenuto più umano e palpitante alla sua politica. A sua difesa esso poteva invocare (e, per la verità, sin da principio invocò) il diritto all'autodecisione che ogni popolo possiede, almeno in linea teorica; il diritto cioè per una minoranza, conscia delle sue tradizioni, delle sue prerogative, delle sue caratteristiche peculiari che ne fanno un raggruppamento nazionale a sé, a rivendicare in ogni momento la propria indipendenza: e fu con questo grido sulle labbra che centinaia di migliaia di sudisti, giovani e non più giovani, corsero con dedizione suprema ad arruolarsi sotto le rosse bandiere degli Stati Confederati d'America, ed a spargere il loro sangue su decine di campi di battaglia.

 

L'Ottocento, secolo nazionalista, non poteva che accettare e comprendere questi principi, la volontà eroica e disperata di un intero popolo di vivere indipendente. D'altro canto, la nazione sudista, con una sua tradizione culturale, sociale, religiosa, civile, era una realtà: né deve ingannarci l'eguaglianza della lingua che pareva accomunarla al Nord. Belgio e Francia, Inghilterra e Stati Uniti, parlano la stessa lingua, e pure non sono una sola nazione; mentre gli svizzeri parlano lingue diverse, senza che nessuno si sogni di porre in dubbio l'esistenza della nazione svizzera. Per il Sud, quindi, le idee furono chiare sin da principio, e gli equivoci non tardarono a dissiparsi. Ma il Nord?

 

Di mano in mano che i sacrifici aumentavano, cresceva nel Settentrione l'ostilità alla guerra. L'Unione? Ma che valore poteva avere una Unione imposta con la forza a chi non ne voleva sapere? Questa non era unità, ma sottomissione: e molti, anche a nord del Potomac, non ne volevano sapere di condurre una guerra di sottomissione. Così nuove esigenze si fecero strada. Il tema della schiavitù ricomparve sulla bilancia della guerra.

 

Effettivamente esso aveva avuto una parte nello scatenamento del conflitto. Si, il Partito repubblicano aveva dichiarato di non voler assolutamente far nulla contro la schiavitù nel Sud: ma si era fermamente opposto ad ogni espansione della schiavitù stessa nei Territori federali dell'Ovest. Il movente era chiaro: chiudendo i territori dell'Ovest alla schiavitù, essi sarebbero stati chiusi ai contadini sudisti e spalancati a quelli del Nord. Ciò in un secondo tempo avrebbe portato ad un pullulare di nuovi Stati filo-nordisti, il che avrebbe isolato il Sud e gli avrebbe strappato ogni influenza sul governo dell'Unione.

 

Questo aveva terribilmente irritato i meridionali. Essi sapevano benissimo che i deserti e le praterie dell'Ovest non erano favorevoli all'economia schiavista: ma non poteva tollerare di rimanere nell'Unione subendo una discriminazione di principio. Già prima della crisi il futuro Presidente sudista, Jefferson Davis, aveva chiaramente attaccato su questo piano i settentrionali nel Senato degli Stati Uniti: « Che cosa vi proponete, signori del partito della terra libera? Vi proponete di migliorare le condizioni degli schiavi? Niente affatto. Non è l'umanità che vi spinge... È per avere una opportunità di umiliarci, che voi volete limitare il territorio a schiavi entro confini circoscritti. È per ottenere la maggioranza nel Congresso degli Stati Uniti e trasformarne il governo in una macchina per lo sviluppo del Nord. »

 

Ciò nonostante la schiavitù entrava per qualche verso nel conflitto: essa costituiva l'apparato produttivo del Mezzogiorno e, in piena guerra, i sudisti non se ne sarebbero potuti disfare senza rischiare di provocare il crollo dell'intero loro edificio sociale. Fu così che il governo dell'Unione, allorché la guerra andava dimostrandosi sempre più sanguinosa e interminabile, decise di giocare la carta della schiavitù per colpire mortalmente il Sud.

 

Tuttavia questo fu fatto su una base non moralistica, senza stabilire il principio della liberazione generale degli schiavi. Il Proclama di emancipazione, divenuto valido agli inizi del 1863, era esclusivamente una misura di guerra civile. In base al diritto che ogni governo possiede di confiscare i beni dei sudditi ribelli, gli schiavi appartenenti a proprietari che al I° gennaio 1863 si fossero trovati in stato di rivolta contro l'Unione, erano dichiarati liberi senza indennità. Ma il Proclama escludeva accuratamente gli schiavi dei piantatori kentuckyani, missouriani, del Delaware e del Maryland, ossia degli Stati schiavisti fedeli all'Unione: colà la schiavitù rimaneva e le autorità nordiste l'avrebbero tutelata. D'altronde il Proclama di emancipazione non sarebbe stato applicato neppure nel Sud qualora questo avesse fatto atto di sottomissione.

 

Tuttavia il Proclama rimase, nel complesso, lettera morta. La guerra continuò sempre più accanita e feroce, richiedendo ad entrambe le parti sacrifici sempre maggiori. D'altro canto, la costituzionalità stessa del Proclama fu contestata anche nel Nord: ciò indusse il governo dell'Unione a trasferire il principio della emancipazione in un emendamento alla Costituzione. Rimaneva però stabilito che negli Stati fedeli all'Unione la schiavitù sarebbe stata abolita solo gradualmente e mediante congruo indennizzo. Nello stesso tempo, per battere il Sud sul terreno della politica estera fu lanciata in Europa una vasta campagna propagandistica in cui le Armate unioniste vennero presentate come « emancipatrici » contro gli « schiavisti » meridionali; espediente non nuovo nella storia e che sarebbe stato usato ripetutamente anche più tardi.

 

Il Sud fu, sul terreno propagandistico, nettamente battuto. Isolato dall'Europa, non riuscì a difendersi adeguatamente contro le accuse che gli venivano scagliate anche se, alla fine del 1864, lo stesso governo sudista si indusse a concedere la libertà a tutti gli schiavi che avrebbero preso le armi per difendere il Mezzogiorno e addirittura a contemplare l'abolizione totale dell'arcaica e odiosa istituzione. Ma era ormai troppo tardi: e la Confederazione stava piegando sotto i colpi delle Armate nordiste. La disfatta del Sud era alle porte.

 

Con la resa del generale Lee ad Appomattox, tacquero praticamente i cannoni sui campi insanguinati d'America, anche se qua e là alcuni reparti sudisti tennero il campo per qualche settimana. Ma se gli echi degli ultimi spari presto si spensero, non tacquero le polemiche: ché, anzi, esse cominciarono ora a divampare più fiere che mai. Da parte nordista tutti i motivi della lotta furono ora ridotti ad uno solo: la schiavitù. Il resto fu omesso o dimenticato. Ventotto anni dopo la fine della guerra questa versione fu definitivamente consacrata dalle pagine del primo grande storico nordista del conflitto: James Ford Rhodes.

 

Per parecchio tempo l'opera del Rhodes fece testo. Ma di mano in mano che le ricerche proseguivano e si approfondivano, nuovi elementi cominciarono a venir presi in considerazione, nuovi dati emersero, nuove teorie furono formulate, assai più adatte di quella dél Rhodes a chiarire una serie di aspetti oscuri dell'immenso dramma. Fu questa la così detta storiografia « revisionista » che ormai, a quasi un secolo dal conflitto, interveniva a liquidare definitivamente il mito del Sud « cattivo » e « schiavista » e del Nord « buono » ed « emancipatore ».

 

Nello stesso tempo un'altra scuola, quella degli « economisti », capitanata da Charles e Mary Beard, cominciò a porre in luce i problemi di base che si celavano dietro i proclami dei politici e la retorica degli articolisti. Il torto degli « economisti » fu di ridurre tutto il conflitto ad un urto di interessi: il loro prezioso contributo alla scienza storica fu invece di aiutarci a comprendere la trascendente importanza che i moventi di indole economica avevano avuto nella genesi e nello scatenamento del conflitto.

