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La storia segreta dello spionaggio sottomarino


VittorioVeneto

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"Per i sovietici i sommergibilisti americani erano una maledizione continua. Questo libro racconta la loro storia. Una delle ultime, grandi storie mai narrate della guerra fredda."

 

Solo i presidenti e pochi altri sapevano dei sottomarini americani che dal dopogoerra fino a Clinton hanno sondato gli abissi per captare informazioni strategiche. Dopo anni di ricerche negli archivi militari americani, a caccia di documenti e di verità scottanti, la giornalista investigativa Sherry Sontag e il reporter Christopher Drew hanno riportato in superficie uno degli ultimi, grandi segreti della guerra fredda. Gli autori ci raccontano dettagli inediti sui sottomarini dotati di cariche esplosive per l'autodistruzione e inviati nelle acque sovietiche per intercettare le comunicazioni, sulle responsabilità per la perdita dell'USS Scarpion con il suo equipaggio, sulle interferenze della Cia nelle missioni più delicate. Pagina dopo pagina si delinea una grande epopea fatta di ingegno, coraggio e tensione, un'opera che si legge come un romanzo di spionaggio, ma con una sola, importante differenza: è tutto vero.

 

Testi tratti da : "Immersione rapida" di S.Sontag e C.Drew

 

 

 

L'USS Gudgeon (ss-567) entrò nel porto giapponese di Yokosuka domenica 21 luglio 1957. Era la sua ultima tappa, il luogo dove l'equipaggio, proveniente da Pearl Harbor e da San Diego, avrebbe potuto completare i preparativi per avvicinarsi segretamente alle coste sovietiche. Sarebbero tornati a Yokosuka alla fine della missione, per festeggiare, riposarsi e prepararsi a prendere nuovamente il mare. Questo porto era diventato la base principale dei sommergibili spia nel Pacifico.

A meno che non scoppiasse una guerra, la sorveglianza avrebbe rappresentato la missione più importante dei sommergibilisti, la loro ragion d'essere, il modo migliore per raccogliere informazioni sulla crescita della forza navale sovietica che si stava spiegando allora in tutto il suo vigore.

 

 

I sommergibili spia avevano già riportato la notizia che i cantieri sovietici stavano sfornando grandi quantità di nuovi sommergibili a lungo raggio, compresi più di 250 battelli di classe Whiskey e Zulù, dotati di snorkel. L'alto comando sovietico aveva lasciato capire chiaramente la sua intenzione di sfidare L'Us Navy in mare aperto, utilizzando i sommergibili come arma principale. Gli Stati Uniti avevano ricevuto rapporti, sia pure non confermati, secondo i quali la Marina sovietica stava modificando alcuni Zulù dotandoli di alloggiamenti per missili, forse forniti di testate atomiche.

Ce n'era abbastanza per convincere anche i più tradizionalisti tra gli ammiragli che questa idea dello spionaggio subacqueo era qualcosa di più del tentativo di fornire lo stipendio a un gruppo di teste d'uovo rintanate nei meandri della Naval Intelligence e dell'ancora misteriosa CIA. Rendendosi conto che avrebbero potuto carpire informazioni di importanza vitale per le stesse forze subacquee, gli ammiragli al comando della Flotta dell'Atlantico e di quella del Pacifico avevano assunto il controllo di questa faccenda dello spionaggio sottomarino, conducendo il gioco e assegnando gli incarichi. Ai loro ordini, i sommergibili restavano in agguato sotto la superficie con i periscopi alzati, osservando per tutto l'anno, a parte i mesi di maggiore glaciazione, i battelli più recenti messi in campo dai sovietici. Si trattava anche di un modo eccellente di tenere in addestramento i sommergibilisti: non solo in giochi di guerra con forze amiche, ma spingendosi fino alle acque sovietiche e fronteggiando l'avversario.

Per ogni comandante di sommergibile spia la massima priorità era quella che la Marina chiamava "indicazioni e allarme". Se i comandanti avessero raccolto qualsiasi segnale di mobilitazione della Marina sovietica, magari in preparazione di un attacco, avrebbero dovuto dimenticare qualsiasi precauzione, ignorare il silenzio radio e inviare alla base un rapido messag­gio fin dal mare di Barents o dal mare del Giappone.

Venivano intercettati ormai abitualmente dialoghi dai quali l'U.S. Navy capiva quante navi e sommergibili sovietici erano pronti a prendere il mare e quali avrebbero potuto essere le loro tattiche in tempo di guerra.

Nella quasi totalità dei casi le autorità governative riceve­vano - quando le ricevevano - pochissime informazioni sui ri­schi che stavano correndo le forze subacquee o su quello stra­no gioco da macho che andavano giocando. Mentre il presi­dente Dwight D. Eisenhower approvava con grandi esitazioni il sorvolo ad alta quota della Russia da parte degli U-2, temen­do di irritare il premier sovietico Nikita Chruscév, molti co­nandanti di sommergibili ritenevano fosse loro compito -infischiandosene delle sottigliezze del diritto internazionale - introdursi senza esitazioni nelle acque territoriali sovietiche. Il Gudgeon prese il largo da Yokosuka per il suo turno in prossimità delle coste dell'URSS, con Norman G. "Buzz" Bessac al comando. Ora stava conducendo il sommergibile direttamente in territo

rio nemico.

Le spie imbarcate sul sommergibile dovevano controllare il nemico, portare in patria le informazioni raccolte e dare l'allarme se il sommergibile fosse stato scoperto da navi e installazioni costiere sovietiche, che avevano cominciato a scandagliare gli oceani con radar e sonar. I pattugliatori sovietici avevano già dato caccia a parecchi sommergibili USA.

 

Il Gudgeon era uno dei sommergibili più moderni della Ma­rina, uno dei primi battelli diesel progettati fin dall'inizio con uno snorkel ed equipaggiamenti elettronici d'ascolto. Nei suoi vecchi e leggendari cantieri di Groton, nel Connecticut, la Electric Boat Company aveva già ultimato i primi due sottomarini nucleari della Marina, l'uss Nautilus (SSN-571) e l'uss Seawolf (SSN-575), ma Hyman Rickover, divenuto nel frattempo ammi­raglio, non era proprio sicuro di voler inviare subito i suoi bat­telli sulle rotte della Marina sovietica.

Perciò erano i diesel a sobbarcarsi tutto il lavoro di spionaggio; e tra questi il Gudgeon, che faceva rotta a nord verso Vladivostok, la più grande base navale sovietica del Pacifico.

 

gudgeon.jpg

 

USS 567 Gudgeon

 

Hyman_Rickover_inspecting_USS_Nautilus.jpg

L'ammiraglio Rickover

 

 

Nei primi giorni di agosto il Gudgeon si stava avvicinando alla sua postazione per un'operazione speciale, o "spec op", trasportando tre o quattro spie, alcune delle quali erano già impegnate nel lavoro di ascolto, alla ricerca di qualsiasi segnale che indicasse che un loro avvicinamento era stato captato dal nemico.

Ulteriori equipaggiamenti d'ascolto erano stati stipati ovun­que ci fosse spazio disponibile. Un tecnico delle comunicazioni, cui era stato insegnato il russo, analizzava le trasmissioni delle na­vi verso la costa alla ricerca di ogni eventuale annuncio di "som­mergibile individuato". Un'altra spia cominciò a lavorare alle con­tromisure elettroniche, alla ricerca di emissioni radar in grado di individuare il Gudgeon, ed era pronto a segnalare la necessità di immersione. Potendo, avrebbe registrato una passata del radar affinché l' intelligence statunitense potesse trovare il modo, in futuro, di disturbare quel tipo di emissioni radar sovietiche. Uno specialista dei sonar era pronto a registrare le "tracce sonore" di qualunque nave o sommergibile sovietici che fossero passati nei dintorni. Quelle vere e proprie "impronte digitali" sonore di eliche e macchine avrebbero più tardi aiutato le forze USA a identificare le navi e i sommergibili sovietici in navigazione.

 

Bessac non permise al suo sommergibile di perdere troppo tempo: ben presto diede l'ordine di raggiungere in segreto il limite territoriale delle dodici miglia rivendicato dai sovietici e di superarlo. I suoi ordini glielo consentivano, come gli consentivano di infrangere persino il limite territoriale di tre miglia riconosciuto dagli Stati Uniti. Quello era il vero inizio dell'operazione, che sarebbe durata un mese: muoversi durante il giorno, avvicinandosi e tenendo la maggior parte del sottomarino (lungo 87,5 m e largo 8,2 m) sott'acqua, lasciando al di sopra della superficie solo i periscopi e le antenne.

Ogni notte il Gudgeon si allontanava di 20 o 30 miglia, quel tanto che bastava per azionare i rumorosi motori diesel per caricare le batterie; con lo snorkel faceva riserva d'aria fresca ed espelleva il monossido di carbonio e altri gas nocivi attraverso un apposito tubo. In questo modo si facevano provviste suffi­cienti di aria ed energia elettrica per affrontare un altro giorno di immersione silenziosa nelle acque sovietiche.

Se tutto fosse andato secondo i piani, il Gudgeon non avreb­be mai dovuto azionare i motori vicino alle coste sovietiche, né avrebbe dovuto emergere oltre la quota snorkel fino a quan­do non si fosse trovato a buon punto nel viaggio di ritorno ver­so il Giappone.

 

Le regole erano semplici: stai in silenzio, resta in immersione e, soprattutto, non farti scoprire. Era quest'ultima la regola più importante; il Gudgeon l'avrebbe infranta.

CONTINUA

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Ospite intruder
l'introduzione, però, è un pò comica... ste cose si sono sempre sapute... altro che segreto di stato.

 

Concordo, ma siccome c'è gente, in Italia come in USA, che più del numero di scarpa di Totti non vuol sapere...

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Accadde lunedì 19 agosto 1957, un po' dopo le 17.00, ora della costa sovietica sul Pacifico. Il Gudgeon era in immersione da

 

quasi dodici ore. Ci volevano due o tre ore di navigazione per giungere alla zona isolata dove avrebbe potuto far emergere lo

 

snorkel, e molte altre per fare scorta d'aria fresca e di energia elettrica sufficienti ad affrontare la giornata successiva.

 

Fu allora che, per un momento, il sommergibile sbandò su un lato. A dire il vero solo leggermente: il genere di ondeggiamento

 

che avviene normalmente sotto la superficie con mare agitato. Ma nelle acque calme di Vladivostok quel tipo sbandamento era

 

possibile solo se la vela fosse emersa prendendo il mare lungo. Quindi il Gudgeon cominciò a scendere. Anche in questo caso

 

nulla di eccezionale: non si trattava di un'immersione rapida. Fu una manovra più lieve, con un angolo di discesa appena

 

percettibile sotto i piedi dell'equipaggio.

Improvvisamente suonò l'allarme. Non c'era nulla di impercettibile nell'ordine che echeggiava dagli altoparlanti: «Posti di

 

combattimento!».

 

L'albero delle contromisure elettroniche era rimasto sollevato troppo a lungo: era largo trenta centimetri e alto

 

quarantacinque e l'ufficiale di coperta avrebbe dovuto abbassarlo nel momento in cui avesse individuato segnali radar

 

indicanti la possibilità che i sovietici concentrassero le emissioni sul Gudgeon. Di solito quell'albero restava sollevato

 

per quel tanto che bastava, diciamo per trenta secondi. Ma in quei viaggi presso le coste sovietiche era tenuto in emersione

 

per un po' più di tempo, dato che gli erano state aggiunte, come rami, altre antenne per la raccolta di informazioni.

 

L'ordine di ammainarlo era stato impartito troppo tardi, o i timoni di profondità del Gudgeon non erano stati azionati a

 

dovere, magari lasciando in emersione l'albero e parte della vela.

In ogni caso, qualunque cosa fosse rimasta al di sopra di quelle acque calme avrebbe reso fin troppo facile l'individuazione

 

del Gudgeon, che in effetti fu scoperto. Le navi sovietiche stavano già facendo rotta su di lui quando Bessac cominciò urlare

 

gli ordini per un'azione evasiva. Facendo immergere in profondità il battello cercava uno strato d'inversione termica: una

 

massa d'acqua fredda che potesse nascondere il suo sommergibile riflettendo verso la superficie tutti i ping del sonar

 

indirizzati verso il basso dalle navi sovrastanti. I sovietici avrebbero certamente utilizzato i sonar attivi, emettendo

 

fasci sonori di estrema precisione per creare un quadro completo di ciò che si trovava sott'acqua. Non avevano alcun motivo

 

di ascoltare con i sonar passivi, né di evitare i rumori. Non erano certo loro la preda.

Trenta metri, sessanta metri... Bessac non trovava lo strato che avrebbe potuto nasconderlo. Novanta metri.

L'equipaggio lo sentiva. "Ping... Ping... Ping... " Le ricerche sovietiche lanciavano brividi d'acciaio ad attraversare il

 

Gudgeon e il suo equipaggio. Una nave era sulla loro verticale. Bessac cominciò a portare il sommergibile a maggiore

 

profondità e all'esterno del limite delle dodici miglia marine. Molti dell'equipaggio erano convinti di essere riusciti a

 

fuggire, ma i sovietici continuarono la caccia. In immersione e potendo contare sulle sole batterie, il Gudgeon non poteva

 

lasciarli indietro; d'altra parte non poteva raggiungere una velocità superiore a pochi nodi.

 

Nelle postazioni disposte a cerchio intorno al comandante c'erano gli ufficiali addetti alla direzione del tiro, che sedevano

 

pronti a prendere la mira e a fare fuoco con le armi, se avessero ricevuto l'ordine, e i nocchieri, i navigatori che stavano

 

alle carte e tracciavano i cambiamenti di rotta mentre il Gudgeon si muoveva per sfuggire agli inseguitori. Al di là di un

 

portello stagno, appena fuori dalla camera di manovra, i tecnici del sonar sedevano nella loro cabina oscurata osservando gli

 

schermi e provando a contare i suoni delle eliche.

C'erano due navi lassù, poi se ne aggiunsero altre, tutte con l'intenzione di inchiodare il Gudgeon.

Gli uomini cominciarono a rendersi conto della loro situazione. Le batterie del Gudgeon erano al basso livello tipico di fine

 

giornata, l'aria all'interno era viziata, come sempre a fine giornata. E non c'era modo di azionare i motori diesel, ne di

 

immettere aria fresca o di ricaricare le batterie, se Bessac non fosse riuscito a portare il Gudgeon abbastanza vicino alla

 

superficie da sollevare il tubo dello snorkel, tenendolo sollevato fino a quando l'aria non fosse stata rinnovata. I livelli

 

di anidride carbonica erano già tanto alti da provocare la nausea ad alcuni degli uomini; altri avevano mal di testa. Era il

 

periodo del giorno peggiore per ogni sommergibile diesel e, in assoluto, il momento peggiore per essere intrappolati.

