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I Panzer davanti Mosca

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Il 2 dicembre 1941 a Burzewo, un villaggio d'una trentina di isbe sulla strada Naro Fominsk-Mosca, il termometro segnava 35 gradi sotto zero. Camminando sullo strato di ghiaccio che ricopriva i campi, gli uomini del terzo battaglione del 478° Reggimento di fanteria della Wehrmacht sentivano le scarpe scricchiolare sinistramente. Il fiato si congelava appena uscito di bocca e formava lunghi riccioli di ghiaccio sui baffi e sul mento. Era pomeriggio, e il sole era nascosto da un cielo immensamente bianco. Dai camini che spuntavano dai tetti di paglia delle isbe uscivano esili fili di fumo: le stufe funzionavano con legna e sterpi, e le pattuglie avanzate dei tedeschi cercavano il tepore d'una casa.

 

Burzewo era stata conquistata in un impeto di disperazione poche ore prima, verso :le otto del mattino, senza preparazione di artiglieria. Il maggiore Staedtke aveva parlato ai suoi uomini: « Davanti a noi ci sono quelle case e tante stufe. Qui moriamo congelati. Avanti camerati, ancora alcuni giorni e saremo sulla Piazza Rossa! ». Il battaglione mise in posizione una batteria di cannoni d'assalto e un "88" contraereo: gli uomini uscirono dalle loro tane e attaccarono il presidio russo, formato da pochi soldati. Solo due postazioni abbozzarono una difesa le altre si lasciarono travolgere, come se all'improvviso fosse venuta a mancare ogni speranza. La strada di Mosca era ormai sguarnita, su quel rettifilo gelato le torri del Cremlino distavano non più di 43 chilometri.

 

Il terzo battaglione del 478° Reggimento della Wehrmacht si ammassò nelle isbe mentre l'ufficiale medico cercava invano materiale sanitario per i feriti e i congelati. I cuochi prepararono una minestra calda, e il rancio fu accolto dai vari gruppi con manifestazioni di gioia. Ma quella pace durò solo poche ore.'- Le avanguardie della 33° Armata sovietica erano appostate dietro una collinetta di neve e osservavano quegli esili fili di fumo che uscivano dai camini. Gli ufficiali carristi nella loro uniforme nera scrutavano con il binocolo le postazioni dei cannoni e si preparavano, ma non avevano fretta. La luce del giorno lentamente sparì e le ombre della sera annullarono, ogni distanza. Dalla collinetta si sentivano le voci dei soldati tedeschi e ogni tanto si scorgeva qualche puntino rosso: erano le sentinelle che accendevano una sigaretta. Le ore passavano lente. Il maggiore Staedtke fissò i turni di vedetta e permise al maggior numero possibile di uomini di stendersi per terra e di dormire al riparo d'un tetto.

 

Quando tutte le luci si spensero a Burzewo e solo le sentinelle rimasero a guardare le stelle vivide nel cielo di ghiaccio, i cannoni del primo reparto corazzato sovietico lasciarono partire una bordata che mandò in fiamme mezzo villaggio. Erano le dieci di sera. Dalla collinetta i "T 34" dalla stella rossa scesero giù rotolando sui cingoli e attaccarono in massa sfruttando la loro grande velocità. Fu un momento terribile. I tedeschi risposero con i loro "88": la battaglia diventò furibonda mentre gli uomini uscivano dalle case in preda allo sbalordimento e alla disperazione. I fanti si buttarono ai margini della strada, in disordine, il gruppo d'assalto della nona compagnia andò all'attacco guidato dal tenente Bossert. Sei "T 34" vennero messi fuori combattimento e arsero a lungo ai margini della strada. Intanto, una batteria tedesca era stata liquidata in pochi minuti. Le case bruciavano illuminando la distesa bianca che portava verso la collinetta dei russi. I feriti venivano trascinati a braccia in uno spiazzo dove il maggiore medico Sievers, aiutato dal suo sergente, tentava con iniezioni di morfina o di S.E.E., un composto di scopolamina, eukodal ed efetonina, di calmare i dolori strazianti dei colpiti dalle granate. L'ufficiale cavava dalla tasca la siringa e la scaldava soffiando per qualche minuto nelle mani strette a coppa, poi eseguiva la puntura e riponeva ago e vetro nel cappotto. Non doveva perdere un secondo, perché altrimenti tutto sarebbe gelato.

