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17.000 chilometri per la salvezza


Ospite galland

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Ecco un racconto che sembra uscito dalla penna di Salgari, una storia che fa venire i brividi e le lacrime agli occhi. Un'avventura che non deve essere dimenticata, nonostante che, dalla data dell'articolo, siano passati quasi altri trentacinque anni.

 

 

TRENTACINQUE ANNI FA L'ODISSEA DI UNA NAVE ITALIANA

 

L'AVVENTUROSO RAID DELLA "ERITREA"

 

Un capitolo sconosciuto della guerra in Africa. Nel 1941 una nostra unità si sottrasse alla cattura degli inglesi con un raid leggendario: 17.000 chilometri, 32 giorni di navigazione da Massaua a Kobe attraverso tre mari.

 

 

Eritrea, febbraio 1941. Investita dalle forze britanniche, la nostra colonia appare condannata. Tuttavia, delle nostre navi bloccate in Mar Rosso, qualcuna potrebbe salvarsi. Viene così concepito un piano che riguarda, assieme ad altre poche unità, la nave coloniale Eritrea. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, e, oltre a sei mitragliere, un armamento costituito da due coppie di cannoni da 120/50; in cifra tonda, duecento uomini d'equipaggio. Il piano può essere riassunto così: l'Eritrea dovrà evadere dal Mar Rosso, attraversare l'intero Oceano Indiano, sgusciare fra gli stretti della Sonda, solcare un ampio tratto di Pacifico e trovar rifugio nel neutrale ma remotissimo Giappone!

 

La storia dell'Eritrea è stata ricostruita sui luoghi, a Timor, a Massaua, in Italia, e sulla base di documenti e di testimonianze di cinque protagonisti dell'impresa. Essi sono: il contrammiraglio Giuseppe Bruzzone, spezzino, allora tenente di vascello e direttore di tiro; il professor Ignazio Munèr, veneziano, direttore degli Ospedali Riuniti di Venezia, allora ufficiale medico di bordo; l'ingegner Luigi Simeoni, anconetano, specialista in costruzioni navali, allora capitano del Genio Navale e direttore di macchina; il contrammiraglio Mario Zampini, romano, allora capitano delle Armi Navali. Quinto protagonista, un eritreo, rintracciato ad Archico, presso Massaua; Salem Mohammed Shun Omar, scaricatore di porto, allora ascari semplice. Il comandante della nave, capitano di vascello Marino lannucci, ciociaro, è scomparso già da tempo, ma dalla viva voce dei suoi collaboratori esce ugualmente l'immagine d'una nave corsara che meriterebbe la celebrità.

 

Sorvolo sui complessi preparativi di partenza: basti dire che macchine rimaste inerti per otto mesi avrebbero dovuto funzionare impeccabilmente per quasi mezzo giro del mondo, e che per disporre dell'autonomia sufficiente si dovettero riempire di nafta persino dei contenitori riservati all'acqua e seppellire sotto fusti di nafta l'intera coperta. « Intanto, gli inglesi bombardavano Massaua quasi ininterrottamente », ricorda l'ammiraglio Bruzzone. « Come tutte le nostre unità, anche l'Eritrea rispondeva al fuoco, e se la coperta, col suo carburante, fosse stata colpita, addio evasione, addio nave ». Fortunatamente l'unità resta illesa, e il 18 febbraio 1941 lascia Massaua. Sia la prima notte sia la giornata successiva trascorrono senza incidenti. La navigazione in Mar Rosso costituisce tuttavia una delle peggiori incognite dell'intero viaggio. Il Mar Rosso è una via d'acqua sottile, che all'estremità meridionale si riduce a un budello, lo Stretto di Perim. L'esiguità del passaggio marino è aggravata da secche madreporiche, capaci, al minimo urto, di tagliar la pancia alle navi. La costa occidentale dello stretto è ancora in mano italiana, ma Perim, di fatto, è dominato dagli inglesi. La sorveglianza aeronavale è continua e si appoggia, fra l'altro, alla vicina base di Aden. Il capitano Simeoni è riuscito a impedir che dal fumaiolo esca qualsiasi favilla, ma non potrà mai evitare che i « baffi » e la scia lasciati dalla nave siano visibilissimi nel buio per effetto della fosforescenza tropicale. Affrontare Perim pare sia impresa disperata.

