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L'eccidio di Bonaia


Ospite galland

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Ritorno in Etiopia a quarant'anni dall'eccidio di Bonaia

 

 

Un giornalista italiano ha ricostruito sui luoghi della tragedia

 

la fine di Antonio. Locatelli, l'asso della

 

nostra aviazione negli anni Venti, trucidato

 

da bande Amhara.

 

 

SEI MAUSER PER UN MASSACRO

 

 

Chi diceva che i relitti c'erano; chi diceva che avrebbero potuto non esserci più. Mi trovavo, poco tempo fa, presso Lekemti, nella provincia dell'Uòllega, più di trecento chilometri a ovest di Addis Abeba; soggiornavo presso un gruppo di italiani, i quali nell'Uòllega stavano costruendo una lunga strada. Si parlava dei relitti di tre apparecchi nostri, distrutti nel 1936. Uno di quegli apparecchi, era stato pilotato da Antonio Locatelli.

 

Lo spirito d'un paese si compone anche di memorie; appunto, memorie di uomini come lui. A Bergamo, sua città natale, gli hanno dedicato un monumento e parte d'un museo. Nelle Dolomiti, s'intitola ad Antonio Locatelli il grande rifugio che guarda le tre cime di Lavaredo. A Milano, lo ricorda il nome d' una via; sotto il nome, la targa dice « tre volte medaglia d'oro ». Eppure, ai nostri giorni Locatelli è quasi dimenticato. Perché mai? Gli americani non solo non hanno dimenticato Lindbergh, ma se ne gloriano; e il confronto è valido.

 

Così, dopo quel mio soggiorno in Etiopia, sono andato a trovare la sorella di Antonio, Rosetta, che nella sua casa di Bergamo custodisce con amore i cimeli del fratello, quindi mi sono recato a Torino, a visitare un missionario della Consolata. Entrambi mi hanno raccontato cose importanti, che in parte ignoravo.

 

Presso Lekemti, dei relitti mi si diceva forse sì e forse no, ma una mattina mi soccorse un giovane meccanico, Raffaele Vitale, nato in Etiopia. Disse che sapeva il posto, che in passato aveva visto. Si va? Si va.

 

L'Uòllega è una zona di monti, colli e pianori, di foreste e coltivazioni, a oltre duemila metri sul mare. Lekemti è una borgata di casette impastate col fango, ma popolosa, animata. La gente è di razza galla, è differente dagli amhara, ha un po' di sangue negroide, parla una lingua a sé. Procediamo per una quindicina di chilometri in direzione di Addis Abeba; deviamo a sud per una pista non difficile, raggiungiamo un villaggio composto di tucùl: Sorga. La pista continua per campi e boscaglie; d'un tratto, sulla destra si delinea una struttura metallica. A trenta chilometri da Lekemti, dall' erba alta d'una grande spianata emerge lo scheletro arrugginito. di un aereo. Ma quello scheletro è alla fine. Cominciamo invece dal principio. Il padre di Locatelli, ventunesimo figlio d'una famiglia di ventiquattro. Il fratello di Antonio, Carlo, ufficiale degli alpini nella prima guerra mondiale, volontario, ardito, medaglia d'argento, caduto sull'Adamello nel 1918. E Antonio, classe 1895, studi tecnici, subito aviatore; che già a vent'anni compie imprese di favola. Con le « carriole volanti » di allora si spinge fin verso il Brennero e in Slovenia, fra le guglie delle Dolomiti di Brenta e sui ghiacciai dell'Adamello e dell'Ortles. Mitraglia, bombarda, abbatte.

 

Una volta, Locatelli torna da una battaglia aerea con sessanta fori nelle ali e uno nel casco del suo mitragliere. Duellando contro sei caccia, viene incendiato tre volte consecutive; e per tre volte il fuoco si spegne. La quarta, colpito da settantadue proiettili perforanti, incendiari ed esplosivi, è irrimediabilmente in fiamme; ma riesce lo stesso ad atterrare incolume. Centrato dall'artiglieria nemica sul fronte alpino, atterra in modo catastrofico ma si salva. Raggiunto in pieno da uno shrapnel nel cielo di Fiume, cade ma sopravvive; fatto prigioniero, si procura una divisa austriaca, fugge e dopo due mesi dal disastro ha già raggiunto le nostre linee. Credo che, del volo, Locatelli avesse, più ancora che la capacità, l'istinto. La guerra, lui la combatteva perché così s'usa. Ma preferiva i voli di ricognizione, per osservare, indagare. Era un disegnatore abilissimo e divenne un artista; in cielo, eseguiva rilievi preziosi. Scattava fotografie impeccabili. Nel 1918 Locatelli

 

decolla da Brescia con un monomotore, valica le Alpi, raggiunge il lago di Costanza e fotografa Friedrichshafen, in territorio germanico, dove si costruivano i famosi dirigibili « Zeppellin »; ripassa le Alpi in un punto altissimo, copre in totale ottocento chilometri e dopo quattro ore e mezzo è di ritorno a Brescia. Per allora, un prodigio.