Tutti gli equipaggiamenti non essenziali furono spenti per risparmiare energia elettrica e per ridurre i rumori. I

 

frigoriferi spenti, le luci abbassate al livello d'emergenza: più una luminescenza che un'illuminazione. Ventilatori e

 

sfiatatoi erano fermi.

Bessac ordinò di passare al livello di allarme inferiore, consentendo a molti uomini di andare in cuccetta per risparmiare

 

ossigeno. In alto, una nave inviava i suoi ping contro il Gudgeon, spingendolo verso un'altra nave, che a sua volta ripeteva

 

l'attacco con il sonar. Ogni ping ricordava all'equipaggio che a bordo qualcuno aveva commesso un errore, un gravissimo

 

errore.

Arrivò una voce dagli addetti sonar: c'erano almeno quattro navi lassù, ora.

Giunse quindi un'altra serie di ping, seguita da qualcos'altro; qualcosa di molto più terrificante ...

CONTINUA

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Continua... Dove? Dove? Quando?

 

Post fantastico!

fatto copia e incolla nei miei file di informazioni per scrivere!

Grazie! :adorazione:

 

P.S. solo una domanda, mi sapete dire la differenza tra bocchiere e navigatore?

L'idea che mi sono fatto del nocchiere (leggendo i libri di O'Brian) è colui che traccia la rotta (chenella mia ignoranza identifico come ufficiale di rotta), o sbaglio?

questa è la definizione che ho trovato su wikipedia:

 

"Nocchiero (o nocchiere) è il termine che, nel gergo marinaresco, è attribuito a chi sia incaricato del governo e dei servizi di bordo di una nave, sovrintendendo ad esempio al servizio espletato dal timoniere, al salpaggio dell'ancora o alle manovre dei paranchi o della gru e di capone (o "cappone")."

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Con una serie di pop, un'ondata di piccole esplosioni scese intorno al Gudgeon. Il battello aveva tentato di cambiare ancora rotta, cercando di sfuggire alla cattura, e loro avevano reagito. I sovietici stavano sganciando in acqua piccole bombe di profondità, che producevano un rumore simile a quello delle bombe a mano.

 

Quei suoni attraversavano lo scafo rimbombando. Il battello non aveva subito danni: il Gudgeon era in grado di reggere a quelle piccole esplosioni. Ma che cosa sarebbe successo se i sovietici si fossero spinti oltre, usando vere e proprie bombe di profondità?

Bessac cominciò a impartire ordini per una nuova serie di manovre evasive. Nella camera di manovra gli uomini lavoravano sforzandosi di percepire i suoni provenienti dall'esterno del sommergibile. Altri ancora erano sdraiati nelle cuccette e ascoltavano, aspettando i tonfi delle esplosioni più potenti, che avrebbero significato la possibilità che il Gudgeon non tornasse mai più in superficie.

I sovietici fecero un altro passaggio, poi un altro ancora, lanciando nelle profondità del mare i loro ping e le loro piccole bombe.

A quel punto l'assedio durava da quasi tre ore. Bessac continuava a cercare uno strato di inversione termica, portando il sommergibile alla profondità massima di collaudo, circa 210 metri, poi anche più in basso. Non ebbe fortuna. Forse c'era uno strato a circa 260 metri di profondità. Il Gudgeon avrebbe dovuto essere in grado di reggere alla pressione del mare anche a circa trenta metri al di sotto della profondità massima di collaudo, e probabilmente Bessac avrebbe corso quel rischio. Ma c'era un altro problema, che impediva al comandante di tentare quella manovra estrema: quel giorno qualcosa era rimasto impigliato nel portello esterno dell'espulsore di rifiuti.

Perciò a tenere fuori l'oceano era rimasto solo il portello interno dell'espulsore, un semplice pezzo d'acciaio. Anche a sesessanta metri di profondità, attraverso un foro da due centimetri e mezzo di diametro la pressione del mare avrebbe fatto entrare tanta acqua da superare le capacità di pompaggio del sommergibile, facendolo affondare. Se il pannello di copertura interno dell'espulsore fosse saltato alla profondità alla quale si trovava adesso il Gudgeon, il battello sarebbe stato perduto.

Bessac tentò altre manovre evasive. Ordinò di usare i noise makers, dispositivi lanciabili all'esterno tramite il cannone di segnalazione della sala poppiera. Avevano la forma di bidoni lunghi quasi un metro. Una volta lanciati, reagivano emettendo in acqua una scia di bolle che disorientava i sonar: una specie di gigantesco effetto Alka-Seltzer.

I sovietici non si lasciarono imbrogliare: risposero ai noise makers del Gudgeon con un'altra salva di piccole bombe lanciate in acqua.

Il Gudgeon era ancora sotto attacco.

Bessac si rivolse allora ai timonieri con un «Proviamoci», e cominciò a dare loro istruzioni per dirigere il sommergibile proprio verso il nemico, sperando che i sovietici non si aspettassero una mossa del genere. Non funzionò. E non funzionò quando diresse il battello a sinistra, poi a destra, poi ancora diritto davanti a sé. Ogni manovra evasiva riceveva come risposta una tempesta di esplosivi.

A quel punto potevano esserci otto navi sopra di loro, e passavano tutte, a turno, sopra il Gudgeon. Gli operatori dei sonar controllavano per tutto il tempo i sovietici, mentre gli addetti alla direzione di tiro tenevano i siluri puntati. Ma per i sommergibili spia vigeva la politica generale di "non sparare": non sparare se non in risposta al fuoco. Fino a quel punto le piccole bombe non avevano lasciato il posto a esplosivi più potenti.

L'assedio continuava: dodici ore, ventiquattro ore. Nessuno ricorda di aver visto Bessac, abbandonare la camera di manovra. Nel sommergibile gli uomini avevano fatto entrare ossigeno dai grandi serbatoi attaccati all'esterno dello scafo, due a prua e due a poppa. Ma l'aggiunta di ossigeno non poteva far nulla per ridurre i livelli di anidride carbonica e di monossido di carbonio, che crescevano pericolosamente. Quasi tutti avevano un forte mal di testa, qualcuno era sul punto di perdere i sensi.

I sovietici tenevano in trappola il Gudgeon muovendosi avanti e indietro, di lato, diagonalmente, tracciando i raggi di una ruota formata dalle imbarcazioni nemiche. A ogni passaggio arrivavano i ping e poi gli esplosivi.

Mercoledì 21 agosto: niente di nuovo. Mercoledì pomeriggio: niente di nuovo. Mercoledì prima serata: il Gudgeon era sotto assedio da quasi quarantotto ore e in immersione senza poter usare lo snorkel da quasi sessantaquattro ore. Bessac aveva riportato diligentemente sul giornale di bordo la distanza percorsa in quei due giorni: zero. Si doveva fare qualcosa, qualcosa di drastico.

Coppedge cominciò a girare per tutto il battello, dicendo agli uomini che avrebbero dovuto tentare di usare lo snorkel, o, per dirla con le sue parole, tentare di "tenere il naso solleva­to". Per quasi tutto l'assedio gli uomini erano rimasti in stato di allarme, ma a quel punto venne ordinato il "posti di combattimento". Dovevano avere aria fresca. Dovevano inviare un messaggio per richiedere aiuto. Dovevano rompere l'assedio o morire.

«Stiamo per emergere» annunciò Bessac nella camera di ma­novra. «Appena giunti alla superficie, attivare lo snorkel.»

Quando il Gudgeon raggiunse la superficie, gli uomini tentarono di azionare i comandi idraulici per alzare l'antenna radio. L'antenna non si mosse. Avrebbe dovuto sollevarsi con un bang, ma tutto quello che si udì fu un bump, seguito da un altro. Non appena lo snorkel del Gudgeon raggiunse la superficie, l'equipaggio avviò i motori. Il sommergibile prese una boccata d'aria, poi un'altra.

Fu allora che una delle navi nemiche si mosse, dirigendosi con i motori al massimo direttamente contro il Gudgeon, come se volesse speronarlo, o almeno costringerlo a immergersi. I sovietici non avevano finito con quel sommergibile, non avrebbero permesso ai suoi uomini di pompare dentro aria e non gli avrebbero certamente consentito di chiamare aiuto.

Qualcuno azionò l'allarme di collisione e Bessac ordinò l'immersione. I motori furono spenti e il Gudgeon si trovò di nuovo sott'acqua. L'equipaggio non aveva potuto trasmettere l'SOS. L'aria era viziata come prima.

Bessac ordinò di portare il Gudgeon a centoventi metri di profondità, mentre meditava la sua prossima mossa. Si consultò con Coppedge, che aveva discusso con l'ufficiale tecnico delle condizioni delle batterie e con Doc Huntley, l'ufficiale medico, delle condizioni dell'aria e dell'equipaggio. A Bessac rimanevano poche scelte. Era ovvio che i suoi uomini non potevano sopravvivere ancora per molto tempo. Le batterie potevano resistere ancora otto ore circa, se il sommergibile non si fosse spostato molto, ma non sarebbe servito a nulla: il comandante sapeva di non disporre di potenza sufficiente per sfuggire agli inseguitori.

In pochi attimi la decisione fu presa: il Gudgeon avrebbe tentato di nuovo di usare lo snorkel e probabilmente avrebbe dovuto emergere. Ma una cosa non sarebbe successa: non sarebbe stato abbordato; non sarebbe stato catturato. Il comandante e l'equipaggio sarebbero morti prima di permetterlo. Nessuno a bordo ebbe qualcosa in contrario.

Bessac ordinò di aprire tutti i portelli dei siluri. Sapeva che i sovietici erano in grado di udirli e voleva mostrare loro che gli americani facevano sul serio. Fece quindi consegnare le pistole ad alcuni ufficiali.

Frattanto le spie e gli uomini nella cabina radio dietro la camera di manovra, tutti quelli che maneggiavano qualsiasi tipo di cifrario o altri documenti segreti, cominciarono a metterlo in borse di cuoio sforacchiate e zavorrate con piombo. Alcuni documenti furono distrutti subito. Se i sovietici avessero tentato l'abbordaggio, quelle borse sarebbero state gettate dal boccaporto superiore e sarebbero scese sul fondo del mare del Giappone. Forse il Gudgeon avrebbe potuto fuggire se fosse riuscito a immergersi di più, se quel portello dell'espulsore dei rifiuti non si fosse inceppato. In ogni caso Bessac era stato battuto.

Demoralizzato, diede l'ordine di emersione.

Bessac voleva inviare un messaggio alla base USA in Giappone, ma durante l'emersione l'albero della radio si inceppò di nuovo. Appena lo snorkel uscì in superficie, Bessac ordinò di avviare tutti e tre i motori del Gudgeon, che entrarono in funzione emettendo gas di scarico sia nell'atmosfera viziata all'interno del sommergibile, sia all'esterno. A quel punto nessuno si curava dei gas di scarico; almeno non fino a quando lo snorkel continuò a risucchiare aria fresca e a soffiare via i peggiori veleni che gli uomini stavano respirando.

Il sommergibile si trovava a quota periscopio, ed era chiaro che le navi sovietiche erano rimaste indietro; ma per quanto tempo ancora?

Passò un minuto. Ne passarono due, poi cinque. Gli uomini non erano ancora riusciti a inviare il messaggio, ma il Gudgeon stava imbarcando aria fresca ed espelleva i gas di scarico. L'equipaggio si chiedeva se il CO avrebbe esaminato a fondo la situazione, se avrebbe dato l'ordine di emergere.

Bessac stava facendo i suoi calcoli, valutando le possibilità fino all'ultimo minuto. Il Gudgeon avrebbe avuto bisogno di almeno altri venti minuti di snorkel per ripulire un minimo d'aria; nel frattempo non avrebbe neppure iniziato a caricare le batterie. Se avesse dovuto immergersi di nuovo, nella migliore delle ipotesi avrebbe potuto muoversi contando sull'energia delle batterie. Se fosse rimasto a quota snorkel avrebbe potuto destinare uno dei motori alla ricarica delle batterie, riuscendo comunque a muoversi un po' più velocemente. Ma solo in superficie il Gudgeon avrebbe potuto dirigersi verso il Giappone alla velocità massima di venti nodi. Era impossibile sapere se le navi sovietiche avrebbero attaccato ancora, ma a quella velocita e con un po' di vantaggio iniziale forse, solo forse, sarebbe riuscito a lasciarle indietro.

Bessac prese la sola decisione possibile: ordinò ai suoi uomini di riemergere.

Nessuno era stato ferito e nessun territorio era stato cedu­to. Ma gli Stati Uniti avevano appena perso una battaglia deci­siva. Per la prima volta nella guerra fredda sotto i mari, un sommergibile USA era stato costretto a capitolare, a uscire dal suo

condiglio e a galleggiare vulnerabile sopra le onde. Dopodiché Bessac ordinò di trasmettere una tardiva ri­chiesta di aiuto.

 

Era inutile tentare ancora di nascondere la loro identità. Il messaggio non fu trasmesso in codice. Frattanto il comandante aveva cominciato a salire la lunga scaletta che portava dal portello della camera di manovra alla vela, su fino alla plancia scoperta. Dietro di lui salirono un ufficiale segnalatore e un marinaio addetto ai fonotelefoni, da usare per diffondere in tutto il battello gli ordini di Bessac, nel caso in cui i sovietici si fossero avvicinati con intenzioni bellicose. Se là sopra ci fosse stato un cacciatorpediniere, il Gudgeon non avrebbe avuto alcuna possibilità di cavarsela.

Fuori era ancora giorno; gli uomini sulla plancia scoperta potevano vedere i sovietici. Sulla superficie del mare erano rimaste due, forse tre navi per la caccia ai sommergibili, tutte piuttosto piccole. I sovietici avevano ritirato le altre unità: non occorreva una folla per intrappolare un sommergibile con le batterie esaurite.

I sovietici trasmisero "Able. Able": il codice Morse internazionale per "Chi siete? Identificatevi".

II Gudgeon ritrasmise "Able. Able".

I sovietici risposero "CCCP", la sigla russa per URSS.

II Gudgeon ritrasmise, sempre in codice Morse internazionale, "USN. Stiamo andando in Giappone".

Venne la risposta: l'ordine di rimettere in rotta il Gudgeon e di allontanarsi dalle acque sovietiche. Il segnalatore tradusse allegramente all'equipaggio: «Ci hanno detto "Grazie per l'esercitazione Asw"». Grazie per averci aiutati a fare pratica di guerra antisom. Sembrava fossero passate ore quando, a festeggiamenti già cominciati, gli aerei statunitensi sorvolarono il Gudgeon per controllare che tutto andasse bene su quel battello che correva sulla superficie, cercando di mettere la maggiore distanza dall'Unione Sovietica. Non ci furono festeggiamenti ufficiali per il ritorno del Gudgeon a Yokosuka, quando il battello entrò in porto lunedì 26 agosto. Alla base l'atmosfera era tetra: i sovietici avevano annunciato quel giorno di aver effettuato con successo il primo lancio sperimentale di un missile balistico intercontinentale (ICBM) basato a terra. Il tecnico radio che aveva trasmesso il messaggio di aiuto, fu promosso capo e trasferito immediatamente ad altro incarico. Si diceva che, da allora in poi, il comando dei sommergibili lo avesse obbligato a trasmettere i messaggi con la mano sinistra, temendo che il suo stile, una specie di firma, lasciasse capire a chiunque avesse intercettato le comunicazio­ni che c'era un sommergibile USA nei dintorni.