 

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LUIGI SIMEONI, ufficiale di macchina dell'» Eritrea », mostra la rotta seguita dalla nave nel viaggio dall'Africa al Giappone.

 

Il comandante lannucci ha però una carta di riserva: è specializzato in idrografia; per lui, i fondali di Perim hanno ben pochi segreti. Così, coadiuvato da un eccellente ufficiale di rotta, il tenente di vascello Camillo Villani, navigherà il più vicino possibile alla costa ancora italiana. Sulle secche? Certo; o, per meglio dire, tra le fessure che in mezzo a secche e scogli rendono possibile l' impossibile, là dove gli inglesi non dovrebbero arrischiarsi. Dell'equipaggio fanno parte anche una ventina di eritrei, perché ritenuti capaci di veder nel buio. Dovrebbero fungere, insomma, da radar. Agli eritrei viene continuamente chiesto: «Vedi? Vedi qualcosa? Vedi scogli? ».

 

I « radar » eritrei rispondono sempre: « Non vedere niente », anche quando gli italiani scorgono benissimo la costa dancala. La fiducia, perciò, si alterna al dubbio, all'ansia. Tutti a bordo sanno che la perizia di lannucci e di Villani può scongiurare solo in parte i pericoli di quel tratto di mare. Ma, alle prime luci dell'alba, il miracolo nautico è compiuto: lo stretto di Perim è superato da un pezzo. L'Eritrea naviga ormai nel Golfo di Aden, s' avvia verso l'Oceano Indiano. « Allora inviammo a "Supermarina" » sottolinea l'ammiraglio Zampini « un messaggio radio, composto d'una sola lettera, la greca "beta". Equivaleva a "can do" cioè a "si può fare". Sicuro, il nostro successo dimostrava che Perim non era affatto inviolabile ».

 

« Vedi niente? ». « Non vedere niente ». E non vedevano, gli ascari, perché, una volta lasciata Massaua, erano rimasti spaesati, disorientati, demoralizzati, senza più la loro terra da difendere. « Ma una certa nave » dico a Salem Mohammed, « avreste ben dovuto vederla. Per non averla vista, avete sfiorato la catastrofe ». « Mare grande, troppo grande », è la risposta. Accade così che, in pieno giorno, già in Oceano Indiano, ma ancora nel raggio d'azione delle basi nemiche di Aden e dell'isola di Socotra, un avvistamento importantissimo abbia luogo in ritardo. Si tratta di un grande incrociatore ausiliario britannico, assai superiore all'Eritrea in armamento e velocità.

 

« Tutti ai posti di combattimento! » Con i suoi quattro 120/50, Bruzzone è pronto a far fuoco, mentre lannucci manovra. Contromanovra anche la nave nemica. Sembra, in un primo tempo, che l'incrociatore voglia sfruttar la sua superiorità per attaccar l' Eritrea. Rapidamente, la distanza fra le due unità si riduce a 15.000 metri. Poi, sorprendentemente, il nemico rinuncia all'azione. Rinuncia, forse, perché ha sopravvalutato le possibilità dell'Eritrea e non vuol grane. La distanza comincia ad aumentare, finché la nave britannica svanisce. Per il momento l'Eritrea è salvo. Ma, l'incontro ha creato una serie di problemi. Anzitutto da quel momento saranno non gli eritrei ma gli ufficiali italiani a montar la guardia in coffa, in cima all'albero più alto. Inoltre, poiché la nave nemica ha certamente lanciato il segnale di scoperta, l'Eritrea deve attendersi attacchi sia dal mare sia dal cielo. Infine, lannucci ora dubita dell'opportunità di proseguire alla volta del Giappone, neutrale, ma remoto, e si chiede se non convenga dirigersi verso la base francese di Diego Suarez, in Madagascar, dove si potrebbe giungere in pochi giorni.

