Vai al contenuto

9 settembre 1943, l'affondamento della "Roma"


Ospite galland

Messaggi raccomandati

Ospite galland

Un evento storico può essere esaminato sotto molteplici aspetti. La perdita della corazzata Roma, ammiraglia della Regia Marina può essere inquadrata nel novero delle vicende dell'otto settembre (giornata da considerarsi una delle più oscure – in ogni senso – della vita nazionale, le cui conseguenze morali politiche e sociali ritengo non siano mai state completamente considerate in tutta la loro portata e gravità). Nel presente topic voglio porre quel tragico evento, vera disgrazia nella tragedia, sotto una luce particolare: quella del tramonto della corazzata.

 

Questo peculiare tipo di naviglio ha un corso breve ma intenso: se prendiamo a riferimento la giornata di Hampton Roads (9 marzo 1862), che vide il confronto tra l' unionista Monitor ed il confederato Merrimac, ed il 1960 con la radiazione delle unità superstiti della II guerra mondiale (la francese Richelieu, la sovietica Novosibirsk,l'inglese Vanguard), un secolo scarso. Che di poco verrebbe superato se volessimo far risalire la data di nascita alla costruzione delle tre batterie galleggianti (Devastation, Tonnante e Lave) che ebbero ragione delle fortezze russe di Sebastopoli. Correva l'anno 1855 ed era in corso la guerra di Crimea.

 

Un secolo dunque, anno più o meno, una breve frazione nel lungo arco temporale in cui l'uomo è andato per mare, per pace o per guerra.

 

Eppure la corazzata è stata la regina dei mari, tangibile segno di potenza delle maggiori marine del mondo.

 

A porre in crisi questa preminenza è stato essenzialmente la rapida crescita del potere aereo che con inediti, micidiali mezzi offensivi ha vanificato la protezione offerta da corazze di sempre maggior spessore. Il palmares del potere navale spetta oggi alla portaerei, unione del potere navale e di quello aereo.

 

Come di consueto pongo a disposizione una messe di documenti e materiali che spero potranno fornire validi elementi di giudizio, almeno sul piano tecnico-militare. Per quello più strettamente politico quella giornata rappresentò, a dirla senza mezzi termini, una circostanza appropriata per mandare, senza revoche e ripensamenti, una classe dirigente nella pattumiera della storia.

 

 

 

TRENT'ANNI FA AL LARGO DELL'ASINARA L'AGONIA DELLA ROMA

 

L'8 settembre 1943 durante un drammatico colloquio telefonico rimasto finora inedito, « Supermarina » ordina alla Squadra navale di La Spezia di raggiungere i porti alleati. Un gruppo di aerei tedeschi attacca le navi italiane alle 15,30 del 9 settembre. Colpisce il deposito munizioni della più grande delle nostre corazzate. Muoiono 1.352 uomini.

 

roma.jpg

Non è il fungo nucleare ma gli rassomiglia. La Roma colpita a morte è esplosa

Alle ore 16 e 12 del 9 settembre 1943, al largo dell'Asinara, colpita da due bombe-razzo lanciate da aerei tedeschi, affondava la corazzata italiana Roma. In 39 mesi di guerra, fu l'unica nave da battaglia perduta dall'Italia in mare aperto. L'altra corazzata messa fuori combattimento, la Cavour, era stata colpita nella notte dell'11 novembre 1940 da aerosiluranti inglesi, mentre si trovava all'ormeggio di Taranto.

 

Con la scomparsa della Roma non solo si chiudeva in modo drammatico il capitolo dell'alleanza dell'Asse Roma-Berlino ma tramontava definitivamente anche la speranza che almeno una volta le corazzate italiane affrontassero quelle nemiche.

 

Questo atteggiamento di prudenza era per la nostra Marina l'applicazione pratica del principio secondo il quale strategicamente conta di più una flotta in potenza, al sicuro in un porto, che non una flotta in crisi sia pur reduce da scontri vittoriosi.

 

L'annuncio della resa italiana - dato dagli angloamericani l'8 settembre 1943 con appena trecentosessanta minuti di preavviso - colse di sorpresa il nostro Alto Comando Navale (Supermarina) anche perché il rovesciamento dell'alleanza così come era stato ipotizzato dal governo Badoglio e dal gen. Eisenhower, fu veramente un campionario di imprevidenze.

 

Secondo le istruzioni dell'ultima ora le navi italiane, adornate di pennelli e cerchi neri in segno di sottomissione, si sarebbero dovute trasferire a Malta in attesa di conoscere il proprio destino, le cui chiavi erano in mano al gen. Eisenhower. Un ordine che era in effetti un contr'ordine, poiché la Marina italiana era stata preparata - fino al pomeriggio dell'8 settembre - a sostenere la suprema prova contro il nemico pronto ad invadere la Penisola, dopo avere occupato la Sicilia. E siccome l'inizio delle operazioni di sbarco anglo-americano a Salerno (secondo il piano Avalanche) era previsto per la notte del 9, la Squadra navale della Spezia - la sera dell'8 settembre - si disponeva ad uscire dal porto per raggiungere La Maddalena, probabile suo trampolino di lancio verso la costa campana.

 

Nemmeno il comandante, ammiraglio Carlo Bergamini, che il giorno precedente aveva partecipato a Roma ad un « vertice » di emergenza, era stato messo al corrente degli sviluppi della situazione politica. Eppure un breve colloquio preliminare egli l'aveva avuto anche con il ministro e capo di Stato Maggiore della Marina, Raffaele De Courten. L'intesa fra i due ammiragli era stata chiarissima: « La Flotta entro il 9 settembre si sarebbe trasferita a La Maddalena per motivi prudenziali e per essere più vicina al teatro della battaglia ». Nella riunione, poi, gli ammiragli, che avevano tutti compiti di comando, trattarono un solo argomento: una eventuale reazione tedesca contro l'Italia, ma senza un preciso riferimento all'armistizio già firmato a Cassibile quattro giorni prima.

 

Il segreto più ermetico, per volere del capo di Stato Maggiore generale Vittorio Ambrosio, continuava ad essere mantenuto sul documento della tregua militare che, a proposito delle navi italiane, all'art. 4 disponeva: « Il trasferimento immediato in quei luoghi che potranno essere designati dal comandante in capo alleato Dwight D. Eisenhower, insieme coi particolari sul loro disarmo che saranno da lui fissati. » La discussione fra i capi della Marina andò avanti stancamente fra ipotesi e speranze. Qualche ammiraglio prese appunti. Da Zara, che comandava la Flotta di Taranto, addirittura sonnecchiava sentendo ripetere le solite cose sulla disciplina, la fedeltà e il sacrificio.

 

Concluso l'incredibile rapporto, Bergamini fece un salto a casa sua. Sarebbe stata l'ultima notte che avrebbe trascorso in famiglia. La mattina all'alba ripartì in automobile per La Spezia, dove giunse sul mezzogiorno. Trovò. la Squadra in allarme con le navi fuori dei recinti. Solo la Roma era al suo posto, ormeggiata alla Porta Marola dell'Arsenale. Salito a bordo della sua nave Bergamini venne raggiunto dalla prima telefonata. Era De Courten che premurosamente si informava sul suo viaggio da Roma alla Spezia e lo avvertiva di tenersi pronto a partire: erano state avvistate le 450 navi del convoglio anglo-americano diretto a Salerno.

 

Subito dopo il colloquio telefonico, Bergamini riferì ai suoi più diretti collaboratori sulla riunione romana. Messo al corrente sullo stato di preparazione della Squadra, l'ammiraglio convocò sulla Roma per le 15 tutti gli ammiragli e i comandanti delle navi, ai quali impartì le direttive per l'imminente partenza. Improvvisamente, poco dopo le 16, le radio straniere cominciarono a ripetere la notizia, già diffusa da Algeri, che l'Italia aveva deposto le armi. Alle 18, Eisenhower dà l'annuncio ufficiale dell'armistizio. De Courten l'apprende mentre si trova al Quirinale per decidere con gli altri capi di Stato Maggiore la partenza per il Sud del re e della sua famiglia. Dal Quirinale, De Courten avverte l'ammiraglio Luigi Sansonetti, vice capo di Stato Maggiore della Marina, che occorre chiamare subito Bergamini per dirgli che secondo il nuovo ordine egli deve trasferirsi con la Flotta a Malta anziché alla Maddalena, ma che Ambrosio gli aveva confermato che le navi, malgrado le clausole dell'armistizio, non sarebbero state disarmate. Sansonetti è folgorato dalla notizia. Conosce lo stato d'animo degli equipaggi e degli ammiragli. Di Bergamini in particolare sa che più volte aveva dichiarato di non essere disposto a una resa senza combattere almeno una battaglia, un vero scontro con le corazzate italiane da una parte e quelle inglesi dall'altra, circostanza che non si era mai registrata nel corso del lungo conflitto per quanto disponessimo, ancora all'8 settembre, di ben sei corazzate: Roma, Vittorio Veneto e Italia alla Spezia; Doria e Duilio a Taranto; Giulio Cesare a Pola.

 

Negli uffici di Supermarina, - racconta un valido testimone, il comandante M. A. Bragadin, - assolutamente nulla era trapelato di quanto stava succedendo. Alle 18,20 mi trovavo per caso nell'ufficio dell'amm. Girosi, capo del reparto operazioni, quando il telefono squillò: vidi l'ammiraglio sbiancarsi in volto e poi con voce rotta dalla commozione, mi disse: « Il centro radio comunica che Algeri sta diffondendo la notizia di un armistizio. Ma non ci credo. Possibile che noi non ne sappiamo nulla, mentre le corazzate stanno preparandosi a partire per Salerno? » In quel momento, però, il telefono squillò ancora e l'amm. Sansonetti confermò la notizia. Soltanto dopo la proclamazione dell'armistizio l'amm. De Courten fu messo a conoscenza nella loro integrità delle clausole riguardanti la Marina. Perciò i capi di questa dovettero prendere decisioni della più grande portata storica, si può dire in pochi minuti.

 

Sansonetti, per prima cosa, dirama ai ventidue sommergibili che erano stati inviati in agguato nel Mediterraneo l'ordine di limitarsi da quel momento a compiti esplorativi; ordine seguito alle 21 e 10, da quello di soprassedere definitivamente ad azioni offensive contro gli Alleati. Infine trasmette un solenne ma generico proclama di De Courten ai marinai.

 

Il problema più difficile era però quello di far partire le navi per Malta. Sansonetti si rese conto che a quel punto un discorso infarcito di "se" e di "ma" avrebbe raggiunto l'effetto contrario. In altre parole, se a Bergamini fosse stato detto: « Parti pure per Malta, tanto abbiamo la promessa generica che la Flotta non sarà disarmata » era come dirgli di non eseguire l'ordine. Mosso da queste preoccupazioni, Sansonetti impartì l'ordine alla Flotta di raggiungere i prescritti porti alleati, essendo « esclusa la consegna delle navi e l'abbassamento della bandiera ». E per convincere amici e nemici trasmise l'ordine in chiaro.

 

Bergamini, ricevuto l'ordine da Roma, riesamina gli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore. Mentre è tormentato da questi pensieri, squilla il telefono. E Sansonetti che chiama per illustrare il suo ordine operativo.

 

Sansonetti: « È stato firmato l'armistizio. Da Supermarina abbiamo diramato le nuove disposizioni secondo le clausole dell'armistizio. Per evitare equivoci l'ordine

 

viene trasmesso e ripetuto in chiaro. E esclusa la consegna delle navi e l'abbassamento della bandiera. La Flotta deve - però - trasferirsi a Malta. Per il riconoscimento occorre alzare il pennello nero sugli alberi maestri e dipingere cerchioni neri sulle prue. Anche Biancheri a Genova è stato avvertito ».

 

Bergamini: « Anzitutto desidero sapere perché sono stato tenuto all'oscuro di quanto si stava tramando alle nostre spalle. Ancora ieri ci sono stati fatti altri discorsi. Lì a Roma vi siete dimenticati quali responsabilità tecniche e morali ha il comandante della Flotta. Qui la situazione è confusa. L'orientamento generale è per l'auto-affondamento ».

 

Sansonetti: « E una soluzione gravissima contro gli interessi della patria la cui responsabilità ricadrà sul comandante della Flotta... »

 

Bergamini: « Per questo motivo chiedo di parlare con il ministro e capo di Stato Maggiore che, ancora a mezzogiorno, mi ha confermato l'ordine di tenermi pronto a partire per l'ultima battaglia ».

 

Sansonetti: « Riferirò ». Passano pochi minuti. Roma richiama. Questa volta è De Courten il quale ha ormai capito che Bergamini è riluttante ad accettare l'ordine di consegnarsi agli inglesi.

 

De Courten: « Sansonetti mi riferisce che alla Spezia vi sono difficoltà. Posso comprenderle ed anche giustificarle. Del resto anch'io, che sono il ministro e il capo di S.M. della Marina, solo due ore fa ho appreso per la prima volta che l'armistizio era stato firmato. Non siamo stati mai consultati. Ma ormai, visto come si sono messe le cose, non resta altro da fare

 

che eseguire gli ordini. Sansonetti ha già predisposto tutto. La Flotta deve trasferirsi a Malta. Non è previsto né il disarmo né l'abbassamento della bandiera. Quindi mi pare... ».

 

Bergamini: «Ripeto quanto ho già detto a Sansonetti. Lo stato d'animo degli ammiragli e dei comandanti che ho sentito nel pomeriggio è orientato verso l'autoaffondamento delle navi. E anch'io... ».

 

De Courten: « Ma se il comandante della Flotta non se la sente di eseguire gli ordini, è autorizzato a lasciare il comando, è un modo per risolvere i suoi problemi di coscienza ».

 

Bergamini: « Non ci sono precedenti di un comandante che abbandoni i propri marinai nel momento del pericolo. Questo è un invito che devo respingere ».

 

De Courten: « Il dovere più grave è quello di adempiere a qualunque costo le condizioni di armistizio perché questo sacrificio potrà portare in avvenire grande giovamento al Paese. La Flotta deve assolutamente lasciare La Spezia. Occorre sottrarre le navi al pericolo di un attacco da parte dei tedeschi e gli equipaggi dall'influenza dell'ambiente terrestre, occorre anche evitare le ripercussioni di eventuali discussioni fra marinai, ufficiali e comandanti. Ripeto che la decisione di accettare l'armistizio è stata presa dal re - con il quale ho parlato un'ora fa - che è stato confortato dal parere del grande ammiraglio Thaon di Revel.

 

«Secondo le clausole dell'armistizio, ripeto, le navi non devono ammainare la bandiera né saranno cedute. Devono solo trasferirsi a Malta, poi si vedrà. Tuttavia Ambrosio, il capo di Stato Maggiore generale, mi ha assicurato d'aver chiesto agli anglo-americani che la Flotta per motivi tecnici possa trasferirsi alla Maddalena. Quindi intanto esci dalla Spezia, come avevamo del resto concordato ieri. E fino a questo punto mi pare che non ci siano novità e difficoltà. Poi, una volta in mare, la Flotta riceverà altri ordini con la speranza che nel frattempo gli alleati accolgano la variante della Maddalena al posto di Malta. Alla Maddalena tutto è pronto per l'ormeggio delle navi. Capisco, è un brutto momento, ma tutti dobbiamo fare il nostro dovere. Tutti dobbiamo far qualcosa ». Bergamini: « D'accordo. Esco stanotte con tutte le navi e mi dirigo alla Maddalena in attesa di nuovi ordini ».

 

Chiuso il concitato colloquio, Bergamini si rende conto che ormai gli avvenimenti sono determinati da altri. Al comandante Bedeschi che gli è vicino, dice: « E un dramma. Non consegnerò mai le navi al nemico. Le navi le porterò in un ancoraggio italiano o in un porto neutrale. Sento però che non ci vedremo più. Ci autoaffonderemo ».

 

A bordo delle unità l'animazione ha raggiunto punte pericolose. Bergamini è costretto a dare disposizioni perentorie che nessuno si presenti sulla Roma senza preventiva autorizzazione. Nessuno solleciti ordini. Al momento opportuno verranno. Alla fine decide di riconvocare ammiragli e comandanti. Sono le 22.

 

La partenza della Squadra, data per imminente nel corso della giornata, era stata rinviata più volte. La tensione fra gli equipaggi era, al massimo. Bergamini riprende in mano la situazione. Agli ammiragli e comandanti delle navi conferma la notizia dell'armistizio e brevemente accenna ai suoi colloqui telefonici con Roma. Esalta il supremo dovere dell'obbedienza, necessario più che mai in quel drammatico frangente. « La Marina » dice « finirà la guerra contro le maggiori potenze marittime essendo ancora materialmente abbastanza forte. Questa forza della Marina sarà per l'Italia il presidio della rinascita; il nostro dovere è di rimanere fedeli al giuramento prestato ». Concluse presagendo che la Marina sarebbe stata « la pietra angolare della ricostruzione nazionale ».

 

Diretta alla Maddalena la Squadra partì, quindi, alle ore 3 del 9 settembre anziché - secondo gli accordi del giorno 7 - al tramonto del giorno 8. Non inalbera i segni neri della resa. Alla stessa ora ha inizio nel golfo di Salerno l'Operazione Avalanche.

 

 

Escono dalla Spezia tre corazzate: la Roma, con a bordo lo stesso ammiraglio Bergamini, Vittorio Veneto e Italia (ex Littorio) con l'ammiraglio Garofolo, seguite da tre incrociatori (Eugenio di Savoia, con l'ammiraglio Oliva; Montecuccoli e Regolo) e da otto cacciatorpediniere (Legionario, Grecale, Oriani, Velite, Mitragliere, Fuciliere, Artigliere, e Carabiniere).

 

È una notte calma, di luna. La Flotta si mantiene a una ventina di chilometri dalle coste occidentali della Corsica, velocità22 nodi. Alle 6.15 la squadra di Bergamini è raggiunta dai tre incrociatori provenienti da Genova al comando dell'amm. Luigi Biancheri (Abruzzi, Garibaldi e Aosta). Precedono cinque torpediniere (Libra, Orsa, Pegaso, Impetuoso e Orione).

 

All'alba la Flotta è avvistata da un ricognitore alleato. Alle 8 della mattina l'amm. Meendsen Bohiken, comandante tedesco alla Spezia, dà l'allarme a Berlino: « La flotta italiana è partita nella notte per consegnarsi al nemico ». In realtà le navi italiane della Spezia e di Genova erano dirette alla Maddalena. Fra l'altro esse avevano fatto il pieno di nafta e di viveri sufficienti per una lunga crociera o per una prolungata sosta in qualche porto.