 

Fece anche di più. Si spinse, da solo, fino a Zagabria, a lanciar manifestini per incitare i croati a staccarsi dall'Austria; in quell' occasione percorse mille chilometri e rimase in volo sette ore su territorio nemico. II 9 agosto 1918, eccolo a un'impresa che, nonostante tutto, è rimasta famosa. Locatelli fa parte della squadriglia « Serenissima ». Assieme al suo comandante, Gabriele d'Annunzio, e ad altri entusiasti, prepara il grande volo. Durante l'incursione, sta alla sinistra del comandante, addetto alla sua estrema difesa; d'Annunzio lo chiamerà « giovine leone di guardia ». Ma duelli non ce ne saranno. L'impresa - cinquecento chilometri di volo sino a Vienna è così folle che nessuno l'ha prevista e i viennesi, come già i croati, sbalorditi vedono scendere dal cielo non bombe ma soltanto manifestini. Allorché la guerra finisce, Locatelli ha compiuto centocinquanta azioni su territorio nemico. E uno stato. di servizio quasi incredibile; gli ha fruttato tre medaglie d'argento, l'altissimo riconoscimento dell'ordine militare di Savoia, e la prima medaglia d'oro.

 

All'arrivo della mia « campagnola » nella piana color oro, alcuni bimbi e ragazzi galla s'avvicinano. « Come si chiama questo posto? », chiede Vitale nella loro lingua. « Bonaia », rispondono. Bonaia; ancora mi riecheggiano le voci di Rosetta Locatelli e del missionario, che ne pronunciavano il nome quasi con reverenza. Mi dirigo verso i resti della fusoliera; accanto giace, staccato, un motore. Cerchiamo; cercano, volonterosi, anche i bimbi; e fra la vegetazione fittissima appare, lontano, un secondo motore e poi un terzo. Ma gli apparecchi erano tre; invece, con una sola fusoliera e tre motori, penso di aver trovato un relitto solo. E gli altri? Vitale, i bimbi galla e io ricominciamo a cercare.

 

Cerco, e ancora penso alla vita di Locatelli. Amava i monti, il ghiaccio, la roccia; sciava e scalava con passione; allevava aquile. Non si sposò, ma, anche a giudicar dal soggetto di molti disegni, ammirava la donna; e anche questa è vita vibrante.

 

Locatelli è eroe anche in pace. Nemmeno in pace misura il rischio. Nel 1919 va in Argentina con una nostra missione militare. Dispone di un monomotore SVA 5; se ne serve per una di quelle imprese che lo hanno reso leggendario. Da Buenos Aires vola sino a Mendoza, ai piedi delle Ande; siccome le Ande non sono ancora mai state sorvolate, le affronta lui. Da Mendoza, sale a sfidare i feroci venti invernali; sfiora la minacciosa mole cieli Aconcagua, il quasi « settemila » del Sud America; lassù ritrova l'inseparabile compagna degli anni di guerra, la grande ombra, e ancora una volta la schiva; atterrerà felicemente nell' ippodromo di Vina del Mar, sulla costa cilena del Pacifico.

 

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TRA LA VEGETAZIONE del vecchio campo di atterraggio di Bonaia c'è ancora il motore di uno degli aerei del gruppo Locatelli. La squadriglia comprendeva due trimotori « Caproni » e un « RO 37 ».

 

 

Ma il pilota bergamasco vuol vincere le Ande in entrambi i sensi, e così collegare direttamente il Pacifico al Rio de la Plata, ossia all'Atlantico. Ma, poiché da Vina, ossia dall'ippodromo, non può decollare, lo farà da Santiago del Cile; e tuttavia siccome Santiago è lontana dal mare, per non sminuire il significato del volo, dopo il decollo torna indietro sino a raggiungere la verticale del Pacifico. là inverte la rotta, si dirige verso la Cordigliera andina, la supera, sorvola la pampa sterminata, e tutto d'un fiato, senza mai scali, atterra a Buenos Aires. Laggiù, la folla argentina e la colonia italiana sono in delirio. Ancora una volta, Locatelli ha compiuto l'impossibile. Nell'ultimo volo ha percorso millecinquecento chilometri. Ha volato per sette ore e mezzo consecutive. Siamo nel 1919. Ormai, Locatelli è celebre nel mondo.

 

E continua. È vicino a d'Annunzio durante la pagina di Fiume. Raggranellati pochi fondi, compie con mezzi normali il giro del globo, viaggiando in terza classe; raccoglie osservazioni, appunti, disegni, fotografie; compie numerose scalate; conquista, fra l'altro, alcune difficili vette coreane e, in Giappone, la sommità del Fujiyama.