 

Nuovo interesse andavano intanto prendendo gli studi sul periodo successivo alla guerra civile, intesi come strumento per meglio svelare la natura e le cause della conflagrazione, giudicandola attraverso le conseguenze da essa generate.

 

Il primo dato di fatto tosto emerso fu che i risultati della guerra civile avevano di gran lunga oltrepassato tutte le previsioni e le aspettative degli stessi vincitori. Si era partiti per costringere il Sud a sottomettersi ed a rientrare nell'Unione; e si era riusciti a farlo solo a prezzo di una guerra spietata, che aveva praticamente ridotto tutto il Mezzogiorno ad un campo di cenere. Gli eserciti sudisti erano stati disfatti, certamente; ma, in aggiunta, più di seicentomila uomini erano morti: e nel Sud, che con una popolazione di soli cinque milioni di abitanti, aveva avuto oltre trecentomila caduti, il salasso era stato addirittura terrificante: praticamente non vi era famiglia che non piangesse un caduto. Inoltre, l'intero Sud era stato devastato, i campi spogliati, i raccolti dispersi, le ferrovie distrutte, i ponti e le gallerie, le officine, le stazioni ferroviarie, incendiate e fatte saltare in aria. Peggio: centinaia di migliaia di persone avevano perduto ogni loro avere, la casa, i beni, la proprietà.

 

Uomini che erano stati ricchi piantatori o contadini agiati sì videro costretti a campare la vita mendicando. Nel suo complesso, la classe dei piantatori fu prostrata nella polvere più di quanto ogni altra fosse mai stata.

 

E infine nemmeno questo era il peggio. Che ormai il Sud dovesse piegarsi e subire gli interessi economici del Settentrione, appariva ovvio: ma il Nord, specialmente negli ultimi anni del conflitto, inasprito dalle difficoltà e dalle perdite della guerra, irritato dalla disperata resistenza sudista, aveva cominciato a pensare che il puro e semplice ritorno nell'Unione degli Stati meridionali non bastava più. Ora si fece largo una corrente la quale riteneva che i sudisti avrebbero dovuto pagare e pagare duramente: Lincoln, uomo generoso oltreché lungimirante statista, era contrarissimo a questi indirizzi, ma la sua morte tolse di mezzo il maggiore ostacolo di fronte a coloro che volevano imporre "al vinto Sud la pace cartaginese.

 

Segui in tal modo il periodo della così detta « ricostruzione »: il Sud venne sottoposto per anni ad una rigida occupazione militare, come un paese straniero, battuto e sottomesso. Gli Stati meridionali furono affidati a « governatori militari » e il Mezzogiorno fu nel complesso trattato senza complimenti come una terra di conquista.

 

La stessa emancipazione degli schiavi fu completata (sotto l'impulso degli estremisti del Partito repubblicano) come un'operazione punitiva nei confronti delle popolazioni bianche del Sud: poco importava ai politici settentrionali che, così facendo, si preparassero giorni amari agli stessi negri poiché si sarebbe eccitato contro di loro il risentimento (ingiusto ma spiegabile) dei bianchi del Mezzogiorno. In sostanza, la politica della « ricostruzione » perseguita dal Partito repubblicano usò con cinismo i negri come un'arma per conseguire fini di parte, punendo ed umiliando per mezzo loro i vinti.

 

La reazione venne, ed era inevitabile. Per difendersi in qualche modo dai soprusi della occupazione militare nordista nonché dalla invasione di speculatori settentrionali (i così detti « carpetbaggers », o « uomini con la valigia »), un gruppo di ex combattenti confederati decise di dar vita nel Tennessee ad una organizzazione clandestina la quale prese dapprima il nome di Kuklux (corruzione della parola greca kyklos, circolo): ad essa fu poi aggiunta quella scozzese di Klan. Nacque così questa oscura e proteiforme organizzazione, che, intesa inizialmente come una difesa contro le violenze e le prepotenze degli occupanti e dei loro complici, fini per degenerare in una setta a carattere terroristico e razzistico: ciò contro le intenzioni dell'uomo che ne era stato il primo « Grande Stregone », l'ex generale confederato Nathan Bedford Forrest.

 

Ben presto la scritta sinistra che appariva all'alba sui muri: The Klan is bere (il Klan è qui) fini per perdere il suo significato di incoraggiamento alle popolazioni conculcate dagli occupanti per assumere quello.. della minaccia terroristica. Il generale Forrest a' questo punto decise di sciogliere l'organizzazione ed invita tutti gli ex combattenti confederati ad abbandonarla: ma essa era ormai così ramificata per cui non fu più possibile arrestare la macchina.

 

Il Klan, nei suoi sviluppi successivi, commise indubbiamente abusi, violenze e delitti: ma la sua stessa origine può venire spiegata solo facendo riferimento al clima di risentimenti generato nel Sud dai vincitori dopo la disfatta del Mezzogiorno. Nel suo insieme, malgrado episodi come quello del Ku-Klux-Klan, il Sud rimase prevalentemente democratico: fu un Presidente sudista, il virginiano Woodrow Wilson, che riportò il Partito democratico alla vittoria elettorale dopo anni di predominio reazionario dei repubblicani, solo interrotti dal breve periodo dell'amministrazione Cleveland.

 

Se la guerra civile era stata intesa come un mezzo per risolvere la questione negra negli Stati Uniti, essa aveva fallito del tutto lo scopo perché aveva creato nel Mezzogiorno un clima di risentimenti e di amarezze che fu di obiettivo ostacolo all'inserimento dei negri nella società americana e le cui conseguenze' si osservano ancora oggi. Nello stesso tempo il Sud fu abbassato ad un livello di miseria e di arretratezza che solo l'amministrazione del grande Presidente Franklin Delano Roosevelt seppe affrontare e liquidare, o meglio avviare a liquidazione: poiché soltanto oggi il Mezzogiorno va raggiungendo una sistemazione definitiva in seno all'Unione. Insieme con la parità giuridica e civile ai negri, vengono attuati piani contro le « sacche di miseria », vere zone depresse che sono il triste retaggio della guerra civile.

 

Così oggi, se anche non tutte le infelici eredità della guerra civile si possono dire liquidate, i gravi problemi da essa creati sono però avviati a soluzione.

 

Certo è che, a suo tempo, il conflitto, invece di risolvere le gravi questioni sul tappeto, le aggravò: come sempre, la violenza e la guerra si rivelarono un rimedio di gran lunga peggiore del male.

 

Ma non va taciuto che, contemporaneamente, la guerra civile contribuì potentemente a foggiare un'America nuova. Essa aperse libera la strada alla rivoluzione industriale; unificò tutto il paese sotto il controllo del governo centrale; modificò l'economia e le impresse uno slancio inaudito; risolse il problema dei Territori dell'Ovest spalancandoli all'immigrazione dei piccoli contadini del Nord e dei coloni europei, gettando così, le basi per il sorgere laggiù di nuovi Stati e per la totale liquidazione dell'Ovest selvaggio; foggiò come un maglio di fuoco l'America di oggi. Senza studiare e comprendere l'età della guerra civile è impossibile capire gli Stati Uniti del nostro tempo, la loro vita, i loro problemi.

 

 

 

 

LEE IL SUDISTA DI FERRO

 

Richmond, capitale della Virginia, è oggi una silente e tranquilla città di dimensioni modeste, da cui le metropoli degli Stati Uniti - New York, Chicago, Los Angeles - sembrano a distanze di anni-luce. Sulle sue vie ampie, colme di verde e di silenzio, si affacciano le case graziose dalle facciate in cotto con il piccolo candido portico; dovunque, solo l'oblio e la quiete. Eppure, il visitatore che si aggiri per quelle vie non tarda a sentirsi attorno un'atmosfera densa di presenze invisibili; Henry James, recatovisi nel 1897, la definì, ed a ragione, « una città posseduta dai fantasmi ».