 

A mezzogiorno del 9 la Flotta è in vista delle Bocche di Bonifacio. Le navi avanzano in linea di fila. Bergamini accosta di 90 gradi a sinistra e punta verso La Maddalena. Ma alle 13.40 giunge l'allarme che La Maddalena è stata occupata dai tedeschi. Senza indugi, Bergamini inverte la rotta di 180 gradi.

 

Alle 14 Bergamini è in vista dell'Asinara. In cielo vengono avvistati ricognitori. All'improvviso da alta quota, da cinquemila metri, aerei lanciano poche bombe sulle navi, ma nessuna di esse viene colpita. Bergamini telegrafa di essere stato attaccato da apparecchi anglo-americani, secondo i dati di provenienza forniti dal radar DETE. Sansonetti informa Malta, la quale respinge la « insinuazione ». Gli aerei non sono alleati. Il mistero resterà tale.

 

Intanto a Berlino si prepara la rappresaglia. Goering in persona si assume il compito di dare una lezione ai traditori italiani. La missione viene affidata alla Terza Flotta aerea di base in Francia, il cui comandante gen. Hugo Sperrle trasmette il Befehl al gen. Fink, della Seconda Divisione aerea. Alle 10 l'ordine esecutivo raggiunge il Terzo Gruppo del 100° stormo di stanza a Istres (Marsiglia).

 

Alle 13.23 un ricognitore tedesco dà il segnale di scoperta della flotta italiana. Alle 14 il gruppo (15 bimotori DO 217 K) al comando del ventinovenne magg. Bernhard Jope si leva per la « spedizione punitiva 1943 » (vera Strafexpedition aerea). Gli apparecchi trasportano ciascuno una bomba del tipo FX-1400 che ha già dato buona prova contro la Warspite, uno dei gioielli della Marina di S.M. britannica.

 

L'ordigno era stato progettato, nel 1939, dal dott. Kramer e il suo primo nome era stato FritzX. L'FX-1400, che veniva anche indicata come SD1400, consisteva in una bomba da 1400 chili con alta capacità di penetrazione, alla quale erano state aggiunte quattro alette, un motore a razzo e piani di coda cinti da un anello di irrobustimento. In prossimità di questi ultimi erano sistemati il ricevitore radio e i relais. La guida era assicurata dall'aereo, che l'aveva lanciata, a mezzo radio. La bomba, con un carico esplosivo di 300 kg, era lunga m 3,30.

 

La Roma sarà la sua vittima più illustre. Jope - oggi comandante della Lufthansa - dopo un'ora di volo - giunge sul cielo della Flotta italiana. Compie ampi giri per studiare il piano di attacco. Alle 15.25 ordina ai suoi bombardieri di puntare sui rispettivi obiettivi. Alle 15.30 la prima bomba è diretta contro l'Italia e piomba nelle vicinanze della corazzata immobilizzandone temporaneamente il timone; la nave viene governata con gli « ausiliari ». Il punto è pressappoco a 14 miglia a Sud-Ovest di capo Testa.

 

Alle 15.45 la Roma viene, a sua volta, colpita in pieno. La bomba scoppia dopo aver perforato lo. scafo. La velocità viene ridotta a 10 nodi. Ma cinque minuti dopo, una seconda bomba colpisce la corazzata-ammiraglia. Esplode per malasorte nei depositi prodieri delle munizioni. Il torrione di comando scompare proiettato in alto a pezzi. È la fine per Bergamini e tutto il suo stato maggiore, con in testa l'ammiraglio Stanislao Caracciotti.

 

Una colonna di fumo si eleva per un migliaio di metri. Alle 16.12 la Roma si gira su un fianco, capovolgendosi. Si spezza in due tronconi e affonda. Si trascina per sempre in fondo al mare due ammiragli, 86 ufficiali e 1264 uomini di equipaggio. Una seconda bomba colpisce l'Italia. Esplode in mare e provoca una falla di 24x9. Ma la nave continua a navigare alla velocità di 24 nodi.

 

Con la scomparsa di Bergamini viene rimosso l'ostacolo più difficile da superare per convincere la Flotta a dirigersi verso Malta. Il comando viene assunto dall'ammiraglio più anziano, Romeo Oliva, il quale lascia indietro il Regolo, tre caccia (Mitragliere, Carabiniere e Fuciliere) e la torpediniera Pegaso per raccogliere i sopravvissuti della Roma (596 su 1948 a bordo) che poi verranno trasportati a Port Mahon, nelle Baleari. Resteranno internati per un anno.

 

Per l'ennesima volta gli Alleati, nel frattempo, respingono la richiesta di dislocare la Flotta italiana alla Maddalena. Le navi intanto proseguono nella rotta verso Minorca, il porto neutrale meta di Bergamini.

 

Alle 17.14 in lat. 7° Nord e long. 41° 10' Est, cioè ad un terzo della distanza tra l'Asinara e l'isola spagnola, sul diario dell'amm. Biancheri è segnato un altro bombardamento aereo senza danni per le navi. Supermarina tempesta Oliva di messaggi.

 

Finalmente alle 21 l'ordine di trasferirsi a Malta viene eseguito. Sono passate o l t r e 24 ore da quando era stato impartito. Le navi inalberano i pennelli neri.

 

Alle 8.38 del giorno 10 la Flotta italiana incontra quella britannica. Sfilarono controbordo la Valiant e la Warspite che innalzava le insegne dell'ammiraglio Cunningham. Le due corazzate erano vecchie conoscenze dei marinai italiani. Il « gregge » delle navi italiane aveva cambiato pastore. Sotto la sua nuova guida venne accompagnato all'ovile: a Malta. Tramontava una grande Marina.

 

 

 

Il maggiore Jope racconta

 

AFFONDARE LA ROMA? NIENTE DI SPECIALE

 

Abbiamo rintracciato in Germania il protagonista dell'episodio. Ha 59 anni, vive a Maibach, di professione è pilota civile. Quando bombardò la Flotta italiana comandava il Terzo Gruppo del 100° stormo della Luftwaffe.

 

roma2.jpg

 

Bernhard Jope, l'affondatore della Roma, ha quasi sessant'anni: dieci li ha passati nella Luftwaffe, prima come pilota e poi alla guida di un Gruppo di aerei da bombardamento, da altri diciotto vola con il grado di comandante della Lufthansa, sulle rotte transcontinentali. Ha percorso in aereo centinaia di migliaia di chilometri, eppure confessa sinceramente che gli dispiacerà molto abbandonare i Boeing 707 con cui vola regolarmente a Karaci, Bombay, in Australia o in Canada.

 

E nato nel 1914 a Lipsia, vive a Maibach, un paesino di poco più di duecento abitanti a circa sessanta chilometri da Francoforte. Da pochi anni si è sposato per la seconda volta. Nella città dove è nato e ha trascorso la prima giovinezza, a Lipsia, non è più tornato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, perché la città è rimasta compresa nel territorio della Germania Est.

 

Sul terrazzo della sua villa circondata da un piccolo prato all'inglese, Jope racconta di essere entrato nell'aviazione della Germania nazista nel 1935, e di avere combattuto per tutta la durata della guerra prima in Polonia, poi in Francia, in Norvegia, di nuovo in Francia dove nel 1945 fu catturato dai francesi. Era soltanto un soldato, uno dei tanti che avevano combattuto in difesa del Terzo Reich. Fu liberato dopo poche settimane di detenzione e, in luglio poté rientrare in patria.

 

La guerra era finita, la Germania sconfitta non aveva più aviazione, né militare né civile. Jope non conosceva che un mestiere, pilotare aerei: dovette ritornare a scuola, prendere la laurea in ingegneria, e come ingegnere lavorare alcuni anni nell'edilizia. Nel 1955, rispondendo a un invito della ricostruita Lufthansa ritornò a volare, pilotando gli aerei destinati alle rotte transoceaniche. Per cinque anni è vissuto in Sud America, volando dal Cile a New York, e di qui in Brasile. Nel 1971 è rientrato in Germania, l'anno prossimo andrà in pensione per raggiunti limiti di età, e sarà costretto a lasciare l'aviazione.

 

Dal giorno lontano in cui guidò un gruppo di bombardieri sulla Flotta italiana che da La Maddalena dirigeva a Minorca sono passati trent'anni. Alto, stempiato, il corpo un po' appesantito dall'età, Bernhard Jope dice di ricordare bene l'azione. Affabile, sicuro di sé, risponde cortesemente alle nostre domande.

 

 

D.: Come e da chi fu comunicato l'ordine di bombardare le navi italiane?

 

Jope: il 6 o 7 settembre 1943 fui chiamato al Comando di Gruppo, e il comandante, che credo fosse il generale Richtofen, mi ordinò di preparare l'azione contro la Flotta italiana, dandomi tutte le istruzioni del caso. Fu però soltanto due ore prima dell'attacco che, come comandante di Gruppo, ricevetti l'ordine di levarmi in volo, e con me gli aerei del Gruppo che comandavo.

 

 

D.: Che cosa sapeva della"bomba FX 1400? L'aveva già usata nel corso di altri bombardamenti?

 

Jope: Della bomba, che dalle iniziali del suo nome in codice avevamo soprannominata Fritz, conoscevamo soltanto gli effetti teorici, e il metodo di puntamento radio-guidato mediante un piccolo congegno sistemato nella coda dell'ordigno, che serviva a dirigere la bomba stessa fino al bersaglio, con una certa approssimazione. L'FX 1400 era un'arma segreta, che prima era stata sperimentata in Germania, e che veniva usata per la prima volta contro un nemico proprio in occasione del bombardamento della Flotta italiana. Il Gruppo di aerei che comandavo era il solo a esserne armato. A Istres-Marsiglia c'era un altro Gruppo di bombardieri che aveva in dotazione un'altra arma segreta, una bomba razzo radioguidata chiamata Henschel 293, ma l'FX 1400 era in dotazione solo agli aerei del mio Gruppo,

 

 

D.: Perché proprio lei con il suo Gruppo foste prescelti per quella missione? C'era qualche motivo particolare?

 

Jope: Date le caratteristiche del bersaglio, navi da guerra pesantemente corazzate, il Comando della Luftwaffe ritenne che solo con l'FX 1400 sì avesse buone possibilità di fare centro. Fu scelto il mio Gruppo perché era il solo armato con quel tipo di bomba, che doveva essere sganciato da grande altezza. Avrebbe potuto toccare a qualsiasi altro comandante di Gruppo, se si fosse trattato di una azione normale, ma in quel caso specifico l'ordine fu invece dato a noi.

 

 

D.: Che tipo di aerei c'erano, nel suo Gruppo, e quanti?

 

Jope: Erano bimotori Dornier del tipo 217 K. A Istres-Marsiglia ogni Gruppo era composto da 80 o 100 aerei, ma all'azione contro la Flotta italiana, ai miei ordini, non parteciparono che 10 o 12 aerei in tutto.

 

 

D.: Riteneva possibile incontrare aerei italiani a difesa delle navi da guerra?

 

Jope: Era forse possibile che ci fossero aerei italiani, ma nessuno mi aveva detto nulla in proposito, e personalmente non lo ritenevo probabile.

 

 

D.: Ricorda come si svolse l'azione, quando furono avvistate le navi, e che cosa fecero gli aerei del Gruppo durante l'attacco?

 

Jope: Ricordo benissimo l'insieme delle navi, quattro o cinque da battaglia, e intorno le altre più piccole, un convoglio di venti o venticinque navi in tutto. Venivamo da Est, volavamo da circa un'ora e mezza. Erano le prime ore del pomeriggio quando avvistammo la squadra, e quando fummo sicuri che si trattava proprio della Flotta italiana ciascuno di noi si preparò a fare quello che gli era stato ordinato. Con tutti gli aerei a poca distanza gli uni dagli altri, sorvolammo l'obiettivo, e cercammo una buona posizione di attacco. Ciascun pilota scelse il proprio bersaglio, ma come avevamo fatto per tutto il volo senza usare troppo le comunicazioni radio, perché altrimenti il nemico, gli italiani - dico - avrebbero potuto intercettarle, e sarebbe mancata la sorpresa. Poi il primo che avrebbe iniziato il bombardamento comunicò agli altri che iniziava il bombardamento, e ciascun aereo incominciò a sganciare le bombe, cercando poi di dirigerle con la radioguida sul bersaglio prescelto.

 

 

D.: Temeva che qualcuno degli aerei del Gruppo potesse essere colpito dalle artiglierie delle navi italiane?

 

Jope: No. Non conoscevo i calibri della contraerea italiana, ma sapevo che potevano sparare a una distanza di circa 4.000 metri. E il mio aereo, e quelli del mio Gruppo, volavano a circa 5.000 metri perché quella era l'altitudine ottimale per poter dirigere via radio la bomba. Quindi avevamo un buon margine di sicurezza. Ricordo di aver visto molti proiettili esplodere al di sotto di noi, ma sempre a una notevole distanza, e naturalmente senza procurarci alcun danno.

 

 

D.: Riteneva legittimo il bombardamento?

 

Jope: Era una normale azione di guerra, non credo di essermi mai posto il problema se fosse giusto o meno. D'altra parte gli italiani erano diventati nostri nemici, e avevo ricevuto l'ordine di bombardarli. Non c'era nient'altro da fare.

 

 

D.: Fu la bomba sganciata dal suo aereo a colpire la Roma o l'Italia?

 

Jope: No, non sono stato io. Furono altri due piloti del mio Gruppo, dei quali adesso non ricordo neppure il nome.

 

 

D.: Sapeva che molti uomini sarebbero morti per causa sua, o a causa delle bombe lanciate dagli aerei del suo Gruppo. Che cosa ne pensava?

 

Jope: Non mi sono mai posto il problema, e credo neanche gli altri piloti. Era un'azione di bombardamento, con un bersaglio speciale, per il quale eravamo stati prescelti proprio perché i nostri aerei erano armati di bombe speciali, adatte allo scopo. Tutto qui.

 

 

D.: Che cosa vide, dopo aver sganciato la bomba?

 

Jope: Non ci accorgemmo subito di avere colpito le due navi italiane. Non potevamo rimanere sul posto molto tempo, né potevamo vedere con esattezza quanto succedeva, data l'altezza a cui volavamo. Dovevamo ritornare immediatamente a Istres-Marsiglia, e poi ciascuno di noi aveva l'impressione d'avere colpito il proprio bersaglio.

 

 

D.: Era molto difficile, con i mezzi di puntamento in dotazione alla Luftwaffe, essere sicuri di avere centrato l'obiettivo?

 

Jope: Dipendeva dall'altezza da cui era effettuato il bombardamento. È vero che avevamo in dotazione delle bombe speciali, un'arma segreta che avrebbe dovuto essere radioguidata fino al bersaglio, ma era la prima volta che veniva impiegata in azione, e i risultati non furono quelli che ci eravamo aspettati.

 

 

D.: Che cosa fece al suo ritorno a Istres-Marsiglia, e quando seppe che aveva affondato la Roma?

 

Jope: Prima impiegammo un'altra ora e mezza di volo per raggiungere la base, e immediatamente una parte degli aerei del Gruppo ripartì per un'altra azione di bombardamento sulla Flotta italiana. Non c'ero più io, con questo secondo Gruppo, io partecipai soltanto al primo bombardamento. Non mi pare di ricordare che ci fosse uno speciale nome in codice per l'azione, e non ricordo nemmeno il nome di chi guidava questo secondo Gruppo di aerei. Quando anche i piloti di questo Gruppo furono ritornati a Istres-Marsiglia dissero che dallo schieramento mancavano due navi, e così sapemmo che le avevamo colpite, ma senza sapere che navi fossero, e neppure senza essere sicuri di averle affondate.

 

 

D.: Quanti erano gli aerei del secondo Gruppo, e che cosa ottennero con il loro bombardamento?

 

Jope: Mi pare che vi abbiano partecipato soltanto cinque aerei. I piloti sganciarono le loro bombe, una per ciascun aereo come tutti quelli del Gruppo, ma non colpirono nessuna nave.

 

 

D.: Ha mai avuto contatti con i sopravvissuti della Roma, e dell'Italia?

 

Jope: No, mai. Né durante la guerra, né al termine della guerra.

 

 

D.: Aveva già compiuto bombardamenti del genere?

 

Jope: Nel febbraio 1940 avevo affondato una nave da trasporto inglese, di circa 42.000 tonnellate, senza naturalmente impiegare bombe come I'FX 1400. Quello fu il mio miglior successo personale, per il quale fui decorato con la Croce di Ferro di Prima Classe.

 

 

D.: E per l'affondamento della Roma ricevette un'altra decorazione?

 

Jope: No. Ottenni la Croce di Ferro di Seconda Classe con le Fronde di Quercia verso la fine della guerra, nel 1944, per i successi che avevo ottenuto personalmente, e per tutti quelli conseguiti dal Gruppo che comandavo. Per tutta la durata della guerra ho partecipato, con il grado di maggiore, a circa 300 azioni di bombardamento contro il nemico.

 

 

D.: Ha ricevuto lettere di congratulazioni dai comandanti della Luftwaffe che si riferiscano al bombardamento della Roma, o documenti ufficiali che ne parlino?

 

Jope: No, non ho nulla, e non ricordo di averne mai ricevuto. Si era trattato di un'azione del tutto normale, e come tale fu sempre considerata da tutti.

 

 

Storia Illustrata, settembre 1973

 

 

roma.jpg

 

ROMA (1942) - Nave da battaglia classe "Vittorio Veneto"

 

Cantiere: Cantieri Riuniti dell'Adriatico - Trieste

 

Impostazione: 18 settembre 1938

 

Varo: 9 giugno 1940

 

Completamento: 14 giugno 1942

 

Perdita: 9 settembre 1943

 

Dislocamento

 

Standard: t. 41.650

 

Carico normale: t 44.050

 

Pieno carico: t 46.215

 

Dimensioni

 

Lunghezza: 240,7 m f. t.

 

Larghezza: 32,9 m

 

Immersione: 10,5 m

 

Apparato motore

 

8 caldaie a tubi d'acqua Yarrov con surriscaldatore, 4 gruppi turbo riduttori tipo Belluzzo

 

Potenza: 140.000 hp

 

Velocità: 30 nodi

 

Combustibile: 4.000 t di nafta

 

Autonomia: 3.930 miglia a 20 nodi, 4.580 miglia a 16 nodi

 

Protezione

 

Verticale massima: 350 mm

 

Orizzontale massima: 207 mm

 

Artiglierie massimo torri grandi calibri: 350mm

 

Artiglierie massimo torri medi calibri: 150 mm

 

Torrione massimo: 260 mm

 

Armamento

 

9 da 381/50, 12 da 152/55, 12 da 90/50 a.a., 20 da 37/54 a.a., 24>30 da 20/65 a.a., 4 da 120/40 ill.; una catapulta e 3 aerei.