 

Il nome di Diego Suarez, causò una certa agitazione. Le colonie francesi significavano l'internamento, e a bordo non ne volevano sapere. Qualcuno disse che, se si andava in Giappone, garantiva di tutto, mentre nel caso inverso non garantiva di nulla, nemmeno di se medesimo. Si continuò verso il Giappone. Ma il 22 febbraio riserva all'Eritrea un altro violento brivido. Al calar della notte viene avvistata un'altra unità, piccola, velocissima, certamente da guerra. Con ogni probabilità si tratta d'una delle vedette che sorvegliano, a distanza, le acque di Aden. L'Eritrea manovra fulmineamente, per attaccarla di sorpresa e sbarazzarsene subito; ma la vedetta britannica, nonostante il buio, reagisce con pari prontezza. La nave italiana allora cerca di sganciarsi stendendo una cortina fumogena. La manovra si svolge in modo impeccabile; eppure, al diradarsi dei fumi, i binocoli rivelano, proprio di poppa, una sagoma scura. La vedetta nemica è dunque riuscita a seguir l'Eritrea nonostante la fitta e prolungata cortina?! Comunque sia, occorre rompere il contatto; si ricorre, stavolta, a una serie di rapide accostate, ma la sagoma scura rimane inesorabilmente nel campo dei binocoli...

 

« A questo punto, a causa di quella sagoma scura che non cambiava mai posizione ebbi un dubbio » dice l'ingegner Simeoni. « Strappai il cavo d'una piccola antenna radio, col relativo isolatore, poi chiesi in plancia se la sagoma si scorgesse ancora. No, non più. Dunque, la manovra con i fumogeni aveva avuto successo ». Anche il più grande uomo di mare, specie in guerra e di notte, può prendere un abbaglio. La sagoma era l'isolatore...

 

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L'EQUIPAGGIO intorno al fusto che verrà lanciato (sotto) in Pacifico per « firmare » il passaggio della nave nelle acque nemiche.

 

I due incontri con navi nemiche, già di per sé gravi, sarebbero stati fatali all'Eritrea se ad Aden o a Socotra si fossero presi i provvedimenti adeguati. Invece, qualche ingranaggio dell' organizzazione britannica non funzionò. « Sicuro » osserva Zampini, « gli inglesi sono organizzati e in mare ci sanno fare, ma quella volta si dimostrarono lenti nel valutare, nell'agire ».

 

Nel frattempo, la distanza da Aden, da Socotra e anche dalla costa del Kenya era ormai salita a valori oceanici, per cui l'Eritrea cominciava a godere d'un certo vantaggio.

 

Il morale era altissimo. Un entusiasmo indicibile animava l'equipaggiò. Le incognite avvenire sembravano non preoccupar nessuno. La nave, concepita anche per fini di rappresentanza, svelava doti fino ad allora sottovalutate: era comoda, teneva splendidamente il mare, e aveva una capace ed efficiente cella frigorifera. Il vitto era buono e copioso; mancavano le verdure, ma, grazie alla cella, abbondava la carne; la pastasciutta veniva condita con pomodoro fresco, e un abile fornaio siciliano confezionava un pane squisito. « Solo le patate disidratate » dice Zampini, « di cui eravamo provvisti in abbondanza, si rivelarono incommestibili, un'autentica schifezza ». L'ufficiale commissario, il capitano Mario De Martino, caprese, spirito allegro, sostiene il morale con un vasto repertorio di barzellette; le sole perplessità sono causate dal suo bagaglio, zeppo di libri, dischi, grammatiche. « Quanto a me » ricorda il dottor Munèr « potevo solamente constatare.., che nessuno aveva bisogno di cure ».

