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Mezzi corazzati italiani 1915/1945


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Profili di corazzati italiani 1915/1945.

 

Inseriamo, anzitutto, i link – in ordine di cronologia storica – dei profili di mezzi corazzati, blindati e semoventi posti in esame:

 

· Autoblindo Ansaldo-Lancia 1Z http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11472

 

· Schneider C.A.1 e Renault F.T.17 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11579

 

· Carro d'assalto Fiat 2000 mod.1917 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11477

 

· FIAT 3000 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11586

· Vickers Carden-Loyd Mark VI/C.V. 29 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11588

 

· Ansaldo-FIAT C.V.33 (L3) http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11486

 

· Ansaldo-FIAT L6/40 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11487

 

· Ansaldo-FIAT M13/40 e derivati http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11490

· Ansaldo-FIAT 75/18 su M40 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11491

 

· SPA-Viberti Abm.40 "Sahariana" e Ab.41 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11500

 

· P26/40 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11512

 

· 90/53 su M14 e altri mezzi http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11520

 

· Ansaldo-FIAT 105/25 su M43 e 149/40 su M43 http://www.aereimilitari.org/forum/index.php?showtopic=11554

 

 

Lo studio di una forza armata e dei mezzi da essa utilizzata non procede mai in vacuo, essa è sempre espressione organica della società che li ha prodotti.

 

Non si può, quindi, comprendere i mezzi corazzati del Regio Esercito se non esaminando la società italiana dell'epoca.

 

I soldati che, il 24 maggio 1915 partivano per combattere la IV Guerra d'Indipendenza era contadini e allo stesso modo contadini erano i soldati dell'Imperial Regio governo austroungarico. Una guerra simmetrica, dunque, di società omogenee. Il contesto del teatro d'operazioni non permetteva l'impiego di mezzi corazzati. Solo dopo la ritirata di Caporetto vi fu un utilizzo di autoblinde nella pianura veneta. Vennero comunque acquisiti dei mezzi di produzione francese, il carro Schneider ed il Renault che servirono ad abbozzare i criteri d'impiego. Significativo come il primo carro di produzione nazionale sia stato proprio una copia del Renault, mezzo di ridotte dimensioni, autonomia ed armamento che poteva essere considerato un mezzo d'accompagnamento alle fanterie quale posto mobile di mitragliatrici.

 

Nel ventennio fra le due guerre l'arma corazzata non vide un significativo sviluppo. Segno che la nazione non poteva sostenere lo sviluppo del complesso delle forze armate; si puntò quindi su una grande marina e su una forte aviazione, che avrebbero comunque palesato tutti i loro limiti nel corso del conflitto. D'altronde alla definizione di moderni mezzi corazzati ostavano i limiti dell'industria siderurgica (anche il carro armato P40, considerato il più progredito fra quelli prodotti si basava sul sistema delle piastre imbullonate, non potendo la nostra industria realizzare la tecnica della saldatura, all'epoca ottimale per ottenere un elevato coefficiente di robustezza) di quella motoristica e, ultimo ma non ultimo, il dato di una nazione essenzialmente agraria (fu negli anni 30 del XX secolo che l'Italia vide il superamento della produzione industriale su quella agricola).

 

Il nostro paese non possedeva un patrimonio umano in grado di guidare e manutenere una moderna massa di mezzi corazzati. Se in Germania, Inghilterra, USA e URSS i conducenti di mezzi meccanici, bulldozer, trattori si potevano rapidamente trasformare in conducenti di mezzi corazzati tanto non poteva avvenire in una società quasi ai albori della meccanizzazione. Neppure la ventilata cessione da parte tedesca di una moderna aliquota corazzata avrebbe potuto livellare questo gap, ancor più accentuato che in altri settori.

 

Doveroso, pertanto, ricordare il sacrificio di quanti combatterono e si sacrificarono nei vari fronti operativi della guerra mondiale. Se in campo aeronautico abbiamo una copiosa letteratura e memorialistica ben altrimenti possiamo dire intorno i nostri reparti corazzati. Ritengo, comunque, di aver rintracciato due fonti di prim'ordine che meritano l'attenzione e il riguardo di ciascuno. La prima, tragicomica di un gruppo di carristi che si trasformano in ladri … di cancellate. La seconda sugli ultimi combattimenti in terra d'Africa, nel sobrio scritto di un combattente "senza speranza e senza paura".

 

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Dino Campini

 

Nei giardini del diavolo

 

Longanesi & C., Milano, 1969

 

 

[...] un episodio da riferire è quello del tenente Bruno Cevenini e delle cancellate. Cevenini era rimasto ferito in modo piuttosto serio al mio fianco all'assalto di una quota di monte Forcas in Spagna. Rimpatriato, guarito, lo avevano assegnato al IV battaglione del 33° distaccato a Casalecchio di Reno. I carri, le « scatole di sardine » , di Casalecchio avevano i cingoli a pezzi e per quante richieste venissero fatte le maglie per rinnovarli non arrivavano. Si sussurrava di uno spostamento verso la Francia, dell'occupazione della Costa Azzurra, e con quei cingoli si poteva arrivare, al più, fino a Piacenza.

