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La guerriglia nel mezzogiorno postunitario


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Il dizionario dell'Accademia linguistica spagnola così definisce la guerriglia (guerrilla): « gruppo di paesani, in genere poco numerosi, che, al comando di un capo, molesta il nemico ».

Il termine «guerriglia» (guerrilla) trovò, nella penisola iberica, la sua consacrazione ufficiale e servirà ad indicare, da allora tutte quelle forme di lotta armata condotta da bande, da insorti ecc.; in sostanza « la piccola guerra » in contrasto con la guerra vera e propria affidata agli eserciti regolari.

Esso, infatti, risale all'epoca napoleonica quando gli irregolari spagnoli dettero filo da torcere alle armate napoleoniche.

Se il termine è di conio recente la pratica della guerriglia può essere fatta risalire a quella condotta da Giuda Maccabeo (II secolo a.C.) in Palestina ed ha numerosi precedenti storici.

 

 

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Agguato di guerriglieri spagnoli ad una colonna francese, anche una donna partecipa all'eccidio.

In Italia la guerriglia più nota è quella condotta durante la II guerra mondiale contro le forze armate tedesche e della RSI ma negli anni immediatamente successivi all'unità d'Italia si ebbero vasti fenomeni di guerriglia nel meridione.

Bisogna altresì ricordare come la penisola abbia avuto valenti teorizzatori di tale metodo di lotta, che potremmo far rientrare fra quelli della guerra asimmetrica. Nominiamo, senza pretesa di completezza, il mazziniano Bianco di Saint-Jorioz (autore del trattato "Della guerra per bande applicata all'Italia"), i fratelli Pisacane e lo stesso Garibaldi.

Credo, altrimenti di dover porre l'accento su un dato numerico: poco meno di un terzo delle forze del brigantaggio (3.597 uomini) si arresero spontaneamente, segno che – in presenza di una contropartita – una parte non piccola degli irregolari tende a cedere le armi, un insegnamento che non si dovrebbe mai dimenticare.

Il volume di Tommaso Argiolas da cui ho tratto il capitolo dedicato alla guerriglia nel meridione, si intitola "La guerriglia storia e dottrina", edito nel 1967, deve essere inquadrato nel più ampio dibattito intorno i fenomeni insurrezionali svoltosi a cavallo degli anni 60 del XX secolo.

Ho già fornito cognizione d'esso nel topic dedicato alla guerra del Vietnam, riportando il relativo capitolo.

 

 

 

LA GUERRIGLIA BORBONICA NELL'ITALIA MERIDIONALE DAL 1860 AL 1870

 

Ed eccoci ai fatti più interessanti, e tuttora storicamente avvincenti, di guerriglia affrontata dall'esercito italiano durante il conseguimento dell'Indipendenza e dell'Unità Nazionale.

 

Il 22 ottobre del 1861, nel bosco di Lagopesole, località situata fra Melfi e Potenza, si incontrarono il generale carlista spagnolo Josè Borjes ed il capo brigante Carmine Donatelli detto Crocco. Da questo abboccamento doveva prender corpo una organizzata e ben guidata guerriglia contro l'esercito italiano, dicembre 1860, il re Francesco II aveva decretato lo scioglimento di due reggimenti della guardia e di altri reparti, per un totale di 10.000 uomini. Questi soldati vennero mandati, via mare, a Terracina, in territorio pontificio, con l'ordine di rientrare nelle loro terre d'origine e di tenersi pronti ad agire. Nel contempo diversi capi banda riuscivano ad entrare nella fortezza assediata per ricevervi ordini e denaro.