 

Equipaggio

 

120 ufficiali + 1800 sottufficiali, graduati, comuni

 

 

Giorgerini, Martino, Nassigh

 

Storia della Marina profili vol. 9

 

Fabbri Editori, Milano, 1978

 

 

 

RUHRSTAHL/KRAMER X-1 FRITZ-X

 

La Fritz-X era una bomba guidata piuttosto che un missile aria-superficie, il cui sviluppo ebbe inizio nel 1938 da parte del Dr. Max Kramer che nel 1940 proseguì i suoi studi presso la Ruhrstahl di Brackwede mentre la successiva produzione in serie fu affidata alla Rheinmetall.

 

Contrariamente a quanto riportato da molte fonti, la Fritz-X era priva di ogni forma di propulsione e quelli che sono stati spesso scambiati per cinque razzi a propellente solido nella parte posteriore in realtà erano artifizi pirotecnici per segnalare la posizione dell'ordigno all'operatore che doveva controllarne la traiettoria. I cinque fuochi, combinando diversi colori, costituivano un vero e proprio codice con il quale il tiratore poteva riconoscere la «sua» Fritz-X durante gli attacchi in massa da parte di diversi aeroplani. La produzione, che totalizzò 2.500 esemplari, era frazionata tra Rheinmetall (corpo e montaggio finale), Rheinmetall e GEA Fallbach (impennaggi), Strassfurter Rundfunk (radio) e Sonnenschein (batterie) e contrariamente a quanto si legge sovente, non vi era alcuna partecipazione della Ruhrstahl.

 

L'idea risale al 1938, quando il Dr. Kramer lavorava presso il DVL (Deutsche Versuchsanstalt fùr Luftfahrt, Istituto tedesco per le ricerche aeronautiche) e nel 1940 fu deciso di basare l'arma sulla bomba esplosivo-perforante PC-1400 da 1.400 kg nominali, tanto che il progetto fu indicato anche come PC-1400X. Il sistema di guida era costituito dal radiocomando usato anche da altre armi simili, con un trasmettitore Kehl ed un ricevitore Strassburg. Quest'arma fu impiegata principalmente dai Do. 217E-5 e dai Do.217K-2 ed entrò in azione per la prima volta il 25 agosto 1943: il suo risultato più clamoroso fu l'affondamento, il 9 settembre, della corazzata italiana Roma ed il danneggiamento dell'Italia.

 

 

roma4c.jpg

 

Foto tratta da un manuale tecnico di una bomba guidata Fritz-X nella posizione in cui veniva agganciata ai bombardieri della Luftwaffe.Tra quelli che ne fecero maggiormente uso vi erano gli He.111H6, i Do.217E-5, i Do.217K2, i Do.217M-11 e gli He.177A-51R2; parte di questi tipi furono impiegati solo per addestramento.

 

 

roma5u.jpg

 

Spaccato dell'ordigno.

 

 

Nico Sgarlato

 

Le armi segrete

 

West-Ward Edizioni, Parma, 2000

 

 

 

 

L'undici agosto [1943] mi presentai al feldmaresciallo Kesselring a Roma e gli riferii sulla situazione. Fu molto affabile con me, e la vecchia tensione che si era manifestata durante la lotta in Sicilia tra noi due pareva completamente scomparsa. Il feldmaresciallo mi diede un suo ritratto con una dedica lusinghiera. Può darsi che lo abbia fatto perché la situazione in Sicilia si era sviluppata esattamente secondo le mie previsioni. L'invio di nuove forze non aveva ristabilito la situazione bensì solo procrastinato lo sgombero.

 

Fui presente al colloquio del feldmaresciallo con il nuovo ministro italiano della Marina, che a suo tempo era stato addetto navale a Berlino. Non mi fu possibile stabilire quale fosse il suo atteggiamento personale. Il feldmaresciallo e il ministro erano obiettivamente d'accordo sul fatto che la flotta italiana nei porti dì La Spezia e di Taranto praticamente non poteva entrare in azione. Spesso si è trascurato il fatto che l'impiego di forze navali esige una protezione aerea ancora più forte di quella necessaria alle forze terrestri. Lo sviluppo dell'aviazione ha provocato nella tattica navale mutamenti più rivoluzionari di quelli imposti alla tattica terrestre. Così un impiego delle navi da guerra italiane non sarebbe stato altro che una nuova manovra dettata dalla disperazione. Qualsiasi ufficiale competente poteva rendersi conto che una nave da battaglia, appena uscita dal porto, sarebbe stata immediatamente individuata dall'avversario in possesso della supremazia aerea, per essere affondata da superiori forze aeree e navali.

 

 

Frido von Senger und Etterlin

 

Combattere senza paura e senza speranza

 

Longanesi & C., Milano, 1968

 

 

 

Un'altra deficienza tecnica, che, nel campo delle artiglierie e del tiro, esisteva nella nostra Marina all'atto dell'entrata in guerra, e di cui ci accorgemmo soltanto dopo le prime azioni aeronavali, era costituito dallo scarso armamento c.a. di tutte le nostre unità. Non solo il numero dei cannoni e delle mitragliere c.a. era insufficiente a respingere un violento e deciso attacco di velivoli moderni, ma lo stesso calibro di quelle armi, che non superava i 100 mm, era troppo piccolo per poter colpire gli aerei nemici a grande distanza, come sarebbe invece stato necessario per tenerli lontani dal cielo di navi, che non disponevano mai di una sicura ed efficace protezione di aerei da caccia.

 

La Marina americana costruì e impiegò sulle sue unità, durante la guerra, impianti c.a. singoli e binati da 127 mm, con risultati soddisfacenti; tuttavia nel 1945, aveva già pronti cannoni c.a. da 203 mm di portata molto maggiore. I giapponesi erano, sotto questo aspetto, anche meglio attrezzati, poiché i cannoni di grosso calibro delle loro corazzate e dei loro incrociatori avevano grandi angoli di elevazione e quindi intervenivano normalmente negli sbarramenti di fuoco c.a. a grande distanza.

 

Le spolette dei nostri proiettili c.a., di ingegnosa costruzione nazionale, erano piuttosto delicate, e spesso ne provocavano lo scoppio prima che avessero raggiunto la distanza prestabilita. Infine nei cannoni da 90 mm, che formavano il principale armamento c.a. delle nostre più recenti corazzate, il proiettile si frantumava in schegge troppo minute per poter danneggiare seriamente un grande velivolo moderno.

 

In conclusione, sia per questi inconvenienti, sia per la complessità delle ultime centrali di tiro c.a. che ne rendeva l'impiego difficile e troppo lento, la reazione di fuoco delle nostre unità agli attacchi aerei nemici non fu mai molto efficace, e riuscì ad abbattere apparecchi nemici soltanto quando questi si avvicinarono molto al bersaglio. Di conseguenza, le nostre formazioni navali quando erano attaccate da aerei, fidavano soprattutto sulla manovra evasiva delle singole unità di giorno, e sulle cortine di nebbia artificiale di notte.

 

 

Angelo Iachino

 

Tramonto di una grande marina

 

Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1966 (1959)

 

 

 

roma3.jpg

 

Cavallotti

 

Il romanzo della corazzata

 

Rusconi, Milano, 1978

Link al commento
Condividi su altri siti

Come al solito contributo interessante e ben curato!

Un po' fastidioso il tono dell'intervistatore, con quel tentativo di carpire della pietà da parte del pilota verso l'equipaggio della Roma, come se morire per colpa di un proiettile comune fosse una tragedia minore dell'essere uccisi da una bomba speciale.

Link al commento
Condividi su altri siti

"L’ultima missione della Corazzata Roma"

 

Di

 

Agostino Incisa della Rocchetta

 

La tragedia vista dall’autore

 

E adesso vorrei raccontare come ho visto io le cose. Perché adesso, non prima e non dopo? Perché ho cercato di seguire un certo filo logico nella successione delle narrazioni: prima tutti quelli che erano addetti alle stazioni di direzione del tiro o alle armi; che erano allo scoperto, che hanno visto in faccia il nemico e fra questi mi ci sono messo anch'io, perché ero DT dei 90 di sinistra e anch'io ho visto chi ci colpiva. Mi sono messo penultimo, non ultimo, come forse la modestia avrebbe consigliato, perché desidero che l'ultimo racconto di coloro che erano allo scoperto sia quello di un marinaio che ha vissuto l'avventura più incredibile e straordinaria. Dopo farò seguire le narrazioni di coloro che erano addetti ai servizi di sicurezza, alle centrali elettriche, che erano a ridosso nella torre n. 3 g.c., perché non hanno visto ma solo sentito gli effetti delle bombe (non per questo hanno sofferto meno, intendiamoci).

 

Ho fatto una sola eccezione: nel primo gruppo ho messo il marò Piccardo, perché egli era legato alle armi, nel senso che era rifornitore nel deposito munizioni da 90 mm, non solo, ma perché si è trovato proprio nel deposito dei complessi n. 9 e n. 11, attraverso il quale è passata la prima bomba e si è salvato per non so quale miracolo.

 

Dalle 12 alle 16 io ero franco, cioè non ero di guardia: al mio posto nella torretta di direzione del tiro c.a. di sinistra c'era il T.V. Natale Contestabile. Io ero insieme al 1° DT, C.C. Luigi Giugni, nella "segreteria tecnica artiglieria", un locale semicircolare, addossato al torrione, subito sotto la plancia comando. Vi si conservavano tutti i disegni particolareggiati delle armi e serviva a coloro che avevano in cura l'efficienza dell'armamento della nave: in primo luogo gli ufficiali delle Armi Navali e poi i direttori del tiro. C'erano tavoli da disegno, sgabelli e sedie; si poteva riposare abbastanza bene, riparati dal sole, dalla pioggia e dal vento, ma si era anche vicinissimi al proprio posto di combattimento.

 

Ad un tratto udii una voce: "Aereo a dritta!". Mi diressi immediatamente verso l'uscita del locale e vidi, su un sito di almeno 80°, un bimotore tedesco. Subito dopo dalla carlinga si staccò una luce rossa e la voce di prima gridò: "Ha fatto il segnale di riconoscimento". Apparentemente chi aveva detto ciò aveva ragione perché sembrava si trattasse proprio di uno di quei bengala che usavano gli aerei tedeschi per farsi riconoscere dalle navi: generalmente si dividevano in 3 o 4 stelle di diversi colori, secondo una sequenza concordata tra i comandi aerei tedeschi e i comandi navali italiani. Ma questa volta il bengala non si divise, venne giù dritto filato, lasciando una scia azzurrognola. Pochi istanti dopo vidi una colonna d'acqua a un centinaio di metri dalla Roma.

 

Solo dopo una manifestazione di ostilità così palese da parte dei tedeschi, sulla Roma fu dato il segnale di "allarme aereo" e cosi Medanich, il DT dei 90 di dritta, poté aprire il fuoco contro il secondo aereo che si avvicinava (attaccavano uno per volta). Egli bolliva da un pezzo per l'impazienza, perché aveva gli aerei in punteria da molto tempo. Io, intanto, ero salito in plancia e, invece di passare dietro il torrione (la plancia circondava il torrione; nella parte posteriore era scoperta, nella parte anteriore era protetta da una serie di finestrini) passai dalla parte anteriore; probabilmente volevo vedere qualcuno del comando per avere qualche direttiva. Vidi nella plancia coperta il comandante Del Cima che scrutava il cielo col binocolo e notai che la porta corazzata anteriore del torrione era aperta. Egli non mi disse nulla ed io corsi alla mia torretta, da cui usci Contestabile ed io mi misi al suo posto. Fare ciò era agevole, perché il cielo della torretta era a livello del paragambe della plancia; bastava scavalcare questo e si era sulla torretta. Il posto del DT era, appunto, in una apertura del cielo di questa. Si sporgeva a mezzo busto dal piano superiore ma si aveva davanti una sorta di parabrezza con due finestre protette da cristalli; davanti al parabrezza, un mirino circolare con croce inserita, tipo mitragliera e, protetto dal parabrezza, un binocolo a forte ingrandimento. Questo si puntava in elevazione mediante una maniglia, mentre in brandeggio il DT doveva puntarlo comandando con una manopola il motore che brandeggiava tutta la torretta. In tal modo si portava in punteria l'A.P.G. ed il telemetro. Il posto di osservazione del DT si poteva chiudere, in caso di maltempo, con un piccolo mantice di tela. Nella torretta, c'erano 2 puntatori dell'A.P.G., un telemetrista, un addetto alla centralina che elaborava i dati, per trasformarli in "alzo" e "cursore" e graduazione per il tempo di scoppio della spoletta, un addetto a tre incarichi: alle correzioni ordinate dal DT per allungare od accorciare il tiro, al quadro dei lampadini che davano il "pronti" dei pezzi, nonché al pulsante che provocava il fuoco simultaneo dei 6 cannoni.

 

Io con i miei pezzi di sinistra sparavo solo agli aerei in allontanamento; magra soddisfazione, perché era un tiro punitivo, non preventivo, che è quello essenziale per la sicurezza della nave.

 

L'impatto della prima bomba non fu rilevato che scarsamente da me, perché non avvertii le oscillazioni della nave, preso come ero dal tiro dei miei cannoni. Però mancò la corrente per qualche istante e vidi con viva preoccupazione il gabbione del radiotelemetro che, staccatosi dal suo supporto in conseguenza della concussione della bomba, era andato ad infilarsi sulla canna del mio complesso n. 1, immobilizzandolo; mentre stavo per dare ordine all'armamento del complesso di uscire dalla torretta e gettare a mare il gabbione fui avvertito di un altro aereo che veniva da dritta. Lo scorsi esattamente allo zenit, sulle nostre teste. Brandeggiai la torretta ma non potei mettere l'aereo nel campo del binocolo solidale con essa, perché la sua massima elevazione non arrivava allo zenit.

 

Perciò seguivo l'aereo col mio binocolo a mano: non veniva mai in campo del binocolo solidale alla torretta perché mentre volava da dritta a sinistra, la nave, che era sotto forte accostata a sinistra, aveva un moto di rotazione che rendeva pari a zero il moto relativo nave-aereo, cioè questo rimaneva sempre sulla nostra verticale e fuori campo dell'A.P.G. e dei cannoni. Era un incubo, come in certi sogni in cui qualcuno ci assale per ucciderci e noi ci sentiamo come paralizzati, incapaci a muoverci. Passò qualche secondo; non so se vidi il fuoco rosso staccarsi dall'aereo, ma ricordo, come fosse ora, un enorme barile nero che piombò giù passando a non più di un metro dalla torretta. Si udì un tonfo sordo e la corrente in torretta andò via. Io diedi ordine di passare nella SDT di poppa, cioè quella notturna che si trovava subito a poppavia della torretta, ma un po' più in basso e saltai dalla torretta sul piano della plancia. Qui trovai Contestabile che mi chiese: "Che sta succedendo?", risposi: "È semplice, è caduta una bomba e adesso da qua sotto sta uscendo vapore e fumo nero". Una densa nuvola di vapore misto a fumo usciva da un punto situato tra il torrione e la torre di prora a sinistra da 152. Avevo appena finito di parlare, quando dalle viscere della nave si sprigionò un soffio di potenza spaventosa, l'atmosfera divenne tutta di un giallo intenso e una vampa di irresistibile calore mi avvolse.

 

 

Penso che la nave si sia sollevata improvvisamente e poi sia ricaduta di schianto, perché mi trovai disteso sul piano della plancia, con le braccia protese in avanti. Vedevo la pelle delle mani contrarsi, aggricciare e prendere quel colore bruno della carne arrostita; sentivo tutta la pelle della faccia contrarsi dagli zigomi, dalla fronte, dalle guance, dal mento, come se una grande mano di fuoco la volesse raccogliere nel pugno, in corrispondenza della bocca.

 

Esiste a Roma un museo etnologico, il museo Pigorini, derivato dal museo kircheriano, fondato dal padre gesuita Kircher, nel quale sono conservati degli strani trofei degli indios Mundrukos (Brasile), Jivaros e Ochuali (Ecuador). Sono teste di nemici di queste tribù, disossate e ridotte alla grandezza di un pugno; hanno la bocca cucita con una lunga frangia di fili colorati, perché non possano profferire maledizioni all'indirizzo di chi le ha ridotte in tal modo. Mi sembrava che la mia testa fosse diventata come quelle del museo: una sensazione terribile.

 

Bisogna notare che non sono stato investito direttamente dalle fiamme ma cotto dal riverbero: ero a 3 o 4 metri dalla vampa. Fu questione di 4 o 5 secondi ma mi ha procurato un'impressione così profonda che non si è più cancellata dalla mia memoria. Sono passati più di trent'anni da quella vampata, ho lasciato la Marina, la vita civile con le sue esigenze mi ha assorbito completamente ed io ho gettato dietro le spalle il passato, mi sono interessato del presente e, soprattutto dell'avvenire. Raramente mi veniva di tornare col pensiero alla tragedia della Roma; per anni ci siamo rivisti, rincontrati con Megna, Scotto, Vannicelli Casoni, Vacca Torelli e altri amici che avevano vissuto le stesse vicissitudini, ma mai abbiamo commentato insieme quei tragici momenti: era acqua passata, volevamo guardare avanti a noi non alle nostre spalle. Eppure mi capitò di rivivere come in sogno il terribile rogo. Fu al cinema: davano un film nel complesso abbastanza irritante e sciocco chiamato La scala al paradiso. Si vedevano nell'immensa cavea di un fantastico teatro greco (il paradiso) arrivare continuamente uomini e donne in divisa, che andavano ordinatamente ad occupare il posto loro assegnato. Era un paradiso esclusivista perché vi erano ammessi solo inglesi e americani (o forse c'erano anche i russi? Non ricordo). Italiani, tedeschi o giapponesi non se ne vedevano, forse erano tutti all'inferno... Ma oltre a questa rappresentazione piuttosto oleografica del paradiso, c'era la visione di un bombardiere britannico in fiamme e questa era una scena di un verismo cosi profondo, con gli uomini che si contorcevano nella carlinga, divenuta un forno ardente, che mi è sembrato di rivivere in pieno quel lontano 9 settembre del 1943. Proprio di riviverlo io di persona: qualcosa di sconvolgente.