 

I comandanti delle compagnie, Calzecchi-Onesti, Isacchini, De Fenu, Simula e l'aiutante maggiore Carlo Selmi pensavano di rivolgersi direttamente all'Ansaldo. Il maggiore Gigliaretti-Fiumi, che aveva sostituito De Alfaro, acconsentì: venne inviato a trattare il giovane Cevenini che per l'occasione rinnovò i nastrini delle sue due medaglie d'argento. All'Ansaldo gli dissero che, se avessero avuto ferro, in ventiquattro ore avrebbero dato maglie per i cingoli di tutti i carri ma che ferro non ne avevano. I rottami che si vedevano, montagne guardate da sentinelle, erano intangibili perché quel ferro doveva servire per l'E 42, la grande esposizione romana. Saputa la cosa a Casalecchio studiavano di interessare qualche personaggio per ottenere un poco di quel ferro, ma fu Cevenini a dire che era inutile perché sapeva dove trovarne e chiese per una sera un autocarro. Non era il caso, disse, di avvisare il maggiore. L'autocarro usato da Cevenini il mattino dopo era in fondo a una rimessa carico di rottami. Cevenini ammise di aver lavorato pesantemente. Poi uscirono i giornali. Una banda di ladri notturni aveva asportato le cancellate delle ville lungo qualche chilometro della vallata del Reno. I carristi di Cevenini avevano fatto le cose a modo, scurito le targhe, indossato tute sporche. Al comando della Littorio qualche sospetto però lo ebbero e giunsero a Casalecchio, per indagare, due ufficiali, il tenente Giovan Battista Arista e il tenente Lorenzo Loré: non scoprirono nulla. Le cose tuttavia avrebbero potuto mettersi male e bisognò raccontare il fatto al maggiore Gigliarelli Fiumi che si assunse la responsabilità dell'autocarro e della strana azione di Cevenini. Gli ufficiali del battaglione riuscirono anche a convincerlo a incontrarsi con il federale di Bologna, l'avvocato Mazzoni, che saputa la cosa la prese con spirito. Gli stessi danneggiati, apprese le ragioni della scomparsa delle cancellate, non protestarono troppo.

 

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Oderisio Piscicelli Taeggi

 

Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale

 

Longanesi & C., Milano, 1971

 

 

IL CONTRATTACCO DI PASQUA , MEDJEZ EL BAB NEL 25 APRILE 1943

 

"... Ai reparti citati nei precedenti bollettini merita di essere aggiunto per il suo valoroso comportamento, il gruppo corazzato comandato dal maggiore Piscicelli Taeggi Oderisio di Napoli."

 

Bollettino delle FFAA n. 1068

 

 

Vigilia di Pasqua. Dal mattino l'Ottavo reggimento Panzer e il raggruppamento corazzato italiano, o meglio i resti di entrambi, corrono le strade della Tunisia. Corrono carri armati e autocarri a tutto motore. La colonna si allunga, si allunga tanto che fa ancora la sua figura.

 

Abbiamo lasciato le montagne del fronte di Enfidaville contro cui la Ottava Armata inglese di Montgomery si accanisce da una settimana, inutilmente. Qualcosa deve essere successo altrove.

 

Andiamo a occidente fino ai sobborghi di Tunisi, poi giriamo decisamente verso sud, filando sulla bella strada asfaltata.

 

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A destra si adagiano contro il fondo del cielo le montagne grigio-azzurre dell'Algeria. Più vicino a noi, d'ambo i lati, la vegetazione erompe dalla campagna appena ondulata con tale esuberanza che quasi invade la strada. Traversiamo oliveti, vigneti, prati falciati dove troneggiano covoni colossali, borgate agricole qua e là tocche e sbocconcellate dalle bombe ma ronzanti di vita. Sotto il fogliame, dietro i muri, qualche deposito avanzato, qualche autocarro, un ospedaletto da campo.

 

Sepolta entro una fila di covoni è una batteria antiaerea tedesca. In cima al fieno luccicano le volate dei tre pezzi che girano simultaneamente seguendo il volo di una squadriglia.

 

Son sempre nemiche le squadriglie che a tutte le ore del giorno e della notte scorrazzano per il cielo, bombardano e mitragliano.

 

All'imbrunire lasciamo la strada maestra, seguiamo strade campestri e carrarecce, verso il nuovo fronte. Appena cala la notte un ordine improvviso ci ferma. Il fronte è rotto. Ieri il Quinto reggimento Panzer ha arrestato e respinto cento carri nemici, oggi è stato attaccato da altri cento.

 

Ridotto a sei carri sta ripiegando verso di noi. All'alba o forse stanotte stessa ci incontreremo col nemico.

 

Il raggruppamento italiano si schiera a cavallo della carrareccia, a destra i carri del Quattordicesimo battaglione, a sinistra i carri cannone del gruppo d'artiglieria semovente, dietro gli automezzi. Mi addormento nella cabina di un carro munizioni. A notte fonda mi svegliano. Il colonnello mi vuole a rapporto. Già altri ufficiali sono nel suo carro comando. C'entro anch'io con difficoltà. C'è luce. Su di una carta topografica il colonnello spiega la situazione, dà gli ordini.