 

Basta entrare in una delle vecchie case dignitose, soffermarsi davanti alle sciabole sui caminetti, alle vetrine con revolvers di forma desueta, decorazioni coperte dalla sottile patina del tempo, vecchie stinte logore uniformi grigie; basta spingersi alla periferia e ritrovare, sotto il verde smagliante della vegetazione virginiana, lo snodarsi tortuoso di antiche trincee, chilometri e chilometri, letteralmente a ridosso delle case; basta entrare, sul Boulevard, nel grande severo edificio della Virginia Historical Society ove in una sala il soffitto è coperto di lacere rosse bandiere con la croce di Sant'Andrea degli Stati Confederati per persuadersene.

 

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LO STATO MAGGIORE sudista in un dipinto dell'epoca che si trova a Richmond, presso la « Virginia Historical Society», Lee è al centro, sul cavallo bianco

 

 

Come James Bryan ha osservato, quelle bandiere recano ancora ricamati nomi la cui eco risuona nel mondo intero: « Gettysburg », « Manassas », « Chancellorsville »; all'aprirsi della porta la lieve corrente d'aria fa ondeggiare i vecchi stendardi con un fruscio di cose vive.

 

Fuori, girato l'angolo del Boulevard, si entra nella Monument Avenue. Là si ergono le statue dei difensori del Sud; ma bisogna superare alcuni isolati per raggiungere quella che - sola, nel centro di una grande rotonda - domina tutte le altre. Rappresenta un uomo a cavallo in uniforme da generale; la posa è salda e serena ma senza iattanza; la testa, scoperta, è eretta in un atteggiamento indefinibile che mescola la fierezza con l'umiltà; le mani non brandiscono spada, non sono levate a comandare.

 

Tutt'insieme la figura ispira un immenso - quasi sgomento - senso di reverenza. Sul piedistallo, una sola parola: « Lee ». Quel monumento sembra costituire il vertice ideale di Richmond e della defunta Confederazione.

 

A un secolo di distanza il nome di Lee è trasformato in un mito e in un simbolo; eppure la sua gloria sì costruì tutta nel limitato spazio di quattro anni: il tempo appunto che durò la vita della Confederazione sudista. Allo scoppio della guerra civile americana si sapeva soltanto di lui che proveniva da una tra le più illustri famiglie della élite virginiana. Suo padre, il generale Harry Lee, era stato collaboratore ed amico di Washington di cui Robert Edward Lee aveva sposato una nipote. Sebbene illustre, la famiglia era povera: a differenza dei ceti capitalistici del Nord, i grandi piantatori sudisti erano molto più inclini a spendere il denaro che non ad accumularlo, e il giovane Lee aveva dovuto seguire la carriera delle armi per mantenere se stesso e la famiglia la quale, dopo la morte del padre, era rimasta a suo carico.

 

All'Accademia di West Point aveva dimostrato un'intelligenza acuta e profonda, un carattere riservato e meditativo; sebbene fosse affabile e cordiale, spirava tuttavia da lui una tale dignità da scoraggiare le facili confidenze. Dopo aver fatto tesoro dell'ottima educazione impartita a West Point, Lee l'aveva ancora sviluppata imparando molte lingue (tra cui il francese che parlava correntemente), il latino e il greco. Amava leggere i poeti classici nei testi originari e - ancora in vecchiaia - soleva citare interi componimenti dei grandi versificatori arabi, tra cui Hafiz. Nello stesso tempo era colto in matematiche e ingegneria ed era diventato uno tra i più competenti ufficiali del genio.

 

Studiandone da vicino la figura non si può eliminare l'impressione di trovarsi di fronte a un personaggio che non appartiene all'Ottocento; a un gran signore dei secoli precedenti cui l'uniforme stava come un di più; addirittura a uno di quei senatori romani che - guidando gli eserciti - continuavano a indossare la toga per rammentare che essi erano cittadini in armi, non soldati di mestiere.

 

La sua cultura vasta e profonda in ogni campo rammenta invece un intellettuale del Rinascimento, un figlio di quell' epoca in cui il matematico si compiaceva di versificare e l'umanista era anche architetto o uomo di scienze.

 

Ma tutto ciò era noto a ben pochi o, meglio, soltanto a Lee stesso. I suoi interessi culturali, il suo mondo, erano per lui, non per venire ostentati in alcun modo. Esteriormente appariva come uno tra i più distinti ufficiali dell'Esercito degli Stati Uniti; nella guerra contro il Messico, rivestendo la carica di Capitano di Stato Maggiore, si era rivelato un prezioso collaboratore del comandante in capo, generale Winfield Scott. La sua provenienza dal Genio aveva fatto sì che a lui fossero stati affidati difficili compiti di ricognizione del terreno e di esplorazione del nemico; ciò aveva dato modo a Lee di porre in luce una eccezionale abilità nell' analisi e nella scelta della posizione; ai suoi occhi i minimi rilievi, i corsi d'acqua, i boschi rivelavano il loro significato tattico e strategico; nella futura guerra civile in cui la potenza del fuoco avrebbe costretto a sfruttare al massimo le possibilità offerte dal terreno, ciò gli sarebbe stato prezioso.

 

Dopo il conflitto messicano Lee, divenuto colonnello di cavalleria, era stato considerato il più abile ufficiale in servizio. Il suo vecchio superiore, Scott, Generale in Capo dell'Esercito degli Stati Uniti, lo teneva in altissima stima.

 

Erano tempi forieri di tempesta per l'Unione americana. La controversia tra il Nord e il Sud stava raggiungendo toni acuti; la grande repubblica federale sembrava sul punto di sfasciarsi da un momento all'altro. Lee sentiva dolorosamente la crisi. Sul problema della schiavitù era reciso: personalmente aveva liberato tutti i suoi schiavi. Detestava e condannava l'istituzione: ma come l'altro grande virginiano, Thomas Jefferson, si rendeva conto— che a essa era vincolata la stessa vita della società sudista e che ciò generava una tragica contraddizione.

 

 

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STAZIONE DI ATLANTA 1864, un ultimo convoglio gremito fin sul tetto dei vagoni si accinge ad abbandonare la capitale della Georgia stretta nella morsa del generale unionista Sherman. A quell'epoca Lee era ormai costretto a una guerra di posizione.

 

 

In piena crisi, nel 1856, così scriveva a sua moglie: « In questa età illuminata vi sono pochi, credo, i quali non vogliano riconoscere che la schiavitù in quanto istituzione è un male sia morale che politico... ». Tuttavia successivamente riprendendo il discorso, proseguiva: « il Sud, dal mio punto di vista, è amareggiato per gli atti del Nord... lo risento tale aggressione, e sono del parere che si debba compiere ogni passo per far valere le nostre ragioni... Tuttavia non posso prevedere maggior catastrofe per il Paese che lo scioglimento dell' Unione... Ma un'Unione che possa esser mantenuta solo con la forza delle armi... non ha alcuna attrattiva per me ».

 

Nel 1859 si era trovato a dover comandare le forze inviate dal governo federale a reprimere il tentativo insurrezionale di John Brown. Lo aveva fatto con fermezza ma con moderazione e umanità; e tuttavia l' episodio gli aveva fatto prevedere tempi ancora più tragici.

 

Quando i governi del Deep South erano usciti dall'Unione e avevano dato vita agli Stati Confederati d'America, Lee era rimasto fedele alla vecchia bandiera; ma allorché toccò al suo Paese natio, la Virginia, di compiere il medesimo passo, si trovò dinanzi al più crudele dilemma della sua esistenza.

 

Nel marzo del 1861 il suo vecchio capo, il generale Winfield Scott, lo aveva chiamato a Washington; il 18 aprile, dopo che la guerra era già esplosa in seguito al bombardamento di Forte Sumter e mentre si attendeva da un momento all'altro la secessione della Virginia, Lee, scuro in volto, salì i gradini della Blair House, sulla Pennsylvania Avenue a Washington per presentarsi al suo superiore che lo aveva convocato d' urgenza.