 

La notte passò così, in un inferno di cannonate, di raffiche di mitragliatrice e di parabellum, ma ciascuno restò sulle proprie posizioni.

 

Quando spuntò l'alba, settanta feriti gravi erano ammassati sulla neve, accanto a rovine di case che ancora bruciavano. Il terzo battaglione era alla fine, una staffetta portò l'ordine di indietreggiare fino alla stretta valle del Nara, un fiume tutto gelato che d'estate alimenta la Moscova. I moribondi vennero messi sulle troike, gli altri feriti su tavole legate con corde ai veicoli cingolati. Il maggiore Staedtke si guardò all'intorno, poi diede l'ordine alla colonna di muoversi. Era il momento in cui, secondo i piani di Hitler, il gruppo di armate di Von Bock avrebbe dovuto scattare all'assalto di Mosca correndo sulla grande autostrada di Viasma.

 

Altri carri armati dalla stella rossa sbucarono dalla collinetta e massacrarono le avanguar- die della Wehrmacht. I cavalli terrorizzati partirono al galoppo, e le troike ,si rovesciarono lasciando i feriti sul bordo della pista gelata. Russenpanzer! Russenpanzer! gridarono gli uomini in preda al terrore. Solo pochi superstiti raggiunsero la valle del Nara nel pomeriggio del 4 dicembre. Ventiquattr'ore più tardi anche il generale Guderian diede ordine alle truppe sul fianco meridionale del gruppo d'armate centrale di sospendere "l'attacco in direzione di Tula e di schierare il gruppo corazzato in difensiva sulla linea Don-Schat-Upa. A sua disposizione, nel terribile inverno russo, non aveva che gli effettivi di quattro divisioni e una prospettiva che per la prima volta nella vita gli si affacciava davanti agli occhi: Ruckmarsch, ritirata. Le strade di Mosca non avrebbero mai sentito il passo cadenzato dei reparti tedeschi.

 

Eppure le avanguardie erano già giunte alla periferia di Mosca, sull'onda dell'offensiva lanciata da Hitler il 22 giugno. Tre gruppi d'armate erano stati messi in campo: a sinistra quello del Feldmaresciallo Wilhelm von Leeb, al centro quello del Feldmaresciallo Fedor von Bock e a destra quello del Feldmaresciallo Gerd von Rundstedt. Assieme ai soldati di Von Bock combattevano due gruppi corazzati, comandati dai generali Heinz Guderian e Hermann Hoth. Sulla linea di fronte che da Kalinin arriva fino a Tula passando per i sobborghi della capitale, i russi avevano schierato nell'ordine, al comando del generale Georgi Kostantinovic Zukov, otto armate: la 31.a, la 30.a, la 16.a, la 5.a, la 33.a, la 43.a, la 49.a e la 50.a.

 

L'attacco finale a Mosca era cominciato il 18 novembre quando a Mussino il 204° Reggimento di fanteria del maggior generale Dehner aveva, visto venire avanti sulla neve, al galoppo, con le sciabole sguainate, la 44° Divisione sovietica di cavalleria. Tra urla selvagge una marea di cosacchi avanzava in file ordinate puntando verso i capisaldi germanici. Dehner non aveva mai assistito a una cosa simile. Afferrò il binocolo e guardò a lungo ammirato quell'immenso fronte che, con la calma degli antichi guerrieri, muoveva contro le bocche lucide dei cannoni. Poi si voltò verso il suo aiutante e diede un ordine secco: « A duemila metri, fuocol ». I bei cavalli cosacchi dal lungo pelo e con sulla groppa una coperta grigia avanzavano a grandi falcate. Quando la marea fu alla distanza prevista, cannoni e mitragliatrici aprirono il fuoco. Mussino diventò un cimitero: duemila uomini e cavalli caddero dilaniati dalle granate, solo piccoli gruppi isolati riuscirono a ritornare nella foresta da cui erano sbucati all'attacco.