 

Qualche reparto di fanteria o brandello di reparto è ancora qua e là aggrappato al fronte. Qualche batteria incompleta è in marcia, forse arriverà domani. L'Ottavo reggimento Panzer ha otto carri, il Quinto ne ha sei, il raggruppamento italiano ha un carro comando, dieci carri d'artiglieria col cannone da 75, diciassette carri di fanteria col cannone da 47. Totale 42 carri. Ecco tutte le forze corazzate dell'Asse in Tunisia. I carri inglesi che attaccano quel settore del fronte sono circa duecento. Quaranta contro duecento, non c'è male.

 

Ma nel carro comando non c'è nervosismo, né inquietudine, c'è la serenità di una manovra di pace. Forse lo stesso senso di irrealtà artificiosa. Il paragone mi fa sorridere mentre torno alla mia cabina.

 

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Alba di Pasqua. Nebbia fittissima. Marciamo a tentoni nell'incerta luce lattiginosa, attenti a non perdere i carri tedeschi che ci precedono. Mi accorgo appena che lasciamo ogni strada e costeggiamo un lago. Poi ci allontaniamo verso sud. E man mano che ci allontaniamo la nebbia si solleva e scopre la campagna.

 

A destra prati verdi distesi su colline che s'innalzano dolcemente. Fra i prati qualche cascina. A sinistra la pianura gialla, desolata, tutta eguale fino ad una siepe di fichi d'India giganti che la taglia di traverso come una diga di sbarramento. Oltre la siepe il pendio erto e brullo di un monte la cui cima è ancora avvolta da vapori bianchi. È il Bou Kurnine. Da due giorni gli inglesi lo attaccano. Ne han preso il versante orientale e di là tentano di aprirsi il passo verso il piano.

 

Appena usciamo dalla nebbia i carri tedeschi si schierano in formazione di combattimento, lasciano la pianura, salgono guardinghi le pendici del colle, poi si spostano a ridosso d'una piega in due gruppi, a destra i superstiti del Quinto, a sinistra i pochi dell'Ottavo. Forse hanno avvistato il nemico.

 

Una valletta tutta verde mi cade sotto gli occhi. È un ottocento metri dietro i tedeschi e mi sembra bene orientata per prendere posizione. Senz'altro la scelgo per i miei dieci pezzi. Nei giorni venturi mi accorgerò che la scelta di primo acchito è stata felice. La controbatteria nemica ci cercherà con stizza, frugherà la campagna avanti, dietro, a sinistra di noi, vi scaricherà centinaia di granate rabbiose, non coglierà mai nel segno.

 

Dietro di noi è un'altra piega, fra due casolari. Vi mando gli autocarri munizioni. Più indietro ancora, in riserva alle dirette dipendenze del comando di reggimento, sono i carri del 14° battaglione.

 

Alla nostra destra il terreno si eleva gradatamente con un gioco disordinato di poggi tutti vestiti di pascoli e prati, ancora qua e là sbavati di nebbia. Dalla cima d'un d'essi si dovrebbe pure scoprire il nemico.

 

Mentre i cannoni si schierano e gli autocarri munizioni scaricano le casse delle granate, parto in ricognizione col carro comando, Fieramosca. È con me il tenente comandante di batteria. Incontriamo qualche carcassa di carro. Sono le vittime dei combattimenti dei giorni scorsi. Raggiungiamo una piega un po' più aspra ed elevata, orlata in cima da una criniera di rocce. Sul rovescio pochi uomini di fanteria lavorano, scavano postazioni. Sono i resti di una compagnia tedesca. Piazziamo il goniometro in una feritoia fra due rocce.

 

Il sole ha ormai fugato ogni nebbia e la campagna ride limpida nel mattino di fin d'aprile. Davanti a noi e trasversalmente a noi, quasi un fossato divisorio, è una depressione non profonda, larga poco men che un chilometro, dai fianchi rotondi come il cavo d'un'onda. Oltre, parallela alla nostra, è un'altra schiera di colli che si accavallano con movenze vivaci, riempiono tutto l'orizzonte, si rincorrono verso sinistra sino al Bou Kurnine che li arresta e li domina dalla vetta accigliata. Al centro, sulla sommità rotonda d'un poggio, fra un folto di pini è una grossa fattoria bianca. E dalla fattoria un prato verde scende la china del poggio verso di noi. Ecco, là, nel mezzo del verde, è il nemico. Un branco di una trentina di carri. Più a destra, aggrappato ad un altro poggio, un altro branco. Sono là immobili; sembrano armenti al pascolo nella quiete mattutina.

 

Indico al comandante la batteria il primo gruppo di carri. La nostra radio trasmette: « Biancamano da Fieramosca. Bersaglio Barbara. Direzione 41.00, tiro 120, pezzo base colpi uno ».

 

La cuffia risponde: « Fieramosca da Biancamano. Capito ».