Anche Bessac fu obbligato a lasciare il battello. Visto che era destinato al trasferimento dai battelli diesel a un posto nella Marina nucleare dell'ammiraglio Rickover già prima di quell'episodio, i suoi ordini non subirono variazioni. Quello che cambiò fu tuttavia il programma operativo del Gudgeon: la Ma­rina annunciò frettolosamente che sarebbe stato il primo sommergibile al mondo a circumnavigare il globo. Era il modo migliore per tenerlo lontano dal Pacifico, dove ormai era ben noto ai sovietici, ed era il modo migliore per cercare di evitare che la storia si diffondesse per tutta la flotta subacquea.

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"Nocchiero (o nocchiere) è il termine che, nel gergo marinaresco, è attribuito a chi sia incaricato del governo e dei servizi di bordo di una nave, sovrintendendo ad esempio al servizio espletato dal timoniere, al salpaggio dell'ancora o alle manovre dei paranchi o della gru e di capone (o "cappone")."

 

Se parliamo di sottomarini ci stanno sia il timoniere sia un sottoufficiale esperto che sovrintende alle manovre di emersione e immersione manovrando le casse di zavorra (COB - Chief of the boat).

Trattasi in entrambi i casi di sottoufficiali però.

 

Quanto all'ufficiale di rotta, è colui che calcola la rotta che la nave deve tenere per arrivare in un dato punto, calcola la posizione della nave, ecc...

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Sull'onda del grande successo del suo programma Polaris, l'ammiraglio Red Raborn cominciò a pensare al futuro, studiando nuovi, ingegnosi modi di migliorare la deterrenza nucleare. Si rivolse perciò a colui che, tra i suoi uomini, era il sognatore: un giovane civile che pochi anni prima l'ammiraglio aveva tirato fuori dall'anonimato per nominarlo responsabile scientifico del programma Polaris: John P. Craven il quale ebbe l'incarico di controllare il lavoro di tutti coloro che si occupavano dello sviluppo dei sottomarini missilistici, per individuarne i problemi e trovare le soluzioni.

 

Intanto la flotta sempre più numerosa di sottomarini nucleari e sommergibili diesel teneva sotto costante osservazione i sovietici e i loro lanci sperimentali di missili che, partendo da terra o da unità navali, erano di retti verso gli oceani. I sottomarini statunitensi seguivano anche la rapida espansione dei sottomarini nucleari sovietici, che avevano finalmente cominciato ad avventurarsi nell'Atlantico e nel Pacifico. La Marina sovietica stava cominciando a tradurre in atto i vecchi piani per diventare una forza d'altura.

In questa situazione l'US Navy teneva quasi sempre almeno un sottomarino a sorvegliare il mare di Barents e due al largo dei porti sovietici sul Pacifico, dove ogni tanto si trovavano a dover evitare le bombe di profondità avversarie. Lo spionaggio subacqueo era diventato così importante che il capo delle Operazioni navali di Washington si era assunto la responsabilità di tutte le operazioni, la cui pianificazione avveniva presso il nuovo ufficio per la guerra speciale sottomarina, appositamente costituito nell'ambito dell'Office of Naval Intelligence.

Così l'ufficiale della Naval Intelligence chiese a Craven un aiuto: un aiuto che avrebbe richiesto da parte sua l'impegno più grande che si fosse mai assunto. L'ufficiale passò a Craven un documento top secret, che era in effetti una lunghissima lista dei desideri preparata nel corso di parecchi anni dalla Naval Intelligence. Prima di Craven solo una decina di persone aveva potuto mettere le mani su quel documento.

Sulla copertina erano stampigliate le parole "Operazione Sand Dollar". Dopodiché l'elenco proseguiva per pagine e pagine. C'erano i punti di impatto in mare dei missili balistici sovietici, controllati e annotati diligentemente dalle unità di superficie della Marina, dai radar dell'Aeronautica e dagli idrofoni sottomarini; c'erano le localizzazioni di aerei e altri mezzi militari sovietici osservati o uditi precipitare tra le onde. A soli pochi chilometri di distanza, cinque al massimo, giacevano i più gelosi segreti militari dell'URSS: il meglio di cui potevano disporre i russi nei campi dei sistemi di guida dei missili, della metallurgia e dell'ettronica. Erano tutti relitti ambitissimi, e tutti fuori portata, nessuna meraviglia che l'Unione Sovietica non tentasse neppure di sorvegliare il nascondiglio: nessuno avrebbe potuto immaginare un raid sottomarino attraverso costellazioni di plancton luminescente, fino alla più profonda oscurità degli abissi. Ma perchè pensavano gli ufficiali dell'intelligence, non utilizzare la comoda copertura dei veicoli di salvataggio a grande profondità per nascondere il tentativo di raggiungere gli oggetti elencati nel documento Sand Dollar?

 

Era l'opportunità che Craven aveva sempre cercato, la possibilità di attingere ai suoi progetti più fantastici. Lo bloccava un solo fatto: non aveva alcuna idea su come realizzare quanto gli stava chiedendo l'ufficiale dell 'intelligence.

 

Craven ebbe allora un'ispirazione improvvisa. «Senta, qui non abbiamo nulla che possa andar bene per le vostre operazioni perché devono essere mezzi che operano clandestinamente.» Un'altra inspirazione rapida e calò il suo asso: «Perciò non vale davvero la pena di impegnarsi nella Sand Dollar; a meno che non lo facciate da un sottomarino».

Quell'idea, espressa d'impulso e quasi con disperazione,avrebbe dato il via all'avventura più audace di tutta la storia della Marina. Un vero sottomarino, tanto grande da poter sostenere la navigazione in alto mare, sarebbe stato attrezzato per restare sospeso negli strati superiori dell'oceano, facendo penzolare apparecchi di ripresa chilometri più in basso, a profondità sufficiente a esplorare il fondo dell'oceano alla ricerca dei tesori sovietici. Era un'idea geniale: compiere i tentativi da sotto la superficie, in modo da essere praticamente invisibili; in modo che i sovietici non potessero mai sapere che gli americani si aggiravano da quelle parti.

 

Adesso a Craven mancava solo un sottomarino.

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John Craven con la moglie Dorothy, il figlio David e il segretario della Marina John Chaffee (a destra).

 

All'epoca la flotta poteva contare su venti sottomarini nucleari d' attacco, più altri in costruzione. Ma gli ammiragli della Marina non intendevano rinunciare a un battello di prima linea per piazzarlo in mezzo all'oceano a tirare su e giù fotocamere. Se Craven voleva un sottomarino, avrebbe dovuto accontentarsi di uno dei due battelli nucleari della Marina rimasti a testimoniare il fallimento delle loro formule, che infatti non erano stati prodotti in serie. Uno era l'USS Seawolf, un battello dall'architettura confusa, con la prua a V di un cacciatorpedi niere e la sommità di un sottomarino, costruito per alloggiare un reattore a sodio liquido dal funzionamento irregolare e che venne subito sostituito. L'altro era l'USS Halibut, un battello dal passato più nobile, ma di breve durata. L'Halibut (SSGN-587) era stato l'unico sottomarino nucleare dotato di missili guidati Regulus e aveva compiuto sette missioni al largo delle coste so vietiche. Il programma si era però concluso verso la metà del 1964, quando la Marina cominciò a basare i sottomarini Polaris nel Pacifico. Una volta terminata l'era dei Regulus, nessuno seppe cosa fare dell'Halibut.

Era una mostruosità marina, uno dei battelli meno idrodinamici dell'intera flotta nucleare e una delle realizzazioni esteticamente più ridicole di quante siano mai uscite dai cantieri navali. L'Halibut aveva un'enorme gobba, che sarebbe stata più adatta a una gigantesca creatura del deserto; per di più si spalancava con un grande portello a bocca di squalo, che faceva parte dell'hangar originale dei missili. In altri tempi, l'Halibut sarebbe stato probabilmente demolito senza clamori. Dopotutto questo battello non era solo brutto, ma soffriva di una malattia quasi fatale per i sottomarini: cacofonia idromeccanica. L'Halibut era rumoroso. I sommergibilisti udivano il frastuono, vedevano solo la possibilità di un allagamento quando guardavano quel portellone e rabbrividivano nell'ispezionare gli ingombranti serbatoi della zavorra, caverne spalancate progettate originariamente per consentire l'emersione rapida, il lancio di un missile e un'immersione ancora più rapida.

Craven visitò il sottomarino che apparentemente nessuno riusciva ad amare e restò di sasso: ne indovinava le possibilità. Quando poi diede un'occhiata a quell'enorme bocca spalancata, tanto gli bastò per saltare letteralmente dalla gioia, come si conviene a ogni scienziato pazzo che si rispetti. In tutta la flotta nessun altro sottomarino aveva il portello più grande di 66 centimetri. Il portellone dell'Halibut misurava 6,70 metri.

Era ormai stabilito: l'Halibut sarebbe stato il sottomarino di Craven. Avrebbe avuto settanta milioni di dollari per riempirlo di congegni elettronici, sonori, fotografici e video. La Marina manten ne la parola e nel febbraio 1965 l'Halibut giunse a Pearl Harbor per esservi riequipaggiato come battello per le ricerche oceanografiche.

Più una smisurata omissione che una vera bugia, quella fu solo una delle molte storie di copertura che Craven avrebbe utilizzato. Craven avrebbe dovuto mettersi presto al lavoro sul progetto dei DSRV e anche su un veicolo da ricerca per le grandi profondità (DSSV). Secondo i piani, il DSSV avrebbe dovuto essere in grado di posarsi sui fondali dell'oceano alla profondità di 6000 metri e di raccogliere oggetti con un braccio meccanico. Sarebbe giunto in tutte le zone di recupero montato sulla sommità di un sottomarino.

Sarebbero occorsi due anni per la ricostruzione e i collaudi dell'Halibut.

 

Frattanto Craven era sempre più spesso convocato in qua lità di esperto delle profondità oceaniche interno della Marina Ma una convocazione fu diversa da tutte le altre. Avvenne un sabato mattina del gennaio 1966.

«Le presento Jack Howard» gli disse un vicesegretario della Difesa responsabile delle questioni nucleari. «Ha perso una bomba H.»

«Perché ha chiamato me?» chiese Craven.

«L'ha persa in acqua e voglio che lei la ritrovi.»

CONTINUA

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Craven fu incaricato di lavorare con una squadra messa insieme d'urgenza da un ammiraglio nel Pentagono. Un altro gruppo stava recandosi sul posto.

Un bombardiere B-52 era entrato in collisione con un'aerocisterna durante un rifornimento in volo a 9000 metri di quota al largo della costa di Palomares, in Spagna, e aveva perso il suo carico di bombe atomiche.

Tre delle quattro bombe erano state recuperate quasi immediatamente, ma la quarta era andata perduta e si presumeva fosse caduta sul fondo del Mediterraneo. Il presidente Lyndon Johnson sapeva che i sovietici stavano cercando la bomba e si rifiutò di dare credito alle assicurazioni della Marina, secondo la quale esistevano buone probabilità che nessuno dei due sarebbe mai riuscito a recuperarla. Quella in effetti era la convinzione di quasi tutte le persone impegnate nella ricerca della bomba; ma non di Craven.

 

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Craven convocò un gruppo di matematici e li mise a lavorare alla realizzazione di una mappa del fondo marino al largo di Palomares. La cosa sembrava abbastanza ragionevole,ma Craven intendeva usare la mappa per un tipo di analisi più simile a una scommessa sui cavalli che a qualunque cosa mai scritta in un manuale di ricerca e salvataggio della Marina.

A mappa ultimata, Craven chiese a un gruppo di esperti di attività subacquee e salvataggio di scommettere, come se fossero a Las Vegas, sulla probabilità che ciascuno dei diversi scenari che descrivevano la perdita della bomba fosse preso in considerazione dal team di ricerca in Spagna. Ogni scenario Poneva l'arma in un luogo diverso.

Quindi ogni possibile sito fu elaborato tramite una formula basata sulle quotazioni create dal giro di scommesse. I siti furono allora rilevati di nuovo, a metri o chilometri di distanza dai punti in cui la logica e la scienza acustica, da sole, li avrebbero localizzati.

Craven si rifaceva al teorema di Bayes sulla probabilità soggettiva, una formula algebrica elaborata da Thomas Bayes, matematico nato nel 1760. In sintesi quel teorema dovrebbe quantificare il valore del presentimento, un fattore della conoscenza presente nelle persone a livello inconscio.

Craven applicò quella teoria alla ricerca. La bomba era agganciata a due paracadute: raccolse scommesse sulle possibilità che se ne fossero aperti due, uno o nessuno. Ripetè lo stesso esercizio per ciascun possibile dettaglio dell'incidente. Il gruppo di matematici elaborò in forma scritta le possibili conclusioni della storia dell'incidente e raccolse le scommesse sulle conclusioni ritenute più probabili. Alla fine del giro di scommesse utilizzarono le quotazioni che ne risultavano per attribuire i quozienti di probabilità a parecchi possibili siti. Fecero quindi la mappa delle probabilità così ottenute e ne ricavarono il sito più probabile e alcuni altri possibili.

Senza essersi mai messo per mare, il team a quel punto era convinto di sapere dove fosse la bomba: secondo i calcoli il sito più probabile si trovava lontano dalla zona di recupero delle altre tre bombe e molto lontano dalla zona in cui era caduta in mare la maggior parte dei frammenti dell'aereo. Peggio ancora se i calcoli di Craven si fossero rivelati esatti la bomba si sarebbe trovata in un profondo burrone, quindi pressoché irraggiungibile.

A conferma di ciò un pescatore diceva di aver visto cadere la bomba in mare e ne indicò il punto preciso, che corrispondeva proprio a quel burrone del fondale. In mancanza di altre indicazioni, alla squadra nel Mediterraneo non restava altro da fare che organizzare una seria ricerca del burrone: cominciò pertanto a contattare ditte che avevano tentato di interessare la Marina ai loro sommergibili per le grandi profondità.

Il Bureau of Ships accettò di finanziare il trasporto aereo di due sommergibili fino a Palomares: l'Aluminaut della Reynolds e l'Alvin della Woods Hole.

 

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DSV Alvin

 

Dopo alcune settimane di tentativi infruttuosi, il presidente Johnson era furibondo: voleva sapere dove fosse la bomba e quando sarebbe stata recuperata.