 

Nel 1924, il trasvolatore delle Ande pensa a una nuova impresa degna di lui: raggiungere in volo il Nord

 

America dall'Italia. Nessuno, fino a quel momento, l'ha mai tentato, né esistono apparecchi con autonomia sufficiente per un volo diretto. Ma Locatelli, studiata una serie di scali, conclude che si può, via Inghilterra, Islanda, Groenlandia. Con un piccolo idrovolante che pare piuttosto un motoscafo, accompagnato dal secondo pilota Crosio e da due motoristi, raggiunge infatti l'Islanda. Decolla poi per la Groenlandia... e, virtualmente, l'ha ormai raggiunta, quando sconfinate cortine di nebbia gli precludono l'ammaraggio nel punto previsto. Torna allora al largo, dove la visibilità è migliore, ma, al largo, il vento che spazza la nebbia scatena il mare. Locatelli riesce a posarsi ugualmente, senonché la bufera lo allontana sempre di più dalla costa. Lo scafo imbarca acqua. L'idro, ormai, sta per cedere ai cavalloni. Passano tre giorni e quattro notti.

 

Lanciato alla ricerca dei nostri, compare, il quarto giorno, un incrociatore americano; a quell'incontro, il pittore Achille Beltrame dedica la copertina d'un settimanale. La grande ombra svanisce. Locatelli non ha raggiunto lo scopo, ma col suo volo ha ugualmente dimostrato la possibilità del collegamento Italia-America. Lindbergh verrà solo tre anni più tardi. Nel 1933, la prima crociera transatlantiva di Balbo seguirà in parte le rotte di Locatelli.

 

L'asso bergamasco vola sempre, si tiene allenato, aggiornato. Studia la navigazione aerea civile. Organizza linee civili, fra cui la Brindisi-Atene-Istanbul. Eletto deputato; Montecitorio gli serve per propugnare lo sviluppo dell'aviazione italiana. È non soltanto celebre, ma eclettico. Parla sei lingue. Scrive libri. Scrive articoli di terza pagina per il Corriere della Sera. Lo nominano presidente del « Club Alpino Italiano » di Bergamo: ecco il perché del rifugio intitolato a lui. Gli affidano il comune di Bergamo. Ma Locatelli non cerca le cariche: cerca il cielo. Scoppia la guerra con l'Etiopia, e lui ci va. Destinato al fronte sud, non c'è missione rischiosa che gli sfugga; come nella prima guerra mondiale, gli alti comandi si contendono le sue fotografie, i suoi rilievi a mano. Avrà, per la nuova campagna, la seconda medaglia d'oro.

 

Sicuro, Locatelli si andava avvicinando all'appuntamento di Bonaia, quello con la morte. E, a Bonaia, io mi sto guardando attorno per cercare gli altri scheletri. Mi scuote la voce di Vitale: « Laggiù ».

 

Laggiù, a un'estremità dei campo, il secondo scheletro. Gli mancano le ali; conserva i tre motori e il bordo del pozzetto della mitragliera; le ruote, senza più gomme, affondano nel terreno; su una piccola etichetta metallica leggo « Magneti Marelli ». Gli scheletri sono entrambi di grossi « Caproni », apparecchi da ricognizione strategica e da bombardamento; il terzo velivolo morto qui era invece un monomotore « Ro 37 », ma il suo relitto non lo ritrovo, Vitale non lo conosce, i ragazzi galla non me lo sanno indicare e io mi domando se non sia stato trasportato altrove già in un passato lontano. Presso il secondo scheletro dilagano i fiori d'una coltivazione di berberè, il peperoncino rosso che ustiona la gola.

 

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ANTONIO LOCATELLI Pilota della « Serenissima », la squadriglia comandata da Gabriele d'Annunzio, con cui, il 9 agosto 1918, egli volò su Vienna. L'aviatore italiano fu il primo a sorvolare le Ande, il 30 luglio 1919, toccando, con uno « SVA 5 », i 6.500 metri d'altezza.

 

 

Giugno1936. Addis Abeba è caduta il mese prima, ma la conquista del paese non è completa: non ci siamo ancora spinti nelle fertili regioni occidentali. È questo, per vari motivi, un problema serio. Si sta avvicinando la stagione delle grandi piogge, che paralizzerà le piste. La zona, fitta di foreste, si presta alla guerriglia, avvantaggiando il difensore. Proprio quaggiù nell'ovest, un grande ras, Immirù, dispone ancora di ottomila armati e sembra deciso a non cedere. Gli inglesi dicono anzi che a Gore, oltre Lekemti, un governo etiopico esiste ancora. Bisogna far presto, a chiuder la partita etiopica, anche per ridurre al minimo le complicazioni internazionali. Si giocherà dunque, all'ovest, una carta politica.

 

Presupposti della partita, sono i seguenti. Fra gli amhara, che sino allora hanno dominato l'Etiopia, e i galla dell'Uòllega, non corre buon sangue. Prima della guerra, a Lekemti ha operato a lungo una Missione italiana della Consolata, dove è stato educato il capo locale Apte Mariàm, di razza galla. Da Lekemti, Apte Mariàm ha fatto sapere ad Addis Abeba di poter procurare la sottomissione di ben centottanta capi; occorre peraltro che qualcuno, a nome dell'Italia, la raccolga. Graziani punta dunque sul capo di Lekemti. E ricorre anche a un missionario della Consolata, Padre Mario Borello, il quale vive in Etiopia da quattordici anni; è un piemontese della val di Susa, anni quarantatre, parla, fra l'altro, amharico e galla.