 

Non ho mai più provato nulla di simile e solo ora, consultando i documenti sulla tragedia della Roma, sono riandato con la mente a mille particolari dimenticati.

 

La vampata durò pochi secondi e in quel brevissimo tempo condannò a morte la nostra più moderna nave da battaglia, ma nel dramma vi fu una fortuna: si trattò di una deflagrazione e non di una esplosione e questo fu dovuto ad una qualità del nostro munizionamento "di lancio": la progressività.

 

Si chiamano cariche di lancio quelle munizioni che si introducono nel cannone per lanciare fuori il proietto. Esse debbono avere una combustione piuttosto lenta e graduale. L'esplosivo usato era la cordite, un derivato della nitroglicerina, confezionato in bacchette cave simili a maccheroni di colore bruno. All'aria aperta bruciavano poco più rapidamente di un bastone di ceralacca. Una volta ne vidi bruciare un certo quantitativo in un prato a Buffoluto, presso Taranto, ove erano sistemate le polveriere della Marina. La cordite è stabile e sicura per un certo numero di anni, dopo diventa instabile e pericolosa. Per questo, periodicamente, il munizionamento di bordo andava rinnovato e quello sbarcato veniva distrutto col fuoco. Ricordo che in quel prato avevano fatto una lunga striscia di bacchette di cordite, alta all'incirca un palmo e poi avevano dato fuoco ad una estremità della striscia: la cordite bruciò con una fiamma intensamente gialla ma per distruggere tutta la striscia, lunga una quindicina di metri, ci vollero un paio di minuti.

 

Dunque il nostro munizionamento di lancio era stabile, contrariamente a quello britannico. Le cariche di lancio di 2 torri da 152 e di 1, forse 2 torri da 381, presero fuoco tutte insieme; diverse tonnellate di cordite, si badi, che produssero un soffio potentissimo, un'immensa fiammata, però non detonarono. L'esplosivo contenuto nei proietti non fu coinvolto, perché allora la nave sarebbe stata polverizzata. Nei proietti si usava il tritolo (trinitrotoluene: toluolo, idrocarburo aromatico al quale vengono sostituiti 3 atomi di idrogeno con gruppi nitrici), che può essere fuso e quando si solidifica può essere impunemente preso a martellate, segato, fresato, maltrattato in tutti i modi. Ma se nella sua massa si introduce un cilindretto di tritolo compresso e questo lo si innesca, poniamo, con una pastiglia di tetrazoturo d'argento che, colpita da un qualsiasi percussore a spillo, prende subito fuoco, il cilindretto di tritolo detona e fa detonare tutta la massa di tritolo fuso: si ha, cioè, una combustione istantanea con enorme aumento di volume e sviluppo di calore.

 

Insomma il tritolo detona, la cordite deflagra, almeno quella nostra. Per quella britannica era un altro affare e non da ieri. Già alla battaglia dello Jutland nella Prima guerra mondiale, 2 incrociatori da battaglia britannici furono letteralmente polverizzati dalle salve nemiche; uno di essi sparì tanto rapidamente, che quello che lo seguiva in formazione passò nelle sue acque senza urtare relitti e di tutto l'equipaggio si salvò solo un guardiamarina. Nella Seconda guerra mondiale, l'incrociatore da battaglia britannico Hood si disintegrò alla terza salva della corazzata tedesca Bismarck, mentre nel Mediterraneo la corazzata britannica Barham esplose per una coppiola di siluri di un sommergibile tedesco e sparì in una grande nuvola nera.

 

I depositi della Roma dunque deflagrarono e permisero che 1/3 dell'equipaggio si salvasse.

 

Però il trauma, per me, era stato cosi forte ed ero cosi certo che le ustioni contratte non permettessero in alcun modo la mia sopravvivenza (ero, in altre parole, cosi sicuro di dover morire) che, essendo allora come adesso cattolico convinto, feci un'ottima preparazione alla morte e mi misi ad aspettare con calma e con straordinaria serenità il momento del trapasso. Anzi ero molto curioso di vedere cosa c'era al di là, ma senza timore, con fiducia.

 

Da allora ho sempre rimpianto quella ottima preparazione alla morte, nel timore che essa possa non ripetersi, che io non ne abbia il tempo o la disposizione spirituale. Sinceramente la considero un 'occasione d'oro perduta.

 

I minuti passavano e non succedeva niente. Allora mi guardai intorno: non c'era anima viva. Contestabile era sparito, dal torrione non usciva nessuno. La porta corazzata era chiusa con un motorino elettrico. C'era, è vero, la possibilità della apertura a mano con una leva a cricco ma io non avevo certo la forza di manovrarla e poi credo che si trovasse solo all'interno del torrione.

 

Mi alzai in piedi e mi venne la curiosità di affacciarmi sulla sinistra, dove era caduta la bomba e appoggiai le mani al paragambe: era rovente; la vernice delle sovrastrutture si sollevava in bolle e bruciava crepitando con un fumo acre. Cosi mi ustionai le mani anche di sotto e la pelle si staccò dalle palme e rimase pendente come un paio di guanti (analogamente accadde a Vacca Torelli). Il gran fumo mi impedì di vedere alcunché e non mi accorsi che la parte girevole della torre n. 2 g.c. non c'era più.

 

Pensando ancora di dover morire, procurai di cercare un posto dove morire respirando meglio e salii la scaletta posteriore al torrione fino alla plancia ammiraglio; istruito dalla bruciatura delle palme contro il paragambe, mi sostenevo ai passamano della scaletta con le braccia flesse, cosi che i passamano scorressero a contatto dell'interno delle braccia, protette dalle maniche della giacca di panno. In plancia ammiraglio l'atmosfera era respirabile, ma i minuti passavano ed io non morivo: dovetti ammettere che il trapasso era rimandato ad un'altra volta. Non vidi nessuno neppure li; il torrione era chiuso e c'era un gran silenzio. Sapevo che oltre a diversi ufficiali che stimavo e conoscevo bene, doveva trovarsi all'interno l'ammiraglio Bergamini, uomo carico di umanità e amato da tutti, e con lui il contrammiraglio Stanislao Caraciotti, figura morale che non trovava riscontro, amico da molti anni della mia famiglia. Purtroppo mi mancavano le forze per tentare qualcosa per soccorrerli.

 

Ridiscesi tutte le scalette e sotto la stazione segnali vidi, impigliato nei gradini, a testa in giù, il corpo carbonizzato di un segnalatore.

 

Arrivato sul castello a dritta, un gruppo di persone, che mi sembra fossero un sottufficiale e 2 graduati, mi indicarono il foro della prima bomba; proseguii verso poppa, passando carponi sotto il motoscafo che era caduto di traverso sul castello, sbalzato dalle sue selle sistemate sulla tuga; scesi le scale che davano accesso alla poppa e mi trovai in mezzo ad un gruppo di persone, tutte munite di salvagenti e indenni, che vagavano senza una meta precisa. Dissi a chi mi poteva sentire e in particolare agli ufficiali, di non gettarsi a mare, di attendere perché la nave, sebbene fortemente sbandata, sembrava ancora capace di galleggiare. Poi risalii la scala di sinistra che portava sul castello, cercando un salvagente. Alla porta posteriore della torre da 152 li vicino, si affacciò un marinaio e mi diede un salvagente. A Mahòn feci ricerche per sapere chi fosse stato, ma non riuscii ad appurare nulla. Io penso proprio che sia stato un angelo... lo penso veramente, perché senza quel salvagente non sarei stato in condizione di tenermi a galla. Forse è stato quell'unico componente della torre che non si è mai più ritrovato.

 

Vidi il G.M. Scotto, privo di sensi, disteso a pochi metri dalla torre. Dissi al G.M. Meneghini, che passava di lì, di raccoglierlo e prenderne cura, cosa che egli fece.

 

Ritornato a poppa, vidi che ormai la nave sbandava sempre più e che l'acqua lambiva il trincarino. Diedi l'ordine di abbandonare la nave essendomi reso conto che ero l'ufficiale di vascello più anziano rimasto in vita. Però molti non mi riconoscevano perché avevo la faccia nera e i baffi bruciati; mi riconobbe il Ten. del C.R.E.M. Negrozzi che mi legò il salvagente, dopo che io mi ero tolto la giacca, il binocolo e la pistola, avevo posato il tutto con cura su un fungo di ventilazione e avevo disposto le scarpe ben allineate alla base del fungo stesso. Casi analoghi di strana pignoleria in tragiche circostanze si trovano nel comportamento del S.T.V. Vannicelli Casoni e del Ten. G.N. Staccoli Castracane. Mi dispiaceva lasciare la pistola, perché non era d'ordinanza: era una Smith & Wesson a tamburo, cromata, che portavo in una fondina appesa alla spalla sinistra, sotto la giacca, all'altezza del gomito, come i gangsters e i poliziotti americani. Rimasi con indosso, oltre ai calzoni, il maglione dell'Accademia Navale, quello bleu con le ancore rosse incrociate, sormontate dalla corona reale, sul braccio sinistro.

 

Intanto qualche ufficiale, diversi sottufficiali e marinai provvedevano a gettare in mare i salvagente Carley che stavano sul cielo delle torri di poppa; penso che quelli della torre n. 3 g.c. si danneggiarono perché furono gettati giù senza troppi riguardi e rimbalzarono in coperta.

 

A questo punto scavalcai la battagliola e mi gettai a mare "a papera"; un tuffo di stile sarebbe stato inutile, anzi impossibile, dato che ci trovavamo già con i piedi a livello dell'acqua. Mi allontanai dalla nave nuotando come potevo e raggiunsi un gruppo di 3 persone aggrappate ad una branda. Erano i tenenti del C.R.E.M. Orefice e Fidone con un marinaio, che credo fosse il furiere Del Vecchio, che aveva la parte superiore del bicipite resecata. Gli ufficiali mi pregarono di non aggrapparmi anch'io alla branda, altrimenti saremmo andati tutti a fondo. Cosi mi tenni a qualche metro di distanza.

 

Intanto la nave andava sbandando sempre più ed il personale che si trovava ancora a poppa, incerto se gettarsi a mare dalla dritta, temendo che la nave capovolgendosi lo sommergesse, o se gettarsi dalla sinistra dove sarebbe stato necessario un tuffo da notevole altezza, cominciò a rotolare giù dal ponte, ormai quasi verticale. Erano almeno una ventina di persone chiaramente visibili a causa del salvagente rosso che indossavano. Poi la nave si capovolse ed alcuni uomini riuscirono ad inerpicarsi sulla carena. Ma appena capovolta si spezzò in due: il troncone di poppa si immerse con un'inclinazione di 45° circa e un paio di uomini che sparivano sott'acqua aggrappati ad una delle grandi eliche di bronzo che brillavano al sole, fu l'ultima visione che ne ebbi.

 

La parte di prua rimase più a lungo fuori dell'acqua in posizione verticale, tanto che da dove eravamo scorgemmo perfettamente lo stemma rosso e oro di Roma con la scritta +SPQR; poi verticalmente si immerse: gli ufficiali del C.R.E.M. gridarono "Viva il Re!" ed io con loro.

 

Non mi abbandonai alla disperazione, non temetti neppure per un istante di non essere salvato, trovai naturale la vista della motobarca del Mitragliere che veniva nella mia direzione. Gli uomini della motobarca gridavano: "Prima i feriti!"; mostrai le mani e mi tirarono subito su. Evidentemente ogni mia azione da dopo la deflagrazione dei depositi era stata fatta come in trance, eppure avevo agito secondo logica, avevo preso delle iniziative e dato disposizioni razionali. In altre parole ero, io penso, come trasognato, eppure la mia mente era lucida.

 

Appena a bordo del Mitragliere mi tagliarono il maglione per non dovermelo sfilare dalle mani bruciate e dalla testa. Qualcuno mi fece bere un liquore; l'infermiere di bordo mi spennellò le mani di tannino e mi mise qualche pomata in faccia e sulle gambe, anch'esse parzialmente ustionate. Il maglione, amorevolmente ricucito dalle donne di casa, devo averlo ancora in un baule... Il comandante Laj, Assistente di squadriglia, cioè collaboratore diretto del C.V. Marini, comandante la XII squadriglia, mi cedette il suo alloggio e mi fece distendere sulla sua cuccetta. Il S.T.V. Mattoli, incolume, ebbe la pazienza di passare tutta la notte con me.

 

Fu una notte movimentata. Certo noi feriti non potevamo neppure sospettare le incertezze che tormentarono il comandante Marini per decidere quale porto fosse sufficientemente sicuro per accoglierci, per soccorrerci, non per prenderci a cannonate. Il suo tormento è magistralmente espresso nel rapporto che egli scrisse a Mahòn il 30 settembre 1943 e che è riportato integralmente in questo libro. Noi, però ci accorgemmo dell'agitazione che regnava a bordo: per tutta la notte fu un susseguirsi di colpi di clacson che davano l'allarme aereo, un risuonare di passi sulle lamiere del ponte; gente che correva al posto di combattimento. Nel tormento delle ustioni e nell'avvampare della febbre che si era impadronita del mio corpo, pensavo: una volta ce l'ho fatta a cavarmela, ma questa sarà la morte del topo, perché chi mi muove di qui? Seppi in seguito che quel tramestio dipendeva da un ricognitore britannico che ci segui tutta la notte, illuminandoci di tanto in tanto con bengala.

 

Niente di più, ma dopo quello che avevamo passato, anche un semplice ricognitore bastava a farci saltare i nervi.

 

Come Dio volle, all'alba ci trovammo davanti al porto di Mahòn e alle 8.30 ci sbarcarono dalle navi e ci avviarono all'ospedale militare.

 

Dei primissimi giorni ricordo solo le medicazioni mattutine. Gli infermieri spagnoli mi avevano fasciato le mani e per togliermi le bende, nell'intento di farmi soffrire di meno, davano uno strappone per staccarle dalla carne viva.

 

Dalla mia bocca uscivano parolacce che allora venivano considerate irripetibili, ma che adesso costituiscono l'intercalare che infiora i discorsi delle minorenni. L'infermeria era a piano terra e davanti alla finestra, aperta, passavano curiosando soldati spagnoli e i nostri feriti più leggeri: costituire per loro uno spettacolo mi imbestialiva.

 

In seguito le mie condizioni peggiorarono, ebbi un principio di broncopolmonite traumatica e mi si disse, poi, che mi avevano anche preso le misure per la cassa da morto, invece guarii mediante un solo cataplasma appena tiepido.

 

Poi, per nostra fortuna, il comandante Marini mandò come rinforzo all'ospedale l'aspirante medico Franco Sala. Era solo aspirante, non era ancora ufficiale, però era un medico capace ed efficiente e cosi simpatico che tutte le suore (Hijas de la Caridad della congregazione fondata dall'americana Seaton) lo adoravano. Curò tutti con amore ed abnegazione e a me salvò certo le mani che, altrimenti, sarebbero state amputate. Me le mise, libere da ogni bendaggio, in due bacinelle contenenti del "liquido di Dakin" (soluzione neutralizzata di ipoclorito, battericida). Avevo i tendini estensori delle dita allo scoperto ma l'infezione passò. Mi strappò le unghie sotto cui si annidava l'infezione e ne crebbero di nuove, non troppo belle, ma che più o meno fanno la loro funzione. Per evitare che la bruciatura degli estensori provocasse l'inconveniente delle mani ad artiglio (le dita rattrappite perché richiamate solo dai flessori che si trovano sotto le dita e nel palmo) mi applicò ai polsi degli archetti di fili di ferro ai quali attaccò degli elastici che tenevano in trazione le dita. Per far rimarginare più presto le cicatrici mi fece due trapianti di pelle, lavorando in équipe col nuovo direttore spagnolo dell'ospedale, anche lui, a dir il vero, efficiente e capace.

 

Ho raccontato tutto questo per portare un esempio delle cure che dedicava ai feriti, non per parlare di me. Egli poneva lo stesso impegno nei riguardi di tutti e di ciascuno. E poi era allegro, scherzava, era amico di tutti... Mi portò a bordo del Fuciliere per Capodanno e la celebrazione fini in una sbronza generale, di cui ricordo, come ultimo episodio, un'arancia che ricevetti in piena faccia, dopo di che caddi in un sonno profondo.

 

Ormai che stavo un po' meglio, mi rendevo conto dell'ambiente in cui mi trovavo. Dopo i primi giorni mi portarono in barella per i reparti per visitare gli altri feriti. Mi fecero fare una breve sosta presso il letto di Medanich, parlava a fatica; con voce strozzata mi chiese: "A te chi ti ha beccato?" gli risposi: "Lo stesso aereo che ha beccato te". Non lo rividi più, mori dopo pochi giorni.

 

Finché ero immobilizzato a letto, vedevo dalla finestra un po' di cielo ed una scarpata erbosa e sentivo squillare nell'aria limpida di settembre i segnali di tromba di un reparto spagnolo che non sapevo dove fosse. Mi ero immaginato un mondo a modo mio. Poi cominciai ad uscire all'aperto con i miei mezzi, sempre accompagnato dall'inseparabile Giannoccaro. Cosi vidi che ci trovavamo su un'isoletta al centro della bella baia di Mahén. L'ospedale si componeva di 2 fabbricati distinti, uno dei quali era stato costruito alla fine del '700 dagli inglesi.

 

Aveva una certa sua dignità architettonica: un corpo centrale con 2 avancorpi laterali, 2 piani, con un porticato in quello inferiore. Aveva delle corsie molto ampie, ma un po' fatiscenti e veniva usato solo parzialmente quando l'altro fabbricato non poteva accogliere più ricoverati. Questo secondo corpo di fabbrica, posto di fronte all'altro, un po' più in basso, era di costruzione recente, fatta dagli spagnoli. Si trattava di un agglomerato di baracche, senza alcuna pretesa architettonica e ad un solo piano.

 

Il 29 gennaio 1944, dopo quasi 5 mesi di degenza, lasciai l'ospedale di Mahòn per essere sottoposto a operazioni di plastica a Madrid insieme ad altri 3 che avevano anche loro postumi di ustioni gravi e con Giannoccaro affetto da pleurite.

 

Scotto, che aveva avuto le ustioni più gravi al volto, aveva dovuto subire a Mahòn l'asportazione di un occhio, ormai irrimediabilmente perso, per evitare danni irreparabili all'altro, anch'esso parzialmente leso. Egli rimase un certo tempo a Barcellona in cura da un medico di fama mondiale che gli salvò l'occhio. Ci raggiunse all'ospedale di Carabanchél Bajo a Madrid e per lunghi mesi divise la camera con me.