Per tutta risposta il presidente ebbe una copia dell'ultimo grafico del picco di probabilità elaborato da Craven e modificato per tenere conto delle settimane di ricerche senza esito.

Johnson esplose alla vista delle curve e dei grafici di Cra­ven: se le squadre di ricerca non gli avessero fornito una risposta immediata, il presidente avrebbe trovato scienziati capaci di farlo. Insistette perché fosse organizzato un altro gruppo con scienziati provenienti dalla Cornell e dal Massachusetts Institute of Technology. Il nuovo gruppo si riunì per un giorno intero e alla fine concluse che il piano di Craven era il migliore tra quelli a loro disposizione.

Johnson non ebbe molto tempo per reagire. Quello stesso giorno, infatti, alla sua decima immersione l'equipaggio dell'Alvin avvistò un paracadute avvolto intorno a un oggetto cilindrico: si trovava a 777 metri di profondità, incagliato lungo un pendio inclinato di settanta gradi. L'Alvin aveva trovato la bomba H scomparsa proprio dove la situavano gli ultimi calcoli di Craven. Sarebbero occorse ancora parecchie settimane per recuperare la bomba. Dapprima l'Alvin tentò di agganciarla, ma la bomba ricadde e per tre settimane non fu possibile ritrovarla. Poi la Marina calò da un'unità di superficie un robot, un veicolo di recupero subacqueo controllato via cavo (CURV). Il 7 aprile 1996 ***il gruppo di recupero rischiò di perdere bomba e CURV: il robot non riuscì ad agganciare la bomba e per di più si aggrovigliò nel paracadute attaccato all'ordigno. La Marina, disperata, decise di agganciare insieme CURV e bomba, sperando che quel groviglio fosse abbastanza intricato da poterli portare entrambi in superficie. Non fu un recupero molto elegante, ma riuscì.

 

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La bomba recuperata

 

Per Craven la cosa più importante era però la conferma della sua teoria: a quel punto era sicuro di poter compiere miracoli una volta ottenuto l'Halibut.

Non dovette attendere a lungo: appena tre settimane dopo il recupero della bomba H, l'Halibut fu dichiarato pronto. CONTINUA

 

***Il testo riporta questa data che è ovviamente sbagliata , penso sia 1966

Modificato da VittorioVeneto
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Visto da fuori non sembrava molto cambiato. La sua vela, imponente, era stata ulteriormente elevata per dare spazio ad altri alberi contenenti periscopi e antenne destinate a intercettare le comunicazioni da o verso le navi sovietiche eventualmente impegnate nella caccia. Sulla sommità della prua si trovava una piccola protuberanza, che chiunque avrebbe potuto prendere per una cupola di alloggiamento delle antenne sonar, anche se collocata nel posto sbagliato. In realtà la protuberanza era qualcosa che Craven chiamava un controllo di spinta e direzione. Si trattava di un congegno nato originariamente con uno scarabocchio sul retro di una busta, che faceva entrare nella prua dell'Halibut un flusso d'acqua poi espulso dalle fiancate, permettendo al battello di rimanere quasi immobile in equilibrio nell'acqua. In questo modo l'Halibut non solo era in grado di esplorare il fondo marino, ma poteva anche restare sospeso sopra gli oggetti, dando il tempo per studiarli e forse, un giorno, offrendo ai palombari la possibilità di scivolare all'esterno del sottomarino per procedere al recupero.

All'interno l'Halibut era stato affettato, sventrato e fornito di strutture diverse da quelle di qualunque altro sottomarino. La gobba da dromedario in cui si apriva il portellone era stata trasformata in una caverna tecnologica, soprannominata "Bat-Caverna".

Con le sue pareti d'acciaio inossidabile rivestite di pannelli grigi, marrone e azzurro cielo, l'antro misurava 8,5 metri in lar­ghezza, 15,24 metri in lunghezza e 9,14 metri in altezza, ed era diviso in tre piani.

Conteneva una camera oscura, una sala di analisi dei dati e una sala computer occupata da un computer enorme: l'Univac 24. Era una macchina gigantesca con grandi rulli di nastro magnetico e luci lampeggianti, che dava alla caverna quell'atmosfera fantascientifica alla quale si ispirava il suo nomignolo. I gioielli di Craven erano i "pesci" dell'Halibut, che egli sperava di far navigare alle massime profondità. Ciascuno pesava due tonnellate ed era lungo 3,6 metri: erano creature d'alluminio con lampeggiatori a batteria al posto degli occhi, baffi di elementi trainati del sonar e timoni e piani di prua al posto delle pinne. Progettati per essere trainati dalla base della Bat Caverna con parecchi chilometri di cavo, erano stati partoriti dalla Westinghouse Electric Company al prezzo di cinque milioni di dollari ciascuno. I lampeggiatori, progettati con tanta cura per il trasporto sul "pesce" e per illuminare il fondo del mare, funzionavano anche troppo bene: erano così luminosi da accecare le teleca­mere. Alla fine furono realizzate luci a intensità regolabile. Sfor­tunatamente il segnale video non riusciva ad arrivare fino alla fine del cavo coassiale che trainava i "pesci", uno alla volta. Per­ciò nelle prime missioni l'equipaggio dell'Halibut avrebbe do­vuto arrangiarsi con le immagini sgranate del sonar che pre­sentavano ombre, macchie luminose e sagome. L'equipaggio sa­rebbe stato in grado di mettere le mani su fotografie più nitide solo una volta ogni sei giorni, quando il grosso "pesce" sareb­be stato issato a bordo a poppa, portando le sue pellicole in su­perficie.

In occasione di uno degli ultimi cicli di collaudi del pesce era previsto che un'unità di superficie sganciasse un oggetto nell'oceano. L'idea era di impiegare il "pesce" in una sorta di caccia. L'equipaggio dell'Halibut avrebbe dovuto identificare l'oggetto, che sarebbe rimasto celato alla vista del periscopio dentro una grande cassa. La cassa si sarebbe poi aperta in basso, lasciando cadere l'oggetto, non visto, sul fondo.

Il giorno era giunto, il tempo era buono. l'Halibut e l'unità di superficie presero il mare. Sulla nave, una gru sollevò la cassa e la calò fuori bordo, fino a farla oscillare sul pelo dell'acqua; poi il fondo della cassa si aprì. Pochi attimi dopo la cattiva notizia arrivò sulle onde del collegamento radio nave-sottomarino: l'oggetto che la Marina si era tanto affannata a nascondere stava galleggiando.

L'equipaggio della nave risollevò l'oggetto a bordo e cominciò ad avvolgerlo con un telo e con pesanti catene da ancora, in grande quantità, per poi rigettarlo fuori bordo. Subito dopo il Naval Investigative Service scattò in azione, inviando ufficiali a bordo per estorcere promesse di segretezza a tutti gli uomini della nave, che ormai sapevano esattamente quale fosse il carico segreto. A giudicare dalle dimensioni della cassa e dalla reazione degli investigatori, l'oggetto era stato probabilmente disegnato a somiglianza dell'ogiva di un missile.

L'Halibut condusse le ricerche per alcuni giorni. A un certo punto una barra di controllo si inceppò alla base della camera del reattore dell'Halibut, spegnendolo e obbligando il battello a fare ricorso al motore diesel. Poi andò perduto uno dei pesci" dotati di fotocamere, che raggiunse sul fondale tutti i relitti militari segreti che avrebbe dovuto scoprire. Craven aveva già previsto qualche tipo di disastro con i "pesci": ne aveva ordinati sei esemplari, anche se l'Halibut era stato progettato Per portarne solo due alla volta. Per quanto lo riguardava, avevano perduto solo una specie di ruota di scorta, ma era una ruota estremamente costosa.

Alla fine fu calato l'altro "pesce", che scattò le immagini attese dall'equipaggio. Più tardi, piuttosto soddisfatti, gli uomini dei progetti speciali fecero passare orgogliosamente una fotografia dell'oggetto delle loro ricerche per tutto il battello.

Craven aveva appena registrato un grande successo, la prima indicazione che l'Halibut poteva realmente compiere tutto ciò per cui era stato ricostruito.

 

 

 

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L'Halibut aveva un enorme portello a bocca di squalo , che alla maggior parte dei sommergibilisti faceva venire in mente potenziali allagamenti , ma che a Craven fece intravedere enormi potenzialità

 

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Quell'unico successo dell'Halibut convinse Craven che era ormai giunto il momento di cominciare a soddisfare l'elenco Sand Dollar. E alla Naval Intelligence nessuno era più ansioso di credergli del comandante James F. Bradley Jr.

Bradley, quarantasei anni, aveva appena assunto l'incarico di migliore spia subacquea della Marina e, in quel periodo, si incontrava regolarmente con Craven nel suo appartamento, senza targa e insonorizzato, al quarto piano dell'Anello E del Pentagono. Una triplice serie di porte chiuse sbarrava il passo a chiunque.

Bradley si occupava della preparazione delle missioni di intelligence per ogni sottomarino d'attacco della flotta nazionale. La prima vera missione dell'Halibut si svolse nel Pacifico alla ricerca di frammenti di missili sovietici prodottisi dai test , ma fu un insuccesso poichè il sommergibile rientrò a mani vuote.

Ai primi d'aprile Moore , il comandante dell'Halibut , diresse il sottomarino verso casa. Tornava a mani vuote: non avevano trovato alcun missile.

Mentre tutti festeggiavano il rientro, era in corso un mistero stupefacente. Almeno dodici navi sovietiche si erano dirette nel Pacifico navigando a bassa velocità e battendo rumorosamente l'oceano con i sonar attivi: ovviamente stavano cercando qualcosa. Divenne presto evidente che i sovietici stavano cercando qualcuno dei loro. Avevano perso un sommergibile.

L'USS Barb (SSN-596) era appostato al largo del porto di Vladivostok quando era cominciata la ricerca affannosa. Bernard M."Bud" Kauderer, comandante del Barb, non aveva mai visto qualcosa del genere. Quattro o cinque sommergibili sovietici avevano preso precipitosamente il mare e avevano cominciato a battere l'oceano con i sonar attivi. Si immergevano, tornavano a quota periscopica e si immergevano di nuovo.

I sovietici non facevano alcun tentativo di evitare la scoperta, nessun tentativo di nascondersi. Le loro urla riempivano l'etere, i messaggi non cifrati si intrecciavano disperati intorno a Vladivostok.

«Charlie, Victor, Stella Rossa, rispondete.» «Stella Rossa, rispondete.»

«Stella Rossa, rispondete, rispondete, rispondete.»

A terra gli agenti dello spionaggio statunitense si riunivano attorno ai monitor dell'intercettazione elettronica e ascoltavano. Il Barb osservava, mantenendo il silenzio radio. Arrivò un messaggio urgente dal comando di terra: «Restate sul posto». Mentre il Barb e altre unità di sorveglianza statunitensi ascoltavano, era chiaro che i sovietici non avevano idea di dove cercare il loro sommergibile. A Washington, però, Bradley pensava che avrebbe potuto saperne qualcosa di più.

Per qualche tempo l'Ufficio per le operazioni militari subacquee di Bradley aveva tenuto a lungo e inutilmente sotto controllo un oscuro gruppo di comunicazioni dei sommergibili sovietici, che l'intelligence statunitense non era mai riuscita a decifrare. I sovietici usavano trasmittenti sofisticate, che comprimevano le comunicazioni in brevi raffiche della durata di microsecondi. Bradley pensò che la chiave per trovare il sommergibile disperso fosse in queste raffiche indecifrabili di scariche.

Gli ufficiali dell'intelligence avevano immaginato che quelle trasmissioni provenissero dai sottomarini missilistici sovietici in viaggio verso le zone di pattugliamento a portata di lancio dalle coste USA, o di ritorno dalle stesse. Gli Stati Uniti le avevano controllate e registrate utilizzando una serie di stazioni d'ascolto costruite con tecnologia tedesca: dozzine di antenne erano state piazzate strategicamente lungo la costa del Pacifico e in Alaska. Dopo qualche tempo non importò più molto il fatto che quelle raffiche non potessero essere decifrate. Si ottenevano lo stesso parecchie informazioni da quegli schiocchi e da quei sibili. Leggere differenze di frequenza distinguevano i diversi sottomarini; inoltre i sovietici erano così inquadrati che i loro sommergibili avevano creato un itinerario fisso, lungo il quale l'intelligence USA poteva seguire i loro spostamenti di 6400 chilometri dalla Kamcatka fino a una delle loro zone di pattugliamento principali, poste a 1200,1600 chilometri a nordovest delle Hawaii. Di solito i sommergibili trasmettevano una raffica quando passavano il limite del mare profondo, appena usciti dalla Kamcatka. Un'altra era trasmessa quando attraversavano la linea del cambiamento di data, a circa 3200 chilometri dall'Unione Sovietica e a 180 gradi di longitudine. Una terza segnalava il loro arrivo in postazione.

Era come se dicessero: «Siamo partiti... Abbiamo superato i 180 gradi di longitudine... Siamo in postazione». I rapporti sulla situazione riprendevano quando i battelli rifacevano rotta per la Kamcatka e gli uomini di Bradley credevano quasi di sentire in quelle scariche le richieste dei sovietici per latte fresco, verdura fresca, vodka e donne.

Il gruppo di Bradley cercò allora le registrazioni di quelle comunicazioni e trovò quasi subito quello che voleva: un sommergibile della classe Golf II (battelli diesel che si ponevano tra i primi sommergibili Zulù convertiti al trasporto dei missili e i nuovi sottomarini nucleari lanciamissili sovietici) aveva lasciato il porto il 24 febbraio 1968. Il battello aveva inviato i soliti segnali fino a metà percorso, poi le trasmissioni si erano interrotte. Non ci fu alcun messaggio di attraversamento dei 180 gradi di longitudine; nessuno che segnalasse l'abbandono delle acque profonde o che potesse essere ricostruito come una richiesta di latte o frutta o di qualsiasi altra cosa e che avrebbe segnalato un normale ritorno.

 

Bradley trasmise immediatamente la notizia agli ammiragli di grado più elevato della Marina: i sovietici avevano effettivamente perduto un sommergibile, uno di quelli che trasportavano tre missili balistici. Egli riteneva che il battello fosse affondato tra l'ultima trasmissione a raffica e quella successiva, prevista ma mai giunta; comunque i sovietici non lo stavano cercando in prossimità della zona individuata da Bradley.

E se gli Stati Uniti avessero potuto trovare il sommergibile Per primi? Là, in un unico posto, dovevano esserci missili sovietici, cifrari e una grande abbondanza di informazioni tecnologiche, e Bradley pensava di avere i mezzi per trovarli. Forse l'Halibut non era stato in grado di trovare i frammenti relativamente piccoli di un missile, ma un sommergibile costituiva un obiettivo molto più grande e adatto.