 

Improvviso, cupo, sinistro il primo rombo di cannone rompe il silenzio della campagna. Il proiettile taglia il cielo sulle nostre teste sibilando. La nuvoletta del primo colpo è oltre il segno. Il secondo colpo è corto. Ordino un concentramento di tre colpi per pezzo con i dati intermedi. Nel tempo di pochi secondi trenta colpi investono il bersaglio. Si vedono gli equipaggi saltare nei carri al riparo delle corazze. Un secondo, un terzo concentramento. Poi è la volta dell'altro branco di carri. Anche lì il tiro è presto aggiustato.

 

Adesso l'artiglieria nemica si sveglia e reagisce. Forse perché ci ha visto, forse per rappresaglia perché sa che là c'è fanteria, spara attorno all'osservatorio. Da dove? Un po' di fumo o polvere si solleva da dietro una gobba gialla, gessosa. Sarà la batteria? Saranno autocarri che passano? Comunque dietro quella gobba ci deve essere del buono. Un concentramento anche là.

 

Poche granate continuano a cadere intorno a noi, ma una scheggia sciagurata, entrando da chissà quale spiraglio della corazza, taglia un tubo della circolazione dell'olio del nostro carro. Bisogna tornare in tutta fretta prima che il motore si fonda. Arriviamo in batteria che siamo all'asciutto. Un carro cannone, Malatesta, riporta il comandante di batteria al posto di osservazione.

 

Ricominciamo a sparare a raffiche violente, intense, brevi.

 

I carri si muovono fra gli scoppi, li inseguiamo finché scompaiono dietro il poggio della fattoria bianca. Entro la casa, fra i pini, al rovescio del poggio ci deve essere gente. Automezzi, forse una batteria, certo un osservatorio. Spariamo anche lì dentro. Qualche granata centra la casa. Ora l'artiglieria nemica risponde con rabbia. Ce l'ha con i nostri cannoni, ma non riesce a scoprirli. Spara alla cieca, all'impazzata. Solo qualche rara granata scoppia vicino. Una cade nel mezzo del carreggio, ferisce il pilota di Fieramosca mentre riparava il carro.

 

L'osservatorio avvista un'altra frotta di una cinquantina di carri. Le scarichiamo addosso altre raffiche finché anch'essa ripiega e si nasconde.

 

Ormai tutti i carri sono scomparsi. Ma quattro sono rimasti immobili nei prati. Ordino agli equipaggi di sospendere il tiro e riposarsi. Debbono sempre avere una riserva di energie perché da un momento all'altro possono essere chiamati dall'azione artiglieresca all'azione ravvicinata da carro, da artiglieri debbono trasformarsi in carristi.

 

Non so che ora sia, ma il sole è già alto e fa caldo. Il motociclista dorme all'ombra breve di un carro. Siede sull'erba a cosce aperte, addossato alla corazza, il mento contro il petto, in testa l'elmetto; fra le cosce la motocicletta rovesciata. Mi distendo sotto un carro. Là sotto c'è quasi fresco.

 

Non so quanto tempo ho dormito. Un frastuono mi sveglia, sono aerei che calano in picchiata su di noi. Un istante dopo il sibilo delle bombe, lo schianto, sassi e schegge frustano le corazze. Qualcuna passa fra cingolo e cingolo, mi sfiora il ventre. L'uomo che mi è disteso accanto dà un grido. Ha una scheggia in un braccio. Ha fermato quella che mi era destinata. Si agita. Lo afferro e lo costringo a terra, gli urlo in un orecchio di rimanere immobile finché la tempesta non è passata. Altri sibili, altri schianti, altro frustare di schegge.

 

Appena sento gli aerei allontanarsi salto fuori nel fumo e nella polvere degli scoppi.

 

Un'ombra viene barcollando verso di me. È il tenente sottocomandante la batteria. Mi mostra le braccia insanguinate, ha nella destra il libretto dei dati di tiro che mi porge. Gli strappo le maniche. Bisogna fermare il sangue. Qualcuno mi dà una cintura di combinazione.

 

Corro verso altre voci che chiamano. Il motociclista è al suo posto all'ombra breve di un carro. Siede sull'erba a cosce aperte, addossato alla corazza, il mento contro il petto. Uno scheggione ha aperto uno squarcio nell'elmetto e nel cranio, l'ha ucciso nel sonno. Ha fra le cosce la motocicletta rovesciata.

 

Di sotto un carro spunta una scarpa chiodata, un pantalone azzurro di combinazione. È una gamba mozzata all'inguine. Il corpo è a dieci metri di distanza già quasi dissanguato.

 

Disteso sulla casamatta di un altro carro è il tenente capo carro di Carmagnola. Anch'egli ha una gamba mozzata, l'altra ha un enorme squarcio che mostra la carne viva fino all'osso. Un fiotto di sangue riga la corazza. Respira ancora. Il pilota lo sorregge sotto le ascelle, mi chiede più con gli occhi che con la voce una parola di speranza. Dio! Che posso fare? Respirerà fino a Tunisi. Aprirà appena le labbra per mormorare: " Mi han dato una mala Pasqua ».