 

L'offerta cui si trovò di fronte era chiara e - per un soldato di professione - la più allettante che mai potesse presentarsi: il grado di generale, il comando del grande esercito con cui il governo degli Stati Uniti si apprestava ad invadere il Sud: la carriera, la gloria al servizio di una causa cui la forza preponderante dava quasi la certezza della vittoria. La risposta di Lee fu ne- quivocabile: « Voi mi chiedete di sguainare la spada contro il mio Paese ». Per il gentiluomo sudista - e coerentemente con la sua filosofia e la sua educazione - il suo Paese non era l' Unione: era la Virginia. Rifiutata l'offerta di Scott, Lee tornò nella sua casa che dalla collina dì Arlington, sulla sponda virginiana del Potomac, domina Washington. Oggi essa è diventata un museo; il terreno attorno si è trasformato nel più grande cimitero militare degli Stati Uniti ove furono sepolti per primi i caduti sotto il piombo delle divisioni di Lee.

 

Da là egli inviò a Scott una lettera di dimissioni dalle Forze Armate; poco più tardi, allorché l'Assemblea legislativa virginiana lo invitò ad assumere il comando delle forze dello Stato per respingere la prevista invasione da parte dell'Esercito degli Stati Uniti, Lee accettò. Entrata la Virginia nella Confederazione, ne fu uno dei sette generali d'Armata. Per parecchi mesi la sua parte fu del tutto incospicua. Non partecipò alle prime grandi battaglie; e mentre l'astro dei Beauregard e dei Johnston saliva alto, rimase pressoché uno sconosciuto. Inviato a guidare le operazioni nella Virginia Occidentale con forze disorganiche e insufficienti, non ebbe successo: e sebbene avesse poi diretto la costruzione della formidabile linea fortificata che per quattro anni avrebbe protetto le coste del Sud dagli sbarchi nemici, rimase poco noto al gran pubblico.

 

Fu il Presidente confederato, Jefferson Davis, il quale aveva per lui la più alta stima, che, contro il parere di molti, gli assegnò nella primavera del 1862 dapprima la carica di suo consigliere militare poi il comando del fronte della Virginia ove Lee dichiarò costituita l'Armata della Virginia Settentrionale, che presto avrebbe guidato alle più stupende vittorie e che, fusa da lui in un blocco omogeneo, duttile e organico, avrebbe preso posto nella storia accanto a unità celebri come l'esercito d' Italia di Annibale, la Decima Legione di Cesare, l'Armée d'Italie o la Grande Armée di Napoleone.

 

Lee giungeva all'apogeo apparentemente senza merito; il suo aspetto (sebbene avesse solo 55 anni) era quello di un uomo invecchiato precocemente per le preoccupazioni e le prove cui il tragico destino del Paese lo aveva sottoposto. La situazione in cui assunse il comando era gravissima: ben cinque eserciti, forti di 200.000 uomini, convergevano da tutte le parti sulla Virginia; il più grande di essi, l'Armata del Potomac comandata dal generale McClellan, con oltre 125.000 combattenti, era a pochi chilometri dalla capitale confederata, Richmond. A tali forze i meridionali non potevano contrapporre più di 90.000 effettivi: eppure bisognava agire - e presto - se si voleva evitare una catastrofe.

 

Lee vide tosto l'opportunità. Egli poteva disporre di linee interne: gli era cioè più facile che non al nemico concentrare le forze. Inoltre poteva contare su una locale, modesta superiorità nella Valle dello Shenandoah dalla quale si poteva minacciare Washington. Certo, il generale Jackson (soprannominato Stonewall, « Bastione » per la sua incrollabile resistenza a Manassas) che comandava colà, non poteva pensar di conquistare la capitale degli Stati Uniti con i suoi 18.000 soldati; ma poteva minacciarla. Lee cioè decise di usare quella che sarebbe divenuta una tra le sue armi più affilate: l'intimidazione strategica, intesa a spaventare il nemico con una minaccia in realtà inesistente, onde distrarlo dal punto decisivo su cui egli avrebbe vibrato il colpo. Jackson, per parte sua, condusse la campagna con folgorante celerità: dopo aver sconfitto il generale Banks che lo fronteggiava mosse lungo la Valle dello Shenandoah mostrando di minacciare Washington. Il panico travolse il governo federale: le forze disponibili furono fatte ritirare per coprire la capitale lasciando a Mc Clellan non più di 105.000 soldati. E Lee si disponeva ad attaccarlo. Ora Jackson, lasciato un velo di truppe a contenere e ingannare il nemico, mosse per congiungersi con Lee che, ammassati così circa 96.000 combattenti, attaccò McClellan nella sanguinosa battaglia « dei sette giorni » ricacciandolo lontano da Richmond. La minaccia era sventata e la capitale sudista era salva.

 

Era tempo: perché il nemico, ripreso animo, stava facendo marciare contro di lui un nuovo esercito, l'Armata della Virginia al comando del generale John Pope, forte di oltre 80.000 uomini, la quale discendeva lungo la ferrovia che da Washington sì spinge alla volta di Charlottesville.

 

Lee decise di nuovo una manovra arrischiatissima: lasciate poche truppe per tenere a bada lo sconfitto McClellan, mosse rapidamente incontro a Pope; poi - divisa la sua Armata in due masse - ne inviò una metà il I Corpo d'Armata, al comando di «Stonewall» Jackson) a compiere un largo movimento aggirante, minacciando le retrovie del nemico. Quando Pope, sorpreso, ripiegò, Lee lo incalzò con il Il Corpo d'Armata e - congiungendo le sue due masse sul campo di battaglia - lo attanagliò battendolo. disastrosamente nella seconda battaglia di Manassas.

 

Dopo questa vittoria Lee decise di giocare la carta più grossa: l'invasione del Nord. Ancora una volta intendeva ricattare il nemico con una improbabile minaccia su Washington per costringerlo a battaglia e sconfiggerlo.

 

La capitale degli Stati Uniti era un immenso campo trincerato e Lee non aveva né le batterie d'assedio né le forze per attaccarla; per cui, passando a occidente di Washington, mosse verso le colline del Maryland tallonato da Mc Clellan che era tornato precipitosamente a Washington con la sua Armata del Potomac.

 

Ancora una volta Lee divise le sue forze in cospetto del nemico: e mentre un Corpo d'Armata espugnava la piazzaforte di Harper's Ferry (che poteva minacciare le sue linee di comunicazione) l'altro tenne fronte a McClellan nella sanguinosa battaglia di Antietam sinché il primo, presa Harper's Ferry, arrivò a tempo per concludere la battaglia alla pari. L'enorme sproporzione di forze (50.000 uomini contro 85.000) tolse a Lee la sostanziale vittoria di cui avrebbe avuto bisogno.

 

Il virginiano si rassegnò a ripiegare; ora il nuovo comandante unionista, il generale Burnside, succeduto a McClellan, tentò una mossa repentina contro la capitale confederata, Richmond. Lee fu pronto a sbarrargli la strada a Fredericksburg, sconfiggendolo completamente.

 

L'anno 1862 volse così alla fine. Nella primavera del 1863 il generale Hooker, che aveva a sua volta sostituito Burnside e che disponeva ora dì 138.000 uomini contro i 63.000 di Lee, decise di passare il fiume Rappahannock (dietro il quale si tenevano i sudisti) con circa 50.000 soldati per aggirare Lee sulla sinistra; gli altri 70.000 lo avrebbero impegnato frontalmente in modo da impedirgli di parare il colpo che gli giungeva su un fianco.

 

La concezione strategica era ottima: ma Hooker compromise il successo mandando lontano tutta la sua cavalleria in una inutile incursione intesa a « distrarre » Lee e riducendosi così senza forze esploranti.

 

Lee invece (servito ottimamente dai suoi cavalleggeri) non tardò a comprendere il piano dei nemico e decise di prevenirlo sul tempo. Lasciate poche forze a ritardare coloro che lo minacciavano di fronte (e che dovevano superare il considerevole ostacolo del fiume Rappahannock) marciò con la massa dei suoi effettivi contro l'ala aggirante, la bloccò presso ChancelIorsville, quindi - avendo ulteriormente diviso le sue forze - la attanagliò a sua volta con un contro-aggiramento effettuato dall'infaticabile Jackson, battendola, e ributtandola sulle posizioni di partenza. Fu la sua più smagliante vittoria: anche se pagata a carissimo prezzo con la morte di « Stonewall » Jackson, caduto sul campo.