I capitani di fregata Moore e Cook dell'Halibut furono convocati a Washington. Erano attesi dal contrammiraglio Philip A. Beshany, vicecapo delle operazioni navali per la guerra subacquea, da Craven e da Albert G. Beutler, supervisore ai lavori sull'Halibut.

«Secondo alcune informazioni pervenuteci, pare che i sovietici abbiano perduto un sommergibile nel Pacifico» disse Beshany ai due uomini appena entrati. Poi fornì tutti i dettagli e la botta finale: l'Halibut avrebbe cercato il Golf sovietico.

CONTINUA

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Craven cominciò a cercare qualunque altro indizio che potesse precisare ulteriormente la posizione del Golf. Era convinto dell'esistenza di qualche altro segnale udibile dell'affondamento di un sommergibile; perciò contattò il capitano di vascello Joseph Kelly, il maggiore responsabile dell'ampliamento della rete SOSUS dei dispositivi per l'ascolto subacqueo che la marina aveva steso in tutti gli oceani.

Il personale di Kelly controllò velocemente una serie di registrazioni SOSUS, cercando i segnali della morte: il terrore scomposto di un'implosione seguita da esplosioni minori che, tutte insieme, indicavano la discesa di un sommergibile verso il fondo dell'oceano. Ma gli uomini di Kelly non trovarono, nella loro ricerca, alcuna forte anomalia che potesse essere correlata a una potente implosione. Sui nastri di carta era però riportato un piccolo blip, un modesto picco che indicava un unico, forte schiocco. Era proprio nella zona dove Bradley riteneva fosse affondato il sommergibile sovietico.

Che cosa sarebbe successo, pensava Craven, se il Golf si fosse allagato per qualche motivo prima di raggiungere la profondità di schiacciamento? Sarebbe sceso senza il secco, fragoroso e disastroso schianto implosivo dell'acciaio. La sua morte sarebbe stata molto più silenziosa. Craven doveva sapere quali suoni emette un sommergibile che affonda con i boccaporti aperti, pieno d'acqua dell'oceano, con le pressioni interna ed esterna pareggiate molto prima di raggiungere la profondità di schiacciamento. C'era un solo modo per saperlo.

Craven e Bradley convinsero la Marina a sacrificare un sommergibile, affondandolo. L'affondamento sarebbe stato registrato. La Marina fornì un vecchio sommergibile diesel, un veterano probabilmente sfuggito a innumerevoli siluri giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, fu semplicemente abbandonato in acqua, mentre i tecnici del SOSUS ne registravano la discesa. Morì in silenzio, proprio come si aspettavano Craven e Bradley. Ora, pensarono, se un sommergibile con tutti i boccaporti e i portelli stagni accuratamente spalancati era sceso in silenzio, un altro battello con uno dei portelli stagni chiuso dovrebbe affondare con un piccolo schiocco. Così, basandosi sui dati degli altri idrofoni che avevano rilevato lo schiocco, Kelly e Craven effettuarono la triangolazione di quella che riteneva­no la posizione più probabile del Golf: 40 gradi di latitudine e 180 gradi di longitudine. Cioè a circa 2700 chilometri a nordovest delle Hawaii, dove il mare è profondo più di 5000 metri.

 

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Sottomarino sovietico classe Golf

 

 

Beshany non era ancora convinto: pensava che avrebbero dovuto esserci delle implosioni. Anche il fatto che i sovietici cercassero da tutt'altra parte lo lasciava dubbioso. Ma non aveva altri argomenti, così diede l'autorizzazione e l'Halibut fu inviato nella zona indicata da Craven.

Uscì in mare il 15 luglio, gli ordini tenuti nascosti all'equipaggio. Persino gli occupanti della Bat-Caverna ne sapevano poco. Per lo più si riteneva che stessero tornando a cercare il missile sovietico che non avevano trovato nella missione precedente.

Quando il "pesce" fu lanciato all'esterno, di nuovo il grigio del sonar sostituì le immagini di una telecamera che si ostinava a non funzionare. Guardare chilometri di fondali passare monotonamente su un nastro continuo di carta faceva girare la testa. Gli occhi degli uomini bruciavano nel tentativo di mettere a fuoco le ombre che fossero parse estranee al fondo del Pacifico. I turni degli osservatori non duravano mai più di novanta minuti: con tempi più lunghi l'azzurro cielo della Bat-Caverna si animava di spettri grigi.

Notte e giorno l'Halibut andava avanti e indietro. Mancavano ancora otto chilometri di mare per completare l'esplorazione della zona indicata da Craven, Bradley e Kelly. Forse le correnti avevano trascinato lontano il sommergibile sovietico prima che toccasse il fondo, cinque chilometri più in basso.

Più o meno ogni sei giorni il "pesce" veniva recuperato a bordo per prelevare e sviluppare la pellicola fotografica. Si andò avanti così per settimane, ma ancora senza risultati. Poi quella situazione di incertezza svanì.

 

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L'Halibut con la sua caratteristica "Bat-Caverna" in primo piano

 

«Comandante Moore, comandante Moore ! » Era il fotografo di bordo che si precipitava fuori della piccola camera oscura dell'Halibut: si era reso improvvisamente conto che quella volta l'oggetto della ricerca non era un missile. Era al tempo stesso sbalordito e sicuro di aver trovato quello che cercava.

Era una fotografia perfetta della vela di un sommergibile. Il fotografo tremava tanto che Moore si chiese per un attimo se non stesse per avere un collasso. Era il primo successo dell' Halibut: avevano la fotografia della tomba d'acciaio di un centinaio di marinai sovietici.

Moore ordinò di far scendere di nuovo il "pesce" fino al Punto ripreso nella fotografia della vela, fino a quel fondale di 5053 metri sul quale il Golf sovietico sembrava essere stato portato e posato con ogni cura.

Il sonar e la fotocamera del "pesce" registravano tutto il possibile nella zona, raccogliendo nuove informazioni particolareggiate a ogni discesa. Proprio dietro la torre di comando del Golf

c 'era uno squarcio di quasi un metro: doveva essere stato provocato da un'esplosione, probabilmente in superficie, stando al silenzio registrato dal SOSUS; forse era esploso l'idrogeno accumulatosi durante la carica delle batterie ad acido solforico da 450 tonnellate di quel sommergibile diesel. Il battello appariva sostanzialmente intatto, anche se gravemente danneggiato.

Dalle foto si vedeva anche che alcuni piccoli boccaporti erano volati via, lasciando intravedere due silos per missili. Dentro il primo si vedeva un tubo contorto là dove un tempo una testata nucleare attendeva con calma il momento dell'olocausto. Nel secondo silo la testata era completamente andata. Il terzo silo era intatto.

Bradley diede alle foto il nome in codice " Velvet Fist" (mano di velluto") per il modo delicato con cui furono carpite all'oceano. Tutti i milioni di dollari e tutte le ore di lavoro dedi cati all'Halibut avevano dato finalmente i loro frutti. Bradley portò il bottino direttamente al nuovo direttore della Naval intelligence, Frederick J. "Fritz" Harlfinger II, che aveva assunto l'incarico mentre l'Halibut era ancora in mare.

Nella Defence Intelligence Agency quell'uomo era stato vicedirettore della raccolta: negli ambienti dello spionaggio era un modo educato per dire ladro. Lavorando con siriani e israeliani pochi anni prima, il suo gruppo era riuscito a impadronirsi di un caccia a reazione sovietico MIG. Durante il conflitto vietnamita portò al Pentagono un missile terra-aria sovietico. Il gruppo era anche riuscito a rubare ai russi un missile in Indonesia e il motore di un aereo precipitato nei dintorni di Berlino.

Ma le foto " Velvet Fist " erano senza precedenti. Per quanto riguardava Harlfinger, la loro presentazione al presidente avrebbe costituito il modo migliore per iniziare un nuovo lavoro.

CONTINUA

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Sotto la direzione di Harlfinger, Bradley curò il montaggio di quaranta fotografie da mostrare ai più alti ufficiali della Marina e alla Casa Bianca. Il primo fu Beshany, al comando dei sottomarini.

"La tecnologia americana è davvero sbalorditiva" pensò Beshany dando una prima occhiata alle foto "Velvet Fist".

Subito dopo Harlfinger presentò le foto al presidente Johnson. Questi ne fu talmente impressionato che gli ufficiali della Naval Intelligence continuarono a congratularsi vicendevolmente per mesi.

Richard Nixon divenne presidente nel gennaio del 1969. Poco tempo dopo squillò il telefono dell'ufficio di Bradley. Era Harlfinger.

«Muovi le chiappe e vieni alla Casa Bianca. Portati le foto Velvet Fist".»

Alexander Haig, allora vice di Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon, voleva vedere le foto. Ne fu

talmente impressionato che chiese di trattenerle personalmente in custodia.

Braey chiamò Harlfinger in cerca di aiuto, distogliendolo da una riunione. «Haig vuole il materiale» spiegò, fregatene» gli rispose il capo del'intelligence.

Anche se i suoi analisti si erano interessati a lungo a tutto quello che i sottomarini spia riuscivano regolarmente a raccogliere, in genere la CIA lasciava il controllo delle operazioni alla Marina. Ma a quel punto l'agenzia e il suo direttore, Richard Helms, si mostrarono improvvisamente interessati alle profondità oceaniche. Helms cominciò ad architettare un colpo di mano in perfetto stile CIA. Prima di tutto creò un nuovo livello burocratico, un ente di collegamento che avrebbe dovuto riunire le risorse della Naval Intelligence e della CIA. Sarebbe stato denominato National Underwater Reconnaissance Office (NURO).

Lo staff del NURO doveva essere diviso equamente tra Marina e CIA. Ai massimi livelli lo fu. Il direttore era John Warner, nuovo segretario della Marina di Nixon. Bradley sarebbe stato direttore dello staff. A capo degli uomini della CIA c'era Carl Duckett, il suo vicedirettore per la scienza e la tecnologia. Ma la CIA assunse il controllo del NURO fin dal giorno della sua costituzione. Bradley potè destinare al nuovo ufficio solo poche persone: tutto il suo personale della sezione subacquea della Naval Intelligence ammontava a una dozzina di persone. Peggio ancora, a Bradley e a Craven apparve sempre più chiaro che la CIA non sapeva distinguere un sottomarino da una montagna subacquea. Il NURO estese un piano per recuperare il meglio di quanto si trovava a bordo del Golf sovietico. L'idea era di inviare minisommergibili a recuperare una testata nucleare, la cassaforte contenente i cifrari sovietici e le ricetrasmittenti del sommergibile, affinché la Marina potesse finalmente decifrare tutti i messaggi che aveva intercettato e raccolto.

Avevano già dimostrato che era possibile aprire lo scafo del Golf senza distruggere nulla al suo interno. Si erano fatti prestare dall'Esercito alcuni esperti in demolizioni per provare la loro teoria. In una piscina piena d'acqua era stata posta una grande piastra d'acciaio a protezione di diversi oggetti fragili e infiammabili. Su una zona ristretta della piastra era stato applicato dell'esplosivo al plastico che era stato quindi fatto detonare. L'esplosione produsse una piccola apertura, bruciacchiando appena gli oggetti dietro la piastra.

Era proprio quello che serviva: aprire un piccolo varco d'ingresso ed entrare. Il resto del Golf sarebbe stato lasciato alla sua tomba sul fondo. I militari avevano osservato per decine d'anni la costruzione di questi sommergibili in fotografie riprese dall'alto. La Naval Intelligence conosceva i Golf II fino ai singoli dadi e bulloni. I missili usati dai Golf per lanciare i loro carichi nucleari erano abbastanza primitivi, con portate di soli 1200 chilometri. Stati Uniti e Unione Sovietica avevano già progettato missili con portate di 2400 chilometri. Non valeva quindi la pena di tentare l'impresa impossibile di sollevare migliaia di tonnellate di congegni già antiquati dal fondo dell'oceano, senza contare che sarebbero occorsi anni per sviluppare le attrezzature da impiegare in un tentativo di recupero del genere.

Carl Duckett e i suoi fedelissimi della CIA ascoltarono educatamente l'esposizione del piano ridotto. Ma quando tornarono con la loro risposta, Craven e Bradley restarono di sasso: la CIA insisteva per il recupero dell'intero sommergibile e intendeva costruire un'enorme nave gru per raggiungere il Golf e riportarlo alla superficie. Craven e Bradley non potevano crederci. Il Golf aveva con ogni probabilità urtato il fondale a duecento nodi, accelerando la sua velocità di ventun metri al secondo durante la discesa. Poteva sembrare intatto, ma probabilmente era fragile come un castello di sabbia. Se lo si fosse toccato con troppa forza si sarebbe disintegrato.

 

 

Bradley poteva anche avere ragione, ma la CIA aveva il potere a Washington e di solito otteneva quello che voleva; anche se ciò che voleva era, secondo Harlfinger, pazzesco e impossibile. (L'ex direttore della CIA Richard M. Helms dice ora di non aver mai neppure sentito di una soluzione alternativa proposta da Bradley e Craven.)

La CIA non era tuttavia sola nel suo entusiasmo: il capo del­le operazioni navali, Thomas H. Moorer, amava i grandi, affascinanti progetti tecnologici e venne conquistato dal piano della CIA. C'era la possibilità di impadronirsi di un intero sommergibile e di vendicarsi dei sovietici per la cattura della Pueblo da parte dei nordcoreani. E poi non era convinto che il sistema di Bradley e Craven fosse in grado di recuperare tutti gli apparati più importanti del Golf.

Alla fine il segretario della Difesa Melvin R. Laird diede l'approvazione finale al piano della CIA, pur ammettendo che «qualcuno pensava che si trattasse di un'idea balorda». Laird cercò anche di razionalizzare la cosa: la realizzazione di una nave per sollevare il Golf dal fondo del Pacifico avrebbe dato agli Stati Uniti la capacità di recuperare i propri sottomarini che fossero andati perduti.

Laird si consultò con Howard Hughes, il riservato miliardario la cui società di navigazione fu ingaggiata dalla CIA per costruire la nave destinata a recuperare il Golf dal fondo dell'oceano. La nave sarebbe stata chiamata Glomar Explorer, mentre il tentativo avrebbe avuto il nome in codice Progetto Jennifer.

Nixon approvò rapidamente il piano della CIA e Bradley e Craven furono lasciati in disparte a sussurrare il loro dissenso a se stessi e tra di loro.

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La grande nave costruita per quel progetto non era ancora uscita in mare; ma era stata ultimata dalla Summa Corporation di Howard Hughes. Battezzata Glomar Explorer, era lunga come tre campi di calcio e aveva i ponti carichi di attrezzature controllate da computer, carrucole e gru, tutte progettate per inviare un gigantesco braccio dotato di pinze giù per quasi 5200 metri verso il fondo dell'oceano, dove avrebbe dovuto afferrare il sommergibile sovietico per riportarlo in superficie. Mancavano ormai pochissimi collaudi finali prima che la Glomar fosse pronta a uscire in mare per il Progetto Jennifer. Ancora cinque mesi e la CIA avrebbe potuto tentare il recupero.