 

Il passaggio dell'equatore viene festeggiato con la cerimonia tradizionale. Qualcuno si traveste da Nettuno, e volano i consueti buglioli d'acqua di mare. Si lascia annaffiare persino il comandante lannucci, di solito piuttosto austero. Guizzi di delfini e avvistamenti di tartarughe vivificano il viaggio, mentre pesci volanti finiscono a bordo. Sullo sfondo di meravigliosi tramonti gli ascari recitano le preghiere musulmane. « Avevamo un capo spirituale » dice Salem Omar « che, dopo aver rivolto una supplica speciale ad Allah, ci rassicurò sul nostro avvenire. Sarebbe finita bene per tutti noi, se avessimo avuto il cuore pulito ». Gli italiani, notarono che gli ascari pregavano, come d'obbligo, prosternandosi in direzione della Mecca, così dimostrando di avere, se non buona vista, almeno il senso dell'orientamento. Ogni giorno, a loro volta, gli italiani recitano, in un'atmosfera profondamente suggestiva, la preghiera del marinaio.

 

Dopo alcuni giorni di rotta sud-est, si prosegue con rotta est: l'Eritrea naviga verso le Indie Olandesi. Avanza lentamente, ad appena 10 nodi, per limitare il consumo; e si lascia dietro un atollo delle Isole Chagos, le Isole Cocos, l'isola Christmas. Gli ufficiali di guardia in coffa, esposti al sole feroce, a piogge torrenziali e alle oscillazioni, enormi a quella altezza, han vita dura ma svolgono un compito essenziale. Un giorno scorgono due piccole punte emergere dalla linea dell'orizzonte; l'avvistamento tempestivo permette all'Eritrea di manovrare e di continuare indisturbata la navigazione.

 

L'11 marzo, dinanzi all'Eritrea, che ha ormai attraversato tutto l'Oceano Indiano, s'erge lo sbarramento pressoché ininterrotto delle Isole della Sonda. passaggi che si aprono sono sottili, talvolta mal navigabili, di facile controllo. Quasi tutte le isole, appartengono all'Olanda. Fra Italia e Olanda non esiste uno stato giuridico di guerra, però gli italiani sono pur sempre gli alleati dei tedeschi che hanno invaso la loro patria. Inoltre, poco lontano, dalla base australiana di Darwin operano i britannici. L'Eritrea, insomma, naviga fra due fuochi. lannucci non si fa illusioni. Conosce l'efficienza degli olandesi; sa che per intercettare il nemico, basta che si appostino all'ingresso degli stretti principali. Quindi decide, come già a Perim, di puntar sulle vie più difficili. Inoltre, poiché l'unica eccezione alla sovranità olandese sulle isole della Sonda è costituita dalla metà portoghese di Timor, camufferà l'Eritrea in modo da farlo somigliare a una nave portoghese, al Pedro Nunes. Veramente, il Pedro Nunes è tutt'altra cosa: ma bisogna tentare. Ore 16.30 dell'11 marzo: un idrovolante quadrimotore olandese sorvola l'Eritrea, da bassissima quota. La nave italiana, che sino allora ha navigato senza bandiera, alza subito quella portoghese. L'equipaggio si sbraccia in vistosi saluti; di fatto, è pronto al combattimento. I piloti olandesi rispondono al saluto, ma fotografano l'Eritrea da ogni lato. Poi, il ricognitore se ne va. Ma ciò non significa nulla: il peggio può ancora venire. lannucci ora fa rotta verso un sottilissimo stretto, quello di Alor, oltre il quale s'apre il Mediterraneo delle Molucche.

 

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IL CAPITANO delle Armi Navali Mario Zampini, ora contrammiraglio, fu tra i protagonisti della fuga dell'« Eritrea ».