 

Il clero meridionale già dimostrava, in gran parte, la sua decisa ostilità alle nuove autorità scese dal Nord, toccato nel vivo dei suoi interessi materiali dalle nuove leggi che limitavano i privilegi ecclesiastici. La popolazione rurale del Meridione aveva sperato in un sostanziale alleviamento della sua cronica miseria con l'avvento dei nuovi governanti ma era rimasta delusa nelle sue aspettative. In esilio a Roma, i sovrani di Napoli costituivano il polo di attrazione di ufficiali borbonici rimasti a loro fedeli, di malcontenti e di avventurieri che speravano di pescare nel torbido. Dagli Stati Pontifici si alimentavano le correnti insurrezionali dell'Italia meridionale, facendo passare attraverso i confini uomini e denaro. Le bande entravano nel Sud dai confini pontifici, attaccavano paesi e presidi e rientravano indisturbate nei territori della Chiesa. Le Potenze europee legittimiste, come l'Austria e la Spagna, si tenevano pronte ad intervenire qualora nell'Italia meridionale si fosse manifestata una situazione, a favore dei Borboni, che ne avessero giustificato la decisione. La stessa Francia, che aveva sostenuto l'unificazione dell'Italia settentrionale, non vedeva di buon occhio l'inatteso e rapido congiungimento di tutto il resto del territorio nazionale e le sue truppe, che presidiavano gli Stati Pontifici, avevano assunto un atteggiamento assai benevolo verso coloro che attraversavano nei due sensi i confini fra i predetti Stati e l'Italia meridionale. In questa situazione si inquadrarono i primi movimenti armati contro il nuovo governo. Essi ebbero all'inizio anche e prevalentemente un'origine sociale, di insoddisfazione e di delusione da parte dei contadini che, nella carenza di autorità e di controllo conseguenti dal cambiamento di regime politico, pensarono fosse giunto il momento di vendicarsi dei tanti soprusi patiti nel pas sato. Questo substrato sociale del movimento armato venne riconosciuto concordemente, nella maggior parte delle loro relazioni, dai militari che condussero la repressione della guerriglia prima e del brigantaggio dopo. Inoltre il fenomeno non si manifestò con maggior violenza in prossimità degli Stati Pontifici, da dove proveniva appoggio materiale e morale, ma nelle province più periferiche, in Basilicata, in Puglia, in Calabria, là dove più penose erano le condizioni dei rurali. La maggior parte di coloro che parteciparono attivamente alla lotta antiunificatrice furono braccianti e contadini. Essi trovarono nei contadini rimasti nelle campagne appoggio e simpatia, sostegno materiale di ogni genere e, specialmente, l'indispensabile aiuto informativo che si manifestava in mille modi e che consentiva alle bande di sfuggire ai rastrellamenti e di sorprendere le forze dell'ordine.

 

Dopo la caduta di Gaeta continuava a resistere la fortezza di Civitella del Tronto. In questa occasione fu condotta dai borbonici una efficace e coordinata azione di guerriglia, con circa 400 uomini, alle spalle delle forze piemontesi che assediavano la piazzaforte.

 

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Il capo guerriglia Carmine Donatelli detto Crocco

Nell'autunno del 1861 i colonnelli borbonici Lagrange e Laverà penetrarono negli Abruzzi e nella Marsica guidando robuste formazioni, occuparono Cittaducale ed Antrodoco ed arrivarono quasi alle porte de L'Aquila. Le azioni continuarono per tutto l'inverno e culminarono nel combattimento di Tagliacozzo nel quale le truppe governative, inferiori di numero, riuscirono a contenere le bande guerrigliere.

 

Contemporaneamente, più a sud, insorgevano Ripacandida, Lavello, Venosa e Melfi. Il capo dell'insurrezione in queste zone fu Davide Crocco, delinquente comune, ex-recluso nelle carceri borboniche.

 

I presìdi isolati e le autorità locali e centrali rimasero disorientate di fronte a questi avvenimenti, sanguinosi e violenti. Inoltre la maggior parte dei comandanti militari, di origine piemontese, e buona parte delle autorità locali, scese anch'esse dal Nord, non conoscevano uomini e cose e si muovevano con difficoltà nell'ambiente di intrigo, di compromessi, di doppio gioco e di atavica corruzione delle province meridionali. La situazione sembrava quindi favorevole per dare il via a qualche cosa di più consistente e di più organizzato, sfruttando l'animosità delle popolazioni rurali ed appoggiandosi a quelle formazioni irregolari che, da sole, avevano cominciato a dare filo da torcere alle truppe governative. Per assumere il comando e la direzione del movimento penetrarono nel Sud, da varie vie, ufficiali borbonici, spagnoli e francesi. Fra di essi acquistarono una certa notorietà il generale Borjes, già citato, ed il generale francese Langlois, quest'ultimo più avventuriero che idealista, puro idealista, invece, il primo. Altri ancora, fra tanti, furono il conte De Crysten, l'abate Ricci e il generale spagnolo Tristany, che, dallo Stato Pontificio, cercava di coordinare le operazioni.