 

Io venni dimesso dall'ospedale di Carabanchél il 23 dicembre 1944, dopo aver subito ben 9 operazioni di plastica.

 

Adesso basta parlare di me: voglio aggiungere solo 2 cose ancora: una notizia che avevo tralasciato e una considerazione.

 

La notizia è la seguente: nella tarda mattinata del 9 settembre 1943, mentre navigavamo diretti a La Maddalena, scese dalla plancia ammiraglio il T.V. Uncini, addetto al Comando FF.non.B. e fece un giro per informarsi se c'era qualcuno che conoscesse bene l'inglese. Questa inchiesta mi diede da pensare e la conclusione che ne trassi fu che l'ammiraglio prevedeva contatti verbali con i britannici a breve scadenza e ne provai un profondo malessere.

 

La considerazione è la seguente: secondo i dati conclusivi dell'inchiesta, sono periti nel naufragio della Roma 1.227 persone e se ne sono salvate 622. Meritavano di morire i 1.227 e meritavano di vivere i 622? Non c'erano fra quelli morti, uomini di grande ascendente morale, di profonda cultura, di alta spiritualità, di indiscusso valore nel campo scientifico e tecnico? Non c'erano fra gli scampati uomini mediocri se non proprio delle nullità? Se la missione dell'uomo è di produrre qualcosa di spirituale o di materiale che sia a beneficio della società, perché e da chi è stata fatta questa incomprensibile discriminazione? Chi crede in Dio afferma che ogni evento dal più insignificante al più grande fa parte dell'imperscrutabile disegno divino e dato che Dio è infinitamente buono e infinitamente giusto, ogni Sua decisione risponde a fini di bontà e di giustizia. Chi è ateo afferma che ogni evento non provocato dall'uomo o da leggi naturali è dovuto al Caso. Tralasciamo le infinite tesi delle religioni non cristiane.

 

Io confesso che mi chiedo continuamente: perché sono scampato alla catastrofe della Roma? In questi trent'anni e più che sono trascorsi dal 9 settembre del 1943, cosa ho fatto a beneficio della società? Non ho forse obbedito soltanto al mio gretto egoismo, non ho compiuto azioni a danno del prossimo? Si, ho lavorato con buona volontà, mi sono sposato e, mia moglie ed io, abbiamo cercato di educare i nostri due figli secondo principi che credevamo i migliori ed ora ognuno di loro sta conquistandosi l'indipendenza e creandosi una vita che risponde ai suoi principi e alle sue esigenze. Ma, ho fatto fruttare la moneta che mi era stata affidata dal mio Signore? (mi riferisco alla nota parabola del Vangelo). In che maniera e in che misura? Non so darmi una risposta e mi ci arrovello, ma forse pretendo di valutare cose più grandi di me.

Link al commento
Condividi su altri siti

I miei più vivi complimenti sia a Galland, sia a Rick!!! :adorazione::adorazione::adorazione:

 

 

Come al solito contributo interessante e ben curato!

Un po' fastidioso il tono dell'intervistatore, con quel tentativo di carpire della pietà da parte del pilota verso l'equipaggio della Roma, come se morire per colpa di un proiettile comune fosse una tragedia minore dell'essere uccisi da una bomba speciale.

Quoto!

Link al commento
Condividi su altri siti

LA GRANDE TRAGEDIA DELLA CORAZZATA ROMA

 

Abbandonai di corsa la poppa per raggiungere il mio "posto di combattimento". La corazzata Roma, in quel momento ancora in coda alle altre due corazzate, il Vittorio Veneto e l'Italia, stava ultimando la sua accostata verso nord. Non erano ancora suonate le quattro del pomeriggio di quel 9 settembre 1943, quell’ora in cui avrei dovuto sostituire un collega nel servizio di guardia di navigazione nel grande torrione corazzato di prora. Controllai l'ora del mio cronometro che segnava, lo ricordo benissimo, 11 minuti alle 16.00. Decisi di recarmi al mio "posto di combattimento" anziché in plancia per montare di guardia. Il mio "posto di combattimento" era alla "direzione del tiro autonomo" della torre trinata di medio calibro da 152 mm: la n.4, che si trovava a sinistra e a poppavia della nave. Furono poi proprio quegli unici 11 minuti a salvarmi la vita.

 

Entrato che fui nella torre n. 4, mi sistemai sul seggiolino del direttore del tiro, dopo aver accuratamente chiuso tutti i portelli corazzai i laterali, ch'erano rimasti inconsuetamente aperti. Lasciai aperto solo quello davanti a me, pur sempre rimanendo protetto dal suo vetro di grosso spessore. Brandeggiai subito la torretta della direzione del tiro verso il mare. Vedevo la corazzata Italia troppo ravvicinata a noi, ma in rotta di allontanamento. I suoi due fumaioli eruttavano dense fumate nerastre che creavano un forte contrasto con la prora, che aprendo un profondo solco nel mare sollevava due grandi bianchissime e spumeggianti onde. In quel momento uno strano brivido mi corse lungo tutta la schiena. Mormoravo tra me: "Credo che ci siamo!". Avevo ragione perché la corazzata Italia era stata ad un pelo dall'essere colpita in pieno da una bomba tedesca.

 

Per fortuna il tutto si era risolto con un'esplosione in mare a poppavia della nave, con il conseguente momentaneo bloccaggio dei timoni, che avevano causato quell'irragionevole dirottamento verso di noi. Ero conscio di non aver nulla da temere racchiuso, come stavo, nella mia piccola torre protetta da una corazza dello spessore di 150 mm d'acciaio. Questa era una mia, in quel momento, quanto mai ottimistica conclusione. Chiesi, attraverso il microfono che mi stava di fronte, al mio sottufficiale capo impianto, maresciallo Macchia, se il nostro personale fosse tutto presente ai propri posti di combattimento. "Mancano tutti i marinai artificieri del deposito munizioni!", fu la sua laconica e preoccupata risposta. Capo Macchia aveva pienamente ragione d'essere allarmato, perché in questa situazione non eravamo certo in grado di aprire il fuoco contro il nemico. I proiettili erano rimasti bloccati sulle norie ed i cannoni erano scarichi. Chissà mai dove si erano andati a rifugiare i miei artificieri del deposito munizioni n.4! Certo l'annunzio dell'armistizio doveva aver già profondamente devastato ogni concetto di responsabilità e di disciplina a bordo per arrivare a tal punto da rendere inutilizzabile l'intero mio impianto trinato! Non so quanti minuti fossero passati prima che un aereo isolato ci sorvolasse venendo nuovamente da poppa. L'aereo, lento nel suo volo, mi lasciò tutto il tempo per inquadrarlo con il mio binocolo e seguire la sua manovra. Ecco nuovamente un puntino rosso che si accendeva: pareva immobile nello spazio; poi la stessa scia di fumo che avevo visto prima, lunga e sottile, che screziava di bianco l'azzurro del cielo.

 

Gridai a diverse riprese nel microfono, che mi univa alla "centrale di tiro", d'aver sulla testa un aereo che aveva sganciato una bomba. Nessuno mi rispose! Ero pienamente cosciente che in quel momento i tedeschi stavano attaccando proprio dal nostro zenit, e che, in questo particolare caso, i miei cannoni da 152 mm non servivano a niente. Il mio impianto di tre cannoni, con un alzo di massima elevazione fino a 45°, non potevano intervenire contro dei bersagli che prevedevano un alzo compreso tra gli 80° ed i 90°. Questo compito era riservato invece ai nostri impianti antiaerei da 90 mm. Comunque la mia torre non poteva e non doveva aprire il fuoco, a meno che non si fosse verificato il caso di un contemporaneo attacco a pelo d'acqua di aerosiluranti.

 

In realtà in quel momento ero tormentato solo da un altro pensiero: erano i tedeschi ad attaccarci, i camerati che per tre lunghi anni avevano combattuto al nostro fianco contro gli inglesi!

 

Vidi solo il guidone di accostata che salì fino a riva sul pennone di sinistra dell'albero di maestra, ma la nave proseguì nella sua rotta. Eterno mi sembrò il tempo che la bomba impiegò nella caduta. Speravo di schivarla. A un tratto la scorsi nel campo millimetrato del mio binocolo; mi sembrò lunghissima. Scomparve alla mia visuale a dritta, dietro gli impianti antiaerei da 90 mm, quelli verso prora.

 

Improvvisamente una violentissima scossa fece sobbalzare tutta la nave, fino a scaraventarmi già dal mio sgabello, sbattendomi più volte contro le pareti d'acciaio della mia torretta. "Maledetti!", esclamai, mentre mi tastavo con le mani le costole. Trascorsero altri secondi; un forte vociare, ovattato dal vetro della mia torretta, mi giunse alle orecchie confondendosi con le voci che uscivano dall'altoparlante collegato con la "centrale di tiro". Passò ancora del tempo, poi sentii cadere dall'alto un qualche cosa che precipitò in coperta con un suono secco: mi sembrò che fosse l'intero gabbione dell'impianto del "Gufo", ch'era stato sistemato in testa al torrione un mese prima a Genova.

 

Uno sconosciuto dall'altoparlante mi informava frettolosamente che le frigorifere 5 e 6 erano in fiamme. Lo sconosciuto chiuse prima che gli potessi chiedere maggiori delucidazioni: non capii perché tale comunicazione fosse stata fatta proprio a me, anziché agli organi competenti. Molta era la confusione che faceva crescere l'agitazione in quella fila di marinai che si andava sempre più sconclusionatamente accalcando davanti allo stretto ingresso della porta corazzata del torrione. La nave aveva iniziato a sbandare sul lato dritto. In un primo momento ritenni che l'inclinazione che aveva assunto lo scafo fosse dovuto all'accostata, ma poi mi resi conto che la nave proseguiva la sua rotta diminuendo rapidamente di velocità. Certamente avevamo ricevuto un colpo a bordo. Il nostro fuoco antiaereo era già cessato.

 

Le altre navi invece continuavano a sparare, i batuffoli neri degli scoppi costellavano il cielo. Si stava combattendo contro i nostri alleati tedeschi, non contro gli angloamericani. Com'eravamo potuti precipitare fino a questo punto? Eppure dovevamo comunque difenderci! Erano questi i pensieri che in quei minuti mi stavano tormentando. Poi rimisi nuovamente la bocca sul megafono per chiedere: "Capo Macchia, tutto bene?". "Bene", mi rispose vivacemente, ma con voce ancora tranquilla, il mio capo-impianto.

 

Girai lo sguardo verso il mare e vidi unicamente nave Italia che ad alta velocità si stava allontanando sempre più da noi. Brandeggiai allora la mia torretta della "direzione del tiro" verso prora per rendermi conto di dove la bomba ci avesse colpiti. Riuscii solo a vedere che i sei cannoni antiaerei di sinistra tacevano. A poppa, in coperta regnava il panico, con marinai impauriti che correvano disordinatamente e precipitosamente per cercare rifugio sotto lo scudo protettivo del grande impianto trinato di grosso calibro di poppa. Tra questi riconobbi, pallidissimo, mentre si stringeva al petto il rosso salvagente, il guardiamarina di complemento De Crescenzio. In alto, verso le ali della plancia comando, dal torrione un "pennoncino" s'era spezzato in due e pendeva oscillando tristemente nel vuoto. Non vedendo neanche un filo di fumo non riuscivo a capire dove fosse andata a scoppiare la bomba tedesca. La bomba in realtà aveva colpito la nave in un punto abbastanza lontano dalla mia posizione, precisamente oltre la metà della nave, sul lato dritto, infilandosi a poco più di un metro dalla murata di dritta della nave, all'altezza dei pezzi antiaerei da 90 mm n.9 e n. 11. Il contraccolpo dello schianto sullo scafo aveva abbattuto il gabbione del radiotelemetro ed il telemetro della "centrale del tiro" contraereo. In pratica la bomba era passata da una parte all'altra dello scafo, per esplodere infine sotto la carena sfondandola ed allagando di conseguenza le quattro caldaie poppiere e le stesse macchine di poppa. L'esplosione sotto lo scafo aveva anche bloccato due delle quattro eliche sistemate a poppa. Si era verificata un'immediata caduta di velocità della nave sotto i 16 nodi.

 

Contemporaneamente c'era stata anche una caduta di tensione elettrica per tutto il settore poppiero. Senza sufficiente corrente i timoni non rispondevano più regolarmente ai comandi del timoniere. L'allagamento delle caldaie e delle macchine di poppa aveva provocato il progressivo e rapido sbandamento della nave sul lato di dritta. Indubbiamente le vie d'acqua erano state favorite da una portelleria stagna non regolarmente chiusa. Per controbilanciare lo sbandamento della nave si tentò di allagare, o forse accadde automaticamente, alcune celle di compensazione sul lato sinistro dello scafo. Il risultato fu positivo perché l'inclinazione parve quasi fermarsi.

 

Ero tornato a scrutare il cielo in alto con il binocolo alla ricerca delle sagome degli aerei tedeschi. Non vedevo nulla, il cielo sembrava sgombro, forse l'attacco tedesco era finito. Nave Roma aveva incassato per la quinta volta una bomba senza esser colpita a morte. Sentivo ugualmente dentro di me quel senso di pericolo, fattosi ancor più assillante ed incombente di prima. Questo genere di sensazione trovava forse la sua ragione d'essere nel constatare un boato che si andava progressivamente espandendo dal centro nave. Ora d'improvviso nuove dense nubi bianche avevano iniziato ad uscire dal fumaiolo di poppa, come generate da un'immensa perdita di vapore dalle caldaie. Mi sembrò quindi palese che la nave fosse stata colpita piuttosto seriamente e la grande quantità d'acqua imbarcata stava mettendo in crisi il normale assetto di tutta l'unità. Il guidone d'accostata era rimasto inerte in alto sul pennone di sinistra, l'unico ancora sano. Intanto nave Roma, sempre inclinata su di un lato, quello di destra, aveva preso ad accostare lentamente anche verso dritta. Mi preoccupavo per la velocità sempre più ridotta.

 

D'improvviso, ad interrompere le mie affrettate osservazioni sulla situazione della mia nave furono i sei pezzi antiaerei da 90 mm di dritta. I cannoni antiaerei avevano aperto all'unisono un fuoco infernale, accompagnati dal crepitio delle grosse mitragliere sistemate sulla torre di grosso calibro n. 3 di poppa. Tutti intorno a me sparavano all'impazzata mentre andavo cercando affannosamente con il mio binocolo, in alto nel cielo, i bersagli di tanto accanimento della nostra artiglieria. Dentro di me si stava intanto ingigantendo la netta e violenta sensazione di pericolo, di un pericolo sempre più imminente. Inconsciamente mi raccomandai a Dio, perché mi sembrava di avere la morte alle spalle. Era una sensazione assai strana, quasi palpabile. D'un tratto, come per incanto, inquadrai finalmente nella retina graduata del mio binocolo un aereo bombardiere tedesco ed ancora una volta quel puntino rosso e quella lunga striscia nebulosa. Seguendo con il mio binocolo la striscia di fumo mi accorsi che sul davanti c'era un lungo cuneo metallico, di colore grigio scuro, adornato lateralmente da due alette. L'ordigno stava scendendo giù dal cielo verso di me! Era una cosa velocissima, preceduta questa volta da un sibilo ancor più lacerante che si impadroniva dei miei timpani.

 

Tutto continuava inesorabilmente a venire contro di me. La pelle mi si accapponò lungo tutta la schiena mentre seguivo la traiettoria della bomba con il fiato sospeso e con il cuore che batteva sempre più veloce, sempre più veloce. Ormai era vicinissima, ma la sua traiettoria sembrava ora meno diretta su di me. Sembrava destinata ad infilarsi più avanti, esattamente tra il torrione corazzato, vicinissimo al fumaiolo di prora, poco a ridosso dell'impianto gemello al mio, quello della torre n. 2 di medio calibro. L'ordigno arrivò finalmente alla sua meta con un tonfo leggero, quasi impercettibile.

 

Passò un'eternità o forse una manciata di secondi, avevo già perso ogni nozione del tempo: ci fu una violenta folata di aria bollente, non esplosione. Da essa nacque improvvisa, altissima e larghissima una fiammata gialla, poi quasi violacea, che s'involò verso il cielo, avvolgendo come in una gigantesca morsa il torrione ed il fumaiolo di prora. In quello stesso istante provai un dolore acuto ai timpani ed una sensazione di caldo torrido. L’aria sapeva di zolfo ardente ed entrandomi nei polmoni mi bruciava il respiro costringendomi a tossire nervosamente. Tra il violento bagliore delle esplosioni vedevo il torrione corazzato che si accartocciava su se stesso. Il fumaiolo di prora andava scomparendo nel nulla tra un denso fumo ora bianco, ora nero, ora grigio, che sembrava uscisse ululando dalle viscere della nave.

 

Una gigantesca ondata di vapore spingeva verso l'alto un’infinità di frammenti di ferro, di pezzi della nave, di pezzi di ogni cosa. Poi una seconda ondata di calore violentissimo mi raggiunse e mi avvolse all'improvviso mentre con gli occhi sbarrati continuavo a seguire quell'apocalittico inferno di fuoco e di vapore. Ora quell'inferno andava avanzando verso di me. "Incendio! Incendio!", si udiva confusamente gridare: la luce si spense. La sensazione di essere incolume mi diede una gioia spontanea, istintiva.

 

La seconda bomba aveva perforato la coperta dello scafo, come la prima, ma questa volta era esplosa nel deposito munizioni della torre n.2 di medio calibro di prora. L'esplosione aveva sfondato le attigue caldaie generando una gigantesca ondata di vapore che aveva facilmente innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della torre n. 2 di grosso calibro. La violenza della deflagrazione era stata così forte da proiettare di colpo a mare tutto l'intero complesso trinato n. 2 da 381 mm. Altre esplosioni erano seguite per i depositi munizioni della torre n. 2 di medio calibro sul lato sinistro della nave. Le conseguenze erano state gravissime perché in pochi istanti si erano allagate tutte le rimanenti macchine di prora. Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione ed il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave aveva ripreso in modo tanto rapido che ormai mi era difficile il mantenermi in equilibrio sul mio sgabello. Non riuscivo ancora a staccare gli occhi da quello spettacolo della grande torre corazzata diventata una immane torcia di fuoco, che mano a mano eruttava pezzi di lamiere tra nubi sempre più nere. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all'altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove, con le vesti in preda alle fiamme agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta.