 

A questo punto la vicenda dell'Eritrea, che qui sconfina nel romanzo, ci impone un salto in avanti di due anni. Autunno 1943. lI comandante lannucci si trova a Colombo, nell'isola di Ceylon. Conversa con l'ammiraglio olandese Helfrich. Gli racconta dell'Eritrea, del camuffamento, dell'idrovolante ricognitore, dello Stretto di Alor; l'ammiraglio olandese gli risponde, da marinaio a marinaio, con una stretta di mano. E narra a sua volta.

 

Nel marzo 1941 gli olandesi bloccavano con ingenti forze aeronavali e con sommergibili gli stretti più importanti della Sonda. Tornato alla base, il ricognitore che aveva sorvolato l'Eritrea fa un dettagliato rapporto, ed esibisce le fotografie. L'Eritrea venne identificato non già nel Pedro Nunes ma nel suo gemello Joào de Lisboa, atteso, proprio in quei giorni, a Timor.

 

Nel possedimento portoghese abbiamo incontrato una missionaria canossiana, suor Marina Martignoni, varesina, che vive a Timor dal 1940. Quando le parliamo dell'Eritrea e della nave lusitana, mi interrompe subito: « Il Joào de Lisboa, certo, me lo ricordo bene, ma era piccolino, proprio piscinin piscinin ».

 

Tanto piscinin che l'osservatore dell'idro, che sapeva il fatto suo e ben conosceva i dati delle due navi portoghesi (69 metri di lunghezza e sole 1107 tonnellate di dislocamento) non era convinto delle conclusioni cui era giunto il comando. Nell'incertezza, il comando invia un telegramma al console olandese a Timor, perché comunichi d'urgenza se davvero il Joào de Lisboa si trova in quelle acque.

 

Il telegramma parte di sabato. A Dili, sulla costa, dove il console risiede, fa molto caldo. Quel giorno, il console lascia Dili per un fine-settimana sulle fresche colline. Torna nel capoluogo soltanto il lunedì, e risponde che il Joào de Lisboa non s'è ancor visto. Allora gli olandesi scatenano la caccia, ma senza sapere dove esattamente dirigerla. Frattanto l'Eritrea, superato di notte l'arduo Stretto di Alor, navigando « così vicino a terra » ricorda il professor Munèr, « che sulla riva scorgevamo distintamente i fuochi dei pescatori », aveva approfittato di quei giorni per solcare i mari delle Molucche e giungere in prossimità del Pacifico.

 

Sino a quel momento, i fusti di nafta vuoti venivano gettati a mare squarciati, ad evitare che, galleggiando, tradissero la loro nave. Ma ora, giunti nel Pacifico, i marinai italiani lanciano in mare, su idea di Simeoni, un fusto integro, con su dipinti i colori italiani e il profilo dell'Eritrea a ironico ringraziamento per chi aveva lasciato aperte le porte di casa.

 

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FOTO DI GRUPPO a bordo dell'« Eritrea » a ricordo della felice conclusione di una delle tante pericolose « tappe » del lungo viaggio: il passaggio degli stretti della Sonda.

 

Il lancio del fusto galleggiante significa che, ormai, i rischi sono diminuiti. L'Eritrea ora può persino sparare: « Contro chi? Contro nessuno » dice l'ammiraglio Bruzzone. « Sparai, soltanto perché i miei quattro cannoni erano rimasti col colpo in canna sin dall'incontro con l'incrociatore ausiliario, ossia dal 22 febbraio, e non potevano essere scaricati se non facendo fuoco. Ma, mentre in altri mari le cannonate avrebbero potute esser udite dal nemico, in Pacifico quell'eventualità era esclusa ». Fuoco, dunque!