 

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un manifesto chiama alla difesa della capitale

 

Il 204° Reggimento tedesco e l'intero 5° Corpo d'Armata si misero in marcia sulla strada Klin-Mosca, verso il canale Moscova-Volga. Secondo i piani dello Stato Maggiore della Wehrmacht, questa era la via più sicura per giungere fin sotto le mura del Cremlino. La seconda Divisione corazzata passò in testa e, favorita da una temperatura discreta, superò il fiume Lama. I russi non opposero che debole resistenza, i Panzer tedeschi avevano via libera. Ma all'improvviso, il 9 novembre, il tempo cambiò e il termometro arrivò a segnare venti gradi sotto zero. Dal cielo bianco come l'opale la neve cominciò a scendere prima lentamente, poi turbinando tra raffiche di vento. Nel pomeriggio si alzò, imprevista, una fitta coltre di nebbia. Stava arrivando l'inverno russo, il grande protagonista delle battaglie.

 

Gli uomini continuarono ad avanzare e il gruppo d'assalto del tenente Decker, appoggiato da alcune unità del 3° Reggimento corazzato, entrò a Solnetschnogorsk, a sessanta chilometri da Mosca, superando le poche difese apprestate dai sovietici sul lato occidentale. Dall'altra parte della città lo stesso obiettivo era stato rapidamente conseguito dagli uomini del maggiore Rodt, sostenuti dal 304° Schiitzenregiment. Il ponte sul canale Istra fu conquistato intatto con un colpo di mano. Una ventina di "T 34" entrati in azione erano stati inesorabilmente distrutti dalle batterie controcarro.

 

Il 25 novembre il maggiore Rodt arrivò a Peschki, a cinquantun chilometri da Mosca. Dà una piccola altura stava osservando l'orizzonte quando vide avanzare sulla distesa gelata tre carri armati sconosciuti. Erano grandi e di forma non comune: nessuno li aveva mai incontrati prima d'allora sul fronte russo. I carri armati aprirono il fuoco e le granate cominciarono a scoppiare qua e là sulla collinetta. Il maggiore Rodt diede un ordine secco e la prima batteria del 3° Panzerregiment entrò in azione con i suoi cannoni da 75. Due mezzi corazzati vennero inchiodati sulla pista, il terzo iniziò la retromarcia e riuscì a dileguarsi. Erano carri armati inglesi, mandati in aiuto a Stalin in seguito all'accordo sulle forniture militari. Sul fianco, in gesso, portavano alcune scritte in carattere cirillico.

 

Liquidata. quella debole resistenza, i fanti del 50° Corpo d'Armata ripresero l'avanzata verso il sud e verso il canale Moscova-Volga, l'ultima difesa naturale attorno alla capitale. Il 90° Reggimento di fanteria di Potsdam occupò Ikscha, un piccolo villaggio di isbe lungo il grande corso d'acqua. I reparti della 23° Divisione, del 67° Reggimento e un gruppo di "esploratori" si battevano più a nord attorno a Krasnaja Poljana. I sovietici erano in preda al caos. Una "pattuglia, probabilmente della seconda Panzerdivision, si buttò in avanti sulla strada e avanzò nel silenzio più assoluto fino a Khimki, alle porte di Mosca. Le torri del Cremlino non distavano che diciotto chilometri.

 

Gli abitanti del villaggio erano in fuga disperata. La pattuglia tedesca vide una fila di carrette trainate da cavalli che si allontanavano verso sud e udì grida disperate di uomini e di donne. Erano le 10 del mattino del 27 novembre, gli uomini del Terzo Reich, ovunque vittoriosi, stavano per realizzare la loro più grande conquista. La notizia giunse nella capitale sovietica come un lampo seminando. il panico. Stalin si trovava nel bunker del Cremlino quando gli giunse una drammatica telefonata: « Un gruppo della terza Armata corazzata tedesca ha superato il canale Moscova-Volga presso Jachroma stabilendo una testa di ponte sull'altra sponda e catturando intatta la grande centrale elettrica che fornisce l'energia alla capitale dell'URSS. La Wehrmacht sta preparando l'avanzata su Mosca anche da quella parte ».