 

Altri feriti, altro sangue.

 

Arriva dall'osservatorio il carro del comandante la batteria. Il nemico è in movimento. Un gran polverone si leva dal rovescio delle colline, di tanto in tanto le torrette svettano, sfilando parallelamente alla nostra fronte, verso sinistra.

 

Sopraggiunge l'ufficiale di collegamento tedesco. I carri inglesi in numero preponderante sono già apparsi sulla sinistra tedesca che tentano di aggirare. Il 14° battaglione, fino allora tenuto in riserva, accorre a prolungare il fianco tedesco minacciato. Assieme, italiani e tedeschi contrattaccheranno. Il colonnello mi ordina di appoggiare entrambi col fuoco. L'ufficiale mi scongiura di far presto, altrimenti potrà essere troppo tardi.

 

Mi guardo attorno. Uno dei carri cannone, Carmagnola, colpito dal bombardamento, è inefficiente. Fieramosca è in riparazione. Restano nove carri cannone, ma ognuno ha qualche perdita. A chi manca il pilota, a chi il marconista, a chi il capo carro. Più di un terzo del personale è fuori combattimento. Bisogna sgombrare i feriti, seppellire i morti. Non voglio lasciarli così; forse non torneremo. Le fosse si scavano febbrilmente.

 

Dal carreggio si scelgono gli uomini per completare gli equipaggi. Qualcuno non è mai salito sul carro. E pensare che normalmente si impiegano mesi per addestrare ogni specializzato e che un periodo di qualche settimana è ritenuto indispensabile per affiatare i tre di ogni carro. Salgo sul ciglio del dosso. Chiamo i capi pezzo.

 

Avanti a noi sono le sagome verde-rame dei carri tedeschi, alla loro sinistra, piegando leggermente ad arco, le macchie gialle dei carri del 14° battaglione; ad ogni colpo pigre nuvolette di fumo grigio si levano dalle torrette; oltre fra la siepe di fichi d'India e il Bou Kurnine, in un arco concentrico più grande, che quasi abbraccia il nostro, tanti puntini neri che s'accendono di lampi; sono gli inglesi. Delle due schiere che si affrontano già qualche carro brucia.

 

Da qui l'aggiustamento del tiro sarebbe difficoltoso e lento, pericoloso l'apprezzamento dei colpi corti perché i carri nostri e i loro, benché distanti, si proiettano su di uno stesso piano, poco visibili i lunghi perché oltre il terreno è rotto da avvallamenti e gobbe. Di più i carri aperti a larghi intervalli offrono un bersaglio così diluito che l'azione a massa d'artiglieria sarebbe efficace solo se perfettamente eseguita. Ma cosa posso pretendere da capi-carro e puntatori improvvisati quando i due comandanti le linee dei pezzi mancano perché feriti? E quanto fegato è rimasto agli equipaggi raccogliticci subito dopo la perdita di tanti compagni? Mi pare che qualche sguardo sfugga il mio, che qualche mandibola tremi.

 

L'unica decisione che possa salvare noi e tutti, la decisione più saggia è la più ardita. Lasciare ogni riparo del terreno, portarsi avanti e al di fuori della nostra linea, aggirare il nemico che aggira, impegnarlo corpo a corpo, trascinare i timidi, infiammare gli audaci nel delirio dell'assalto.

 

«Ich greife an (Io attacco)», dico all'ufficiale tedesco di collegamento.

 

Sono le tre del pomeriggio forse, il cielo è azzurro intenso senza una macchia, il sole inonda la campagna polverosa, batte sulle corazze, le infoca, quando il gruppo sbuca dalle colline in campo aperto per il contrattacco di Pasqua.

 

Io monto su un carro cannone, Malatesta. Avanziamo in formazione aperta a cuneo. Malatesta al vertice. A destra Montecuccoli, Colleoni, Forte-braccio, Biancamano. A sinistra Freccia, Fionda, Strale, Picca, il carro tedesco di collegamento.

 

Dirigo per il centro della siepe che è piegata ad arco con la concavità verso di noi. Da là dietro venti o venticinque Pilot sparano contro il fianco del 14° battaglione e dei tedeschi, mentre gli altri ne attaccano il fronte. Hanno armamento superiore al nostro, 75 lungo contro 75 corto, cioè maggiore gittata, maggior precisione e penetrazione; corazza più che doppia, dodici centimetri di piastra frontale contro cinque; cannoni in torretta, il che vuol dire tutti i serventi al riparo; da noi capo pezzo e marconista hanno almeno la testa fuori del carro. Ma noi siamo più piccoli, offriamo perciò minor bersaglio, siamo più agili e veloci e potremo compensare l'inferiorità d'armamento e di protezione con spostamenti frequenti e rapidi.

 

Man mano che avanziamo, il terreno, che sembrava perfettamente piano, comincia a discendere leggermente sicché fra breve ci nasconderà i carri nemici. Mi spingo al limite, fino a che le sagome ancora spuntano appena dall'orlo della siepe. Allora apro il fuoco. Pochi istanti dopo tutti i miei carri tuonano. Aggiusto a 1600 metri; molto per mettere qualche colpo in pieno, troppo per equipaggi non addestrati.