 

Borjes, sbarcato in Calabria, si era portato rapidamente incontro alle formazioni di Davide Crocco e nel colloquio di Lagopesole erano state fissate le basi, apparentemente, per una feconda collaborazione fra guerriglieri contadini e capi legittimisti. Il piano di Borjes, ufficiale audace, il migliore fra tutti i capi guerriglieri, era quello di impadronirsi della città di Potenza. Da qui, proclamata la restaurazione del governo borbonico sull'intera provincia, la rivolta avrebbe dovuto dilagare poi contro i Piemontesi. La zona era stata ben scelta. Essa infatti era presidiata da poche unità del governo. Era di natura aspra e di difficile percorribilità per le truppe che, oltre tutto, conoscevano poco la zona di azione, nella quale, invece, i contadini guerriglieri si muovevano con assoluta padronanza. La posizione di Potenza, periferica rispetto al più importante centro governativo di Napoli, con il quale era collegato da comunicazioni scarse, facilmente interrompibili e controllabili, intermedia fra le Calabrie e le Puglie, avrebbe consentito agli insorti, una volta conseguita la conquista della città, di agire con relativa tranquillità dalla preoccupazione di massicci aiuti provenienti dal napoletano, con possibilità di irradiarsi verso le Puglie, la Calabria ed il Molise, aumentando l'estensione del territorio « liberato » e quindi il numero e la forza delle formazioni operanti, e di ricevere aiuti dalle vicine coste dell'Adriatico, dello Jonio e del basso Tirreno, qualora le Potenze legittimiste, Austria e Spagna, poste di fronte al desiderato avvenimento giustificante il loro intervento, avessero inviato via mare concreti aiuti di uomini e mezzi. La forza complessiva della quale il generale Borjes venne a disporre nei momenti migliori fu di 1.000 combattenti a piedi, 3 squadroni ed un reparto di gendarmeria. Molti di questi uomini portavano le uniformi ed i gradi del disciolto esercito borbonico. Si ebbero i primi combattimenti e, nel più serio, a Toppo Civita, fra Aliano e Stigliano, fu distrutta, dopo un durissimo combattimento, una intera compagnia del 62° reggimento fanteria. Fu occupata, o « liberata », anche Stigliano. Il piano di Borjes, di fare di Potenza il fulcro dell'Italia del sud liberata dai Piemontesi, era però destinato a fallire. Il 16 novembre la città avrebbe dovuto essere attaccata. Il presidio, che disponeva di poche forze, era già in allarme, ma, dopo una notte insonne, le bande guerrigliere lasciarono i dintorni della città e si allontanarono. Come mai? Eppure il successo, quasi sicuramente, avrebbe arriso agli attaccanti. L'origine di questo fenomeno è nel sostanziale disaccordo che esisteva fra i capi contadini con il generale Borjes ed i suoi ufficiali. I capi contadini avevano intuito che, qualora e quando il governo borbonico fosse ritornato nel Sud, essi erano destinati a rientrare nell'anonimato e nella legalità. Non più scorrerie, non più vita libera senza padroni, non più saccheggio. In definitiva il generale Borjes fu abbandonato dai suoi guerriglieri, contadini fedeli e succubi di capi crudeli e vendicativi.