 

Dopo altri seimila chilometri di navigazione a un giorno dal porto nipponico di Kobe, d'un tratto l'Eritrea avvista un idrovolante, di nazionalità ignota, certo un ricognitore militare, forse lanciato dalla catapulta di un incrociatore. L'aereo svanisce, lasciando dietro di sé una ridda di ipotesi preoccupate. L'Eritrea dovrà forse cedere a un destino avverso ad appena ventiquattr'ore dalla mèta?

 

« Sarebbe un'ingiustizia » dice qualcuno, « una vera ingiustizia ». Simeoni, veramente, fa notare che il mare grosso non consentirebbe all'idro di ammarare, che quindi l'apparecchio dovrebbe rientrare non già presso una nave ma a una base, e che infine, per un motivo di autonomia, questa base dovrebbe necessariamente trovarsi in Giappone; però il ragionamento di Simeoni, benché logico, appartiene al novero delle congetture.

 

Ed ecco il fantasma prender corpo. Sull'orizzonte si profila un incrociatore, che punta subito sull'Eritrea; man mano che avanza, si rivela per una nave moderna, armatissima. L'Eritrea si prepara a vender cara la pelle. L'incrociatore accosta, si lascia scorger di profilo, ostenta, al picco, una bandiera... E la bandiera di guerra del Sol Levante!

 

 

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LA NAVE COLONIALE « Eritrea ». Sulla foto, le firme degli ufficiali dell'unità.

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Mohammed Shun Omar, imbarcato insieme ad altri eritrei per fungere da « radar » durante la navigazione notturna.

 

L'Eritrea risponde alzando la bandiera italiana più grande, mentre tutti urlano il loro irrefrenabile entusiasmo. L'indomani, alle ore 9, la nave italiana giunge nell'avamporto di Kobe. Salgono a bordo due funzionari nipponici. Li riceve, molto sicuro di sé, il capitano commissario De Martino, il quale si rivolge ai due funzionari … in giapponese. Con i libri, le grammatiche e i dischi, durante la traversata, aveva studiato, una lingua! Stupiti e compiaciuti, gli ospiti chiesero: « Potete offrirci un po' di caffè? » E con le tazze di caffè subito servite, l'Eritrea sigillò la fine dei suo leggendario viaggio. Aveva navigato ininterrottamente per trentadue giorni, superando una distanza complessiva di 17.334 chilometri.

 

Ma la storia dell'Eritrea non finisce qui. Mentre il Giappone entra nel confiitto, essa continua, per altri due anni e mezzo, fra Cina, Indie Olandesi, Singapore e Malesia, nell'area delle conquiste nipponiche. L'8 settembre 1943, dimostrando un notevole fiuto, il comandante lannucci riesce a sganciarsi dai giapponesi e a trasferire la nave a Ceylon. Ma, il fiuto non esclude la dignità, e quando gli inglesi pretendono che l'Eritrea venga impiegato contro Il Giappone, Paese coi quale l'Italia non si trova in stato di guerra, lannucci rifiuta, e, per ciò, perde il comando. Poi, nel 1944, l'Eritrea percorre nuovamente il Mar Rosso, tocca Massaua e vi sbarca l'equipaggio eritreo, fra cui Salem Mohammed. « A Singapore » dice Zampini, « avevamo imbarcato una scimmia, la chiamavamo la Checca; ma beveva troppo whisky, divenne cieca e dovemmo eliminarla ». Dopo Massaua, dopo Suez, ecco finalmente, a cinque anni dalla partenza, Taranto. « Nel 1944, Taranto era il caos » ricorda Zampini. « Non ci chiesero mica un po' di caffè. Tenevamo con noi un gatto siamese, superbo, monumentale. Dopo un giorno, era già sparito ».

 

 

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L'« ERITREA » in bacino di carenaggio. L'8 settembre 1943, al momento dell'armistizio, riuscì a sganciarsi

dai giapponesi e a portarsi à Ceylon. Rientrò in patria nel 1944, attraverso il canale di Suez.