 

Se i tedeschi calavano giù anche lungo la sponda orientale del corso d'acqua, la grande roccaforte del comunismo era perduta.

 

Stalin chiamò al telefono Zukov, Voroscilov e Kusnezov ordinando di resistere a ogni costo e di lanciare due brigate contro la testa di ponte di Jachroma. La formava il gruppo speciale di Hasso von Manteuffel, appoggiato dal sesto Schiitzenregiment e da alcuni reparti del 25° Panzerregiment. L'attacco contro i tedeschi fu sferrato alle due del pomeriggio. La temperatura era scesa a 40 gradi sotto zero. Gli uomini di Hasso von Manteuffel non erano dotati di alcun equipaggiamento speciale per proteggersi contro l'inverno russo, lo Stato Maggiore tedesco non aveva ancora iniziato la distribuzione degli stivaletti di feltro per impedire i congelamenti. L'olio nei fucili, nei cannoni e nelle mitragliatrici diventò ghiaccio, i motori dei Panzer non si avviarono. Il 29 novembre la 28.a e la 50.a Brigata sovietica ebbero ragione d'ogni resistenza e liquidarono la testa di ponte.

 

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Il generale tedesco Guderian, definito "il genio della guerra corrazzata" e quello sovietico Zukov

 

Ma trenta chilometri più a sud la situazione per i russi stava diventando drammatica. Il gruppo d'assalto del tenente Decker, pattuglia avanzata della seconda Divisione corazzata, agli ordini del generale Veiels, arrivò, lungo la strada Rogatschevo-Mosca, nella cittadina di Oserezkoje. Oserezkoje era il capolinea, nella parte rivolta verso nord, degli autobus della capitale, che vi trasportavano ogni sera gli operai delle officine che tornavano a casa dal lavoro. Alcuni grandi cartelli indicavano le ore di partenza e le fermate previste. Gli uomini del gruppo d'assalto saltarono giù dai carri armati, guardarono a lungo davanti a loro, poi chiesero al tenente Decker: « Perché non proseguiamo? Se ci dà l'ordine, in poco più di mezz'ora siamo sulla Piazza Rossa ».

 

Ma il tenente non poteva assumersi questa responsabilità e tornò indietro a riferire al suo generale.

 

Altri gruppi avevano intanto continuato la marcia verso la capitale. Il maggiore Rodt con il suo battaglione aveva travolto la difesa della cavalleria siberiana e della milizia operaia a Krasnaja Poljana giungendo prima a Puschki e poi a Katjuschki. Il maggiore Reichmann con il secondo battaglione del 304° Reggimento aveva posto piede a Gorki (30 chilometri dal Cremlino) e un gruppo d'assalto del 38° Battaglione corazzato aveva conquistato la stazione ferroviaria di Lobnja, l'ultima prima della capitale. Il terzo battaglione del 478° Reggimento di fanteria si stava avvicinando a Burzewo, le avanguardie della Divisione corazzata SS-Reich avanzavano, oltrepassata Wysokowo, verso Lenino. La Divisione corazzata SS-Reich era l'élite del regime hitleriano, ma Stalin le aveva mandato contro due reggimenti manciuriani di Chabarovsk e alcuni reparti della famosa 98.a Divisione siberiana.

 

Era il 30 novembre 1941. La Pravda fu distribuita a Mosca nelle strade, nelle case, nelle officine, nelle trincee. In prima pagina portava, in alto, due brevi comunicati: la fucilazione davanti al pubblico, su un grande viale, di alcuni rapinatori e la condanna a morte decretata da un tribunale speciale contro un gruppo di uomini e donne che speculavano sui viveri. La capitale viveva in un clima di terrore, le autorità non avevano più alcuna possibilità di ricorrere a mezze misure.

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Una batteria di mitragliere fa buona guardia sul cielo moscovita, a terra sono dipinti i settori di tiro

 

Mosca era diventata zona di prima linea, per le strade della grande città sferragliavano sui cingoli i "T 34" di ventisei tonnellate appena usciti dalla fabbrica in piena attività, notte e giorno, in un rione verso oriente. I "T 34" passavano a cinquanta all'ora lungo i viali e attraverso le piazze, in lunghe file, e avevano aggrappati a bordo gruppi di appartenenti alla milizia dei lavoratori e giovani del Komsomol.