 

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Reclutamento di briganti in Piazza Farnese a Roma, da una stampa popolare del 1861

L'idealismo degli ufficiali borbonici e di Borjes si scontrò con il calcolo materiale di coloro che, da quel momento, divennero briganti e giustamente così furono chiamati. L'accordo mancò anche perché i contadini-briganti erano, all'inizio, la manifestazione concreta della rivolta del popolo diseredato contro il governo, nuovo o vecchio che fosse. I legittimisti in armi, inoltre, erano pochi. La classe colta, la borghesia, in quei momenti, assunse atteggiamento di prudente attesa, o sostenne, con le dovute cautele per non compromettersi, i Piemontesi, nel timore delle rappresaglie alle quali sarebbe stata sottoposta in caso di ritorno del governo borbonico. Alla fine, l'accordo fra le bande contadine, che avreb bero dovuto costituire il fulcro dell'insurrezione, ed i capi borbonici durò assai poco e le formazioni rapidamente si disfecero dei loro capi legittimisti. Il 27 novembre del 1861 il generale Borjes, nel bosco di Lagopesole, fu disarmato dai briganti comandati da Crocco ed abbandonato insieme a pochi fedeli. Intraprese una dura marcia, in territorio infido, per rientrare negli Stati Pontifici, ma a pochi chilometri dalla salvezza, nei pressi di Tagliacozzo, fu catturato e fucilato sul posto dalle truppe governative, secondo le dure leggi del momento. Per dare una idea della complessità e pericolosità del movimento nei primi due anni è interessante citare questi dati: in Calabria, nel biennio 1861-62, furono fucilati 124 insorti, 134 caddero negli scontri, 1.000 si costituirono. In Basilicata, nello stesso periodo, 1.232 guerriglieri furono uccisi e 2.808 catturati. In Abruzzo, sempre nel biennio citato, furono uccisi o arrestati circa 1.600 insorti. Gli anni 1861 e 1862 furono i più duri e sanguinosi. Alla fine del 1862 le autorità governative avevano parzialmente ripreso il controllo della situazione, ma nella seconda metà del 1863 Crocco poteva ancora assalire con successo Corato, Terlizzi, Altamura e Gravina. In questi primi tre anni il fenomeno fu decisamente alimentato dall'esterno, con piani ambiziosi. Nel 1863 si parlava ancora di invadere l'Italia del Sud con tre colonne, una avrebbe dovuto penetrare in Abruzzo, la seconda sarebbe sbarcata in Sicilia e la terza, proveniente da Venezia, avrebbe preso terra nelle Puglie. Nel giugno dello stesso anno il governo pontificio aveva ordinato all'arsenale austriaco di Mantova degli affusti per piccoli cannoni da montagna che avrebbero dovuto essere distribuiti alle formazioni guerrigliere.

 

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Aree di guerriglia e linee di rifornimento

Alcune di queste raggiunsero un assetto ed un inquadramento quasi militari. Per distinguersi gerarchicamente portavano alle dita anelli di zinco, distribuiti dalla corte borbonica, con i gradi e le provenienze del disciolto esercito napoletano. La disciplina era ferrea. I feriti più gravi venivano uccisi perché, caduti in mano al nemico, non parlassero. Le bande vivevano con le risorse locali, requisendo anche i cavalli ai proprietari.

 

Molte formazioni erano montate a cavallo, con effettivi superiori ai 100 uomini. Erano addestrate a percorrere in una notte sino a 80-90 chilometri. Sapevano rapidamente concentrarsi per attaccare di sorpresa presidi o colonne isolate per poi frazionarsi in poco tempo in bande più piccole e dissolversi nell'ambiente naturale ad esse pienamente favorevole. Godettero di sostegno spirituale. Nelle chiese i sacerdoti pregavano pubblicamente per la loro vittoria. Una campagna psicologica guidata sempre dalla centrale romana, faceva circolare false voci, calunnie e opuscoli diffamanti le nuove autorità governative. I messaggi del re Francesco II penetravano nelle province meridionali e circolavano clandestinamente, rinvigorendo gli animi depressi. In sostanza nei primi tre anni la guerriglia ebbe le caratteristiche che le sono proprie e godette degli appoggi esterni ed interni, materiali e morali, indispensabili per il suo sviluppo. Mancò, invece, l'applicazione di una strategia guerrigliera coordinata per cui le azioni risultavano slegate o, al massimo, concordate nell'ambito delle singole province.