 

Da allora son passati quarant'anni. Ma Padre Borello, che sono venuto a trovare qui a Torino, ostenta ancora una parte di quell' ottimismo e dinamismo che a suo tempo lo caratterizzarono. Trascorre la sua vecchiaia nella casa madre della Consolata;, dopo la seconda guerra mondiale non è più tornato in Etiopia, eppure, quando gli si parla dell'Africa, si capisce subito che il suo cuore è rimasto lì, tra gli etiopi: « un popolo nero ma non negro, il migliore dell'Africa; un grande popolo ».

 

Ventisei giugno 1936. Sta per partire alla volta di Lekemti una nostra missione militare, a bordo di due « Caproni » trimotori; più tardi partirà anche un « Ro 37 ». Ha organizzato la missione, per la parte aeronautica, il maggiore pilota Antonio Locatelli. La guida, come plenipotenziario militare, il generale dell'Arma. Aerea Vincenzo Magliocco, coadiuvato dal colonnello di Stato Maggiore Mario Calderini. Gli altri componenti sono Mario Galli, capitano pilota; Antonio Drammis Dei Drammis, capitano osservatore; Adolfo Prasso, ingegnere, civile; Luigi Gabelli, tenente pilota; Giorgio Bombonati, maresciallo pilota; Renato Ciprari, sergente motorista; William D'Altri, primo aviere motorista; Alberto Agostini, primo aviere motorista; Giulio Malenza, aviere scelto marconista; due indigeni, con funzione di interpreti; e Padre Mario Borello. Il nostro missionario aveva conosciuto Locatelli a Mogadiscio e lo aveva incontrato nuovamente a Harar; « era simpaticissimo » dice Padre Borello; « riceveva fiumi di posta, faceva collezione d'armi africane, eseguiva schizzi di tutto ciò che vedeva ». Si decolla verso mezzogiorno, si vola in un'acquerugiola fitta che prelude alle grandi piogge, si atterra a Bonaia dopo un paio d'ore. A lato del campo, un'ombra attende.

 

Tutto sembra chiaro, normale. Apte Mariàm si trova regolarmente sul campo a ricevere la missione. Conferma una notizia già conosciuta, ossia che nella zona erano giunti in ritirata duecentocinquanta cadetti amhara, della Scuola Militare etiopica; ma conferma pure che il reparto gli si era spontaneamente sottomesso. Dunque, nessun pericolo. Veramente, Apte Mariàm avrebbe dovuto procurar subito una scorta che accompagnasse la nostra missione a Lekemti, e invece la scorta manca, giungerà solo l'indomani; senonché il contrattempo sembra una semplice sfumatura.

 

Si decide di pernottare a Bonaia. I due « Caproni » sono appaiati; il « Ro 37 » sta più lontano. Apte Mariàm organizza una grande cena. Siccome era il giorno di San Rodolfo, si brinda a Graziani. Al momento del riposo, presso i velivoli vengono appostate, per buona norma, due mitragliatrici. Padre Borello riceve un trattamento di favore dal colonnello Calderini, suo amico personale, che gli prepara un comodo giaciglio d'erba. Viene disposto un turno di guardia. Poi i nostri si addormentano sotto le ali degli apparecchi.

 

Il campo dei cadetti amhara poco distava da Bonaia. Nella notte, parte di quei cadetti litigano violentemente con i galla. Dicono, a quanto risulta, che è assurdo risparmiare un nemico quasi indifeso. I galla replicano che gli italiani sono potenti e si sarebbero vendicati. Ma amhara e galla non si accordano. Un'ottantina di cadetti si rimangia la sottomissione. Apte Mariàm non viene informato. I cadetti approfittano del buio per infiltrarsi nelle alte erbe e piazzare, a forse centocinquanta metri dai nostri apparecchi, sei mitragliatrici « Mauser ». Una sentinella veglia ignara. Sta per baluginare l'alba, livida di nubi. Padre Borello si desta, si apparta, poi dice le sue preghiere. E ancora così scuro che nessuno lo nota.

 

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DIRE DAUA: Locatelli pochi giorni prima di partire per la sua ultima missione. Alla guerra di Etiopia egli partecipò volontario, guadagnandovi la seconda medaglia d'oro. La terza gli venne conferita alla memoria.

 

 

Fuoco! Crepitano freneticamente le raffiche delle sei « Mausèr ». La sentinella stramazza. Alcuni dei nostri balzano alle armi, tentano di reagire; poi il fuoco italiano si spegne. Disteso al suolo, impotente, Padre Borello assiste a tutte le fasi della tragedia. Nella penombra intravede due aviatori salire sui « Caproni », avviarli e riuscire incredibilmente a tentar la manovra di decollo; « non avrei mai supposto » osserva il missionario « che, con apparecchi così grossi, si potesse far tanto presto ». Pochi attimi e, crivellati dalle raffiche etiopiche, i due velivoli cadono preda del fuoco. Lontano, arde anche il monomotore. L'intero attacco è durato solo brevi minuti. A terra, nessun segno di vita.