 

Su tutto sovrastava un rombo sordo ed assillante, che riusciva quasi a fracassarti i timpani. Una miriade di piccole esplosioni si univa al sibilare degli spezzoni di lamiere, che volavano per ogni dove. Sciami di proiettili di mitragliere, provenienti dalle riservette degli impianti di prora raggiunti dall'onda di fuoco, vagavano in coperta con improvvisate traiettorie. Tutto questo andava falciando ed uccidendo impietosamente gli uomini che cercando un rifugio attraversavano la loro strada. Ebbi allora la prima netta sensazione che il Roma stesse morendo e che per i miei marinai e per me si stesse preparando solo una morte da topi, racchiusi com'eravamo nella torre d'acciaio dei nostri cannoni. Presi immediatamente la mia decisione afferrando con le due mani un megafono. Con voce alta e ferma dissi: "Tutto il personale della torre esca, ripeto esca e si metta in salvo, ripeto tutti devono uscire e mettersi in salvo!". Poi lentamente, come per dar tempo a tutti i miei marinai di uscire dal grande portellone della torre prima di me, mi feci strada anch'io verso l'aria aperta. Fui costretto ad affrontare delle vere acrobazie per mantenermi in equilibrio tra gli sgabelli e le varie attrezzature arrovesciate ed accatastate lungo il mio tragitto. Fortunatamente riuscii finalmente a guadagnare l'uscita e mi ritrovai in coperta a poppa. La mia torre, la n.4, era vuota, tutti i miei sedici marinai erano fuori e stavano indossando il salvagente.

 

Lo spettacolo che mi si presentò davanti mi lasciò come impietrito. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l'alto come un fungo immane gravitante su tutti noi, quasi fosse una nube di tempesta, tanto da oscurare completamente il nostro cielo. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivoli di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta. Altri, feriti e bruciati, stentavano a mantenersi in posizione eretta perché il piano di coperta sotto di loro si andava inclinando sempre di più. In ogni dove vedevo esseri umani urlanti, bruciati ed insanguinati, che vagavano disperatamente verso l'estrema poppa in cerca di scampo dall'onda di fuoco e di fumo che avanzava implacabile dietro le loro spalle. Molti tentavano di rifugiarsi sotto la catapulta dell'aereo a poppa estrema.

 

L'inclinazione che aveva assunto la catapulta poteva, da un momento all'altro, scaricare sul piano di coperta l'idrovolante di dotazione alla nave, che vi troneggiava sopra. Sull'impianto n. 3 di grosso calibro, quello di poppa, il sottotenente di vascello Franco Mattoli cercava, con l'aiuto di alcuni volenterosi, di gettare in mare i grossi zatteroni sistemati sulla torre. L'impresa non riusciva perché le grandi zattere di salvataggio erano saldamente ed imprevedibilmente legate e rizzate. Né Mattoli né alcuno dei suoi marinai possedeva un coltello per tagliare le funi, bisognava slegarle. Il primo zatterone venne finalmente sganciato e nella sua caduta finì di sfasciarsi sette metri più sotto in coperta tra le grida di un marinaio rimasto impigliato tra le rizze. Il secondo raggiunse la superficie del mare. Una turba di naufraghi terrorizzati prese d'assalto lo zatterone. Il grosso galleggiante si allontanò lentamente dalla nave verso poppa, reso quasi invisibile sotto il cumulo di corpi che lo gremiva. "Devo saltare in mare! Devo buttarmi!". Questo era il mio pensiero dominante. Che altro potevo fare? Ero privo del mio salvagente, l'avevo lasciato nel locale del corpo di guardia di poppa. Ebbi l'immediato impulso di andarlo a ricuperare, nonostante lamiere e proiettili continuassero pericolosamente a vagare nell'aria intorno a me. Si trattava di fare una corsa, che richiedeva al massimo una trentina di secondi. Dovevo farcela, perché un salvagente mi era indispensabile se finivo a mare. Vi riuscii ed illeso tornai in coperta con indosso il salvagente. Una vera fiumana di marinai continuava ad ammassarsi a poppa, l'unica zona della nave non ancora invasa dalle fiamme e dal fumo. I marinai continuavano tutti a gesticolare e ad urlare in preda ad un panico indescrivibile. Uno di essi venne verso di me, aveva il volto straziato dal fuoco e gli occhi immersi in uno strato di sangue. Chiedeva aiuto con una voce vagamente familiare. Lo riconobbi: era il guardiamarina Meneghini. Una scheggia di ferro l'aveva quasi scotennato. Vidi la nuca in parte privata della cute, che gli pendeva appesa ad una sottile striscia di pelle, ed una parte della scatola cranica messa a nudo, sporca di rosso coagulo. Provai a detergergli con il mio fazzoletto il sangue che gli copriva gli occhi, rincuorandolo e ripetendogli: "Buttati! Buttati in mare!".

 

Poi un altro ancora venne verso di me trascinandosi dietro un marinaio con un braccio quasi staccato dal corpo. Dal taglio della ferita usciva un fiotto di sangue così copioso da inondare di rosso la coperta sotto di lui. "Signore, signore vuole voi, vuole solo voi!", andava gridandomi l'accompagnatore. Lo riconobbi: era il furiere della mia segreteria, il marinaio Del Vecchio! Con il mio fazzoletto, ancora intriso del sangue di Meneghini, gli legai il braccio fracassato tentando alla meglio di impedire che il sangue continuasse a fuoriuscire. Con i residui pezzi della sua camicia cercai di coprire quelle carni straziate da cui s'intravedeva il biancore delle ossa. Il mio segretario, preso da un impulso di riconoscenza, tentò di abbracciarmi inondandomi di sangue.

 

Per un istante mi parve di perdere il controllo dei nervi perché il suo liquido rosso mi era entrato dal colletto della camicia e mi scendeva caldo lungo il petto. Poi, lentamente, con fatica gli indossai il mio salvagente. "Non muoverti senza di me, tieniti attaccato a me, capito? Non mi mollare mai!". Fu questa l'unica raccomandazione che gli diedi.

 

Tra tutta quella umanità impaurita che correva davanti a me cominciai ad individuare qualche volto noto. Riconobbi il tenente di vascello Megna, che mi stava passando vicino senza fermarsi e senza riconoscermi e che andava verso poppa proprio nel momento in cui l'idrovolante si andava schiantando in coperta per scivolare lentamente in mare. Il tenente di vascello Caputi era seduto immobile nei pressi della sua torre e scuoteva solo il capo come chi volesse riprendersi da uno stordimento: vidi solo il bianco dei suoi occhi che risaltavano nella fuliggine che gli copriva tutto il viso. Più lontano Franco Mattoli stava aiutando a scivolare a mare il sottotenente di vascello Vanni Vannicelli ed un guardiamarina dal volto straziato dal fuoco, forse Marcello Vacca Torelli, che mostravano le mani: povere mani con la pelle bruciata pendente a brandelli. La situazione stava decisamente precipitando. Il rimanere in equilibrio in coperta era ormai quasi impossibile. Un numero sempre più grande di feriti e di ustionati si raccoglieva a gruppi, raggomitolati disordinatamente sul legno sdrucciolevole della coperta in attesa di chissà quali aiuti e di chissà quali soccorsi! All'improvviso dalla cortina di fumo nero, che andava coprendo il tutto, apparve un nero fantasma. L'ombra nera aveva una divisa blu con tre galloni d'oro sulle maniche: era il tenente di vascello Agostino Incisa della Rocchetta. La pelle delle sue mani pendeva giù come se fossero lunghi guanti, il volto era tumefatto, i capelli, le ciglia, le orecchie, tutto era stato dilaniato dal calore dell'esplosione e dal vapore bollente.

 

Incisa era però vivo e capace ugualmente di gridare: "Buttatevi a mare! Buttatevi a mare! La nave sta per capovolgersi, buttatevi!". Era un ordine, ma sembrava un rantolo. Incisa aveva ragione perché il trincarino a poppa sul lato dritto sciabordava già sotto l'acqua di mare. Strano, ma in quel momento mi venne in mente la frase che un giorno mi disse mio padre: "Quando il trincarino di una nave va sott'acqua la nave è spacciata!".

 

Anch’io unii la mia voce a quella di Incisa e ripetei gridando più volte: "Buttatevi a mare!". Il maggiore medico D'Antonio, fermo sul trincarino di poppa con i piedi nell'acqua, sembrava del tutto incolume: con lo sguardo fisso nel vuoto, teneva stretto al petto il suo rosso salvagente come per tema che glielo strappassero via.

 

Chiamai a raccolta intorno a me i marinai della mia torre ed ordinai loro: "Buttatevi a poppa estrema! Buttatevi a poppa estrema!". Sedici, tutti, mi seguirono ordinatamente lì mio furiere si era agguantato alla mia vita con l'unico braccio sano.

 

Scivolai lentamente con lui in mare proprio all'estremità della poppa, che già si trovava a pelo d'acqua. Quanta gente in mare! Quanta gente senza salvagente! Quanta gente s'intravedeva nelle acque limpide, che andavano affondando nell'abisso blu racchiusi in quelle divise bianche da marinaio, che mano a mano diventavano solo puntini bianchi sempre più piccoli! Il mio segretario, tenuto a galla dal mio salvagente, si agguantava alla mia spalla, mentre nuotavo vigorosamente sul dorso per allontanarmi il più possibile dallo scafo della corazzata. L'acqua era tiepida ed il mare quasi calmo. Ero completamente vestito ed i miei abiti stavano impregnandosi d'acqua tanto da rendermi sempre più difficile il muovermi ed il mantenermi a galla. Mi fermai ed approfittando del precario sostegno del salvagente di Del Vecchio, mi tolsi prima le scarpe, poi i pantaloni, il maglione, la camicia ed i calzini. Rimasi in mutande, con la sola cintura alla vita che serviva a trattenere il portafoglio infilato dentro. Ripresi così a nuotare vigorosamente, mentre il mio segretario faceva del suo meglio per aiutarmi vogando con le sue grosse gambe.

 

Eravamo riusciti a staccarci quasi un centinaio di metri dalla carcassa di nave Roma, anche grazie al suo abbrivo. Guardai il mio cronometro al polso sinistro: le lancette si erano fermate e segnavano le ore 16, 9 minuti e 22 secondi. Mi venne da pensare che, se prima avessi tralasciato quella manciata di minuti che mancavano alle ore 16, sarei stato di guardia in plancia: trovandomi nel torrione, a quell'ora avrei dovuto essere già morto, bruciato vivo.

 

Intorno a me il mare era cosparso di superstiti che cercavano di galleggiare. Lontano vedevo delle zattere di salvataggio semiaffondate, gremite fino all'inverosimile di uomini vocianti e gesticolanti. Mi sembrò che degli uomini, per sopravvivere, lottassero tra di loro nel tentativo di trovare posto stille zattere. I sopravvenuti venivano allontanati dai primi arrivati che, per non affondare, li colpivano alla cieca con le pagaie sulle teste, sulle braccia e sulle mani.

 

Intorno alle zattere di salvataggio molti corpi continuavano a scomparire sott'acqua. Più vicino c'era invece una branda chiusa ed ancora arrotolata che fungeva da salvagente a due vecchi tenenti, Orefice e Fidone. Alla mia destra, non molto lontano, nuotava lentamente il tenente di vascello Incisa della Rocchetta; nonostante fosse coperto di piaghe sul volto e con le mani arse dal fuoco e senza più la pelle, si destreggiava ancora bene nel mantenersi a galla senza salvagente.

 

Fu in quell'istante che ebbi la visione chiara dello sfacelo ch'era sulla mia nave, il Roma. Il torrione, il corazzato torrione, era penosamente inclinato sulla dritta, ovunque un ammasso di rottami e ferraglie. Dai resti del fumaiolo prodiero, spezzato a metà, si elevava ancora un'oziosa voluta di fumo denso e nero. Sul castello di prora non c'era più nessuno. In coperta a poppa, invece, si scorgevano ancora macchie bianche o rosse muoversi o ristare: improvvisi piccoli ciuffi d'acqua sotto bordo indicavano che v'era ancora chi si tuffava dallo scafo in mare.

 

Poi un'onda più alta delle altre mi occultò la visione della nave.

 

Quando l'onda mi abbandonò vidi che si stava compiendo l'ultimo atto della tragedia di nave Roma. All'improvviso lo scafo ruotò completamente su se stesso, mentre un centinaio di esseri umani, cercando disperatamente di risalire sulla chiglia emersa dal mare, ricadevano all'indietro scivolando sott'acqua. Vidi, in tutta la sua lunghezza, la lignea coperta di poppa ormai sgombra di puntini bianchi e rossi. Poi, con un potente schiaffo sull'acqua, le eliche, quattro, immobili brillarono al sole pomeridiano. I timoni si profilarono neri tra le eliche contro il cielo. Una gigantesca spaccatura divise in quel momento la nave in due, come se fosse intervenuta una gigantesca scure a decapitarla proprio al centro.

 

Passarono pochi attimi prima che la nave finisse per capovolgersi completamente spezzandosi definitivamente in due grandi tronconi. La poppa sprofondò lenta, scivolando avanti, con un gorgoglio sommesso. La prora invece si erse verso il cielo, quasi a sfidare ancora il nemico. Vidi la prora per qualche istante, immobile, tanto che ebbi modo di vederne distintamente il bulbo, il "clump". Poi verticalmente, come se fosse stata attratta da una forza titanica, la prora della nostra nave tentò di innalzarsi ancora più imponente verso il cielo. Cercava di darci così il suo estremo saluto prima di scomparire per sempre negli abissi del mare.

 

La massa d'acciaio fu infine inghiottita dalle acque risucchiando negli abissi quel centinaio di uomini che ancora si dibattevano tra le eliche ed i timoni. Un grido mi uscì dal petto: "Viva il Roma! Viva il Roma!". Era un grande grido, che trovò nella voce di tanti altri superstiti come un'eco, che si andava ripetendo dieci, cento volte ancora. Dalla prora, che era scomparsa, nacque una grande ondata che ci venne incontro alta e spumeggiante, sommergendoci tutti al suo passaggio. Del Vecchio ed io finimmo per una decina di secondi sott'acqua, da cui a fatica riemergemmo poi tossendo. L'orizzonte era sgombro, il mare era tornato calmo.

 

La regia corazzata Roma era scomparsa portando con sé nella sua tomba tanti e tanti dei nostri marinai!

Link al commento
Condividi su altri siti

La resistenza della corazzatura fu sperimentata nel maggio 1935 al balipedio Cottrau di La Spezia. Essa si dimostrò capace di resistere all'impatto di proietti perforanti da 406 mm sparati da una distanza di m 24.000 e a quello di bombe d'aereo da kg 1.280, di non eccessiva capacità perforante ma di grande potenza esplosiva, nonché capace di resistere a bombe perforanti da 835 kg, ambedue i tipi di bomba con una velocità d'urto di 250 m/sec, cioè la massima velocità naturale di caduta (non esistevano, allora, bombe con propellente a razzo).

 

Dalle informazioni che ho io infatti esisteva un motore a razzo che non aveva funzione di accelerarle la bomba dallo sgancio all'impatto (troppo il carburante necessario e quindi lo spazio rubato all'esplosivo). La bomba accellerava fino a che le alette posteriori non avevano abbastanza portanza per poter guidare la bomba e solo allora cadeva a caduta libera.

 

Il risultato fu una velocità di caduta di 100 m/s superiore a quella naturale, unita al fatto che la bomba era perforante. Era oggettivamente impossibile prevedere nel 1935 una bomba radioguidata di grandi dimensioni e che per di più impattava ad una velocità superiore a quella naturale.

In questa foto si vede benissimo la scia del motore a razzo negli istanti immediatamente successivi allo sgancio:

PC-1400-Drop-1.jpg

 

Mente questo è lo schema tecnico dell'arma

PC-1400-Cutaway-1.jpg

 

EDIT: mi sono fatto un giretto in rete. Wikipedia conferma quello che ho scritto, altri siti no. In ogni caso tutte le fonti che ho avuto modo di vedere parlano di una velocità terminale dell'ordigno di circa 350 m/s, che non sarebbe quella di una normale bomba a caduta libera.

 

EDIT 2: se si parla di Regia Marina, segnalo quest'eccellente sito: http://www.regiamarina.net/index_it.htm

Il sito della corazzata Roma: http://www.regianaveroma.org/

e infine questo sito da cui potete scaricare numerosi documenti interessanti: http://www.saturatore.it/StoriaNAV.htm

Modificato da Rick86
Link al commento
Condividi su altri siti

se non sbaglio questa bomba non aveva razzi ma aveva dietro delle speciali luci che davano al pilota il luogo dove si trovava in modo da poterla guidare meglio.

 

consiglio anche per approfondire di vedere il documentario di history channel sulla corazzata roma compresa di interviste ai sopravissuti

Link al commento
Condividi su altri siti

Cari tutti,

 

approfitto di questo tema per riproporre anche su questo foro un quesito che ho già posto più volte senza risposte soddisfacenti.

 

Perchè non furono impiegati gli aerei intercettori di cui disponeva la nostra squadra navale?

 

Gli aerei, Re2001, c'erano, è citato in varie fonti, i piloti anche, anzi almeno uno di loro si salvò dal naufragio della Roma. I tempi c'erano, se sono veri quelli ufficiali, vedi anche il primo intervento qua sopra, con più di quindici minuti tra le prime bombe e il colpo fatale alla Roma.

 

Perchè?

 

E' chiaro, vedi anche la testimonianza del comandante la squadriglia, che con i soli 90mm non potevamo neanche infastidire i Dornier tedeschi che volavano ad alta quota.

 

Solo dei caccia potevano farlo.

 

Sulla decisione fatale dell'ammiraglio Philipps, comandante della forza Z, di non chiedere soccorso ai Buffalo basati a terra in Malesia si è detto e scritto molto.

 

Ma non ho mai trovato da nessuna parte non dico la risposta al mio quesito ma neanche la domanda.

Link al commento
Condividi su altri siti

Perchè non furono impiegati gli aerei intercettori di cui disponeva la nostra squadra navale?

 

Gli aerei, Re2001, c'erano, è citato in varie fonti, i piloti anche, anzi almeno uno di loro si salvò dal naufragio della Roma. I tempi c'erano, se sono veri quelli ufficiali, vedi anche il primo intervento qua sopra, con più di quindici minuti tra le prime bombe e il colpo fatale alla Roma.

 

se parliamo degli aerei IMBARCATI (ed in quel caso parliamo dei RE2000 non 2001) il 9.9.43 erano presenti 3 esemplari a bordo, 1 su Roma e 1 su Italia (ex Littorio)1 su Vittorio Veneto. Nessuno fu lanciato, anche se 3 RE2000 contro i 28 DO217 non avrebbero potuto comunque fare molto. Sicuramente, sarebbe stato meglio di nulla.