 

Un'idea mi traversa il cervello; scendere nell'avvallamento, di là non visti raggiungere a gran velocità la siepe e cacciandosi nel folto, fra arbusto e arbusto, fulminare il nemico da presso. Ma la siepe è troppo breve per dieci carri. Meglio; se punto all'estremità sinistra che è incurvata verso di noi, i carri di destra si troveranno automaticamente nascosti fra i fichi d'India e vicini al nemico, quelli di sinistra rimarranno allo scoperto ma più lontani. Questi richiameranno su di sé l'attenzione e la reazione degli inglesi, quelli li colpiranno al fianco.

 

Sterzo e parto a tutto motore. Tutti mi seguono per imitazione, ormai le radio non funzionano più. A pochi metri dalla siepe salto giù dal carro. Ad urla, a cenni mi faccio capire. Passo da un carro all'altro. Sono su Colleoni, su Freccia, sul carro tedesco, di nuovo su Malatesta, finisco su Fortebraccio.

 

Gli inglesi sono ancora puntati verso i tedeschi quando il nostro fuoco li investe. Interdetti, sconcertati, tacciono. Poi girano lentamente le torrette verso il suono, ma non scorgono l'insidia della siepe. Le loro granate cadono rade, cieche, senza una meta. Poco a poco si riprendono, ci individuano, il loro tiro si fa più intenso e preciso. Dopo una mezz'ora l'azione è al colmo del furore.

 

Fortebraccio spara senza posa. L'afa, lo schianto dei colpi in cabina, i vapori di nafta, il gas delle polveri combuste mi stordiscono; sono come ebbro di cocaina. Tutto intorno a me è terribile e meraviglioso.

 

A sinistra Freccia, Fionda, Strale, Picca e il carro tedesco sono in rasa campagna, allo scoperto sparano e incassano granate. Sono duelli singolari fra coppie di carri che si evitano, si cercano con la punta delle traiettorie, come schermitori col ferro. Mirano, sparano, si allontanano, tornano ad affrontarsi; meglio corazzati, più tardi gli inglesi, meno protetti, più veloci i nostri. È un gioco di istanti e di metri. Gli uomini son l'un contro l'altro in campo nella loro nuda interezza. Furore e sangue freddo, astuzia e fantasia, perizia e coraggio, testa, nervi, cuore, il fato di ognuno sono al paragone. La posta forse la Morte.

 

Anche Fortebraccio è accanitamente controbattuto. Il tiro nemico gli si stringe addosso. Fa un balzo a sinistra. Le granate cadono nel vuoto. Solo una scheggia entra dal cielo aperto del carro, ferisce il marconista. Si lega il braccio, continua a caricare con l'altro.

 

Più a destra le fiammate dei carri squarciano il verde pallido della siepe. Malatesta, Montecuccoli, Colleoni, Biancamano, affondati fra gli arbusti, fulminano da ottocento metri gli inglesi che allo scoperto e in contro-pendenza offrono buon bersaglio. Biancamano, dove il comandante di batteria fa da puntatore, ne fa fuori tre, uno, forse due Montecuccoli. In tutto prima cinque, poi almeno sette carri nemici sono in fiamme.

 

Ma anche contro la siepe il nemico ora reagisce. Biancamano riceve tre colpi; uno scava un buco nella piastra frontale ma non la fora, un altro squarcia il parafango senza toccare il cingolo, un terzo porta via netta la fiancata destra della corazza. Li incassa impassibile e continua a far fuoco. Montecuccoli ha una granata nella sospensione sinistra. Impossibile trainarlo, anche il cingolo è rotto. Picca è colpito in pieno, si incendia. Vedo due uomini saltare a terra fra le fiamme. Il sergente no. morto col carro.

 

Si combatte ormai da quasi due ore. Il nemico, sopraffatto, ha ripiegato i carri dell'ala destra, che non ha perduti, sulle pendici del Bou Kurnine. Abbiamo sparato con tanta rabbia, ci siamo moltiplicati con cambi di posizione così svelti che certo ci ha creduto molto più numerosi di quanto sia- mo. Ha rinunziato al suo piano, non attacca più, si difende. Il nostro compito è assolto, il fianco sinistro dello schieramento salvo, lo sbocco al piano precluso agli inglesi. Ma essi hanno ancora forze non men che triple delle nostre e, se se ne accorgono, forse vorranno ritentare la prova proprio quando le nostre munizioni sono per esaurirsi. .

 

Decido di approfittare dell'inganno che può essere passeggero per riordinare il gruppo e rifornirlo. Dò ordine di rompere senz'altro il contatto, correre al carreggio che per fortuna è vicino, tornare con i carri colmi di proiettili perforanti. Resto per osservare i movimenti del nemico e scaricare le ultime granate. L'estrattore non funziona più. Dopo ogni colpo stacco il bossolo con la punta di uno scalpello. Quando mi allontano già i primi carri tornano al combattimento.