 

I battaglioni siberiani furono caricati sui tassì e sulle auto requisite dei funzionari statali o del partito, come avevano fatto, ventisette anni prima, i parigini davanti alla minaccia dei tedeschi. I tassì puntarono verso occidente, sulle strade gelate. Gli uomini seduti nell'interno andavano verso un'avventura che non si erano mai immaginata. File di camion di tutti i tipi e pullman sovraccarichi di munizioni seguivano le auto multicolori che sfrecciavano verso il pauroso orizzonte. A battaglioni venivano spinti in prima linea alla rinfusa, per diretto ordine di Stalin: come arrivavano, entravano in combattimento, attaccando senza pause.Il comando assoluto era di fermare i tedeschi prima che si affacciassero. alle porte della città.

 

In città regnava il caos. Già alcuni giorni prima due soldati feriti, giunti in una strada del centro, si erano messi a gridare: « I carri armati tedeschi sono sulla strada di Kaluga e sulla Pssotschnaja! Stanno per arrivare qui! Salvatevi, russi, salvatevi! ». Sei uomini armati, tre della milizia e tre della NKVD, sbucarono da un portone sulla via Sadovaia. La gente si era raccolta, aveva sfondato la saracinesca d'un negozio e cominciato a saccheggiare l'interno. Uno dei due soldati feriti si mise a gridare: « Eccoli, i tedeschi stanno arrivando! », I sei uomini armati entrarono nel portone e riapparirono senza parabellum e senza più alcun grado sull'uniforme. Sulla strada si formò un corteo guidato dai due soldati.

 

All'improvviso sulle teste venne alzato un grande vessillo bianco. L'uomo che lo faceva sventolare urlò: "Morte ai comunisti! Abbasso gli ebrei!". La gente guardava dai portoni quell'incredibile corteo; le donne si facevano il segno della croce. Ma tutto finì presto: un reparto della milizia operaia sovietica sbucato da una strada laterale aprì il fuoco, e la gente si sbandò urlando dal terrore.

 

Ma i tedeschi non arrivarono mai a Mosca anche se la città era in preda al panico.

 

Centomila cittadini erano stati inseriti nella milizia popolare, quarantamila giovani aiutati dalle donne e dalle ragazze avevano costruito, lavorando giorno e notte, novanta chilometri di fossato anticarro, 280 chilometri di sbarramenti di filo spinato e 8063 postazioni per fucilieri. I gruppi civili erano sorvegliati dalla polizia; non veniva concesso neanche un attimo di riposo. Proprio a quel lavoro disperato e al terribile freddo russo il generale Georgi Kostantinovic Zukov, difensore di Mosca, affidava ora, agli inizi di dicembre, l'estrema speranza di salvare la capitale. I tedeschi avevano impegnato nell'anello intorno alla città sedici divisioni: i reparti più avanzati scorgevano al binocolo le torri del Cremlino!

 

I russi gettarono nella lotta contro i reparti corazzati della Wehrmacht anche gruppi di cani che portavano legate ai fianchi due cariche esplosive. Esse erano collegate ad un'asta-detonatore sopra la schiena. I cani addestrati correvano, guidati dalla voce dei soldati, verso i carri armati o le camionette e si gettavano senza paura in mezzo ai cingoli. Li avevano abituati a compiere quel gesto in lunghi mesi di addestramento. Quando il cane cercava di alzarsi sotto il carro armato, l'asta sulla sua schiena urtava contro la parete di acciaio e le cariche sui fianchi esplodevano. L'animale finiva sfracellato, ma il Panzer saltava in aria. Cento otto cani gettandosi all'assalto sulla strada di Tula diedero parecchio filo da torcere alle unità avanzate di Guderian.

 

La sua terza divisione corazzata era giunta nel villaggio di Jasnaja Poljana e aveva occupato, in mezzo alla foresta, la casa natale di Tolstoi. Guderian si era installato proprio nel palazzo dell'amministratore dei beni dell'autore di Guerra e pace e da quei luoghi, che avevano visto nascere nella fantasia del poeta l'immortale figura di Anna Karenina, consegnava gli ordini di avanzata verso nord alle staffette in motocicletta. Ma la temperatura era tremenda e i soldati decimati.