 

Eppure, nel mucchio dei morti un uomo vive. E il motorista Agostini; acquattatosi dietro un riparo, Agostini era rimasto incolume. Ma qui accade qualcosa di molto africano. Compiuto l'eccidio, i cadetti si allontanano cantando vittoria. Accorrono invece i galla, molti dei quali hanno pernottato nelle vicinanze; non hanno tradito e però, di fronte alla prospettiva di un bottino, si scatenano. Sanno, cioè, che dobbiamo aver portato a Bonaia molti talleri d'argento, li cercano che le fiamme non sono ancora spente e per trovarli si ustionano. D'un tratto, un galla scorge al suolo una figura che accenna a muoversi. Eccitato, sorpreso, forse il galla teme impreviste reazioni e agisce d'istinto; è clima di guerra e di razzia, non di raziocinio: così, l'indigeno scaglia la sua lancia contro il dorso dell'aviere. Padre Borello ha una sorte migliore: lo riconoscono, lo aiutano, lo accompagnano al villaggio di Bonaia.

 

Tutto è accaduto qui, fra queste erbe dove oggi sembra regnar soltanto la quiete. Invece, anche dopo l' eccidio continuarono le convulsioni. Apte Mariàm, temendo di essere creduto traditore dagli italiani e dai suoi, si dà alla fuga; con lui fuggono molti altri galla, che paventano le rappresaglie italiane; tutti si attendono, da un momento all' altro, spietati bombardamenti. Rimane sul posto soltanto un altro capo locale, Mossa Ghigio, favorevole a noi; dispone, Mossa, di trecento uomini, ma la situazione rimane precaria perché i cadetti continuano a manifestare intenzioni aggressive. Comunque, il capo galla ospita il povero Agostini, ferito gravemente e, saputo che il missionario è vivo, gli fa grandi feste e ospita anche lui nel suo tucul.

 

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PADRE MARIO BORELLO l'unico superstite del massacro di Bonaia, Per tre mesi il missionario visse isolato tra i Galla, ottenendo la sottomissione all'Italia di alcuni capi.

 

 

Agostini viene curato da alcuni galla di religione cattolica. E in stato di choc e dell'eccidio non è in grado di raccontar nulla; d' altra parte, Padre Borello ha visto o intravisto tutto. Nei pochi momenti di lucidità dell'aviere, il missionario riesce a confessarlo; poi ricomincia, per Agostini, la nebbia, l'assenza. Passa qualche giorno, forse una settimana. I cadetti hanno saputo dell'aviere superstite; di notte, senza colpo ferire, riescono a rapirlo. Ma non per ucciderlo, bensì per servirsene eventualmente come ostaggio. Lo portano al loro campo, dove, a modo loro, lo rispettano; se nonché, fra i cadetti, il povero Agostini rimane privo di cure efficaci. Tre giorni più tardi, muore. Gli stessi cadetti gli danno sepoltura.

 

Padre Borello? Per ridurre il rischio d'un rapimento, il missionario cambia alloggio ogni sera, inutilmente. Gli amhara tentano ugualmente un secondo colpo di mano, ma gli uomini di Mossa Ghigio stavolta non si lasciano sorprendere, uccidono cinque aggressori e costringono gli altri a desistere. Finalmente, i cadetti abbandonano la zona di Lekemti, per raggiungere le forze del bellicoso ras Immirù.

 

Allora il missionario comincia un'attività nuova. Anzitutto invia messaggi ad Addis Abeba, ricorrendo a straordinari sotterfugi: per esempio nasconde un foglio di carta nella cavità d' un bastone di un indigeno fedele, che per maggior precauzione si finge pazzo. In quei messaggi, il missionario scagiona Apte Mariàm e scongiura Graziani di non compiere rappresaglie (« rappresaglie in massa » vennero annunciate da un nostro comunicato speciale: ma si trattava, solo d'un espediente per placare la nostra opinione pubblica, penosamente scossa dalla notizia dell'eccidio),

 

consigli di Padre Borello vengono seguiti. Nessuna rappresaglia, nessuna punizione. Anzi, verso metà luglio Apte Mariàm si decide a tornare a Lekemti, con la sua gente.

 

Padre Borello raccoglie informazioni, organizza i galla, raduna in un reparto unico tutti i figli dei vari capi e li addestra al lancio delle bombe a mano. E solo, unico italiano in un raggio di centinaia di chilometri, eppure costituisce una specie di piccolo Stato del quale è autorità somma. Provvede lui, Borello,

 

al compito del povero generale Magliocco: ottiene la sottomissione all'Italia dei capi locali e li fa « firmare » solennemente, con l'impronta del pollice. Passano le settimane, i mesi, le piogge; passano tre mesi giusti dal giorno dell'eccidio, e il 27 settembre 1936 un gruppo di indigeni si precipita da Padre Borello per avvertirlo che s'ode un rombo...