 

Le energiche misure adottate dal governo italiano, la stanchezza che cominciò a serpeggiare fra le file degli insorti, la perdita materiale dei loro migliori capi, la defezione di altri che non vedevano giungere lo sperato ed atteso aiuto straniero, la modifica di atteggiamento della Francia e, successivamente, del governo pontificio, ridussero gradualmente la guerriglia ad una manifestazione di intolleranza e di malcontento da parte contadina, animata solamente in qualche caso da fedeltà al vecchio regime borbonico. È interessante notare, al riguardo, che, paragonata con l'adesione al movimento armato delle masse contadine, la partecipazione degli ex ufficiali borbonici alla guerriglia fu numericamente quasi trascurabile.

 

La lotta così si andò lentamente esaurendo come fenomeno complesso ed organizzato, trasformandosi in scorrerie, agguati ed attacchi affidati all'iniziativa dei singoli capi. Le bande si frazionarono in nuclei minori, un centinaio circa. Inoltre, poiché i briganti cominciarono anche ad infierire contro gli stessi contadini, e non solamente contro i proprietari ter rieri ed i maggiorenti locali di sentimenti liberali, essi cominciarono a perdere la simpatia popolare.

 

Finalmente, il 24 febbraio 1865, veniva stipulata, fra il governo italiano e quello pontificio, la convenzione di Cassino, con la quale i due governi si impegnavano a sostenersi reciprocamente nella eliminazione del brigantaggio nelle zone a cavallo dei confini di Stato. Di conseguenza le forze pontificie iniziarono una azione energica e determinante che, nel quinquennio 1865-70, portò all'uccisione di ben 701 briganti nei territori romani. Già nel 1864 il generale Tristany aveva fatto fucilare il capo banda Chiavone, uno dei più attivi e pericolosi incursori nei territori italiani, in quanto il bandito aveva iniziato a condurre il brigantaggio nelle stesse terre del Papa. Ulteriore esempio, quest'ultimo, così pure la resistenza condotta dai briganti nei territori pontifici sino al 1870, di come le forze guerrigliere, quando non sono più controllate possono rivolgere la loro azione contro la stessa autorità che le ha costituite ed alimentate. Un rappresentante diplomatico a Roma, nell'agosto 1863, scriveva: « il governo del Papa ha nutrito questo stesso serpente che oggi gli comunica questo veleno ».

 

Soffermiamoci ora sui provvedimenti che il governo e le forze italiane adottarono e sull'onere che fu da essi sopportato nei dieci anni, dal 1860 al 1870, durante i quali la guerriglia prima ed il brigantaggio poi, depauperarono ulteriormente le già provate e trascurate province meridionali. All'inizio del movimento le autorità italiane si trovarono disorientate ed impreparate. Da pochi mesi si stava costruendo nelle province meridionali la nuova organizzazione statale, quando la guerriglia si manifestò violentemente ostacolando e quasi annullando questo tentativo. Le uniche forze sulle quali si poteva contare indiscriminatamente, salde, disciplinate, fedeli alle istituzioni erano l'esercito ed i carabinieri. Ad essi fu subito devoluta l'azione di contenimento e di repressione del fenomeno. Le forze operanti, che all'inizio erano ancora impegnate all'assedio di Gaeta e, dopo, all'eliminazione dell'ultimo baluardo borbonico, Civitella del Tronto, che cadde, dopo lunga e tenace difesa, nel marzo del 1861, mancavano di carte topografiche dei luoghi, erano addestrate essenzialmente a condurre operazioni regolari, erano dotate di equipaggiamento individuale pesante, non idoneo per muovere su territori aspri, boscosi, privi, assai sovente, di ogni risorsa, sotto calori cocenti o freddi intensi. Nel febbraio del 1861 le forze governative opponentisi alla guerriglia cominciarono ad acquistare una buona consistenza numerica. Alla fine di quell'anno, 34 reggimenti di fanteria, 19 battaglioni bersaglieri e quattro reggimenti di cavalleria guarnivano i territori ed operavano con colonne mobili miste di fanti, bersaglieri e cavalieri. Solo in rare occasioni fu impiegata qualche esigua unità di artiglieria leggera. Contemporaneamente si organizzò la guardia nazionale, costituita in ogni località dai cittadini stessi e comandata, talvolta, dai sindaci dei vari paesi che univano, così, la carica amministrativa a quella militare. Si costituirono, inoltre, delle « squadriglie volanti », di 15-30 persone ciascuna, composte anch'esse da locali, con compiti di guida e di staffette in quelle zone sconosciute e di difficile orientamento. Guardie nazionali e squadriglie non sempre dettero un concreto appoggio alle unità regolari; qualche volta, quando comandate da uomini energici e animati da sentimenti di italianità, entrambe si comportarono degnamente.