 

Il termometro segnava 32 gradi sotto zero. Gli uomini dovevano dormire di notte all'aperto su quasi tutta la linea che fronteggiava Mosca. Essi cercavano di raggomitolarsi in tutto quello che avevano, ma mancavano di cappotti con la pelliccia, di berretti foderati, di stivaletti di feltro, di guanti di pelle. Molti, nell'oscurità, morivano lentamente, senza più resistenza, nella terribile morsa del congelamento.

 

Il 2 dicembre l'ufficiale di ordinanza del 128° gruppo di artiglieria della Wehrmacht, sottotenente Weber, scrisse a sua madre ad Amburgo: "Questi russi sembrano possedere fonti inesauribili di uomini e di materiale. Ogni giorno buttano in linea truppe fresche, le siberiane, e fanno avanzare nuove batterie. Ieri siamo andati all'attacco di una collina che abbiamo battezzato "la collina dei peri". È un punto che permette di avanzare fino a Lenino, da dove c'è la strada libera per Mosca. Con l'appoggio dell'artiglieria e dei lanciafiamme avevamo quasi raggiunto l'obiettivo, ma siamo stati costretti a retrocedere per far fronte a una spaventosa controffensiva sovietica. Ci mancano solo dodici chilometri per raggiungere con il fuoco dei nostri cannoni le case di Mosca. Ma quando riusciremo a sparare?".

 

Quei colpi non furono mai sparati, perché in uno sforzo disperato,, anche se confuso, l'Armata Rossa era riuscita a organizzare una difesa. I bombardamenti violenti operati dalle squadriglie degli Stukas non riuscivano a scuotere minimamente i reparti attestati nei villaggi intorno alla capitale. Le divisioni tedesche si trovarono invischiate in continui, combattimenti lungo le piste gelate, tra le isbe, ai margini dei boschi: il freddo tremendo e l'impossibilità di sostare al coperto trasformavano ogni ora in una tragedia. Un selvaggio tentativo di conquistare l'autostrada per Mosca e di infilare così un cuneo nel fronte preparato dai sovietici non riuscì. La 197.a Divisione di fanteria, la settima Divisione della Baviera e la 267.a di Hannover furono bloccate in mezzo a una tempesta di neve e dovettero sostenere aspri corpo a corpo.

 

Il Feldmaresciallo Von Kluge tentò con il ventesimo 'Corpo d'Armata di conquistare l'autostrada da sud, concentrando gruppi corazzati e reparti d'assalto nella zona di Naro-Fominsk. Il colonnello Hahne raggiunse, con il suo 507° Reggimento, Akulovo, a sei chilometri dal grande nastro autostradale, ma la terza e la 258.a Divisione non poterono avanzare come convenuto. C'erano 34 gradi sotto zero, un vento gelido sferzava i volti degli uomini stanchi e disperati. All'improvviso alcuni soldati si gettarono nella neve gridando: Ich kann nicht mehr!, non ce la faccio più! I battaglioni tedeschi che dovevano conquistare Mosca prima del Natale 1941 si sciolsero così, come se fosse giunta la parola d'ordine di non più combattere. Erano battaglioni di fantasmi, sopravvissuti a una bufera, e i reparti più numerosi contavano appena un'ottantina di uomini.

 

Nessuno ormai sperava che il miracolo di giungere nella capitale di tutte le Russie si sarebbe compiuto. L'inverno si era alleato ai difensori della vecchia madre dei popoli slavi e aveva trasformato in una tragedia quello che doveva essere il trionfo della Wehrmacht. Da ogni settore del fronte giungevano notizie paurose, mentre aumentava il numero dei morti e dei congelati. In una piccola stanza di Jasnaja Poljana, il generale Heinz Guderian osservava con tristezza una grande carta geografica su cui le bandierine segnavano la posizione dei reparti più avanzati. Mosca era là davanti, si poteva raggiungerla con gli autobus municipali, ma quella piccola striscia. di terreno sembrava più vasta d'un oceano.