 

Per quanto riguarda i 90, vale quello detto più sopra. Il pezzo raggiungeva agevolmente le quote di attacco, ma disponeva di munizionamento piuttosto inefficente, e di DT poco adeguate. Resta da dire anche che la squadra, nella confusione di quelle giornate (ben descritte sopra) non si aspettava forse un attacco cosi' immediato e cosi' potente, mentre sappiamo che il piano ACHSE era stato deciso dai tedeschi, e studiato nei minimi particolari, gia da mesi.

 

 

Per quanto riguarda, invece, la mancata copertura della AM... oltre alla situazione oggettiva della Aeronautica in quel periodo, c'e' da riscontrare la costante mancanza di collaborazione fra le nostre FFAA, causa non secondaria dei nostri rovesci militari nella IIGM.

Link al commento
Condividi su altri siti

Ospite intruder
Per quanto riguarda, invece, la mancata copertura della AM... oltre alla situazione oggettiva della Aeronautica in quel periodo, c'e' da riscontrare la costante mancanza di collaborazione fra le nostre FFAA, causa non secondaria dei nostri rovesci militari nella IIGM.

 

Senza dimenticare la mancanza del radar, della benza, di un'adeguata mentalità...

Link al commento
Condividi su altri siti

  • 4 mesi dopo...
LA GRANDE TRAGEDIA DELLA CORAZZATA ROMA

 

Abbandonai di corsa la poppa per raggiungere il mio "posto di combattimento". La corazzata Roma, in quel momento ancora in coda alle altre due corazzate, il Vittorio Veneto e l'Italia, stava ultimando la sua accostata verso nord. Non erano ancora suonate le quattro del pomeriggio di quel 9 settembre 1943, quell’ora in cui avrei dovuto sostituire un collega nel servizio di guardia di navigazione nel grande torrione corazzato di prora. Controllai l'ora del mio cronometro che segnava, lo ricordo benissimo, 11 minuti alle 16.00. Decisi di recarmi al mio "posto di combattimento" anziché in plancia per montare di guardia. Il mio "posto di combattimento" era alla "direzione del tiro autonomo" della torre trinata di medio calibro da 152 mm: la n.4, che si trovava a sinistra e a poppavia della nave. Furono poi proprio quegli unici 11 minuti a salvarmi la vita.

 

Entrato che fui nella torre n. 4, mi sistemai sul seggiolino del direttore del tiro, dopo aver accuratamente chiuso tutti i portelli corazzai i laterali, ch'erano rimasti inconsuetamente aperti. Lasciai aperto solo quello davanti a me, pur sempre rimanendo protetto dal suo vetro di grosso spessore. Brandeggiai subito la torretta della direzione del tiro verso il mare. Vedevo la corazzata Italia troppo ravvicinata a noi, ma in rotta di allontanamento. I suoi due fumaioli eruttavano dense fumate nerastre che creavano un forte contrasto con la prora, che aprendo un profondo solco nel mare sollevava due grandi bianchissime e spumeggianti onde. In quel momento uno strano brivido mi corse lungo tutta la schiena. Mormoravo tra me: "Credo che ci siamo!". Avevo ragione perché la corazzata Italia era stata ad un pelo dall'essere colpita in pieno da una bomba tedesca.

 

Per fortuna il tutto si era risolto con un'esplosione in mare a poppavia della nave, con il conseguente momentaneo bloccaggio dei timoni, che avevano causato quell'irragionevole dirottamento verso di noi. Ero conscio di non aver nulla da temere racchiuso, come stavo, nella mia piccola torre protetta da una corazza dello spessore di 150 mm d'acciaio. Questa era una mia, in quel momento, quanto mai ottimistica conclusione. Chiesi, attraverso il microfono che mi stava di fronte, al mio sottufficiale capo impianto, maresciallo Macchia, se il nostro personale fosse tutto presente ai propri posti di combattimento. "Mancano tutti i marinai artificieri del deposito munizioni!", fu la sua laconica e preoccupata risposta. Capo Macchia aveva pienamente ragione d'essere allarmato, perché in questa situazione non eravamo certo in grado di aprire il fuoco contro il nemico. I proiettili erano rimasti bloccati sulle norie ed i cannoni erano scarichi. Chissà mai dove si erano andati a rifugiare i miei artificieri del deposito munizioni n.4! Certo l'annunzio dell'armistizio doveva aver già profondamente devastato ogni concetto di responsabilità e di disciplina a bordo per arrivare a tal punto da rendere inutilizzabile l'intero mio impianto trinato! Non so quanti minuti fossero passati prima che un aereo isolato ci sorvolasse venendo nuovamente da poppa. L'aereo, lento nel suo volo, mi lasciò tutto il tempo per inquadrarlo con il mio binocolo e seguire la sua manovra. Ecco nuovamente un puntino rosso che si accendeva: pareva immobile nello spazio; poi la stessa scia di fumo che avevo visto prima, lunga e sottile, che screziava di bianco l'azzurro del cielo.

 

Gridai a diverse riprese nel microfono, che mi univa alla "centrale di tiro", d'aver sulla testa un aereo che aveva sganciato una bomba. Nessuno mi rispose! Ero pienamente cosciente che in quel momento i tedeschi stavano attaccando proprio dal nostro zenit, e che, in questo particolare caso, i miei cannoni da 152 mm non servivano a niente. Il mio impianto di tre cannoni, con un alzo di massima elevazione fino a 45°, non potevano intervenire contro dei bersagli che prevedevano un alzo compreso tra gli 80° ed i 90°. Questo compito era riservato invece ai nostri impianti antiaerei da 90 mm. Comunque la mia torre non poteva e non doveva aprire il fuoco, a meno che non si fosse verificato il caso di un contemporaneo attacco a pelo d'acqua di aerosiluranti.

 

In realtà in quel momento ero tormentato solo da un altro pensiero: erano i tedeschi ad attaccarci, i camerati che per tre lunghi anni avevano combattuto al nostro fianco contro gli inglesi!

 

Vidi solo il guidone di accostata che salì fino a riva sul pennone di sinistra dell'albero di maestra, ma la nave proseguì nella sua rotta. Eterno mi sembrò il tempo che la bomba impiegò nella caduta. Speravo di schivarla. A un tratto la scorsi nel campo millimetrato del mio binocolo; mi sembrò lunghissima. Scomparve alla mia visuale a dritta, dietro gli impianti antiaerei da 90 mm, quelli verso prora.

 

Improvvisamente una violentissima scossa fece sobbalzare tutta la nave, fino a scaraventarmi già dal mio sgabello, sbattendomi più volte contro le pareti d'acciaio della mia torretta. "Maledetti!", esclamai, mentre mi tastavo con le mani le costole. Trascorsero altri secondi; un forte vociare, ovattato dal vetro della mia torretta, mi giunse alle orecchie confondendosi con le voci che uscivano dall'altoparlante collegato con la "centrale di tiro". Passò ancora del tempo, poi sentii cadere dall'alto un qualche cosa che precipitò in coperta con un suono secco: mi sembrò che fosse l'intero gabbione dell'impianto del "Gufo", ch'era stato sistemato in testa al torrione un mese prima a Genova.

 

Uno sconosciuto dall'altoparlante mi informava frettolosamente che le frigorifere 5 e 6 erano in fiamme. Lo sconosciuto chiuse prima che gli potessi chiedere maggiori delucidazioni: non capii perché tale comunicazione fosse stata fatta proprio a me, anziché agli organi competenti. Molta era la confusione che faceva crescere l'agitazione in quella fila di marinai che si andava sempre più sconclusionatamente accalcando davanti allo stretto ingresso della porta corazzata del torrione. La nave aveva iniziato a sbandare sul lato dritto. In un primo momento ritenni che l'inclinazione che aveva assunto lo scafo fosse dovuto all'accostata, ma poi mi resi conto che la nave proseguiva la sua rotta diminuendo rapidamente di velocità. Certamente avevamo ricevuto un colpo a bordo. Il nostro fuoco antiaereo era già cessato.

 

Le altre navi invece continuavano a sparare, i batuffoli neri degli scoppi costellavano il cielo. Si stava combattendo contro i nostri alleati tedeschi, non contro gli angloamericani. Com'eravamo potuti precipitare fino a questo punto? Eppure dovevamo comunque difenderci! Erano questi i pensieri che in quei minuti mi stavano tormentando. Poi rimisi nuovamente la bocca sul megafono per chiedere: "Capo Macchia, tutto bene?". "Bene", mi rispose vivacemente, ma con voce ancora tranquilla, il mio capo-impianto.

 

Girai lo sguardo verso il mare e vidi unicamente nave Italia che ad alta velocità si stava allontanando sempre più da noi. Brandeggiai allora la mia torretta della "direzione del tiro" verso prora per rendermi conto di dove la bomba ci avesse colpiti. Riuscii solo a vedere che i sei cannoni antiaerei di sinistra tacevano. A poppa, in coperta regnava il panico, con marinai impauriti che correvano disordinatamente e precipitosamente per cercare rifugio sotto lo scudo protettivo del grande impianto trinato di grosso calibro di poppa. Tra questi riconobbi, pallidissimo, mentre si stringeva al petto il rosso salvagente, il guardiamarina di complemento De Crescenzio. In alto, verso le ali della plancia comando, dal torrione un "pennoncino" s'era spezzato in due e pendeva oscillando tristemente nel vuoto. Non vedendo neanche un filo di fumo non riuscivo a capire dove fosse andata a scoppiare la bomba tedesca. La bomba in realtà aveva colpito la nave in un punto abbastanza lontano dalla mia posizione, precisamente oltre la metà della nave, sul lato dritto, infilandosi a poco più di un metro dalla murata di dritta della nave, all'altezza dei pezzi antiaerei da 90 mm n.9 e n. 11. Il contraccolpo dello schianto sullo scafo aveva abbattuto il gabbione del radiotelemetro ed il telemetro della "centrale del tiro" contraereo. In pratica la bomba era passata da una parte all'altra dello scafo, per esplodere infine sotto la carena sfondandola ed allagando di conseguenza le quattro caldaie poppiere e le stesse macchine di poppa. L'esplosione sotto lo scafo aveva anche bloccato due delle quattro eliche sistemate a poppa. Si era verificata un'immediata caduta di velocità della nave sotto i 16 nodi.

 

Contemporaneamente c'era stata anche una caduta di tensione elettrica per tutto il settore poppiero. Senza sufficiente corrente i timoni non rispondevano più regolarmente ai comandi del timoniere. L'allagamento delle caldaie e delle macchine di poppa aveva provocato il progressivo e rapido sbandamento della nave sul lato di dritta. Indubbiamente le vie d'acqua erano state favorite da una portelleria stagna non regolarmente chiusa. Per controbilanciare lo sbandamento della nave si tentò di allagare, o forse accadde automaticamente, alcune celle di compensazione sul lato sinistro dello scafo. Il risultato fu positivo perché l'inclinazione parve quasi fermarsi.

 

Ero tornato a scrutare il cielo in alto con il binocolo alla ricerca delle sagome degli aerei tedeschi. Non vedevo nulla, il cielo sembrava sgombro, forse l'attacco tedesco era finito. Nave Roma aveva incassato per la quinta volta una bomba senza esser colpita a morte. Sentivo ugualmente dentro di me quel senso di pericolo, fattosi ancor più assillante ed incombente di prima. Questo genere di sensazione trovava forse la sua ragione d'essere nel constatare un boato che si andava progressivamente espandendo dal centro nave. Ora d'improvviso nuove dense nubi bianche avevano iniziato ad uscire dal fumaiolo di poppa, come generate da un'immensa perdita di vapore dalle caldaie. Mi sembrò quindi palese che la nave fosse stata colpita piuttosto seriamente e la grande quantità d'acqua imbarcata stava mettendo in crisi il normale assetto di tutta l'unità. Il guidone d'accostata era rimasto inerte in alto sul pennone di sinistra, l'unico ancora sano. Intanto nave Roma, sempre inclinata su di un lato, quello di destra, aveva preso ad accostare lentamente anche verso dritta. Mi preoccupavo per la velocità sempre più ridotta.

 

D'improvviso, ad interrompere le mie affrettate osservazioni sulla situazione della mia nave furono i sei pezzi antiaerei da 90 mm di dritta. I cannoni antiaerei avevano aperto all'unisono un fuoco infernale, accompagnati dal crepitio delle grosse mitragliere sistemate sulla torre di grosso calibro n. 3 di poppa. Tutti intorno a me sparavano all'impazzata mentre andavo cercando affannosamente con il mio binocolo, in alto nel cielo, i bersagli di tanto accanimento della nostra artiglieria. Dentro di me si stava intanto ingigantendo la netta e violenta sensazione di pericolo, di un pericolo sempre più imminente. Inconsciamente mi raccomandai a Dio, perché mi sembrava di avere la morte alle spalle. Era una sensazione assai strana, quasi palpabile. D'un tratto, come per incanto, inquadrai finalmente nella retina graduata del mio binocolo un aereo bombardiere tedesco ed ancora una volta quel puntino rosso e quella lunga striscia nebulosa. Seguendo con il mio binocolo la striscia di fumo mi accorsi che sul davanti c'era un lungo cuneo metallico, di colore grigio scuro, adornato lateralmente da due alette. L'ordigno stava scendendo giù dal cielo verso di me! Era una cosa velocissima, preceduta questa volta da un sibilo ancor più lacerante che si impadroniva dei miei timpani.

 

Tutto continuava inesorabilmente a venire contro di me. La pelle mi si accapponò lungo tutta la schiena mentre seguivo la traiettoria della bomba con il fiato sospeso e con il cuore che batteva sempre più veloce, sempre più veloce. Ormai era vicinissima, ma la sua traiettoria sembrava ora meno diretta su di me. Sembrava destinata ad infilarsi più avanti, esattamente tra il torrione corazzato, vicinissimo al fumaiolo di prora, poco a ridosso dell'impianto gemello al mio, quello della torre n. 2 di medio calibro. L'ordigno arrivò finalmente alla sua meta con un tonfo leggero, quasi impercettibile.

 

Passò un'eternità o forse una manciata di secondi, avevo già perso ogni nozione del tempo: ci fu una violenta folata di aria bollente, non esplosione. Da essa nacque improvvisa, altissima e larghissima una fiammata gialla, poi quasi violacea, che s'involò verso il cielo, avvolgendo come in una gigantesca morsa il torrione ed il fumaiolo di prora. In quello stesso istante provai un dolore acuto ai timpani ed una sensazione di caldo torrido. L’aria sapeva di zolfo ardente ed entrandomi nei polmoni mi bruciava il respiro costringendomi a tossire nervosamente. Tra il violento bagliore delle esplosioni vedevo il torrione corazzato che si accartocciava su se stesso. Il fumaiolo di prora andava scomparendo nel nulla tra un denso fumo ora bianco, ora nero, ora grigio, che sembrava uscisse ululando dalle viscere della nave.

 

Una gigantesca ondata di vapore spingeva verso l'alto un’infinità di frammenti di ferro, di pezzi della nave, di pezzi di ogni cosa. Poi una seconda ondata di calore violentissimo mi raggiunse e mi avvolse all'improvviso mentre con gli occhi sbarrati continuavo a seguire quell'apocalittico inferno di fuoco e di vapore. Ora quell'inferno andava avanzando verso di me. "Incendio! Incendio!", si udiva confusamente gridare: la luce si spense. La sensazione di essere incolume mi diede una gioia spontanea, istintiva.

 

La seconda bomba aveva perforato la coperta dello scafo, come la prima, ma questa volta era esplosa nel deposito munizioni della torre n.2 di medio calibro di prora. L'esplosione aveva sfondato le attigue caldaie generando una gigantesca ondata di vapore che aveva facilmente innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della torre n. 2 di grosso calibro. La violenza della deflagrazione era stata così forte da proiettare di colpo a mare tutto l'intero complesso trinato n. 2 da 381 mm. Altre esplosioni erano seguite per i depositi munizioni della torre n. 2 di medio calibro sul lato sinistro della nave. Le conseguenze erano state gravissime perché in pochi istanti si erano allagate tutte le rimanenti macchine di prora. Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione ed il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave aveva ripreso in modo tanto rapido che ormai mi era difficile il mantenermi in equilibrio sul mio sgabello. Non riuscivo ancora a staccare gli occhi da quello spettacolo della grande torre corazzata diventata una immane torcia di fuoco, che mano a mano eruttava pezzi di lamiere tra nubi sempre più nere. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all'altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove, con le vesti in preda alle fiamme agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta.

 

Su tutto sovrastava un rombo sordo ed assillante, che riusciva quasi a fracassarti i timpani. Una miriade di piccole esplosioni si univa al sibilare degli spezzoni di lamiere, che volavano per ogni dove. Sciami di proiettili di mitragliere, provenienti dalle riservette degli impianti di prora raggiunti dall'onda di fuoco, vagavano in coperta con improvvisate traiettorie. Tutto questo andava falciando ed uccidendo impietosamente gli uomini che cercando un rifugio attraversavano la loro strada. Ebbi allora la prima netta sensazione che il Roma stesse morendo e che per i miei marinai e per me si stesse preparando solo una morte da topi, racchiusi com'eravamo nella torre d'acciaio dei nostri cannoni. Presi immediatamente la mia decisione afferrando con le due mani un megafono. Con voce alta e ferma dissi: "Tutto il personale della torre esca, ripeto esca e si metta in salvo, ripeto tutti devono uscire e mettersi in salvo!". Poi lentamente, come per dar tempo a tutti i miei marinai di uscire dal grande portellone della torre prima di me, mi feci strada anch'io verso l'aria aperta. Fui costretto ad affrontare delle vere acrobazie per mantenermi in equilibrio tra gli sgabelli e le varie attrezzature arrovesciate ed accatastate lungo il mio tragitto. Fortunatamente riuscii finalmente a guadagnare l'uscita e mi ritrovai in coperta a poppa. La mia torre, la n.4, era vuota, tutti i miei sedici marinai erano fuori e stavano indossando il salvagente.