 

A questo punto Lee prese la grave decisione di tentare ancora una volta l'invasione del Nord. Il condottiero si era reso conto che il tempo lavorava a favore del nemico; Chancellorsville era stata una grande vittoria, ma gli unionisti rimanevano in Virginia, protetti a loro volta dall' inattraversabile Rappahannock. Non rimaneva che minacciare i centri vitali del Settentrione per costringerli a battaglia e distruggerli. Era il tentativo di vincere la guerra in un colpo solo: troppo audace, forse.

 

 

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Rappresentazione pittorica della battaglia di Gettysburg

 

Ma Lee decise di arrischiare. All'inizio dell'estate del 1863, superate facilmente le difese nemiche nella Valle dello Shenandoah, le sue divisioni varcarono il Potomac penetrando in Maryland e in Pennsylvania e minacciando Washington, Baltimora e Filadelfia. Come Lee aveva previsto, l'Armata del Potomac tornò precipitosamente indietro: ma al suo comando il vinto Hooker era stato sostituito dal tenace Meade

 

Robert Edward Lee attese il nemico sulle pianure della Pennsylvania e là, nei giorni 1, 2 e 3 luglio 1863 giocò la carta suprema presso la cittadina chiamata Gettysburg.

 

Come Annibale a Zama, come Napoleone a Waterloo, volle, nel giorno decisivo, esser prudente e rinunciare ad arrischiate manovre puntando invece tutto sull'urto della massa. Fu l'errore che lo perdette: il primo giorno Lee tentò di spezzare l'ala destra del nemico; il secondo giorno l' ala sinistra; il terzo di sfondarne il centro. L'enorme potenza di fuoco delle nuove armi rigate respinse tutti gli attacchi e il condottiero sudista dovette rassegnarsi a èvacuare la Pennsylvania e a ripiegare in Virginia. La campagna intesa a vincere la guerra in una sola battaglia era fallita. Così Lee dovette prepararsi per la terribile primavera del 1864 in cui il nemico avrebbe attaccato di nuovo in Virginia e con forze preponderanti. A comandarle c'era, questa volta, l'abile e tenace Ulysses Grant con 182.000 uomini e 450 cannoni. Lee non poteva contrapporgli più di 110.000 soldati e 300 bocche da fuoco.

 

Il Sud era ormai stretto nella morsa del blocco; i nordisti avevano conquistato l'intero corso del Mississippi separando i meridionali dalle risorse alimentari del Texas. I soldati (e specialmente i cavalli) erano malnutriti e scarseggiavano sia di vestiario sia di medicinali; Lee era stanco e malato (aveva avuto un insulto cardiaco). Egli sapeva benissimo che non poteva più attaccare; poteva però stancare e logorare il nemico, guadagnando tempo.

 

Il 4 maggio 1864 Grant varcò il fiume Rapidan minacciando ancora una volta Richmond. Lee era andato elaborando una nuova tattica: in anticipo di mezzo secolo, aveva scoperta l'immensa utilità della trincea per fronteggiare il terribile fuoco delle armi rigate. Egli non intendeva già usare le trincee per una difensiva statica, ma farne il cardine della manovra per trattenere frontalmente il nemico con poche forze e cercar di gettargli la massa dei propri uomini sul fianco e alle spalle.

 

Così egli mosse ad attaccare Grant nella immensa foresta di Wilderness; coprendo il proprio fronte con un elaborato sistema di, trincee tentò ripetutamente di aggirare il nemico (a lui superiore di numero) sulle due ali. La lotta fu feroce: nel pieno della battaglia Lee, trovatosi inopinatamente in prima linea, fece il gesto di guidare personalmente i suoi uomini alla carica. Ma costoro, prendendo per le briglie il cavallo, lo fermarono gridando che sarebbero andati a morire purché il loro amato condottiero si fosse tenuto indietro, fuori dalla minaccia del fuoco.

 

Il generale Grant, vista l'impossibilità di espugnare i trinceramenti di Lee, con una mossa fulminea e audace puntò sul nodo stradale di Spotsylvania, occupando il quale avrebbe isolato Lee da Richmond che era non solo la capitale sudista, ma anche la sua base di rifornimenti. Ma Lee, semplicemente studiando la carta, aveva divinato la mossa dell'avversario: e quando le divisioni azzurre di Grant si avvicinarono a Spotsylvania, scopersero che Lee - battendole in velocità - aveva già occupato il crocevia e bloccava la strada per Richmond. Ora Grant dovette risolversi nuovamente ad attaccare le trincee. La battaglia di Spotsylvania

 

durò dodici giorni e fu sanguinosissima; infine Grant desistette e - con una nuova marcia di fianco - tentò per la terza e la quarta volta di interporsi tra Lee e la città di Richmond; ma il virginiano riuscì sempre a parare il colpo.

 

Tuttavia egli - nell'estate del 1864 - venne a trovarsi a ridosso di Richmond mentre Grant, varcato il fiume James, minacciava la capitale anche da sud investendo il nodo ferroviario e stradale di Petersburg, che copre Richmond a meridione.

 

Ora Lee non poteva più sottrarsi alla guerra di posizione; tuttavia, coprendo Richmond e Petersburg con oltre 60 chilometri di trincee, riuscì a economizzare le sue scarse forze in maniera da tenere a bada il nemico per un altro anno lanciando anche qualche fulminea offensiva.

 

Solo nella primavera del 1865, senza viveri, rimasto con non più di 40.000 uomini contro oltre 115.000, dovette arrendersi ad Appomattox nelle mani di Grant. A coloro che gli proponevano di continuare contro il Nord una guerriglia che era chiaramente senza speranza e avrebbe portato solo nuovi lutti, Lee rispose: « No, tornate alle vostre case, dimenticate tutti questi rancori e fate dei vostri figli dei leali cittadini degli Stati Uniti ».

 

Così, in soli tre anni, la sua stella era salita allo zenith; come Annibale, aveva difeso nella maniera più disinteressata e nobile una causa perduta ed era riuscito con forze inferiori a far tremare il nemico piegandolo in una serie di battaglie.

 

A differenza di Napoleone, pur conscio del valore della superiorità numerica, non era mai riuscito a battersi che. in condizioni di grave inferiorità. Tuttavia era riuscito a conquistare numerose smaglianti vittorie ed a compiere con successo quella che Moltke avrebbe definito la più difficile operazione per un generale: riunire eserciti separati sul campo di battaglia attanagliando e disfacendo gli avversari.

 

Oltre a un genio tattico e strategico di prim'ordine, Lee aveva dimostrato un occhio eccezionale per la posizione; una capacità suprema di trasformare dei comuni cittadini in veterani pronti a qualunque ardimento per lui e per la causa che egli rappresentava; lucidità nel decidere e coerenza nell'eseguire mai più eguagliate.

 

A ragione, il critico militare Cyril Falis lo considera l'unico generale contemporaneo che possa reclamare un posto accanto ad Annibale e a Napoleone.

 

Dopo la guerra era precocemente invecchiato, malato, stanco. Tuttavia accettò la carica di Rettore della Washington University, a Lexington, Virginia, dicendo: «lo che ho condotto la gioventù di questo Paese a morire, debbo ora espiare educandola alla pace ». Da quel momento attese con solerzia, con modestia, ai propri doveri, taciturno, schivo di ogni pubblicità. Tuttavia le ombre del passato e la tragedia del suo Paese gravavano su di lui; Lexington fu una vera Sant'Elena.

 

Sebbene avesse poco più che sessant'anni, la sua vita non era destinata a durare a lungo. Troppe e troppo dure erano state le prove cui si era trovato sottoposto. Il 28 settembre 1870 cadde malato: a un secolo di distanza, esaminando i referti medici, pare si possa concludere che egli era stato probabilmente colpito da una trombosi cerebrale. Per una settimana egli lottò con la morte; poi, la sera dell' 11 ottobre, cominciò l' agonia. Tutta la notte egli giacque, privo di conoscenza, vegliato dalla moglie e dai medici. All'alba del 12, sembrò scuotersi. Poche parole gli uscirono dalle labbra: « Togliete le tende! ». Indi tacque, nel silenzio della morte.