 

Era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 1941. Un grande silenzio avvolgeva la casa di Tolstoi e le sue memorie, il parco coperto di neve gelata e le tombe antiche e nuove. Era uno di quei momenti in cui la storia chiama un uomo a decidere il destino di migliaia di suoi simili. Il comandante che mai nella sua carriera era indietreggiato neanche d'un metro si guardò intorno, poi disse ai suoi ufficiali: « L'attacco a Mosca è fallito e siamo stati sconfitti. Comunicate ai reparti l'ordine di ritirata! ».

 

Ricciotti Lazzero

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Ospite galland

Nel proporre agli amici del forum l’articolo di Ricciotti Lazzero sulla battaglia di Mosca del dicembre 1941 non ho voluto semplicemente fare la consueta rievocazione storica su una battaglia della seconda guerra mondiale ma, piuttosto elaborare dei concetti sulla guerra moderna.

 

Le due guerre mondiali sono permeate del concetto della battaglia decisiva nel suo “Vom Griege” [1] il Von Clausewitz dedica a questo concetto tre capitoli [2], in apertura alla trattazione l’insigne stratega afferma:

 

“Una grande battaglia è la lotta di una massa principale di un esercito, ma non già un combattimento insignificante e con scopo secondario, né un semplice tentativo cui si rinuncia non appena si riconosce che lo scopo è troppo arduo per poter essere raggiunto; bensì una lotta nella quale tutte le energie vengono impegnate per riportare una vittoria reale […] Ma poiché l’essenza della guerra è la lotta e la grande battaglia è il combattimento della massa principale, devesi sempre considerarla come il vero centro di gravitazione della guerra. […] Se una grande battaglia è essenzialmente fine a se stessa, deve anche contenere in sé i motivi della relativa decisione; in altri termini, si deve in essa perseguire la vittoria fino a che resti qualche possibilità di riportarla.”

 

Verdun, Mosca, Stalingrado, El Alamein sono il risultato della teoria del Generale prussiano, unita alle nuove micidiali possibilità della tecnologia moderna.

 

Ma, a mio parere, proprio nella campagna di Russia, la più grande operazione bellica della storia umana, ricorre un altro dato di fondamentale importanza: le battaglie decisive gravitano per il possesso di centri abitati: Leningrado, Mosca, Stalingrado; per i russi il terreno è nulla la città tutto. E qui vediamo una sostanziale unitarietà dei concetti strategici di epoca zarista con quelli di epoca sovietica, come a dire: mutano i regimi ma identici restano i concetti strategici.

 

Certamente non si deve sopravalutare, come fece Jomini, l’importanza dell’occupazione della capitale nemica ma la circostanza del fallimento dell’”Operazione Tifone” proprio mentre il Giappone entrava in guerra costituisce uno dei momenti topici della guerra mondiale.

 

Per i motivi esposti la battaglia di Mosca costituisce un argomento importante di studio e riflessione.

Ritornerò sull'argomento con altri interventi e topic.

 

[1] Karl von Clausewitz Della guerra, Mondadori, Milano, 1970 (edizione su autorizzazione dello SME – Ufficio storico, traduzione di Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari)

 

[2] Libro quarto Il combattimento, capitolo nono “La grande battaglia (sua decisione)”, decimo “Ancora della grande battaglia (effetti della vittoria), undicesimo “Ancora della grande battaglia (Impiego della battaglia).

Modificato da galland
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  • 2 settimane dopo...

Gli uomini del gruppo d'assalto saltarono giù dai carri armati, guardarono a lungo davanti a loro, poi chiesero al tenente Decker: « Perché non proseguiamo? Se ci dà l'ordine, in poco più di mezz'ora siamo sulla Piazza Rossa ».

 

perchè non avanzarono????....avrebbero catturato Mosca,o mi sbaglio???

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Il problema è che Hitlel non seguì gli insegnamenti di Von Clausewitz. Se, agli inizi di Agosto, invece di lanciare i due gruppi corazzati del gruppo armate centro uno a nord e l'altro a sud gli avesse lasciati uniti e lanciati contro Mosca, come Guderian supplicava, la seconda guerra mondiale avrebbe preso una piega ben diversa.