 

Lo spettacolo che mi si presentò davanti mi lasciò come impietrito. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l'alto come un fungo immane gravitante su tutti noi, quasi fosse una nube di tempesta, tanto da oscurare completamente il nostro cielo. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivoli di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta. Altri, feriti e bruciati, stentavano a mantenersi in posizione eretta perché il piano di coperta sotto di loro si andava inclinando sempre di più. In ogni dove vedevo esseri umani urlanti, bruciati ed insanguinati, che vagavano disperatamente verso l'estrema poppa in cerca di scampo dall'onda di fuoco e di fumo che avanzava implacabile dietro le loro spalle. Molti tentavano di rifugiarsi sotto la catapulta dell'aereo a poppa estrema.

 

L'inclinazione che aveva assunto la catapulta poteva, da un momento all'altro, scaricare sul piano di coperta l'idrovolante di dotazione alla nave, che vi troneggiava sopra. Sull'impianto n. 3 di grosso calibro, quello di poppa, il sottotenente di vascello Franco Mattoli cercava, con l'aiuto di alcuni volenterosi, di gettare in mare i grossi zatteroni sistemati sulla torre. L'impresa non riusciva perché le grandi zattere di salvataggio erano saldamente ed imprevedibilmente legate e rizzate. Né Mattoli né alcuno dei suoi marinai possedeva un coltello per tagliare le funi, bisognava slegarle. Il primo zatterone venne finalmente sganciato e nella sua caduta finì di sfasciarsi sette metri più sotto in coperta tra le grida di un marinaio rimasto impigliato tra le rizze. Il secondo raggiunse la superficie del mare. Una turba di naufraghi terrorizzati prese d'assalto lo zatterone. Il grosso galleggiante si allontanò lentamente dalla nave verso poppa, reso quasi invisibile sotto il cumulo di corpi che lo gremiva. "Devo saltare in mare! Devo buttarmi!". Questo era il mio pensiero dominante. Che altro potevo fare? Ero privo del mio salvagente, l'avevo lasciato nel locale del corpo di guardia di poppa. Ebbi l'immediato impulso di andarlo a ricuperare, nonostante lamiere e proiettili continuassero pericolosamente a vagare nell'aria intorno a me. Si trattava di fare una corsa, che richiedeva al massimo una trentina di secondi. Dovevo farcela, perché un salvagente mi era indispensabile se finivo a mare. Vi riuscii ed illeso tornai in coperta con indosso il salvagente. Una vera fiumana di marinai continuava ad ammassarsi a poppa, l'unica zona della nave non ancora invasa dalle fiamme e dal fumo. I marinai continuavano tutti a gesticolare e ad urlare in preda ad un panico indescrivibile. Uno di essi venne verso di me, aveva il volto straziato dal fuoco e gli occhi immersi in uno strato di sangue. Chiedeva aiuto con una voce vagamente familiare. Lo riconobbi: era il guardiamarina Meneghini. Una scheggia di ferro l'aveva quasi scotennato. Vidi la nuca in parte privata della cute, che gli pendeva appesa ad una sottile striscia di pelle, ed una parte della scatola cranica messa a nudo, sporca di rosso coagulo. Provai a detergergli con il mio fazzoletto il sangue che gli copriva gli occhi, rincuorandolo e ripetendogli: "Buttati! Buttati in mare!".

 

Poi un altro ancora venne verso di me trascinandosi dietro un marinaio con un braccio quasi staccato dal corpo. Dal taglio della ferita usciva un fiotto di sangue così copioso da inondare di rosso la coperta sotto di lui. "Signore, signore vuole voi, vuole solo voi!", andava gridandomi l'accompagnatore. Lo riconobbi: era il furiere della mia segreteria, il marinaio Del Vecchio! Con il mio fazzoletto, ancora intriso del sangue di Meneghini, gli legai il braccio fracassato tentando alla meglio di impedire che il sangue continuasse a fuoriuscire. Con i residui pezzi della sua camicia cercai di coprire quelle carni straziate da cui s'intravedeva il biancore delle ossa. Il mio segretario, preso da un impulso di riconoscenza, tentò di abbracciarmi inondandomi di sangue.

 

Per un istante mi parve di perdere il controllo dei nervi perché il suo liquido rosso mi era entrato dal colletto della camicia e mi scendeva caldo lungo il petto. Poi, lentamente, con fatica gli indossai il mio salvagente. "Non muoverti senza di me, tieniti attaccato a me, capito? Non mi mollare mai!". Fu questa l'unica raccomandazione che gli diedi.

 

Tra tutta quella umanità impaurita che correva davanti a me cominciai ad individuare qualche volto noto. Riconobbi il tenente di vascello Megna, che mi stava passando vicino senza fermarsi e senza riconoscermi e che andava verso poppa proprio nel momento in cui l'idrovolante si andava schiantando in coperta per scivolare lentamente in mare. Il tenente di vascello Caputi era seduto immobile nei pressi della sua torre e scuoteva solo il capo come chi volesse riprendersi da uno stordimento: vidi solo il bianco dei suoi occhi che risaltavano nella fuliggine che gli copriva tutto il viso. Più lontano Franco Mattoli stava aiutando a scivolare a mare il sottotenente di vascello Vanni Vannicelli ed un guardiamarina dal volto straziato dal fuoco, forse Marcello Vacca Torelli, che mostravano le mani: povere mani con la pelle bruciata pendente a brandelli. La situazione stava decisamente precipitando. Il rimanere in equilibrio in coperta era ormai quasi impossibile. Un numero sempre più grande di feriti e di ustionati si raccoglieva a gruppi, raggomitolati disordinatamente sul legno sdrucciolevole della coperta in attesa di chissà quali aiuti e di chissà quali soccorsi! All'improvviso dalla cortina di fumo nero, che andava coprendo il tutto, apparve un nero fantasma. L'ombra nera aveva una divisa blu con tre galloni d'oro sulle maniche: era il tenente di vascello Agostino Incisa della Rocchetta. La pelle delle sue mani pendeva giù come se fossero lunghi guanti, il volto era tumefatto, i capelli, le ciglia, le orecchie, tutto era stato dilaniato dal calore dell'esplosione e dal vapore bollente.

 

Incisa era però vivo e capace ugualmente di gridare: "Buttatevi a mare! Buttatevi a mare! La nave sta per capovolgersi, buttatevi!". Era un ordine, ma sembrava un rantolo. Incisa aveva ragione perché il trincarino a poppa sul lato dritto sciabordava già sotto l'acqua di mare. Strano, ma in quel momento mi venne in mente la frase che un giorno mi disse mio padre: "Quando il trincarino di una nave va sott'acqua la nave è spacciata!".

 

Anch’io unii la mia voce a quella di Incisa e ripetei gridando più volte: "Buttatevi a mare!". Il maggiore medico D'Antonio, fermo sul trincarino di poppa con i piedi nell'acqua, sembrava del tutto incolume: con lo sguardo fisso nel vuoto, teneva stretto al petto il suo rosso salvagente come per tema che glielo strappassero via.

 

Chiamai a raccolta intorno a me i marinai della mia torre ed ordinai loro: "Buttatevi a poppa estrema! Buttatevi a poppa estrema!". Sedici, tutti, mi seguirono ordinatamente lì mio furiere si era agguantato alla mia vita con l'unico braccio sano.

 

Scivolai lentamente con lui in mare proprio all'estremità della poppa, che già si trovava a pelo d'acqua. Quanta gente in mare! Quanta gente senza salvagente! Quanta gente s'intravedeva nelle acque limpide, che andavano affondando nell'abisso blu racchiusi in quelle divise bianche da marinaio, che mano a mano diventavano solo puntini bianchi sempre più piccoli! Il mio segretario, tenuto a galla dal mio salvagente, si agguantava alla mia spalla, mentre nuotavo vigorosamente sul dorso per allontanarmi il più possibile dallo scafo della corazzata. L'acqua era tiepida ed il mare quasi calmo. Ero completamente vestito ed i miei abiti stavano impregnandosi d'acqua tanto da rendermi sempre più difficile il muovermi ed il mantenermi a galla. Mi fermai ed approfittando del precario sostegno del salvagente di Del Vecchio, mi tolsi prima le scarpe, poi i pantaloni, il maglione, la camicia ed i calzini. Rimasi in mutande, con la sola cintura alla vita che serviva a trattenere il portafoglio infilato dentro. Ripresi così a nuotare vigorosamente, mentre il mio segretario faceva del suo meglio per aiutarmi vogando con le sue grosse gambe.

 

Eravamo riusciti a staccarci quasi un centinaio di metri dalla carcassa di nave Roma, anche grazie al suo abbrivo. Guardai il mio cronometro al polso sinistro: le lancette si erano fermate e segnavano le ore 16, 9 minuti e 22 secondi. Mi venne da pensare che, se prima avessi tralasciato quella manciata di minuti che mancavano alle ore 16, sarei stato di guardia in plancia: trovandomi nel torrione, a quell'ora avrei dovuto essere già morto, bruciato vivo.

 

Intorno a me il mare era cosparso di superstiti che cercavano di galleggiare. Lontano vedevo delle zattere di salvataggio semiaffondate, gremite fino all'inverosimile di uomini vocianti e gesticolanti. Mi sembrò che degli uomini, per sopravvivere, lottassero tra di loro nel tentativo di trovare posto stille zattere. I sopravvenuti venivano allontanati dai primi arrivati che, per non affondare, li colpivano alla cieca con le pagaie sulle teste, sulle braccia e sulle mani.

 

Intorno alle zattere di salvataggio molti corpi continuavano a scomparire sott'acqua. Più vicino c'era invece una branda chiusa ed ancora arrotolata che fungeva da salvagente a due vecchi tenenti, Orefice e Fidone. Alla mia destra, non molto lontano, nuotava lentamente il tenente di vascello Incisa della Rocchetta; nonostante fosse coperto di piaghe sul volto e con le mani arse dal fuoco e senza più la pelle, si destreggiava ancora bene nel mantenersi a galla senza salvagente.

 

Fu in quell'istante che ebbi la visione chiara dello sfacelo ch'era sulla mia nave, il Roma. Il torrione, il corazzato torrione, era penosamente inclinato sulla dritta, ovunque un ammasso di rottami e ferraglie. Dai resti del fumaiolo prodiero, spezzato a metà, si elevava ancora un'oziosa voluta di fumo denso e nero. Sul castello di prora non c'era più nessuno. In coperta a poppa, invece, si scorgevano ancora macchie bianche o rosse muoversi o ristare: improvvisi piccoli ciuffi d'acqua sotto bordo indicavano che v'era ancora chi si tuffava dallo scafo in mare.

 

Poi un'onda più alta delle altre mi occultò la visione della nave.

 

Quando l'onda mi abbandonò vidi che si stava compiendo l'ultimo atto della tragedia di nave Roma. All'improvviso lo scafo ruotò completamente su se stesso, mentre un centinaio di esseri umani, cercando disperatamente di risalire sulla chiglia emersa dal mare, ricadevano all'indietro scivolando sott'acqua. Vidi, in tutta la sua lunghezza, la lignea coperta di poppa ormai sgombra di puntini bianchi e rossi. Poi, con un potente schiaffo sull'acqua, le eliche, quattro, immobili brillarono al sole pomeridiano. I timoni si profilarono neri tra le eliche contro il cielo. Una gigantesca spaccatura divise in quel momento la nave in due, come se fosse intervenuta una gigantesca scure a decapitarla proprio al centro.

 

Passarono pochi attimi prima che la nave finisse per capovolgersi completamente spezzandosi definitivamente in due grandi tronconi. La poppa sprofondò lenta, scivolando avanti, con un gorgoglio sommesso. La prora invece si erse verso il cielo, quasi a sfidare ancora il nemico. Vidi la prora per qualche istante, immobile, tanto che ebbi modo di vederne distintamente il bulbo, il "clump". Poi verticalmente, come se fosse stata attratta da una forza titanica, la prora della nostra nave tentò di innalzarsi ancora più imponente verso il cielo. Cercava di darci così il suo estremo saluto prima di scomparire per sempre negli abissi del mare.

 

La massa d'acciaio fu infine inghiottita dalle acque risucchiando negli abissi quel centinaio di uomini che ancora si dibattevano tra le eliche ed i timoni. Un grido mi uscì dal petto: "Viva il Roma! Viva il Roma!". Era un grande grido, che trovò nella voce di tanti altri superstiti come un'eco, che si andava ripetendo dieci, cento volte ancora. Dalla prora, che era scomparsa, nacque una grande ondata che ci venne incontro alta e spumeggiante, sommergendoci tutti al suo passaggio. Del Vecchio ed io finimmo per una decina di secondi sott'acqua, da cui a fatica riemergemmo poi tossendo. L'orizzonte era sgombro, il mare era tornato calmo.

 

La regia corazzata Roma era scomparsa portando con sé nella sua tomba tanti e tanti dei nostri marinai!

cosa ne pensate delle voci che di tanto in tanto vengono fuori che parlano di un autoaffondamneto della Roma e non di affondamente causa Frit/Bomb?

Ci sono le testimonianze dei marinai superstiti e del pilota della Luftwaffe che portò l'attacco con il suo Dornier: sembra quindi tutto chiaro.

E' revisionismo? E'sensazionalismo? O fra qualche decina d'anni (come a volte è successo) sapremo una "verità" che non è la verita ufficiale sostenuta per anni?

Sembra che anche nel caso dell'affondamento della Bismark si è parlato di qualcosa di autoaffondamento.

Ricordiamo che la staria la scrivono sempre i vincitori....

A Voi signori forumisti...

Link al commento
Condividi su altri siti

bhe, la Roma fu colpita da due Fritz: la prima colpì sulla dritta, in corrispondenza degli ultimi pezzi da 90mm, la seconda subito davanti il torrione principale. entrambe le bombe penetrarono tutti i ponti corazzati esplodendo subito sotto o immezzo ai locali macchine prodiero e poppiero, squarciando lo scafo, inclinando il torrione (che non aveva più una base dove poggiare) e facendo esplodere la santabarbara di prua, la quale proiettava in aria la seconda torre da 381, del peso di circa 1600tonnellate!

 

nonostante questi danni apocalittici, la Roma resse per 20minuti, consentendo a circa un terzo dell'equipaggio di porsi in salvo. tuttavia, l'inclinazione della nave era inarrestabile: essa si capovolse, spezzandosi in due, in corrispondenza dello squarcio sottomarino causato dalla seconda bomba.

 

questo tipo di danni e la dinamica dell'affondamento mi fanno escludere l'autoaffondamento.

 

virib017c.jpg

Link al commento
Condividi su altri siti

bhe, la Roma fu colpita da due Fritz: la prima colpì sulla dritta, in corrispondenza degli ultimi pezzi da 90mm, la seconda subito davanti il torrione principale. entrambe le bombe penetrarono tutti i ponti corazzati esplodendo subito sotto o immezzo ai locali macchine prodiero e poppiero, squarciando lo scafo, inclinando il torrione (che non aveva più una base dove poggiare) e facendo esplodere la santabarbara di prua, la quale proiettava in aria la seconda torre da 381, del peso di circa 1600tonnellate!

 

nonostante questi danni apocalittici, la Roma resse per 20minuti, consentendo a circa un terzo dell'equipaggio di porsi in salvo. tuttavia, l'inclinazione della nave era inarrestabile: essa si capovolse, spezzandosi in due, in corrispondenza dello squarcio sottomarino causato dalla seconda bomba.

 

questo tipo di danni e la dinamica dell'affondamento mi fanno escludere l'autoaffondamento.

 

virib017c.jpg

Grazie.

Non avevo mai visto questa foto. Mi sembra evidente che non sia una nave in autoaffondamento.

Ho letto comunque su vecchi libri che l'ammiraglio Bergamini aveva realmente preso in considerazione l'ipotesi di autoaffondamento dell'intera squadra navale sotto suo comando.

Link al commento
Condividi su altri siti

  • 2 settimane dopo...
Grazie.

Non avevo mai visto questa foto. Mi sembra evidente che non sia una nave in autoaffondamento.

Ho letto comunque su vecchi libri che l'ammiraglio Bergamini aveva realmente preso in considerazione l'ipotesi di autoaffondamento dell'intera squadra navale sotto suo comando.

 

Su www.regianaveroma.org "Il sito dell'Associazione Regia Nave Roma" vi sono delle foto scattate dai bombardieri Tedeschi che mostrano la dinamica dell'attacco e vario materiale riguardante la corazzata Roma.

 

Non posso postarle qui perchè il sito non l'ho permette quindi riporto unicamente il link: Dinamica affondamento.

 

Trovo il sito molto interessante e completo, vale la pena dargli un occhiata.

 

Segnalo inoltre che la rivista Focus del mese d'Ottobre ha dedicato un articolo alla corazzata Roma e alle ricerche in corso per il suo ritrovamento al largo della Sardegna.

Link al commento
Condividi su altri siti

  • 1 mese dopo...
  • 2 mesi dopo...

desta molta impressione apprendere che le bombe-guidate fritz abbiano potuto "bucare" spessi strati di acciaio in successione,presumibilmente la Roma era dotata di blindature pressochè ovunque.

Modificato da Simone
Link al commento
Condividi su altri siti

  • 2 anni dopo...

 

Esatto! Ecco altre conferme:

 

Corazzata Roma tra storia e scienza, il mito del suo ritrovamento

 

Nel Golfo dell’Asinara è stata finalmente identificata una parte del relitto della Corazzata Roma, adagiata a circa 1000 metri di profondità ed a circa 16 miglia dalla costa sarda . Le prime ed esclusive immagini del relitto sono state riprese dall' Ingegner Guido Gay titolare della società Gaymarine S.r.l. che da molti anni conduce in zona sperimentazioni di innovative apparecchiature di esplorazione subacquea da lui ideate e costruite. Grazie all’ausilio di un sofisticato robot subacqueo Pluto Palla, e ad altri esclusivi strumenti imbarcati a bordo del catamarano Daedalus di proprietà dello stesso ingegnere, il sito dove giace il relitto della Corazzata Rroma è stato individuato e visitato.

Il personale della Marina Militare, imbarcato per l’occasione sul Daedalus su invito dell’ingegnere Gay, nostro connazionale, ha verificato la inequivocabile coerenza delle immagini, riprese per la prima volta il giorno 17 giugno2012 e ripetute il 28 giugno 2012, di pezzi di artiglieria contraerea imbarcata sulla corazzata Roma.

 

cor_roma.jpg

 

Ritrovata la corazzata Roma

 

 

ed ecco il link alla pagina dei dati tecnici

Link al commento
Condividi su altri siti

Crea un account o accedi per lasciare un commento

Devi essere un membro per lasciare un commento

Crea un account

Iscriviti per un nuovo account nella nostra community. È facile!

Registra un nuovo account

Accedi

Sei già registrato? Accedi qui.

Accedi Ora
×
×
  • Crea Nuovo...