 

Tutto il Sud lo pianse; molti, che erano stati suoi nemici sul campo di battaglia, resero ora omaggio al grande vinto. Dopo una breve cerimonia funebre, il corpo del generale Lee fu inumato nella cappella dell'Università, tra le colline di quel mondo agrario che egli aveva difeso sino all'estremo. Più tardi sul suo sepolcro fu posta una grande statua giacente, simbolo dell'uomo appartenuto ad un'era ormai tramontata.

 

Ma prima di spegnersi egli, educato alla migliore tradizione del pensiero europeo, aveva lanciato al suo Sud, che giaceva prostrato, un ultimo messaggio, il quale, di là forse dalle sue intenzioni, si indirizzava idealmente a tutte le vittime, a tutti gli oppressi, a tutti coloro che disperavano della fortuna: « La mia esperienza degli uomini non mi ha portato a condannarli né a rifiutarmi di servirli, e neppure a disperare dei futuro, nonostante fallimenti di cui mi dolgo, o errori che ora vedo e ammetto... La verità è che il cammino della Provvidenza è così lento e i nostri desideri così impazienti, l'opera del progresso tanto grande e i nostri mezzi per aiutarlo così deboli, la vita dell'umanità tanto lunga e quella dell'individuo così breve, che noi sovente vediamo solo il riflusso dell'onda avanzante e restiamo scoraggiati. È la storia che ci insegna a sperare ».

 

 

 

 

 

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Ospite intruder

Consiglio a tutti Storia della Guerra Civile Americana, di Raimondo Luraghi (difficile che io segnali l'opera di uno storico italiano, ma questa è una delle poche che vale la pena leggere), per la quale ieri ho speso la folle somma di euro d-u-e su una bancarella. Scritta nell'italiano un po' pomposo degli anni Cinquanta (l'autore, ancora vivente, è del 1921, e l'opera è stata stampata la prima volta nel 1966, e, per la sua completezza, anche oltreoceano è ritenuta una delle opere monografiche migliori sull'argomento, ha richiesto almeno dieci-quindici anni per essere realizzata), tuttavia fornisce un quadro esauriente della guerra, e, soprattutto, delle cause che la scatenarono. Accanto alle anime buone che volevamo sinceramente la fine dell'istituto medioevale dello schiavismo, vi erano, a spingere per la sua abolizione, soprattutto gli industriali del nord, che avevano bisogno di manodopera per le loro industrie (opifici, nell'italiano di Luraghi). E sarebbe forse anche il caso di ricordare che la secessione degli Stati della Confederazione, non fu certo voluta dalle masse povre, anzi poverissime (a Shiloh Sherman si imbattè in una colonna di prigionieri sudisti che venivano scortati verso le retrovie; notando che erano scalzi si fermò per informarsi se gli fossero state sottratte le scarpe dopo la cattura. Si sentì rispondere che loro, di scarpe, non neavevano proprio), ma dai ricchi (ricchissimi) latifondisti che sull'economia del cotone e, in misura minore, del tabacco e della canna da zucchero (e sullo schiavismo) avevano costruito fortune immense.

 

Leggendo Luraghi fra l'altro emerge anche un altro dato che ritengo particolarmente interessante: le monarchie europee, dall'Inghilterra alla Germania ad altro, remarono sempre conto la repubblica stellata per la semplice ragione che quel Paese di uomini liberi, dove a ognuno era concesso di fare fortuna con una zappa o un fucile nello sterminato e spopolato ovest, non piaceva. Certo, quell'eccesso di libertà non piaceva nemmeno ai grandi industriali che erano costretti ad accordare condizioni di lavoro migliori dell'Europa per quella semplice ragione: l'operaio spremuto troppo, poteva decidere di trasformarsi in colono e diventare padrone della propria esistenza nell'Oregon, o nell'Wyoming o in California. Ecco quindi spiegata la necessità di avere comunque della manodopera da sfruttare nelle proprie fabbriche. Coi bianchi non si poteva, e allora abolirono la schiavitù medioevale del latifondo sudista per sostituirla con quella moderna della Rivoluzione Industriale.

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Grazie Galland.

 

Di oggi la notizia delle scuse formali del Senato degli Stati Uniti per l'ingiustizia della schiavitù.

 

(ANSA) - NEW YORK, 18 GIU - Il Senato degli Stati Uniti si e' scusato oggi con i neri americani per la schiavitu' e la segregazione razziale.Le scuse sono state presentate formalmente 'a nome del popolo degli Stati Uniti'. Nella risoluzione approvata all'unanimita', il Senato si scusa per la 'fondamentale ingiustizia, crudelta', brutalita' e disumanita' della schiavitu'. Il passaggio della risoluzione al Senato prelude a un voto della Camera.

 

Fonte: ANSA

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Leggendo Luraghi fra l'altro emerge anche un altro dato che ritengo particolarmente interessante: le monarchie europee, dall'Inghilterra alla Germania ad altro, remarono sempre conto la repubblica stellata per la semplice ragione che quel Paese di uomini liberi, dove a ognuno era concesso di fare fortuna con una zappa o un fucile nello sterminato e spopolato ovest, non piaceva.

In modalità diverse è vero ancor'oggi e le "democrazie" eurabiche guardano con sufficienza ma anche - aggiungo - con malcelata invidia ai successi dei cugini d'oltreoceano, attendendo l'occasione giusta per poter gongolare delle sconfitte e degli insuccessi della repubblica stellata; esse adducono una "superiorità culturale" che pur avendo, indubbiamente, partorito capolavori letterari, musicali, artistici e filosofici, ha anche parorito e nutrito (fatto che viene spessissimo e convenientemente "dimenticato") abominie ed aborti ideologico/morali quali (in ordine di vittime fatte) fascismo, nazionalsocialismo e socialismo reale/comunismo (minuscole usate all'uopo!).

 

Con tutti i loro difetti, gli Yankees e, soprattutto, moltissimi Rebels, sono venuti a versare sangue, sudore e lacrime, pagando spesso con la propria vita, al fine di dare una nuova possibilità di democrazia, di libertà e di ricerca della felicità a quegli stessi popoli che, dopo averla negata a se stessi, l'avevano negata al vicino, quindi, non fosse altro che per questo sacrificio da essi compiuto, mi sembra che la loro "ingenuità" e, presunta, inferiorità culturale possano essere facilmente trascurate se non addirittura sorvolate - non dimentichiamolo "freedom is never free!"

 

Scusate l'elegia, e fine o/t... :mellow:

 

Un paio di testi che mi sento di consigliare a coloro che parlano Inglese e che volessero approfondire l'argomento della Guerra di Secessione e della "Southern Culture" in genere, fuori degli schemi stereotipati dei mainstream-media che tendono a vedere il Sud come un covo di zoticoni, incestuosi, retrogradi, bigotti e guerrafondai in genere.

 

Della serie "Politically Incorrect Guide" (già questo, quindi, una garanzia di fedeltà alla scomoda realtà storica):

 

1. The Politically Incorrect Guide to THE SOUTH (and Why It Will Rise Again), di Clint Johnson, Regnery Publishing Inc. (l'ho letto e mi sento di raccomandarlo senza riserve)

2. The Politically Incorrect Guide to the CIVIL WAR, di H. W. Crocker III (uno dei miei prossimi acquisti)

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Complimenti a Galland , completa sottoscrizione a tutti gli interventi di Pete , aggiungo , come bibbliografia : "Marinai del Sud " di Raimondo luraghi (RCS) . Come filmografia : 1) " Gettysburg" , 2) " Gods and Generals " (temo solo in lingua inglese) , entrambi monumentali e minuziosi film - documento .