 

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Glomar Explorer

 

L'idea aveva già superato l'opposizione degli uomini che avevano avuto la responsabilità principale della scoperta del Golf, e soprattutto del capitano di vascello James Bradley, che sarebbe andato in pensione di lì a un mese, e di John Craven, già pensionato. Bradley e Craven erano ancora convinti che quel battello risalente alla fine degli anni cinquanta avesse una scarsa importanza ai fini dell' intelligence e che sicuramente non valesse i costi e le scarse probabilità di estrarlo dall'oceano con successo. Avevano invece proposto un piano molto più semplice e meno pericoloso per recuperare i tesori più preziosi del Golf: sviluppare minisommergibili teleguidati e attrezzati per praticare buchi nello scafo del Golf in modo da prelevare le testate dei missili, gli apparecchi di comunicazione e le macchine di decifrazione; cioè le sole cose di un qualche valore contenute nel sommergibile.

 

Il buonsenso che sottendeva alla loro cautela emergeva ora con chiarezza anche maggiore. I sovietici non utilizzavano quasi più i Golf: avevano finito di costruire una flotta di trentaquattro Yankee e stavano per introdurre in servizio gli ancor più micidiali Delta. I primi Delta, già impegnati nelle prove in mare, avrebbero dovuto iniziare i pattugliamenti nel 1974 e i piani di produzione prevedevano la realizzazione di altre due o tre unità. I Delta trasportavano missili dotati di una gittata di 4200 miglia nautiche (7800 chilometri) che corrispondeva a sei volte quella dei vecchi missili contenuti nel relitto del Golf.

Bradley e altri funzionari della Naval Intelligence sapevano inoltre che le forze subacquee stavano finalmente cominciando a seguire i sottomarini sovietici in navigazione, e non vedevano la necessità di compiere alcuna mossa disperata. Ormai due o tre Yankee stazionavano stabilmente nell'Atlantico e il SOSUS era stato calibrato in modo da rilevarli nei loro spostamenti a rotazione attraverso le zone di pattugliamento, note come "caselle Yankee", a sudest delle Bermuda e a occidente delle Azzorre. In effetti erano state allestite altre stazioni SOSUS e le navi da guerra statunitensi erano ormai dotate di sonar portatili a elementi trainati per coprire le aree in cui il SOSUS non funzionava. La Naval Intelligence aveva anche costituito su entrambe le coste e in Europa e Giappone alcuni centri di "intelligence operativa", che mettevano tutti i dati ricevuti sui movimenti dei sottomarini sovietici ed emanavano bollettini di aggiornamento quotidiani. Durante la guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur gli Stati Uniti erano riusciti a tenere sotto stretta sorveglianza ventisei sottomarini missilistici e d'attacco sovietici in Mediterraneo; i sottomarini d'attacco statunitensi si passavano l'un l'altro la responsabilità di mantenere un inseguimento costante di ciascun battello sovietico in quel mare affollato. Ma il complesso piano della CIA per recuperare l'intero Golf piaceva ancora a Nixon e a Kissinger, ormai diventato segretario di stato. I due appoggiavano con tanto vigore la decisione di impadronirsi dell'intero sommergibile, che le approvazioni finali arrivarono esattamente nei tempi previsti. Anche numerosi leader del Congresso erano stati messi al corrente della cosa.

Il fatto che si fosse riusciti a mantenere il segreto per tutti gli anni richiesti dalla costruzione dell'enorme Glomar Explorer è senz'altro degno di nota. Pur essendo perfettamente visibile la nave era ben nascosta da una storia di copertura che la CIA considerava perfetta: il più famoso ed eccentrico magnate del paese stava costruendo la Glomar per conquistare il monopolio dei noduli di manganese, agglomerati di minerale delle dimensioni di palline da golf sparsi sul fondo dell'oceano.

 

Una volta arrivata sopra il relitto nuove fotografie scattate dalle fotocamere appese alla Glomar mostravano che il Golf si trovava ancora nelle condizioni in cui lo aveva trovato l'Halibut, sei anni prima. Il sommergibile era inclinato sulla dritta. Le foto prese attraverso i boccaporti mancanti o danneggiati mostravano chiaramente che c'era ancora un missile nucleare intatto. Gli altri due erano rimasti danneggiati nell'affondamento del battello.

A parte uno squarcio di circa tre metri subito dietro la torre di comando, prodotto probabilmente dall'esplosione che aveva causato l'affondamento, il Golf sembrava intatto. Era però assai probabile che fosse ormai fragile. La Marina aveva infatti calcolato che il Golf era andato a sbattere sul fondale dell'oceano a circa 200 nodi (370 km/h): un impatto di quella forza avrebbe potuto benissimo frantumarlo sotto il guscio d'acciaio esterno. Questa era stata una delle ragioni per cui Bradley e Craven avevano insistito per un tentativo di recupero più limitato.

Per il momento, però, il problema maggiore era, in primo luogo, raggiungere il sommergibile. Stando alla persona che aveva reclutato l'equipaggio della Glomar, quel compito poteva essere paragonato al sollevamento da terra di un tubo d'acciaio lungo quasi otto metri con un cavo calato dalla sommità del 110° piano del World Trade Center, in una notte buia spazzata da forti venti.

Mentre le pinze giganti cominciavano a scendere lentamente negli abissi, i computer della camera di manovra della Glomar iniziavano a inviare informazioni. Le pinze e il loro lungo braccio d'acciaio erano stati soprannominati "Clementine", dal nome del classico canto dei minatori. In effetti almeno i sovietici ritenevano che il loro battello fosse "perduto e scomparso per sempre".

Il braccio sembrava un'enorme piovra che, alla fine, sarebbe dondolata appesa a un "guinzaglio" lungo chilometri. Aveva otto pinze serrabili, tre delle quali reggevano un'enorme rete d'acciaio. Il "guinzaglio" veniva costruito un pezzo alla volta dagli uomini della Glomar, che collegavano sezioni di tubo lunghe diciotto metri una dopo l'altra, come in un gigantesco gioco a incastro, creando un "guinzaglio" sempre più lungo penzolante verso il fondo dell'oceano. Poi, quando fosse giunto il momento di provare a sollevare il battello affondato, l'equipaggio avrebbe alzato pinze e sommergibile sollevando i pezzi di tubo dall'oceano e smontandoli uno alla volta.

 

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Ricostruzione del "Clementine"

 

Occorsero giorni per far giungere Clementine sul fondo giorni prima che le pinze fossero posizionate esattamente sopra il sommergibile. Poi, quando il "guinzaglio" fu lungo quasi cinque chilometri, gli uomini e i computer della Glomar faticarono per compensare le correnti turbolente, in modo da stendere la rete d'acciaio agganciata a tre delle pinze sulla torre di comando del Golf. Alla fine, quando le telecamere mostrarono una delle pinze a contatto del sommergibile, l'equipaggio provò a spostare il braccio più vicino, affinché anche le altre pinze potessero disporsi intorno e afferrarlo.

CONTINUA

Modificato da VittorioVeneto
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Racconti avvincenti, che dimostano qualora ce ne fosse bisogno quanto superiori fossero (e sono) le capacita tecnologiche e umane

della US NAVY sulla marina Russa, le cui capacita erano sostanzialmente sovravvalutate, un po in tutti i campi, e dire che i Russi

spendevano miliardi di rubli per la loro flotta sottomarina!!

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Ma ci fu un errore di calcolo e Clementine andò a sbattere contro il fondale. Ritirarono il braccio sollevandolo parzialmente e studiarono le immagini inviate alla nave. Nell'oceano scuro appena illuminato, il braccio sembrava sorprendentemente intatto, come se potesse ancora fare presa. Decisero di tentare un'altra volta con Clementine.

La riorientarono e fecero cadere di nuovo la rete d'acciaio sulla torre di comando. Questa volta tutte e cinque le pinze erano in posizione. Sembrava che la Glomar stesse riuscendo a pescare la sua preda, dopo tutto.

Meno di due metri ogni minuto: questa era la velocità alla quale il Golf saliva verso la superficie, con tutte le sue 5000 tonnellate d'acciaio pieno d'acqua. La Glomar cominciò a immergersi maggiormente per il peso, poi a sobbalzare per la tensione. Tra l'equipaggio le conversazioni passarono dalla cattura al ribaltamento.

Passarono nove ore e il Golf si trovava a 900 metri sopra il fondale. Passò altro tempo e il sommergibile era salito a 1500 metri sopra il fondo dell'oceano e a 3600 metri dalla superficie. Ancora un minuto e ci sarebbe stato un altro progresso di quasi due metri. Invece, con uno strappo, venne la certezza che il Golf non sarebbe più risalito.

Tre delle pinze si spezzarono di colpo e precipitarono verso il fondo, probabilmente erano rimaste danneggiate dall'urto contro il fondale avvenuto molte ore prima. A quel punto solo due pinze e la rete trattenevano la sezione prodiera del Golf: il resto del sommergibile dondolava in mezzo all'oceano e pochi attimi dopo dimostrò di essere fragile proprio come avevano previsto Bradley e Craven sei anni prima. L'acciaio del Golf cominciò a lacerarsi in corrispondenza delle giunzioni, finché gran parte del sommergibile si staccò dalla piccola sezione ancora trattenuta da Clementine e risprofondò negli abissi. Il missile nucleare intatto, i cifrari, le macchine di decodifica,i trasmettitori, tutti gli elementi che più stavano a cuore alla CIA insomma, tornarono sul fondale.

 

Il Progetto Jennifer comunque era ben lungi dall'essere concluso. La CIA stava portando avanti i piani di un secondo tentativo di recupero: dopo il primo, terribile fallimento, i suoi esperti tecnici si erano convinti che la Glomar Explorer poteva ancora raggiungere i fondali e impadronirsi di parti essenziali del Golf. La nave di Hughes veniva già riequipaggiata e riparata in quei giorni, e il secondo tentativo era fissato per quell'estate.

 

Nel frattempo però la storia evidentemente trapelata alla stampa fu pubblicata dal New Yok Times.

Apparve con un titolo di tre righe su cinque colonne: "Nave di salvataggio della CIA ha riportato a galla un pezzo di sommergibile sovietico affondato nel 1968, ma non è riuscita a recuperare i missili atomici".

 

E continuava:

Secondo alti funzionari del governo, la Central Intelligence Agency ha finanziato la costruzione di un'unità di salvataggio per grandi profondità del costo di molti milioni di dollari e l'ha usata l'estate scorsa in un tentativo non riuscito di recuperare i missili con testate all'idrogeno e i codici di un sommergibile sovietico affondato nell'oceano Pacifico.

 

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L'amministrazione Ford oppose a ogni ulteriore domanda sulla Glomar un secco "no comment". Era esattamente quanto chiedevano i sovietici, che avevano cominciato a inviare freneticamente messaggi attraverso canali riservati di qualsiasi tipo, implorando il silenzio da parte statunitense: qualunque cosa pur di tenere nascosta quella storia ai cittadini sovietici, che ne erano ancora all'oscuro.

 

 

 

I sovietici avevano le loro buone ragioni per seppellire immediatamente quella storia. Era già abbastanza brutto perdere un sommergibile senza riuscire a trovarlo. Ma fu anche peggio il fatto che gli americani lo avessero trovato e avessero tentato di recuperarlo dall'oceano; e peggio ancora che i migliori ufficiali dello spionaggio sovietico ne fossero venuti a conoscenza leggendo i giornali americani. Ma ciò che rendeva l'intera faccenda ancora più umiliante era il fatto che i sovietici erano stati preavvisati del progetto Jennifer e avevano ignorato l'allarme. Quando, agli inizi del 1974, la Glomar uscì per le prove in mare, Anatoliy Shtyrov, un giovane ufficiale sovietico aveva tentato di avvisare il suo superiore, l'ammiraglio N. Smirnov, comandante in capo della flotta del Pacifico. A quanto ne sapeva Shtyrov, il sommergibile affondato era l'unico oggetto di pregio nella zona di mare in cui era stata avvistata la Glomar Explorer. All'epoca i sovietici avevano tracciato sulle carte una zona generica dove ritenevano fosse affondato il loro battello.

Nonostante le informazioni di Colby, secondo le quali nessuna unità navale ostile si era avvicinata alla Glomar, Smirnov aveva reagito immediatamente, inviando nella zona una velocissima unità di sorveglianza. Tale unità giunse però con mesi di anticipo, mesi prima del tentativo di recupero vero e proprio. Gli addetti alla sorveglianza riferirono a Mosca di avere notato solamente una nave statunitense "progettata in modo incomprensibile e grande come un campo di calcio con "tralicci simili alla torre di trivellazione dei pozzi di petrolio" ferma nella zona. Tre giorni dopo la Glomar si diresse verso le isole Hawaii e la nave di sorveglianza fece rotta verso casa.

Quando la Glomar tornò sul posto per un altro ciclo di collaudi, nel marzo del 1974, Shtyrov convinse il suo superiore a inviare un'altra unità. Ma questa volta l'ammiraglio si rifiutò di arrischiare una delle sue navi meglio equipaggiate nelle acque tempestose del Pacifico settentrionale d'inverno;accettò solo di inviare una nave da ricerca idrografica che era già in navigazione. Il comandante di quella unità stabilì che la Glomar era alla ricerca di petrolio e lasciò presto la scena. La sorveglianza passò quindi a un vecchio rimorchiatore, che si trattenne però per soli dieci giorni. Quando finalmente, in luglio, la Glomar iniziò il tentativo di recupero, Shtyrov chiese ancora una nave di sorveglianza, ma a quel punto aveva perso credibilità presso l'ammiraglio. Inoltre il suo superiore non credeva proprio che gli americani avessero la tecnologia per cercare un sommergibile affondato. Smirnov si rifiutò di ascoltare ulteriormente quell'argomento, decidendo di non mettere a diposizione altre navi. Shtyrov tentò di rivolgersi a un livello superiore al suo comandante, ma ne ottenne un secco rifiuto di una sola riga: "La prego di volgere la sua attenzione all'ottenimento di migliori risultati nei compiti che le sono stati affidati".

Shtyrov non venne mai a sapere che il suo superiore aveva, giacente in ufficio una prova decisiva a conferma della sua ipotesi. A Washington, sotto la porta dell'ambasciata sovietica, era stato infilato un messaggio che diceva:"Alcuni servizi speciali stanno tentando di recuperare il sommergibile sovietico affondato nel Pacifico" ed era firmato "Un amico". L'ambasciata inviò una copia cifrata del messaggio a Mosca, dove i funzionari la inviarono all'ammiraglio Smirnov, che la ripose in cassaforte, ignorandola. Questa storia restò sconosciuta fino a quando il quotidiano russo Izvestia ne pubblicò un resoconto il 6 luglio 1992.