 

Dietro il solco ove il gruppo era in posizione ve n'è un altro. Due casolari ne guardano l'ingresso in pianura. Là è il carreggio, dove sono munizioni e nafta e dove si fanno ai carri piccole riparazioni di fortuna. Al nemico non è sfuggito il va e vieni a spola fra la linea e i casolari. Qualche carro li cannoneggia a puntamento diretto, a colpi singoli, ma con insistenza.

 

Quando giungo al carreggio già due porta munizioni sono stati feriti. Incontro il comandante del 14° battaglione. Il suo carro è stato colpito in pieno, la torretta e l'aiutante maggiore passati da par te a parte. L'han tirato fuori mezzo svenuto. Ora monta su un altro carro e torna al fuoco.

 

Continuano a fischiare le perforanti. Un operaio è ferito ai testicoli. Urla.

 

Mentre cambiano l'otturatore del mio cannone, faccio quattro passi per sgranchirmi le gambe. Una perforante si interra ai miei piedi, esplode fioca. «Illeso!» grido. Sono solo coperto di terriccio e sènto una leggera compressione al ventre. Fra qualche giorno, quando mi toglierò i pantaloni, l'attendente rammenderà uno strappo; una scheggia mi è passata fra le gambe.

 

Quando torno in linea la lotta è meno rabbiosa, più freddamente calcolata. Non si tratta più di cacciare il nemico, solo di tenerlo a bada. Ci si sorveglia a vicenda. I miei carri si sporgono dall'estremo sinistro della siepe di quel tanto che basta per vedere, puntano con accuratezza, sparano, tornano a nascondersi. Hanno in faccia il sole che già tramonta. I nemici rispondono con precisione, misurando i colpi.

 

Fionda ha piazzato la mitragliatrice in posizione antiaerea, bocca verso il cielo, quaranta centimetri più alta del tetto dei carro. Una perforante la spezza. I frammenti piovono dentro il carro.

 

Il sole cala dietro il Bou Kurnine. Le sagome color cenere dei carri inglesi si disciolgono nell'ombra, sempre più raramente si riaccendono della vampa del colpo in partenza. In tutto il campo di battaglia il cannoneggiamento si fa più rado, langue. Poi di colpo cadono le tenebre. I carri nemici scompaiono, la siepe si sfrangia, si smembra, si allontana, dilegua e anche i miei carri affondano uno ad uno nella notte.

 

Tutte le armi tacciono. Non un passo, non una voce. Le fiamme dei carri che bruciano come torce sono l'unica cosa che viva.

 

Siamo affranti. La testa del pilota mi pesa abbandonata sulla spalla, l'ogiva di una granata scivolata dal castello mi punge l'anca. Vorrei toglierla via. Oh, se riuscissi a svincolare il braccio!

 

La stanchezza mi pesa addosso come piombo, mi chiude gli occhi a poco a poco, invincibilmente. Le orecchie mi ronzano. È un cannoneggiar fioco o un lontano rintocco di campane?

 

Un immenso tempo ed un immenso spazio mi separano dalla guerra.

 

Sono in Italia. Suona l'Avemaria. Madri pregano per figli che non sono più. È Pasqua.

 

cor1p.jpg

Carro comando su scafo M14/41. Raggruppamento "Piscicelli" Tunisia, marzo 1941

 

* Da Stato Maggiore Esercito — Ufficio storico, LA I ARMATA ITALIANA IN TUNISIA, Relazione del Maresciallo d'Italia Giovanni Messe:

 

" Nel giorno aprile il gruppo Piscicelli viene impiegato nella zona di Medjez el Bab per contrattaccare dei carri nemici avanzati. Dalla relazione ufficiale della Quindicesima corazzata si apprende che un attacco di Stukas tedeschi colpiva, prima dell'attacco, il gruppo Piscicelli causando morti, feriti e danni al materiale; ciononostante il gruppo 'ha fatto un magnifico contrattacco; gli Italiani si sano battuti brillantemente; sono stati distrutti 28 carri nemici e un osservatorio. Perdite e carri italiani: 4 distrutti, molti guasti' ».

 

 

Modificato da galland
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Ospite intruder

Che dire? Semplicemente splendido, generale, soprattutto il riepescaggio di vecchi libri sconosciuti e pur validi, come quelli Longanesi.

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  • 3 mesi dopo...
Ospite legionofmarduk

La saga dei mezzi corazzati italiani della seconda guerra mondiale è una delle tristi controprove (tristi per coloro che soffrirono e morirono su mezzi inadeguati) di quanta divergenza vi fosse fra gli annunci propagandistici del regime e la realtà dei fatti.

 

Tale disparità è ancora più condannabile proprio per il fatto che il fascismo nella sua "Weltanschauung" considerava il ricorso alla violenza, alla forza militare, la spada con cui tagliare il 'nodo di gordio' della storia,

 

se la forza delle armi doveva costituire (per la sua stessa ideologia!) il "giudizio divino" sulla validità dello stato fascista il fatto che proprio a questa prova esso si presentò impreparato è particolarmente imperdonabile...quasi farsesco, e associa il regime più alle dittature sudamericane che alla Francia napoleonica o alla Prussia del grande Federico, e i suoi gerarchi a epigoni di Pirgopolinice e del Barone di Munchausen.