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In modalità diverse è vero ancor'oggi e le "democrazie" eurabiche guardano con sufficienza ma anche - aggiungo - con malcelata invidia ai successi dei cugini d'oltreoceano, attendendo l'occasione giusta per poter gongolare delle sconfitte e degli insuccessi della repubblica stellata; esse adducono una "superiorità culturale" che pur avendo, indubbiamente, partorito capolavori letterari, musicali, artistici e filosofici, ha anche parorito e nutrito (fatto che viene spessissimo e convenientemente "dimenticato") abominie ed aborti ideologico/morali quali (in ordine di vittime fatte) fascismo, nazionalsocialismo e socialismo reale/comunismo (minuscole usate all'uopo!).

 

Con tutti i loro difetti, gli Yankees e, soprattutto, moltissimi Rebels, sono venuti a versare sangue, sudore e lacrime, pagando spesso con la propria vita, al fine di dare una nuova possibilità di democrazia, di libertà e di ricerca della felicità a quegli stessi popoli che, dopo averla negata a se stessi, l'avevano negata al vicino, quindi, non fosse altro che per questo sacrificio da essi compiuto, mi sembra che la loro "ingenuità" e, presunta, inferiorità culturale possano essere facilmente trascurate se non addirittura sorvolate - non dimentichiamolo "freedom is never free!"

 

bhè, non dico certo che hai scritto cavolate, ma non ti pare di esgerare?

 

P.S. splendido galland, ne aspetto altri sulla guerra di seccessione!

Modificato da pandur
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bhè, non dico certo che hai scritto cavolate, ma non ti pare di esgerare?

 

P.S. splendido galland, ne aspetto altri sulla guerra di seccessione!

 

Esagerare in che senso, scusa?

 

L'attitudine delle democrazie eurabiche? Basta guardare le reazioni all'indomani dell' 11 settembre, della serie "terribile tragedia, ma...se la sono proprio cercata!" per non parlare dell'invasione dell'Afghanistan e, soprattutto dell'Irak dove non pareva vero a moltissimi che gli USA si cacciassero in un "nuovo Vietnam"!

 

O forse ho esagerato nel definire le tre ideologie - tutte strettamente "made in europe" - delle abomine ideologico/morali? Dai risultati non mi pare proprio, ed inoltre, mi pare una ragione più che adeguata a far scricchiolare la teoria della "superiorità culturale" eurabica.

 

Sul fatto che la libertà abbia un prezzo? Mi pare che la storia abbia abbondantemente dimostrato il contrario e che - ma forse è impressione solo mia - gli USA abbiano pagato una buona parte del prezzo della nostra in almeno due occasioni che sono sotto gli occhi di tutti - i due conflitti mondiali - in altre, forse un po' meno note e per noi lontane (Corea e Vietnam), ed in moltissime, oscure occasioni, durante la guerra fredda, dove qualsiasi atteggiamento di insufficiente fermezza o, ancora peggio, appeasement avrebbe potuto segnare l'inizio della fine delle nostre libertà!

 

E' anche vero però che, per molti, la fine delle libertà individuali e l'abbracciare l'ultima delle ideologie summenzionate rappresentava la realizzazione di un sogno; a me, personalmente, sembrava un incubo e ricordo ancora chiaramente l'aria di mancanza di libertà che si poteva respirare durante la visita ad uno dei "paradisi dei lavoratori" a noi più vicini (ed, in qualche modo "all'acqua di rose"), cioè la Jugoslavia degli anni 60-70...

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Esagerare in che senso, scusa?

 

nel senso che gli americani, o meglio una elitè di coloni ricchi del new england si sono appropriati di dottrine illuministiche europee e ci hanno fatto una rivoluzione per liberarsi del dominio economico inglese, e non per rendere tutti gli uomini uguali. quando poi hanno liberato gli schiavi si sono massacrati tra di loro. ciononostante l'haparteid è andato avanti ancora a lungo (ancora oggi girano incappucciati bianchi facendo raduni e comizi), e quelli che erano schiavi son diventati salariati, per non parlare degli immigrati. e hanno massacrato gli indiani per appropiarsi delle loro terre e, non contenti si sono dati al colonialismo come nella vecchia europa, nelle filippine e a cuba. e il loro colonialismo politico, poi è durato a lungo, sostenendo ad esempio dittatori sanguinari in tutto il terzo mondo e facendo un bel pò di guerre. ah, e fanno ancora uso della pena di morte.

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Ospite intruder
1)una elitè di coloni ricchi del new england si sono appropriati di dottrine illuministiche europee e ci hanno fatto una rivoluzione per liberarsi del dominio economico inglese, e

 

2) non per rendere tutti gli uomini uguali.

 

3) quando poi hanno liberato gli schiavi si sono massacrati tra di loro. ciononostante l'haparteid è andato avanti ancora a lungo (ancora oggi girano incappucciati bianchi facendo raduni e comizi), e quelli che erano schiavi son diventati salariati,

 

4) per non parlare degli immigrati.

 

5) e hanno massacrato gli indiani per appropiarsi delle loro terre e,

 

6) non contenti si sono dati al colonialismo come nella vecchia europa,

 

7) nelle filippine e a cuba. e il loro colonialismo politico, poi è durato a lungo,

 

8) sostenendo ad esempio dittatori sanguinari in tutto il terzo mondo e

 

9) facendo un bel pò di guerre.

 

10) ah, e fanno ancora uso della pena di morte.

 

 

1) Non è completamente vero: la rivolta fiscale (tale fu), partì dai ceti mercantili, dai bottegai per intenderci, e non certo dai ricchi piantatori del sud che, in molti casi, rimasero fedeli alla Corona (per chi non lo vuole sapere, la Rivoluzione americana fu, come tutte le rivoluzioni, anche una feroce guerra civile fra continentali e lealisti, se hai visto il film The Patriot, capirai di cosa parlo).

 

2) La Costituzione americana, dovuta a dei massoni (tutti i padri costituitendi americani lo erano), rispecchiava tuttavia le idee dell'illuminismo e fu la prima, credo a scrivere, che tutti gli uomini nascono uguali e hanno uguale diritto alla felicità.

 

3) La Guerra Civile (la Seconda Guerra Civile, in realtà) americana, ebbe cause ben più profonde e radicali del semplice abolizionismo. Erano due mondi diversi, due concezioni di vivere diverse, quella industriale e quella agraria, che vennero in conflitto. Ed è quello che ha scritto Galland al principio del topic e quello che ho ribadito io sotto.

 

4) Che c'entrano gli immigrati?

 

5) Come gli indiani avevano massacrato altri indiani per appropriarsi delle loro e così via.

 

6) Quando hanno acquisito colonie in Europa?

 

7) Cuba e le Filippine fu subito chiaro che sarebbero state guidate all'indipendenza, se non altro per la forte opposizione che ebbe in patria l'avventura (peraltro non prevista, sulla Guerra Ispano-Americana ci sarebbe molto da dibattere).

 

8) Sostenevano i loro interessi politico-economici, né, mi pare, con la caduta di quelle feroci dittature le cose siano migliorate in quei Paesi, in un senso o nell'altro.

 

9) Una delle quali impedì all'Europa di cadere in mano al kaiser. Un'altra ci liberò dai fascisti neri. E un'altra impedì cadessimo in mano a quelli rossi.

 

10) E allora? Io la vorrei anche in Italia, e: attento, se si andasse a votare il referendum costitutivo (non previsto, in Italia), avreste delle belle sorprese, voi abolizionisti, qui come altrove, nell'Unione.