 

E così un addetto navale sovietico avvicinò un capitano del l’US-Navy durante un ricevimento e offrì un patto: se gli Stati uniti non avessero più sollevato pubblicamente la questione, i sovietici avrebbero fatto altrettanto.

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  • 2 settimane dopo...

Il comandante Chester M. Mack, guardava attraverso il periscopio sul mare di Barents. Era là alla ricerca di un nuovo e micidiale sottomarino lanciamissili sovietico che la NATO aveva denominato, senza senso dell'umorismo, Yankee.

Era il marzo del 1969 e i sovietici erano infine riusciti, con un balzo tecnologico straordinario, a realizzare un sottomarino nucleare lanciamissili il cui progetto ricordava molto da vicino i Polaris e che forse era in grado di colpire la Casa Bianca o il Pentagono da più di 1600 km di distanza. Mack doveva raccogliere ulteriori informazioni su quel battello.

Aveva guidato il suo sottomarino direttamente nel mare di Barents, l'area di addestramento gelosamente sorvegliata della Flotta del Nord, la più avanzata e potente di tutta la Marina sovietica. Stava navigando con la sicurezza di chi sa di essere al comando di uno dei più recenti sottomarini della Marina, un battello d'attacco della classe Sturgeon dotato del sonar e dei sistemi d'ascolto più avanzati.

Davanti al suo periscopio c'era uno Yankee, lungo 131 metri, largo 12 e pesante 9600 tonnellate. Mack portò furtivamente il Lapon a meno di cento metri di distanza e si fermò a osservare. Il sottomarino era identico a un Polaris, dalla forma dello scafo fino ai piani orizzontali installati sulla vela.

 

Mack collegò una fotocamera monoreflex Hasselblad al periscopio e cominciò a scattare le foto. Ci sarebbero volute sette di quelle foto, incollate insieme per mostrare tutto lo Yankee.

 

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Sommergibili sovietici classe Yankee

 

Negli anni in cui i primi Yankee erano in costruzione, l'intelligence USA aveva raccolto poco più che immagini confuse riprese dai satelliti spia: mostravano che i sovietici si accingevano a produrre in serie la nuova arma. Ma nel corso dell'ultimo anno, via via che gli Yankee si avventuravano in mare aperto per i collaudi, i sottomarini da sorveglianza statunitensi si erano mossi per dare un'occhiata più ravvicinata a questo mostro nucleare, la cui serie di sedici portelloni nascondeva altrettanti silos lanciamissili. Lo Yankee rappresentava un enorme progresso rispetto agli altri battelli lanciamissili balistici messi in mare dai sovietici: gli Zulù e i Golf a propulsione diesel e i primi sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare, gli Hotel. Nessuno di quei battelli ispirava lo stesso timore provocato adesso da questo Yankee. I sottomarini precedenti erano rumorosi e facilmente localizzabili con il SOSUS e il sonar. Le forze subacquee statunitensi si trovavano ora di fronte a un interrogativo cruciale: lo Yankee aveva copiato solo la forma del Polaris? Possibile che a soli sei anni dalla crisi dei missili di Cuba i sovietici fossero già in grado di lanciare un primo attacco, con un preavviso minimo o nullo? Se quei sottomarini fossero stati silenziosi e micidiali come sembravano, voleva dire che i sovietici erano finalmente riusciti a raggiungere gli Stati Uniti nella capacità di portare un secondo attacco: un modo di rispondere se tutti i loro missili basati a terra e i bombardieri fossero stati distrutti.

Il comandante James Bradley sapeva che il suo programma di spionaggio aveva già prodotto una gran quantità di informazioni essenziali sullo sviluppo dei sottomarini e dei missili sovietici. Le riprese fotografiche del Golf affondato avevano rappresentato un colpo tecnologico da maestri. Ma i Golf costituivano una minaccia ben piccola se paragonati agli Yankee e ormai importava solamente capire come scoprire quei nuovi sottomarini e come distruggerli.

 

Le fotografie di uno Yankee servivano benissimo allo scopo. Ma la l'US Navy e i suoi alleati della NÀTO avevano bisogno di vedere questi battelli in azione, di vedere come trasportavano i missili; avevano bisogno di raccogliere le loro tracce acustiche per essere sicuri che quei sottomarini non potessero mai superare le reti d'ascolto SOSUS inavvertiti e che i sottomarini da sorveglianza e le boe acustiche lanciate dai pattugliatori antisom P-3 Orion potessero riconoscere quella minaccia al suo passaggio.

Qualcuno doveva avvicinarsi a uno Yankee in azione e doveva stargli vicino abbastanza a lungo da fornire agli Stati Uniti le informazioni per contrastare quella nuova minaccia. Un risultato del genere avrebbe giustificato qualunque rischio.L’ammiraglio che fosse riuscito nell’impresa sarebbe diventato la vera star dell’intera flotta subacquea , Mack lo sapeva.

 

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L'ammiraglio Chester M. Mack

 

Mack aveva però altri concorrenti nella flotta dell'Atlantico. Uno era Alfred L. Kelln, ufficiale comandante dell'uss Ray (SSN-653), che aveva scattato la prima foto in assoluto di uno Yankee. Poi c'era il comandante Guy H.B. Shaffer dell'USS Greenling (SSN-614), che aveva fatto scivolare il suo sottomarino proprio sotto un Charlie e uno Yankee pochi mesi prima che Mack ne vedesse uno. In quel modo l'equipaggio del Greenling ebbe l'opportunità di registrare i livelli acustici e le armoniche prodotti in acqua da quei battelli e la possibilità di filmare lo scafo e l'elica sott'acqua, utilizzando il periscopio con una nuova telecamera adatta alle basse luminosità. In realtà il Greenling si avvicinò talmente alla chiglia dello Yankee che i sovietici, se avessero deciso di controllare l'ecoscandaglio, avrebbero pensato che l'oceano era veramente poco profondo in quel punto forse meno di quattro metri sotto di loro!

Quella manovra, nota come "underhulling" ("passaggio sotto lo scafo" ), era estremamente pericolosa: in qualsiasi momento uno dei sottomarini avversari avrebbe potuto decidere di immergersi proprio sopra il Greenling. Ma i risultati furono eccezionali: gli Stati Uniti ebbero la prima impronta acustica di uno Yankee. Le registrazioni dei suoni effettuate dal Greenling furono rapidamente inserite nei computer del SOSUS.

Restava un interrogativo: i dati raccolti dal Greenling sarebbero stati sufficienti a distinguere il passaggio degli Yankee in navigazione in mare aperto, nel frastuono dei pescherecci degli animali marini e delle correnti? Nessuno lo avrebbe saputo finché qualcuno non avesse compiuto un inseguimento prolungato nel corso di uno schieramento operativo.

La corsa era iniziata. Mack e gli altri comandanti facevano i loro turni dirigendosi ancora oltre i cinquanta gradi di latitudine nord, fuori dalle acque statunitensi e fuori portata per comunicare con i comandanti della flotta basati in patria; fuori, verso il mare di Barents e le basi degli Yankee.

L'occasione di Mack si presentò nel settembre del 1969.

CONTINUA

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Ora l'equipaggio messo insieme da Mack stava per essere messo alla prova. Dopo una settimana di viaggio, al Lapon giunse il messaggio che Mack attendeva: il 16 settembre il SOSUS aveva individuato uno Yankee a nord della Norvegia. Stava facendo rotta verso la strettoia GIUK, provenendo dal mare di Barents.

(Strettoia GIUK è un termine utilizzato in ambito militare (angloamericano e NATO), a partire dagli anni '40, per indicare un'area dell'Oceano Atlantico settentrionale che forma un punto di sbarramento per la guerra navale. GIUK è un acronimo per Groenlandia, Islanda e UK e il varco è costituito dall'oceano aperto posto tra queste tre masse di terra.)

 

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Un'altra rete di sensori SOSUS aveva poi scoperto lo Yankee mentre passava appena a nord dell'isola norvegese di Jan Mayen, all'imboccatura dello stretto di Danimarca che separa la Groenlandia dall'Islanda. Se Mack fosse riuscito a intercettarlo prima del suo passaggio dallo stretto al mare aperto, dove sarebbe stato molto più difficile trovarlo, il Lapon avrebbe potuto tentare un inseguimento.

Mentre Mack dirigeva il Lapon a tutta velocità verso lo stretto di Danimarca, un aereo da pattugliamento antisommergibile P-3 Orion alleato confermò la rotta dello Yankee. Il Lapon arrivò il giorno dopo e iniziò il pattugliamento spostandosi lentamente avanti e indietro all'estremità meridionale dello stretto di Danimarca, appena a sudovest dell'Islanda.

Dopo un solo giorno d'attesa, lo Yankee passò a est del Lapon. Il rumore di quel sottomarino era così debole che gli addetti ai sonar rischiarono di non individuarlo, nel frastuono dei pescherecci circostanti e del brulichio degli animali marini. Ma ecco un leggero barlume sull'oscilloscopio: l'immagine elettronica del sottomarino sovietico. Non sarebbe stato facile. Nelle acque rumorose antistantì la Groenlandia si poteva sentire quel sottomarino solo se si fosse avvicinato a meno di 1300 metri dal Lapon.

Mack diresse il Lapon a sudest. Voleva tentare uno "sprint e deriva": il piano consisteva nello spingere il Lapon a venti nodi per una mezz'ora circa, fino al punto in cui prima o poi sarebbe dovuto passare lo Yankee se avesse mantenuto la rotta. Quindi il Lapon avrebbe rallentato a tre, cinque nodi, vagando qua e là in ascolto.

Lo Yankee apparve per un po', poi sparì di nuovo. Mack era preoccupato: i sovietici non mantenevano la rotta prevista. Ogni volta il suono dello Yankee veniva captato per sparire subito dopo, soffocato dal rumore dell'Atlantico, reso ancora più forte dalle violente correnti provocate dalla tempesta che stava infuriando in superficie.

Nei giorni successivi il Lapon trovò e perse più volte la sua preda

 

Poi il quarto giorno , lo Yankee si mostrò ancora. Questa volta il Lapon gli tenne dietro per un'ora, poi per due, poi per tre. Le eliche dello Yankee giravano a ritmo regolare nelle cuffie degli addetti al sonar. Sei ore, dodici ore: lo Yankee seguiva ancora costantemente la sua rotta davanti al Lapon. Dopo diciotto ore, però, sparì dagli schermi del sonar, perso un'altra volta. La rappresentazione subacquea di Mack, così promettente, si era risolta in un fiasco.

Nessuno disse la cosa più ovvia: nessuno voleva essere il primo a dire che forse era impossibile stare sulle tracce di quel nuovo sottomarino sovietico così silenzioso, in navigazione nel concerto cacofonico dell'oceano. Nessuno voleva gettare la spugna.

La delusione di Mack era condivisa a Norfolk e a Washington, DC, dal comandante Bradley, dal viceammiraglio Arnold Schade, che comandava ancora i sottomarini dell'Atlantico, e dall'ammiraglio Moorer, il CNO. Tutti erano stati in costante contatto con Mack, che trasmetteva brevi messaggi in UHF sugli sviluppi della situazione agli aerei statunitensi in volo sulla zona. La Marina, a sua volta, trasmetteva gli aggiornamenti al presidente: Nixon seguiva quella caccia in tempo reale.

Gli ammiragli ordinarono a tutte le installazioni SOSUS della zona di tentare di ascoltare lo Yankee. Anche i P-3 Orion facevano la guardia. Ma in entrambi i casi ogni sforzo si rivelò inutile.

Mack decise di fare una scommessa avventata. Chiamò in quadrato i navigatori e gli ufficiali e annunciò che avrebbero rinunciato a cercare lo Yankee presso lo stretto di Danimarca: avrebbero invece tentato di capire dove si sarebbe diretto dopo, cercando di batterlo sul tempo, arrivando per primi a destinazione. Quindi Mack, il suo secondo Charles H. Brickell Jr., ufficiale tecnico Ralph L. Tindal e altri si chinarono sulle carte e cominciarono un gioco serrato di "e se...", mettendosi nei Panni del comandante dello Yankee. Sulla loro decisione finale pesarono in ugual misura la disperazione e la logica: avrebbero tentato di tagliare la strada allo Yankee molte centinaia di miglia più a sud, presso le Azzorre portoghesi.

Il Lapon si precipitò laggiù e rimase a incrociare intorno al punto stabilito per tre giorni. Troppo tempo, pensava Mack innervosito. Spinto da un'altra idea, diresse il sottomarino verso ovest.

Dodici ore dopo, apparve lo Yankee.

Questa volta Mack era deciso a non lasciarselo sfuggire. Quella parte più meridionale dell'Atlantico non era rumorosa come le acque intorno alla Groenlandia, ma lo Yankee era comunque il sottomarino più silenzioso che un battello statunitense avesse mai tentato di seguire. Era il caso di adottare una nuova tattica, che Mack battezzò su due piedi "inseguimento ravvicinato". Il Lapon avrebbe tallonato lo Yankee seguendolo a meno di 3000 metri di distanza. A più di 3600,4500 metri di distanza lo Yankee sarebbe sfuggito.

La strategia di Mack era rischiosa: lanciare quelle 4800 tonnellate così vicino all'enorme Yankee era pericoloso. Di solito perfino le unità di superficie tendono a mantenere una distanza superiore ai tre chilometri tra loro per evitare le collisioni, in più il Lapon aveva l'inconveniente aggiuntivo di non doversi lasciare scoprire. Mack sperava proprio che questo nuovo sottomarino non avesse un sonar migliore di quello dei suoi predecessori: il Lapon gli era così vicino che sarebbe bastato un pezzo dell'attrezzatura che cadeva sbattendo su un portello stagno nel momento sbagliato, e persino l'antiquato equipaggiamento sovietico avrebbe registrato l'inseguitore americano.

A quel punto l'essenziale era capire che suono producesse il battello sovietico quando rallentava o quando virava. Finché gli addetti al sonar del Lapon non fossero riusciti a scoprire la combinazione di schiocchi e tonalità associata ai vari tipi di manovra, i due sottomarini correvano gravi rischi di collisione.

CONTINUA

 

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SSN 661 Lapon fotografato nel 1967

 

 

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Il Lapon alla Norfolk Naval Station nel dicembre 1968

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Mack fece scivolare il Lapon a destra e a sinistra dietro lo Yankee mentre i suoi uomini cercavano di dare una risposta a tutta una serie di interrogativi. Ancora una volta il comandante giocò a "e se... ", tentando di mettersi al posto del comandante sovietico, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare e quando. Era come risolvere un cruciverba enorme e difficile. Una risposta ne comportava altre, mentre una casella vuota creava molte possibilità di confusione. All'equipaggio del Lapon non restava altro da fare che continuare a raccogliere informazioni. Gli addetti al sonar cominciarono a prestare orecchio a ogni eventuale difetto di costruzione dello Yankee, a qualunque cosa potesse dare loro qualche aiuto nel "vedere" l'altro sottomarino in manovra.