 

Luigi Simeoni, invece, visse una vicenda differente, tornando in Italia solo nel 1946: e non via Suez, ma Gibilterra. Ha compiuto ricognizioni segrete in Cambogia e in Siam, a Shanghai è stato, ignaro, a cena con la famosa spia sovietica Richard Sorge. Dopo di aver progettato assieme a Zampini il rientro in Europa, dall'Estremo Oriente, attraverso lo Stretto di Bering e la rotta siberiana, poi aveva cambiato idea e, ancora in piena guerra, s'era imbarcato a Singapore su una nave germanica, diretta, via Capo Horn, in Europa. Tutto bene in Pacifico, tutto bene sino a metà Atlantico, poi l'incontro con due unità americane, l'affondamento, la prigionia negli Stati Uniti. Allo sbarco a Napoli, Simeoni trova ad attenderlo quattro suoi sottufficiali. « Come avete saputo del mio arrivo? ». « Non lo sapevamo. Ma noi l'abbiamo attesa a tutte le navi che portavano prigionieri ». Questo, lo spirito della gente dell'Eritrea.

 

Strano a dirsi, l'ex nave coloniale italiana, adibita a scopi occasionali di trasporto, ritornò, a guerra finita, proprio in Estremo Oriente. In un ospedale camilliano di Formosa, il missionario Daniele Giordàn, vicentino, mi parlò appunto del suo viaggio a bordo dell'Eritrea, dall'Italia sino a Hong Kong, nel 1946: ma, direi, fu un viaggio durante il quale i trascorsi bellici della nave sfumavano ormai nel vago, quasi nell'irreale.

 

Come morì l'Eritrea? Venne ceduto, a titolo di riparazione, alla Francia, la quale lo adibì ad esperimenti balistici, cannoneggiandolo e affondandolo, in Pacifico.

 

 

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Solo una piccola precisazione, a questa bellissima storia, per dire che l'Eritrea ebbe, in realta', una bella carriera anche con la Marine Nationale.

 

venne ribattezzata Francis Garnier in onore di un esploratore ed ufficiale della Marina Militare francese nato nel 1839, che nel 1860 partecipò alla conquista della Cocincina e fu a capo di una spedizione scientifica ed esplorativa lungo il corso superiore del fiume Mekong e che, dopo aver preso alla guerra franco-prussiana, morì ad Hanoi nel 1873 nel corso di un’azione contro le bande musulmane che assalivano la città.

 

Il Francis Garnier venne classificato Aviso ed ebbe assegnato il distintivo ottico F 730 partecipando alla guerra d'Indocina con compiti di scorta. Sottoposto a lavori di ammodernamento dal 1951 al 1953, con la fine della dominazione francese in Indocina prese parte dal 1954 alle operazione di evacuazione dei cittadini francesi dal Tonchino lasciando Saigon nel 1955. Dal 1956 al 1957 svolse dei lavori in un cantiere del Giappone prima di essere destinato ad operare nelle colonie francesi del Pacifico. Dal 1959 al 1960 venne sottoposto ad un nuovo ciclo di lavori alla base britannica di Diego Garcia. Destinato a Papeete nell'isola di Tahiti nella Polinesia francese, il Francis Garnier venne collocato in riserva il 1° gennaio 1966 per essere radiato il successivo 5 ottobre. Usato come bersaglio in un esperimento nucleare svolto nell'atollo di Mururoa, il Francis Garnier affondò il 29 ottobre 1966 alle 16:15 ora di Mururoa. Il relitto giace a circa 1300 metri di profondità.

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Ospite intruder
Ricordo di aver letto da qualche parte della consegna dell'Eritrea agli alleati dopo l'armistizio dell'8 settembre; appena ho un attimo vedo di recuperare il testo.

 

Per ora, ovviamente, tantissimo complimenti all'insuperabile Galland!

 

E alla sua biblioteca. Non hai idea di cosa sia.

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  • 12 anni dopo...

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