Modificato da intruder
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Consiglio a tutti Storia della Guerra Civile Americana, di Raimondo Luraghi (difficile che io segnali l'opera di uno storico italiano, ma questa è una delle poche che vale la pena leggere), per la quale ieri ho speso la folle somma di euro d-u-e su una bancarella. Scritta nell'italiano un po' pomposo degli anni Cinquanta (l'autore, ancora vivente, è del 1921, e l'opera è stata stampata la prima volta nel 1966, e, per la sua completezza, anche oltreoceano è ritenuta una delle opere monografiche migliori sull'argomento, ha richiesto almeno dieci-quindici anni per essere realizzata), tuttavia fornisce un quadro esauriente della guerra, e, soprattutto, delle cause che la scatenarono. Accanto alle anime buone che volevamo sinceramente la fine dell'istituto medioevale dello schiavismo, vi erano, a spingere per la sua abolizione, soprattutto gli industriali del nord, che avevano bisogno di manodopera per le loro industrie (opifici, nell'italiano di Luraghi). E sarebbe forse anche il caso di ricordare che la secessione degli Stati della Confederazione, non fu certo voluta dalle masse povre, anzi poverissime (a Shiloh Sherman si imbattè in una colonna di prigionieri sudisti che venivano scortati verso le retrovie; notando che erano scalzi si fermò per informarsi se gli fossero state sottratte le scarpe dopo la cattura. Si sentì rispondere che loro, di scarpe, non neavevano proprio), ma dai ricchi (ricchissimi) latifondisti che sull'economia del cotone e, in misura minore, del tabacco e della canna da zucchero (e sullo schiavismo) avevano costruito fortune immense.

 

Leggendo Luraghi fra l'altro emerge anche un altro dato che ritengo particolarmente interessante: le monarchie europee, dall'Inghilterra alla Germania ad altro, remarono sempre conto la repubblica stellata per la semplice ragione che quel Paese di uomini liberi, dove a ognuno era concesso di fare fortuna con una zappa o un fucile nello sterminato e spopolato ovest, non piaceva. Certo, quell'eccesso di libertà non piaceva nemmeno ai grandi industriali che erano costretti ad accordare condizioni di lavoro migliori dell'Europa per quella semplice ragione: l'operaio spremuto troppo, poteva decidere di trasformarsi in colono e diventare padrone della propria esistenza nell'Oregon, o nell'Wyoming o in California. Ecco quindi spiegata la necessità di avere comunque della manodopera da sfruttare nelle proprie fabbriche. Coi bianchi non si poteva, e allora abolirono la schiavitù medioevale del latifondo sudista per sostituirla con quella moderna della Rivoluzione Industriale.

Vorrei semplicemente segnalare che, dopo molti anni, la Rizzoli ha finalmente ristampato quest'ottima opera, oggi disponibile in una nuova veste grafica nella collana Bur al costo di 15 euro.

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1) Non è completamente vero: la rivolta fiscale (tale fu), partì dai ceti mercantili, dai bottegai per intenderci, e non certo dai ricchi piantatori del sud che, in molti casi, rimasero fedeli alla Corona (per chi non lo vuole sapere, la Rivoluzione americana fu, come tutte le rivoluzioni, anche una feroce guerra civile fra continentali e lealisti, se hai visto il film The Patriot, capirai di cosa parlo).

 

2) La Costituzione americana, dovuta a dei massoni (tutti i padri costituitendi americani lo erano), rispecchiava tuttavia le idee dell'illuminismo e fu la prima, credo a scrivere, che tutti gli uomini nascono uguali e hanno uguale diritto alla felicità.

 

3) La Guerra Civile (la Seconda Guerra Civile, in realtà) americana, ebbe cause ben più profonde e radicali del semplice abolizionismo. Erano due mondi diversi, due concezioni di vivere diverse, quella industriale e quella agraria, che vennero in conflitto. Ed è quello che ha scritto Galland al principio del topic e quello che ho ribadito io sotto.

 

4) Che c'entrano gli immigrati?

 

5) Come gli indiani avevano massacrato altri indiani per appropriarsi delle loro e così via.

 

6) Quando hanno acquisito colonie in Europa?

 

7) Cuba e le Filippine fu subito chiaro che sarebbero state guidate all'indipendenza, se non altro per la forte opposizione che ebbe in patria l'avventura (peraltro non prevista, sulla Guerra Ispano-Americana ci sarebbe molto da dibattere).

 

8) Sostenevano i loro interessi politico-economici, né, mi pare, con la caduta di quelle feroci dittature le cose siano migliorate in quei Paesi, in un senso o nell'altro.

 

9) Una delle quali impedì all'Europa di cadere in mano al kaiser. Un'altra ci liberò dai fascisti neri. E un'altra impedì cadessimo in mano a quelli rossi.

 

10) E allora? Io la vorrei anche in Italia, e: attento, se si andasse a votare il referendum costitutivo (non previsto, in Italia), avreste delle belle sorprese, voi abolizionisti, qui come altrove, nell'Unione.

 

Straquoto!

 

Grazie Intruder,

 

non avrei potuto dirlo in modo migliore! :adorazione:

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Premesso che non sono un esperto, ma non possiamo notare la dIFFERENZA in quanto ad armamenti fra le armate che combattevano in America nel 1865 e l'esercito asburgico ed italiano impegnati in Veneto ne 1866! Sembra incredibile, ma la "Guerra di Secessione" non risultò studiata a dovere nelle Accademie Militari Europee fino a quando non se ne vide l'equivalente nel 1915...

Però quanto accaduto fa pensare che se una Guerra Civile è capitata una volta, potrebbe- con le opportune condizioni- capitare ancora, anche se negli USa non se ne parla tutti i giorni qualcuno crede che non sia una eventualità così remota (per non parlare di cert professori di Pietrooburgo che già sparano le date esatte...)

Modificato da Simone
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non mi dilungherò in OT. ho scritto quelle cose solo per "controbilanciare" l'apologia di pete, poichè nell'america non c'è niente di mistico o perfetto.

 

noterai, intruder che non ho espresso opinioni personali, ma fatti. volutamente espressi in maniera negativa, perchè si può pensare bene o male di ciò che hanno fatto (e fanno) gli americani. personalmente ho un'alta opinione degli USA per svariati motivi.

 

Premesso che non sono un esperto, ma non possiamo notare la dIFFERENZA in quanto ad armamenti fra le armate che combattevano in America nel 1865 e l'esercito asburgico ed italiano impegnati in Veneto ne 1866! Sembra incredibile, ma la "Guerra di Secessione" non risultò studiata a dovere nelle Accademie Militari Europee fino a quando non se ne vide l'equivalente nel 1915...

 

straquoto. per tutta la seconda metà dell'800 l'europa rimase legata a una vecchia concezione di guerra campale, anche se quella moderna aveva già preteso il suo alto tributo di sangue in america. e a causa di ciò lo pretenderà in europa, dove tra l'altro anche gli americani si presentarono largamente impreparati (almeno in confronto ai veterani inglesi e francesi). tutto perchè qualche vecchio babbione gallonato diceva che una carica di lancieri è decisiva, mentre una mitragliatrice è superflua.

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noterai, intruder che non ho espresso opinioni personali, ma fatti

come la colonizzazione europea da parte dei perfidi imperialisti??? ossia quella ""teoria"" a cui credi tu, i comunisti ed i nazi-fascisti delusi dall'aver preso mazzate di morte nella seconda guerra mondiale???

 

BUM!!!!!

Modificato da vorthex
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non mi dilungherò in OT. ho scritto quelle cose solo per "controbilanciare" l'apologia di pete, poichè nell'america non c'è niente di mistico o perfetto.

 

Non mi pare proprio di aver detto che gli USA sono perfetti! Tra l'altro, avendoci vissuto 4 anni e mezzo, penso di poter parlare con una certa cognizione di causa...io ho semplicemente fatto notare come un atteggiamento verso gli USA da parte dell'europa non sia, nel tempo, cambiato, indicando alcuine ragioni per cui tale atteggiamento è, a mio parere, poco consono.

E questa sarebbe apologia?

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Pandur, come avrai ben notato utenti preparati e corretti discutono in modo molto pacato, utilizzando informazioni e tesi sostenute da criteri storici, non lasciandosi trasportare da sentimenti personali, cosa che non posso dire altrettanto di te, quindi se proprio ci tieni a confrontarti liberamente, sei pregato di avallare le tue opinioni con fonti o con citazioni di testi validi, altrimenti corri il rischio di non esser preso sul serio.....

 

Buon proseguimento!

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come la colonizzazione europea da parte dei perfidi imperialisti???

 

avete frainteso la mia frase: intendevo dire che gli americani dopo la guerra civile diventarono un paese colonialista, così come lo erano le potenze europee. non certo che l'america ha colonizzato l'europa.

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