 

È un nostro grande pilota, il colonnello Baistrocchi. Descrive un ampio giro, compie una rapida ricognizione e poi atterra, qui a Bonaia, vicino agli scheletri dei « Caproni ». L'11 ottobre atterrano altri due apparecchi. Più tardi, nella remota regione del Caffa, i cadetti amhara si scontreranno con una nostra colonna che li sta cercando.

 

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ROSETTA LOCATELLI, con la pedaliera del « Caproni » del fratello, accanto a un busto dell'aviatore bergamasco.

 

 

In questo modo, la pagina di Lekemti si chiude definitivamente. Alla memoria di tutti i caduti di Bonaia venne decretata la medaglia d'oro al valor militare; sarebbe stata, per Locatelli, la terza. Anche Padre Borello l'ebbe, per la preziosa attività svolta fra pericoli d'ogni genere. La madre di Locatelli - una donna forte, schiva, fiera -, unica italiana con un figlio decorato di tre medaglie d'oro, ma senza più figli maschi, si è spenta nel 1948.

 

Presso Lekemti, è stato costruito un aeroporto nuovo: come campo d'atterraggio, Bonaia non serve più da molti anni. Ma i relitti degli apparecchi noi li avevamo lasciati a Bonaia; li recingemmo e per così dire li monumentalizzammo, erigendo dinanzi al « Caproni » di Locatelli un grande cippo, con incisi i nomi dei caduti.

 

So quanto sta per domandarsi il lettore: e le salme? Dopo il saccheggio seguito all'eccidio, Mossa Ghigio ordinò che nessuno mettesse più piede nel campo. Era un ordine ragionevole, dettato anche da un senso di rispetto; ma così trascorse una notte, e la notte è il regno delle iene. Già il 28 giugno le salme erano praticamente scomparse; ne rimanevano solo pochissimi resti, irriconoscibili. Quei resti vennero raccolti da Padre Borello; successivamente vennero portati ad Addis Abeba, nella chiesa cattolica, e poi di nuovo a Lekemti, dove furono murati nel cippo. La salma del motorista Agostini, credo sia andata dispersa. Comunque sia, nulla cambia perché del cippo non rimane traccia. Rosetta Locatelli tiene, in un'urna, un po' di questa terra di Bonaia. lo ne raccolgo una manciata, l'osservo, la lascio ricadere.

 

 

 

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Ospite intruder

Come non fare i complimenti al nostro Galland che riesce a fare uscire dal cilindro della sua spropositata biblioteca queste chicche sconosciute (almeno a me)?

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Ospite iscandar

Il pilota lo conoscevo, su "ali d'italia" l'enciclopedia che narra la storia delle ali italiane, inutile dire che non l'ho mai completata, ho comprato i primi numeri per F-117 della italerei, se ne parlava diffusamente e bene, ma non sapevo i particolari della sua morte...

 

un grande con due "attributi" grandi quanto un drakken...

Modificato da iscandar
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Ospite galland

Offro altri materiali sulla tragica notte di Bonaya: la narrazione offertane dalla guida all'AOI e quella fornita, trattando il Caproni Ca.133, "Dimensione Cielo".

 

 

Due note, ritengo più probabile che il monomotore che accompagnava le due "Caprone" fosse un Ro.1 come detto in "Dimensione cielo".

 

Più che fondato il timore di Padre Borello circa possibili rappresaglie, tanto alla luce della "caccia al negro" avvenuta dopo il fallito attentato a Graziani che costò centinaia, se non migliaia di vittime etiopi.

 

 

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Elaborazione della carta stradale dell'AOI al 6 milioni.

 

 

LECHEMTI m.2101 circa, abitanti 10.000 circa (Ristorante Bogo e vari spacci e negozi nel centro della cittadina indigena; posta, telegrafo; ospedale; scuole; Banco di Roma), capoluogo del Commissariato di Liecà, situata su varie dorsali alberate d'eucalipti che formano spartiacque tra la Valle dell'Uama e quella dell'Angàr, ambedue affluenti al Diddéssa, è uno dei più popolosi centri del Galla e Sidama. Posta in salubre clima, al centro di una vasta zona di grandi possibilità agricole e minerarie, nodo stradale importante, è destinata a divenire uno dei più ricchi empori dell'Impero.

 

Lechemti, pronunziato dai Galla Lacamtè e anche Nacamtè, è il centro principale del Liecà. Qui infatti costruì il suo ghebbi il capo galla Cúmsa Morodà, che, dopo le spedizioni di ras Gobanà e di altri capi scioani (1889/94), contrastò con abilità e risolutezza la conquista di Menelic, ottenendo una certa autonomia per il territorio di questi paesi Galla contro versamento di un tributo annuo. Egli fu poi convertito al cristianesimo etiopico e prese il nome e il titolo di degiacc' Gabrè Egzièr. Ma la pressione scioana divenne ancora più forte sotto il figlio, degiacc Habtè Mariàm, che reggeva la regione, quando, dopo l'eccidio di Bonàia, vedi sotto, accolse la spedizione aerea del Tenente Colonnello, A. Marone (14 ottobre 1936) con, 13 ufficiali e 33 uomini di truppa, cui seguì il 24 ottobre l'arrivo di una brigata eritrea. - Il clima di Lechémti è ottimo, ma più umido di quello di Addis Abéba; le precipitazioni, notevolmente più abbondanti, si avvicinano a quelle, ritenute massime in A. O. I., di Góre.