 

Se criminale fu Hitler a tentare di riscrivere la carta geografica e politica d'Europa a suon di aggressioni e massacri perlomeno non gli si può rimproverare la sprovvedutezza giacché, quantomeno in fase di preparazione all'avventura bellica il Fuerher cercò di equipaggiare al meglio le sue forze armate, anche dando carta bianca a innovatori come Guderian e Student...(in seguito il deterioramento delle sue condizioni fisiche e mentali interferirà spesso col buon senso militare e industriale delle sue decisioni) a Mussolini, invece, si deve imputare anche la sprovvedutezza, perché solo una intemerata fede nell'inevitabilità della vittoria nazista (o nel patrio stellone) può averlo spinto nel 1940 a prendere l'avventata 'decisione irrevocabile'.

 

Visto che uno dei grandi problemi delle armi italiane era quello della scarsità di materie prime mi sono spesso chiesto se, anziché ostinarsi (per i noti motivi 'di prestigio') a mettere in cantiere costose e dispendiose unità marine di superficie non sarebbe stato meglio costruire un paio di portaerei moderne e trasformare alcune navi civili in più piccole portaerei di squadra e investire l'acciaio così risparmiato nella creazione di almeno tre divisioni corazzate efficienti (ad esempio che disponessero di carri M nel 40-41, del P26 nel 41-42 e del P.43bis in seguito).

 

Tanto i più grandi successi sul mare nella 2a GM l'Italia li colse con mezzi 'alternativi' che sarebbero stati da privilegiare fin da subito, piuttosto che insistere nell'assurdo tentativo di confrontarsi "da pari a pari" con la RN.

 

Certo la costruzione di unità portaerei avrebbe esacerbato le tensioni fra Superaereo e Supermarina...col primo che pretendeva il controllo totale di qualunque apparecchio volante (in maniera non dissimile da Goering che pretendeva per motivi simili di avere voce in capitolo nella saga della Graf Zeppelin).

 

Guardacaso le pretese dello stato maggiore aeronautico derivavano proprio dalla concezione della "Arma azzurra" come arma 'fascista' per eccellenza...

 

...forse anche questo sarebbe stato un problema senza uscita...

 

 

 

 

LoM.

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  • 3 anni dopo...

Di sicuro che se invece di buttar soldi per ricostruire le 4 corazzate Duilio, Doria, Cavour e Cesare avessimo usato quegli scafi per farne delle portaerei avremmo fatto molto meglio!

Per quanto riguarda i nostri corazzati bisogna dire che nel deserto, almeno inizialmente, non sfigurarono rispetto agli inglesi che non disponevano di materiale molto migliore (eccetto il Matilda).

Il nostro 47/32 aveva una velocità iniziale di 630 m/s e perforava 50mm a 500m il cannone

inglese da 40 aveva una velocità iniziale di 853 m/s e perforava 57 mm a 457 m

quindi le due armi si equivalevano, ma il munizionamento inglese era solo a palla ed il nostro invece era esplosivo.

I carri inglesi erano più veloci ma meccanicamente meno affidabili dei nostri M13/14/15.

Il carro Matilda, con la sua corazza imperforabile, era il vero spauracchio!

Noi non ci evolvemmo e continuammo a possedere sempre il solito tipo di carro mentre gli alleati presentarono i Lee/Grant e gli Sherman poi, che surclassavano i nostri, largamente.

La risposta giusta, ma anche unica possibile, fu quella dei nostri semoventi da 75/18 con munizionamento Effetto Pronto, capaci di aver ragione degli avversari.

Quella era la strada che dovevamo percorrere! Se non siamo in grado di produrre carri competitivi dovevamo costruire mezzi anche inferiori (poco armati, poco brandeggio del pezzo ecc) ma capaci di offendere il nemico.

Del resto questa fu la strada che seguirono gli americani contro i tedeschi. Gli alleati, consci di non avere carri della levatura dei Tigre e Pantera tedeschi, tentarono di mettere il loro cannone da 17 Pdr su qualche mezzo e ci riuscirono con lo Sherman Firefly, che non era all'altezza dei tedeschi ma possedeva un cannone che era in grado di essere pericoloso anche contro quei mostri corazzati.

Gli americani montarono sullo Sherman dapprima un migliore cannone da 75 in una nuova torretta parzialmente girevole (M10) e poi un ancor migliore pezzo da 90 (M36), questi due mezzi erano molto ben armati, molto mobili ma scarsamente corazzati, tanto per resistere ai cannoni tedeschi avrebbero dovuto avere una corazza proibitiva che avrebbe reso troppo lenti i mezzi.

In mancanza di meglio, la strada del caccia-carri (che anche i tedeschi seguirono ) , era l'unica che avremmo dovuto tentare di percorrere già dal M14.

Modificato da vorthex
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