I sonar normali non ci sarebbero mai riusciti. Lo Yankee era semplicemente troppo silenzioso. Ma il Lapon non disponeva solo dei sonar normali: Mack aveva imbarcato qualcosa di più, sotto forma di un apparato sonar sperimentale progettato sulla base di alcune scoperte compiute dall'USS Ray di Kelln nel 1967 e nel 1968, quando inseguì un sottomarino d'attacco classe November in Mediterraneo e poi un Charlie nell'Atlantico settentrionale. Quel dispositivo funzionava migliorando, rispetto ai sistemi standard, la modalità di registrazione dei livelli sonori nell'oceano: si focalizzava su certe tonalità, per esempio quelle prodotte dallo Yankee nel suo moto attraverso l'acqua, che somigliavano alle note musicali emesse da una bottiglia quando qualcuno vi soffia sopra. Dopo una discreta quantità di tentativi e di errori, l'equipaggio del Lapon scoprì che una particolare frequenza cambiava tutte le volte che lo Yankee virava: una virata a destra faceva salire leggermente la tonalità, quando lo Yankee si allontanava, la tonalità scendeva, un rapido cambiamento di tono voleva dire che lo Yankee stava compiendo una brusca variazione di rotta.

L'unica posizione che il Lapon non poteva mantenere nel suo inseguimento era quella esattamente dietro la sua preda. A differenza degli altri sottomarini sovietici, che producevano con le eliche un rumore facilmente individuabile, lo Yankee era talmente silenzioso nel settore posteriore da risultare effettivamente invisibile a un'unità posta dietro di lui. In realtà avrebbe potuto sfuggire del tutto, anche a un ricercatore dotato dell'apparato sonar aggiuntivo del Lapon, se non fosse stato per quello che sembrava un difetto strutturale: sul lato sinistro le macchine dello Yankee erano più rumorose di qualsiasi altra parte del battello.

Da quel momento il Lapon avrebbe seguito il rumore di quelle macchine. Quando diventava più forte, Mack sapeva che lo Yankee aveva compiuto una virata a sinistra. Se invece sembrava svanire, aveva probabilmente virato a destra.

Alla fine la posizione migliore risultò essere quella leggermente decentrata rispetto al lato di poppa dello Yankee, da entrambe le parti, ma con il lato sinistro lievemente più rumoroso. Da quella posizione il nuovo dispositivo sonar captava forti suoni, mentre il sonar normale registrava il rumore del vapore proveniente dalle turbine e i click prodotti a ogni giro dalle eliche dello Yankee. Contando quei click e registrando i conteggi delle rotazioni, Mack e il suo equipaggio stabilirono la velocità dello Yankee.

Tutto questo richiese quattro o cinque giorni: più dell'intera durata della maggior parte degli inseguimenti tentati fino ad allora nei confronti dei rumorosi battelli sovietici di tipo HEN cioè delle classi Hotel, Echo e November. Mack però non se ne sarebbe andato: avrebbe invece continuato l'inseguimento e avrebbe capito il funzionamento dell'avversario

durante il viaggio. Il processo per tentativi ed errori durava per molti turni guardia consecutivi, per cui Mack e l'ufficiale tecnico si incaricavano di informare le squadre subentranti sulle scoperte delle ultime dodici ore.

 

Il comandante era deciso a non lasciarsi più sfuggire lo Yankee, soprattutto quando si rese conto che stava seguendo una rotta diretta verso la costa atlantica degli Stati Uniti.

 

Alcuni giorni dopo il Lapon era ancora dietro lo Yankee, Mack cominciò a rilevare la zona operativa del battello avversario: il tipo di informazioni più prezioso che potesse riportare alla base. I sovietici avevano adottato uno schema di pattugliamento che copriva più di mezzo milione di chilometri quadrati. Si spostavano avanti e indietro, tenendosi a 2400-3200 chilometri dalla costa statunitense.

Fino ad allora la Marina era sicura che l'Unione Sovietica avrebbe inviato i suoi Yankee a circa 1100 chilometri dalle coste USA. Ma la scoperta di Mack avrebbe aiutato la Naval Intelligence a stabilire che in realtà i nuovi missili SS-N-6 degli Yankee avevano una portata di circa 1900-2100 chilometri.

Se il Lapon non avesse seguito lo Yankee tanto a lungo, gli Stati Uniti avrebbero avuto difficoltà a tenersi al corrente della nuova minaccia nucleare sovietica, anche se lo Yankee restava all'interno di quella che sembrava una zona ben delimitata: gli Stati Uniti lo avrebbero infatti cercato quasi 1300 chilome­tri più vicino alla costa.

Ormai Mack poteva tracciare la rotta esatta dello Yankee: una volta scelta una zona, vi si aggirava a circa sei nodi prima di correre verso un'altra zona a dodici, sedici nodi; poi rallen­tava di nuovo. Ogni novanta minuti, con precisione cronometrica, cambiava rotta: qualche volta di sessanta gradi, qualche volta di un angolo assai maggiore.

Ogni tanto, nel corso della giornata, lo Yankee saliva fino a quota di comunicazione, presumibilmente per ricevere messaggi radio, e ogni notte, allo scoccare della mezzanotte, saliva a quota periscopio per arieggiare i locali. Tra le dieci e le sedici volte al giorno faceva un giro completo per pulire gli schermi acustici e ponendosi in ascolto per individuare gli eventuali inseguitori. A ogni giro dello Yankee, il Lapon girava con lui, cercando di stargli dietro, leggermente di lato, mascherato dalla scia del rumore prodotto dallo stesso Yankee. (Anche i sommergibilisti statunitensi puliscono regolarmente i loro schermi acustici quando sono in missione, solo che non lo fanno mai a cadenze fìsse. Sul Lapon la delicata questione degli orari di quelle manovre era stata affidata a una coppia di dadi, lasciati nella camera di manovra proprio a questo scopo).

Una volta al giorno lo Yankee iniziava una frenetica manovra ad alta velocità, che l'equipaggio del Lapon battezzò " Yankee doodle", "Scarabocchio dello Yankee". Lo Yankee si muoveva a spirale, di solito formando una figura a otto o in una sua qualche variante, e terminava disponendosi a 180 gradi rispetto alla direzione di partenza. Girando a sinistra, compiva una virata di 180 gradi, poi un'altra, ancora di 180 gradi, quindi una virata di 90 gradi, una di 270 gradi e infine altre due di 90 gradi ciascuna.

Il primo gruppo di virate sembrava fatto apposta per scoprire un eventuale intruso che lo seguisse da vicino, mentre il secondo gruppo poteva essere destinato alla scoperta di un altro sottomarino che lo seguisse da molto più lontano. Tutto questo era compiuto di solito a velocità elevata e in qualche caso per due volte consecutive. L'intera manovra richiedeva un'ora circa.

Si sarebbe trattato di una manovra efficace, se il sonar dello Yankee fosse stato migliore. Ma evidentemente i sovietici avevano fatto un errore di calcolo fondamentale: il Lapon poteva rendersi conto delle virate e togliersi di mezzo prima che i sovietici potessero sentirlo. Infatti i tecnici sonar del Lapon scoprirono che il loro sistema aveva apparentemente una portata doppia rispetto al sonar sovietico. In buone condizioni il Lapon poteva individuare un'unità di superficie a 18 000 metri; lo Yankee, invece, sarebbe passato a 9000 metri da quella stessa nave prima di mostrare qualsiasi reazione.

Dato che l'inseguimento condotto dal Lapon si era trasformato in routine, Mack pose fine ai suoi sonnellini in posizione verticale: riprese infatti ad andare nella sua cabina privata per dormire sdraiato, anche se mai per più di un ora e mezzo. Non si perse neppure una variazione di rotta o uno Yankee doodle.

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Ormai i tre ufficiali del Lapon che si davano il cambio in plancia si erano accorti di essere entrati in sintonia con i loro colleghi sovietici: ogni americano poteva infatti riconoscere il suo "partner" sovietico da alcune piccole differenze di stile negli Yankee doodles e in altre variazioni di rotta. Avevano dato un nome ai loro colleghi ("Terence il terribile" e "Willy il Sel­vaggio" furono i più popolari) e cominciarono a fare scommesse sull'esattezza delle loro previsioni sulle future mosse sovietiche. Più di tutti vinse Tindal. Anche gli addetti al sonar parteciparono al gioco, interpretando i suoni provenienti dall'interno dello Yankee. Suoni di esercitazioni, di pompe in funzione e altri rumori che portarono a grevi battute, più che altro da umorismo dei bagni pubblici. Un secco rumore metallico era automaticamente registrato come l'asse di un water sbattuto con forza, mentre ogni volta che gli addetti al sonar del Lapon sentivano attraverso le loro cuffie uno sbuffo d'aria, che avrebbe potuto essere lo svuotamento dei serbatoi igienici, registravano in modo del tutto formale: "A pilota. Da sonar. Siamo appena entrati nella merda".

L'eccitazione si stava intanto estendendo dal sottomarino alla terraferma. Mack aveva cominciato a conoscere le abitudini del comandante dello Yankee tanto bene da poter prevedere quando i sovietici si sarebbero immersi in profondità, e sfruttava quei momenti per portare il Lapon a quota periscopica e per inviare brevi messaggi ai P-3 Orion in volo ad alta quota sulla zona di pattugliamento dello Yankee, tutto procedeva a meraviglia finché uno degli Orion non rischiò di porre fine all'intera operazione. Forse il pilota volava a quota più bassa del dovuto perché, quando lo Yankee salì a quota periscopica, l'equipaggio vide l'aereo e fece un'immersione rapida. L'Orion si allontanò velocemente. A bordo del Lapon avevano seguito tutta la scena, sempre senza farsi scoprire. Si resero conto che, nonostante l'avvistamento dell'Orion, i Sovietici non sembravano essersi accorti di essere seguiti anche sott'acqua, oltre che dall'aria. In effetti avevano ragione, almeno fino a quando qualcuno, a Washington, commise un grave errore.

Stando alle voci che circolano nelle forze subacquee, un ammiraglio dell'aviazione navale avrebbe passato a un quotidiano alcune informazioni che rischiavano di compromettere la missione. La soffiata non precisava che il Lapon si trovava nella scia di uno Yankee, e non diceva neppure che un sottomarino armato di missili balistici si trovava in quel momento a 2800-3700 chilometri dalle coste degli Stati Uniti. Ma il 9 ottobre 1969 il New York Times pubblicò in prima pagina un articolo intitolato: "I nuovi sottomarini sovietici sono più rumorosi del previsto".

Chiunque avesse passato quella storia non era al corrente delle scoperte del Lapon, oppure le aveva distorte, perché la verità era molto meno rassicurante di quanto riportato sul Times: come Mack aveva scoperto, gli Yankee erano di gran lunga i sommergibili più silenziosi che i sovietici avessero mai mandato per mare, anche se i sottomarini USA erano ancora più silenziosi.

Il contenuto di quell'articolo doveva essere arrivato alla Marina sovietica e al comandante dello Yankee: solo in questo modo si poteva spiegare il successivo comportamento di quel comandante, a meno che non fosse improvvisamente impazzito. Poche ore dopo la pubblicazione dell'articolo, qualche istante dopo la consueta risalita di mezzanotte a quota di comunicazione, il battello ruppe tutti i suoi schemi: sembrava impazzito. Lo Yankee compì un'improvvisa virata a 180 gradi e tornò rombando sulla sua scia a venti nodi, puntando quasi direttamente sul Lapon. Non sembrava affatto l'insieme calcolato di virate che costituivano uno Yankee doodle, né si caratterizzava per la tranquilla routine delle solite virate compiute per pulire gli schermi acustici.

 

Si trattava di una manovra disperata, con la quale i sovietici volevano vedere a tutti i costi se ci fosse qualcuno che li seguiva. Era quello che i sommergibilisti statunitensi chiamarono "Ivan il Pazzo".

Lo Yankee arrivava volando attraverso l'acqua: la sua immagine riempiva gli schermi della camera di manovra del Lapon e il rumore urlava nelle cuffie degli addetti al sonar. Sembrava di udire un treno merci che passa all'interno di una galleria.

«Quel bastardo sta scendendo» esclamò qualcuno nella camera di manovra. Gli uomini erano tesi, anche se sapevano che il Lapon si trovava ancora novanta metri sotto lo Yankee, quando questo passò alla cieca sulla dritta. A nessuno sfuggì l'ironia del fatto che lo Yankee, nella sua rumorosa carica ad alta velocità, aveva perso l'occasione di scoprire il Lapon. Il battello sovietico continuò la sua ricerca per ore, muovendosi in cerchio, ma Mack gli tenne testa con manovre evasive attuate da un equipaggio che era stato ai posti di combattimento per tutta la durata della scena. Mack si rifiutò di interrompere la caccia. Attese invece che lo Yankee si calmasse, poi continuò la sua missione.

Il 13 ottobre, quasi un mese dopo l'inizio dell'inseguimento, l'ammiraglio Schade inviò un messaggio segretissimo al Lapon: l'ammiraglio Moorer comunica che il SECDEF e tutti gli altri a Washington seguono l'operazione con speciale attenzione e nota con grande piacere e orgoglio il superbo comportamento di tutti i partecipanti. anch'io la penso così.

Il Lapon continuò l'inseguimento per tutto il resto del pattugliamento dello Yankee e anche un po' dopo, quando i sovietici presero la rotta del rientro. Non ci furono più "Yankee doodles" né "Ivan il Pazzo". Lo Yankee seguiva una rotta diretta alla strettoia GIUK, dove il Lapon lo lasciò il 9 novembre.

L'inseguimento dello Yankee era durato per ben quarantadue giorni.

 

Il successo di Mack segnò l'inizio di un nuovo tipo di missione per le forze subacquee: da allora in poi la flotta si sarebbe concentrata sull'inseguimento in mare dei sottomarini sovietici armati di missili balistici. I sottomarini d'attacco statunitensi furono improvvisamente promossi al ruolo di partecipanti decisivi alla difesa strategica nucleare del paese. E avrebbero condotto le più grandi cacce in mare di tutta la storia della Marina. Per il momento, mentre riportava il Lapon a Norfolk, Mack si beava della gloria che aveva finalmente raggiunto. I canali radio erano pieni di messaggi di congratulazioni.

 

Alcuni mesi dopo, il Lapon sarebbe stato insignito della massima decorazione mai conferita a un sottomarino: la Presidential Unit Citation. Whitey Mack avrebbe ottenuto la Distinguished Service Medal, la massima onorificenza personale attribuita dalla Marina ai suoi ufficiali in tempo di pace.

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