 

Giungendo da Est a Lechémti, si lascia a destra il Comando del Presidio, con accanto l'Intendenza, l' Ufficio Postale e Telegrafico e il Banco di Roma, e si giunge a un bivio: a sinistra, S, si sale al Commissariato e alla Missione della Consolata, vedi sotto. Prendendo la strada a destra, in direzione NO, tra cortine di eucalipti e boschetti di musa ensete, ove sono quasi nascosti i tucul, si raggiunge a sinistra, su un leggero rialzo, la chiesa di Mariàm, ottagonale, in muratura con galleria esterna sostenuta da pilastrini di pietra. Nell'interno, recentissime pitture. Proseguendo, si va al Ghebbì già del degiacc' Habtè Mariàm.

 

Prendendo a sinistra al bivio, vedi sopra, poi a destra, a un secondo bivio, si giunge al centro della città indigena, costituita da una larga via fiancheggiata da case in cicca che ospitano magazzini e spacci. Più avanti è il Mercato (giovedì).

 

Ritornati al secondo bivio, si sale verso SE su uno sperone, ove sorge una chiesetta in muratura, poi, tra meravigliosa vegetazione (eucalipti, dracene, caffè, agrumi, fiori), l'Ospedale, il Regio Commissariato del Liecà con la Regia Residenza di Lechémti e, infine, la Missione della Consolata, nei pittoreschi locali già della Missione Svedese, tra aiuole di fiori e bellissimi alberi, tra cui aranci, cedri e limoni.

 

Escursioni - 1. A BONÀIA (aeroporto di Lechémti) pista camionabile km. 27. - Si segue la pista per Ghedò fino (km. 17) al bivio per Bonaia, pag. 501, indi si scende a destra lungo il culmine di una dorsale boscosa tra due affluenti del Fiume Uama, in zona fittamente popolata e coltivata. Km. 21 si scopre a tratti la piana dell'Uàma, limitata a SO dai Monti di Argio. La pista continua quasi rettilinea in lenta discesa.

 

Krn. 27 Aeroporto di Lechémti m. 1828 c. Nell'ampia radura prativa, in un recinto, i resti dei tre aerei incendiati della spedizione del 27 giugno 1936. Dinnanzi all'aereo mediano, un pilastrino con una lamiera di un apparecchio, sulla quale sono scolpiti i nomi dei Caduti. Il 26 giugno 1936 partiva da Addis Abéba con tre aerei una missione composta dal Generale A. A. Magliocco, dal Colonnello Calderini, dal comandante Locatelli, dall'Ingegner Prasso, da Padre Borello e da Agostini, Bombonati, Cignari, D'Altri, Galli, Malenza, Pabelli e Trammis. Essa atterrò alle 14,30 a Bonàia e avrebbe dovuto procedere per Lechémti con una scorta mandata loro incontro dal degiacc' Habtè Mariàm,scorta che non si trovò in luogo. Il Generale Magliocco decise di pernottare a Bonàia. Frattanto, avvertito dell'atterraggio, un gruppo d'armati della scuola militare di Olétta, nonostante la promessa data al degiacc', raggiunse a tarda ora Bonàia e s'appiattò a poche centinaia di metri dagli apparecchi. Verso il mattino del 27 gli abissini aprirono il fuoco e piombarono sul manipolo d'Italiani, che dopo strenua difesa soccombettero a uno a uno, eccetto il motorista Agostini che morì per ferite a Lechémti e Padre Borello, che riuscì a rifugiarsi presso il fitaurari Mossa Ghigio di Cónto. Fuggito per tema di rappresaglie Habtè Mariàm, la banda rimase padrona di Lehémti per più giorni, contrastata solo dal fitaurari Mossa. Rientrato Rabtè Mariàm, la banda raggiunse Ras Immirù a Góre, e Padre Borello convinse il degiacc' a chiedere nuovamente la venuta degl'Italiani. Il 27 settembre, il Colonnello A. A. Baistrocchi, atterra a Bonaia, impartisce a Padre Borello le istruzioni del Vicerè per il concentramento degli armati del degiacc' che debbono accogliere una seconda missione e consegna la bandiera italiana, che l'8 ottobre 1936 venne issata sul Ghebbì dallo stesso Habtè Mariàm. L'11 ottobre, 2 apparecchi atterrano lasciando una stazione radio col Sottotenente Faccioli e due marconisti. Il mattino del 14 ottobre una squadriglia di 9 apparecchi guidata dal Generale di squadra aerea Pinna, sbarca la seconda missione comandata dal Tenente Colonnello A. Marone con 13 ufficiali e 33 uomini di truppa, accolta dal degiacc' e dal fitaurari. Essa si organizza a difesa in Lechémti e costituisce alcune bande irregolari, per parare ai ritorni offensivi dei ribelli, che unitisi a Ras Immirù si avvicinavano di nuovo. Il 16 ottobre una banda irregolare di 400 uomini metteva in fuga nella zona di Ghìmbi un nucleo dei ribelli; il 1° novembre la banda stessa respingeva Ras Immirù nel Nolecàbba. Premuto da ogni parte, Ras Immirù si arrese poi sul Fiume Gogèb.