 

Il territorio fu ripartito in « Zone militari », affidando a ciascuna di esse la responsabilità ed il coordinamento delle operazioni. Ciascuna Zona disponeva di reparti impiegati nei presidii delle località e di colonne mobili. L'attività informativa non venne trascurata e molte utili notizie affluivano alle forze governative attraverso vari canali. In molti casi le informazioni consentirono di sventare azioni avversarie o di affrontarle tempestivamente. Ad iniziativa di persone del luogo, decisamente orientate verso il nuovo ordine di cose, si formarono anche corpi volontari militarizzati che affiancarono efficacemente le forze regolari. Dove queste assumevano il controllo della situazione, la popolazione, sentendosi protetta, usciva dall'attesismo e, nella quasi totalità, appoggiava spontaneamente le autorità e forniva valido aiuto. Posti fissi furono impiantati in zone impervie, talché spesso venivano assediati dai briganti e dove vano essere liberati dall'intervento di colonne mobili. Ma questi posti fissi avevano la funzione di far sentire alla popolazione la presenza delle forze governative e di impedire l'indiscriminato soggiorno delle bande nei luoghi più inaccessibili.

 

Alla fine del 1863 ben 90.000 uomini dell'esercito italiano ed oltre 5.000 carabinieri, cioè, rispettivamente, poco meno della metà dell'esercito ed un terzo circa dell'organico dell'arma dei carabinieri, stazionavano ed operavano nelle province meridionali della Penisola. Queste forze, solamente nei duri mesi del 1861 e del 1862, contarono 315 caduti in combattimento. Nello stesso tempo che veniva condotta l'azione militare il governo cercava di trattare con i capi delle formazioni, per convincerli a presentarsi. Si tentò anche, di adottare qualche provvedimento di carattere sociale per alleviare la endemica situazione di disagio di quelle popolazioni, ed anche in questo settore le prime misure furono affidate all'esercito. Le formazioni anti-brigantaggio, in secondo momento, indossarono, talvolta, anche l'abito borghese, per più facilmente operare e muoversi nell'ambiente infido e sospettoso che le circondava.

 

La repressione militare della lotta passò attraverso varie fasi che furono strettamente legate alla situazione politica interna, alla saldezza dei governi ed ai grandi problemi che si agitavano dopo l'unità nazionale. I militari sentivano l'assoluta necessità di riportare l'ordine nel Meridione, a qualsiasi costo e rapidamente. Essi, giustamente, erano preoccupati della presenza sul Mincio dell'armata austriaca e volevano al più presto disporre in libertà dei grossi contingenti dell'esercito impiegati nel Mezzogiorno. Nell'agosto del 1862 lo stato di assedio conferì, finalmente, al generale La Marmora, che risiedeva a Napoli, la possibilità di prendere in mano la situazione. Furono allora adottati provvedimenti di grande severità. Si cercò di fare il vuoto intorno alle bande, disponendo la chiusura delle masserie, il trasferimento nei paesi degli armenti, dei viveri di ogni genere, del foraggio, concentrando i contadini nei centri abitati, arrestando i congiunti dei briganti sino al terzo grado di parentela. Nel contempo, comprendendosi che era assai difficile sbaragliare la guerriglia solamente in campo aperto, si cercò di colpire gli appoggi occulti del brigantaggio. L'esercito, con la sua azione di presidio, di vigilanza e di repressione, consentiva al potere civile di strutturarsi trovando però nella magistratura meridionale un intenso ostruzionismo all'azione delle autorità militari, per ispirazioni sovente poco chiare, per cui si dovette addivenire alla costituzione di tribunali militari. Questi agirono rapidamente, sovente rudemente, talvolta superficialmente nella istruzione dei giudizi, ma era necessario colpire comunque con fermezza per eliminare un fenomeno che poteva mettere in forse tutto il processo di unificazione nazionale. Il La Marmora su quella magistratura meridionale, che avrebbe dovuto affiancare validamente il potere esecutivo, scrisse: « La più brutta piaga. Pigra nell'esaminare, tremante nel giudicare, non osa condannare ».