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Ma, a mio parere, proprio nella campagna di Russia, la più grande operazione bellica della storia umana, ricorre un altro dato di fondamentale importanza: le battaglie decisive gravitano per il possesso di centri abitati: Leningrado, Mosca, Stalingrado; per i russi il terreno è nulla la città tutto. E qui vediamo una sostanziale unitarietà dei concetti strategici di epoca zarista con quelli di epoca sovietica, come a dire: mutano i regimi ma identici restano i concetti strategici.

 

Io credo che, oltre a quanto egregiamente detto da Rick sulla divisione delle armate, un altro errore tedesco fu quello di impuntarsi per il controllo delle città.

Infatti sarebbe stato molto più sensato superarle, circondandole, per tentare di mettere alle corde l'Armata Rossa in tempi ragionevoli, tanto una città assediata non rappresenta un grosso problema se viene tagliata fuori, specie quando si dispone di una superiorità aerea molto marcata.

Quest'idea fu, invece, successivamente sfruttata da Vasilevskij e Zhukov proprio per sconfiggere i Tedeschi a Stalingrado tramite l'operazione Urano che tagliò fuori tutte le truppe Tedesche rimaste nel saliente.

Tra l'altro questo modo di agire fu compreso e sfruttato dagli Americani in un territorio totalmente diverso, come quello delle Salomone Meridionali, dove con la cosiddetta strategia "a balzi" che permise di superare, senza sbarcare, importanti basi Giapponesi come Rabaul e Truk, che sarebbero state estremamente difficili da conquistare.

 

Hitlel

 

Glande dittatole cinese? :asd:

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Ospite intruder

L'errore a mio avviso più grave, e sul quale non si discute mai abbastanza, fu tartassare la popolazione civile. Con buona pace degli аппаратчики che scrivino su questo forum, l'Ucraina era insorta contro i sovietici, i commissari erano stati cacciati e le truppe tedesche accolte come liberatrici. Avere un'Ucraina amica, magari alleata, avrebbe dato un'altra dimensione alla guerra. Ma nel delirio nazista, gli ucraini, in quanto slavi, erano untermenschen, da sterminare come gli ebrei.

Modificato da intruder
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Tra l'altro questo modo di agire fu compreso e sfruttato dagli Americani in un territorio totalmente diverso, come quello delle Salomone Meridionali, dove con la cosiddetta strategia "a balzi" che permise di superare, senza sbarcare, importanti basi Giapponesi come Rabaul e Truk, che sarebbero state estremamente difficili da conquistare.

 

La tattica della rana :bleh:

 

Prendersi solo una o due isole per arcipelago, farci su un aeroporto e una base navale d'appoggio e via col successivo gruppo. Le guarnigioni giapponesi nelle altre isole venivano semplicemente lasciate a cuocere nel loro brodo, completamente isolate e tagliate fuori dal resto delle loro FF.AA., senza marina o aviazione.

 

Purtroppo però ci stanno isole (e città) che devi conquistare se vuoi vincere la guerra. Forse potevi saltare Smolensk e 100 altre città come lei, ma Mosca, Leningrado e Stalingrado dovevano essere conquistate.

 

EDIT: non so ne il russo ne il suo alfabeto ma qualche parola l'ho sentita dire. Non intendi mica qualcosa tipo "uomo dell'apparato (apparatkhic :helpsmile: )? Ovvero come i russi chiamavano i burocrati con la tessera del partito in tasca?

 

EDIT 2: No, glande dittatole gelmanico

Modificato da Rick86
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Ospite intruder

Аппаратчики è il plurale di аппаратчик, in italiano apparatchik, il termine, gergale e non certo gentile, col quale nella Vecchia URSS (perché ce n'è una Nuova), venivano designati i burocrati ottusi al servizio della номенклатура, la nomenklatura, al posto del più formale e rispettoso номенклатурный работник, nomenklaturnij rabotnik, "lavoratore" (sic), impiegato della nomenklatura... Fine della lezione di cultura sovietica.

Modificato da intruder
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