 

 

Carta e testo da:

 

"Guida dell'Africa Orientale Italiana", Consociazione Turistica Italiana, Milano, 1938 (XVI), pagine 501/3

 

 

 

 

Ha invece esito tragico un tentativo di occupazione mediante avio-sbarco. Per il timore che nell'ovest etiopico non ancora assoggettato possano riorganizzarsi le forze nemiche ed ottenervi, mediante la Società delle Nazioni, un protettorato britannico, il 26 giugno 1936 il Vicerè Rodolfo Graziani autorizza la partenza di una spedizione aerea formata da 2 Ca.133 ed 1 Ro.1 per la località di Bonaya, 20 km. da Lekempti. Sono a bordo degli aerei il generale pilota Vincenzo Magliocco, il colonnello Regio Esercito Mario Calderini, il maggiore pilota Antonio Locatelli, il capitano pilota Mario Galli, il capitano Regio Esercito Antonio De Drammis, il tenente pilota Luigi Gabelli, il maresciallo pilota Giorgio Bombonati, quattro specialisti, il missionario padre Borello, l'ingegner Adolfo Prasso, due indigeni. I civili garantiscono l'intenzione della popolazione locale di sottomettersi alle Autorità italiane. Gli aerei atterrano regolarmente alle h.12,57 e a fine giornata il generale Magliocco conferma per radio i primi favorevoli incontri con il capo locale. Purtroppo nel corso della notte l'accampamento intorno ai 3 aerei della Missione è improvvisamente attaccato da forze ribelli formate da ex-regolari di ras Immerù, capo di una banda di circa 600 armati. I militari e l'ingegner Prasso sono trucidati ed i 3 aerei dati alle fiamme. Soltanto il 2 ottobre 1936, 4 Ro.37 ed 1 Ro.1 atterrano nella tragica località di Bonaya agli ordini del colonnello Umberto Baistrocchi; seguono 5 Ro.37 del capitano Mario Bonzano (10 ottobre) e 14 aerei da trasporto che scaricano truppe. Il 14 ottobre, a capo di una formazione di 9 Ca.133, 4 Ro.37, 1 Ro.1 vi giunge lo stesso generale Pietro Pinna, comandante dell'Aeronautica A.O.I. L'arrivo di aerei con uomini e materiali continua fino al 24 ottobre quando il settore di Lekempti è raggiunto da una colonna dell'esercito.

 

Il 12 novembre, 4 Ca.133 partecipano validamente all'aviosbarco di Dembidollo, nell'estremo ovest etiopico al confine con il Sudan. Il 20 novembre il tenente colonnello pilota Bruno Lodolo si lancia con il paracadute sulla località di Gambela ove, utilizzando elementi indigeni a noi favorevoli, realizza in 5 giorni di lavoro una striscia di atterraggio che già il 26 novembre è utilizzata dai Ca.133.

 

Nello stesso mese, con l'intera occupazione della zona di Gore, è definitivamente cancellata la minaccia della formazione di un Governo locale sotto protettorato inglese. Qualche mese dopo, le stesse operazioni di « grande polizia » che si concludono con l'espugnazione del trincerone di Dennebà (3 giugno 1937) vedono intensa attività dei Ca.133.

 

 

bonaia7.jpg

Africa Orientale Italiana, inizio del 1937; schieramento di Caproni Ca.133 della 6a, 7a, 61a, 64a squadriglia. Il terzo velivolo reca, in luogo del numero individuale la dedica al maresciallo pilota Giorgio Bombonati, una delle vittime dell'eccidio di Bonaya.

 

 

Testo e foto da:

 

"Dimensione cielo aerei italiani nella II guerra mondiale", volume VII trasporto, pagine 47/8.

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  • 1 anno dopo...

Salve. Scrivo della Svizzera. L'italiano non è la mia lingua materna, cioè mi dispiace per gli errori di grammatica che potrei fare... Cercavo delle informazioni su il mio nonno, che non ho mail conosciuto, il tenente colonnello Bruno Lodolo, originario di Udine. Sono arrivato su questo foro di discussione dove ho trovato questo passaggio nell'articolo di Gallant. Qualcuno mi può dire come trovare altre informazioni di questo tipo sul mio nonno? Grazie per l'aiuto. Maggiore Kempf

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  • 5 anni dopo...
  • 2 anni dopo...

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