 

Finalmente nel settembre del 1863 la campagna contro il brigantaggio assunse un aspetto più deciso e dinamico allorché il generale Pallavicini, quello che aveva fermato Garibaldi ad Aspromonte, assunse il comando di una Zona militare « unificata », comprendente il Molise, il Beneventano e la Basilicata. Si eliminò, così, in un territorio nevralgico l'inconveniente al quale aveva dato luogo in precedenza la ripartizione in Zone militari. Infatti era accaduto talvolta che i comandanti delle Zone si preoccupavano solo di garantire l'ordine nei territori di competenza tralasciando di perseguire le bande non appena queste passavano in Zone di altra giurisdizione. Questo inconveniente derivava anche dalla mancanza di mezzi di collegamento capillari ed idonei a consentire al comando superiore, da Napoli, di coordinare le azioni in corso contemporaneamente nelle varie Zone militari.

 

Il generale Pallavicini adottò una tattica dinamica, incalzando senza tregua le bande, affidando il presidio delle località alle guardie nazionali e battendo la campagna incessantemente con le colonne mobili dell'esercito regolare. Si avvalse inoltre delle informazioni, sfruttando e ben remunerando ogni fonte. Allo scopo, promettendogli l'impunità, impiegò Giuseppe Caruso, già luogotenente di Crocco, che dal quel momento fu la sua guida ed il suo informatore principale nella lotta contro il suo ex superiore, il miglior capo banda, al quale il Pallavicini riconobbe spiccate qualità di comandante guerrigliero. Il Pallavicini polarizzò la sua azione in Basilicata, in Irpinia e nel Beneventano. In tal modo, seguendo in senso inverso i progetti operativi di Borjes, coll'estirpare il brigantaggio in quelle regioni, frazionò e disarticolò la lotta nelle altre province, pugliesi, calabresi e napoletane.

 

Per completare il quadro di questo importante fenomeno della nostra recente storia nazionale si riportano di seguito alcune cifre:

 

— dal 10 giugno 1861 al 31 dicembre 1865 nelle file guerrigliere borboniche e contadine prima e poi fra i briganti si ebbero 5.212 uccisi negli scontri o giustiziati, 5.044 arrestati, 3.597 costituitisi volontariamente;

 

— nello stesso periodo le perdite delle forze addette alla repressione si possono valutare a 800 caduti e 500 feriti, dei quali un quinto circa di guardie nazionali. Non sono riportate qui le centinaia di cittadini, possidenti o liberali, che furono uccisi nelle varie scorrerle e rappresaglie condotte dalle bande.

 

Delle valutazioni esatte sulle cifre dei caduti delle forze dell'ordine sono tutt'oggi poco conseguibili per la indisponibilità di precisa documentazione.

 

Finalmente, ai primi del 1870, il governo revocava tutte le misure repressive e di sicurezza adottate e la pace ritornava in quelle tormentate province.

 

All'origine della notevole durata della lotta e della sua repressione si deve trovare l'insufficiente azione iniziale del nuovo apparato statale. Ma non dobbiamo dimenticare che questo aveva appena due anni di vita quando si trovò di fronte al fenomeno della guerriglia e del brigantaggio. In un brevissimo lasso di tempo si dovevano amalgamare regioni fra loro completamente diverse etnicamente, per leggi, per tradizioni, per sviluppo sociale ed economico.

 

L'esercito italiano, nella repressione della guerriglia e del brigantaggio, adottò, sin dal primo momento, molti di quei princìpi che sono oggi alla base della guerriglia difensiva: impiego di unità mobili e di intelaiatura difensivo-protettiva con punti fissi, fiancheggiamento delle operazioni affidate alle unità regolari con forze reclutate fra i locali, conoscitori dei posti, della popolazione e dell'ambiente (guardia nazionale, squadriglie volontarie), limitazione della rappresaglia, per cui si preferiva subire perdite piuttosto che rivalersi su popolazioni indifese ed innocenti, adozione di atteggiamento di clemenza verso chi spontaneamente si consegnava alle autorità, applicazione, limitata, ma il tentativo ci fu, di provvedimenti di aiuto materiale alla popolazione. Inoltre l'esercito italiano, del quale l'ossatura era ancora quella piemontese, godeva di una saldezza disciplinare e morale tale da consentirgli di operare in condizioni sovente depressive e di estremo disagio per quasi 10 anni, saldezza ereditata dalle qualità che avevano fatto dell'esercito piemontese quello strumento che, in mano a politici lungimiranti, patrioti ed avveduti, affrontò, senza batter ciglio, in pochi anni, ben cinque campagne (1848, 1849, 1853, 1859, 1860 e 1861) sapendo sopportare con dignità la sconfitta quando ci fu e presentandosi, poco dopo, fermamente, alle nuove impegnative prove. L'esercito italiano, nei primi tormentati anni della unificazione fra Nord e Sud, fu l'unico elemento che cementò tale unione e ne impedì lo sgretolamento. Era affidato alla guida, inoltre, di capi saldi. nel morale e nel carattere, autentici patrioti, come Cadorna, De Sonnaz, Pallavicini, Govone, La Marmora. Un ricordo deve essere rivolto, inoltre, alla marina militare la quale durante la fase repressiva più impegnativa, pattugliò le coste per impedire sbarchi di uomini e contrabbando di armi, anticipando così, con il suo operato, quelle che attualmente vengono definite operazioni interforze di guerriglia difensiva.

 

Nella guerriglia legittimista notiamo:

 

— lungimirante preparazione a condurla sin da quando ancora esisteva e si batteva l'esercito regolare borbonico;

 

— iniziale funzione fiancheggiatriche a favore dell'esercito, impegnato a Gaeta ed a Civitella del Tronto;

 

— nascita delle formazioni guerrigliere dal disfatto esercito e dalle masse contadine;

 

— tentativo di creare dalla guerriglia, ma fu troppo presto, il nuovo esercito regolare per battere i Piemontesi (Borjes);

 

— base ideologica, con due aspetti troppo diversi e contrastanti: legittimismo, lotta sociale;

 

— ambiente naturale di assoluto favore per la guerriglia;

 

— popolazione idonea fisicamente e spiritualmente a produrre guerriglieri;

 

— la sua collocazione in una situazione internazionale favorevole.

 

Nelle cause dell'insuccesso della guerriglia legittimista possiamo collocare:

 

— la impossibilità di coesistere di due ideologie nettamente contrastanti;

 

— l'adesione alla guerriglia della sola parte contadina della popolazione, con le dovute eccezioni, è ovvio, e la quasi totale assenza delle altre categorie più importanti quali quella intellettuale e l'ufficialità borbonica;

 

— la mancanza di un concreto e perdurante appoggio militare straniero;

 

— il favorevole rapporto di forze da parte governativa;

 

— la evoluzione della situazione politica internazionale ed il graduale abbandono della causa dei Borboni da parte delle Potenze europee legittimiste.

Modificato da galland
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Ospite intruder

Ottimo, Galland, posso solo che farti i miei complimenti per la pazienza di cercare l'articolo e scannerizzarlo per noi (francamente, io non l'avrei, se non altro perché la pacchia della semi-convalescenza è finita, e ho ripreso il lavoro a pieno ritmo, fra qualche tempo dovrei andare a fare visita ai nostri amici d'oltre cortina, per la cronaca. Spero continuerai a deliziarci con queste chicche praticamente sconosciute.

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Ottimo, Galland, posso solo che farti i miei complimenti per la pazienza di cercare l'articolo e scannerizzarlo per noi (francamente, io non l'avrei, se non altro perché la pacchia della semi-convalescenza è finita, e ho ripreso il lavoro a pieno ritmo, fra qualche tempo dovrei andare a fare visita ai nostri amici d'oltre cortina, per la cronaca. Spero continuerai a deliziarci con queste chicche praticamente sconosciute.

Non posso che concordare in toto ed esprimere a Galland, il mio plauso ed apprezzamento più ampio!!! :adorazione::adorazione::adorazione:

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