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Dave97

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Risposte pubblicato da Dave97

  1. Se ci organizziamo possiamo fare un incontro di calcio "vecchi" contro "resto del mondo"...

    Ok, però io gioco come Libero!

    Nel senso che vago per il campo senza una meta o uno scopo prefissato :rotfl:

    .......e vista la partita di ieri direi che non è nenche tanto originale....... :pianto:

     

    ehm sarà meglio che trovi qualche altra curiosità in topic altrimenti rimediamo una espulsione di massa per OT

  2. Ehm !! era una battuta, mi sembrava di averlo anche sottolineato!

    Cosa costava ?

    sono passati diversi anni e sinceramente non me lo ricordo!

    Comunque , a parte qualche capitolo assente, rispetto all'originale, mi sembra di poter dire che

    si tratti di volumetti abbastanza interessanti,

    e visto il prezzo...... <_<

     

    la questione la vedrei diversamente…

    e cioè che in inglese sono disponibili molti più volumi, di quelli tradotti in italiano..

  3. mkre_c14.jpg

    In Memoria del Gen.Giuseppe Cimicchi

    Caro Peppino, ed ora della "vecchia" 281a Squadriglia di Rodi sono rimasto solo.

    Scomparsi in combattimento Rovelli, Forzinetti, Buscaglia e Faggioni, eravamo sopravvissuti tu ed io e potevamo nei nostri incontrai parlare degli eventi vissuti a Rodi, ma ora con chi li ricorderò pi?

    A Rodi, sull'aeroporto di Gadurra, luglio 1941, incontrari te quando fui assegnato alla Squadriglia Buscaglia.

    La Squadriglia, quando arrivammo Forzinetti ed io, aveva solo due ufficiali piloti, il Comandante Cap. Buscaglia e tu perchè in quel momento l'amico Faggioni era in licenza in Italia.

    Di li a poco arrivò anche il Ten. Rovelli;

    in tal modo la Squadriglia raggiunse l'organico di 6 ufficiali piloti.

    L'attività della Squadriglia ci impegnò in giorni alterni in lunghe ed estenuanti ricognizioni armate della durata di cinque e sei ore alla ricerca del naviglio nemico.

    Nel volgere dei tre-quattro mesi furono affondate circa un centinaio di tonnellate di mercantili (petroliere e trasporto) e fu silurata la corazzata "Queen Elizabeth".

    Caduti nel dicembre '41 Rovelli e Forzinetti, trasferito Faggioni quale istruttore al Nucleo di Pisa, Buscaglia, constatato che non sarebbero stati assegnati i sostituti, sciolse la Squadriglia, e noi, tu ed io fummo assegnati al 41° Gruppo comandato dal T.Col. Muti.

    Ma dopo tre mesi di attività presso questo reparto rientrammo in Italia per assumere il comando di squadriglie dei costituenti Gruppi Autonomi Aerosiluranti.

    Tu Peppino fosti assegnato al 130° Gruppo di sede in Sardegna mentre io andai al 132° Gruppo comandato da Buscaglia e di sede in Sicilia.

    Con le nuove destinazioni ci separammo, ma per poco perchè il mio Gruppo a cagione degli eventi bellici fu dislocato in Sardegna per meglio operare sulle coste dell'Africa francese.

    Nell'autunno del 1942, quando già le vicende belliche erano avverse alle nostre FF.AA., i reparti aerosiluranti furono impegnati in quotidiane azioni contro il naviglio nemico nel tentativo di bloccare l'avanzata nemica in Africa francese.

    Fu in questo periodo, dicembre '42, che tu fosti protagonista di un drammatico volo.

    Alla testa di una formazione di cinque velivoli diretti nella zona di Bona-Biserta per attaccare unità nemiche fosti assalito dalla caccia avversaria che riuscì ad abbattere uno dietro l'altro i quattro gregari, l'ultimo il Tenente Coresio in vista delle coste sarde:

    con feriti a bordo ed il velivolo danneggiato raggiungesti ugualmente l'aeroporto di Elmas.

    Rimanemmo in linea di combattimento sempre operando dalla Sardegna e dalla Sicilia e dalle basi del continente quando il nemico sbarcò in Sicilia; superammo la difficoltà dell'armistizio a seguito del quale per vie diverse ci ritrovammo sullo stesso aeroporto di Korba (Tunisia) in mane agli Americani e di li a Lecce sull'aeroporto di Galatina.

    Non avendo velivoli adeguati per partecipare alle operazioni belliche e contribuire alla risurrezione della nostra Forza Armata, aderimmo alla costituzione del Battaglione Azzurro su iniziativa del Magg. Angelo Mastragostino.

    Tu rimanesti al Battaglione io invece tornai a volare sui velivoli datici dagli Anglo-Americani.

    Ci separammo: ciascuno continuò la propria guerra e a conflitto ultimato ci riabbracciammo all'aeroporto dell'Urbe nel giugno del 1945.

    La guerra era finita!

    Insieme ricordammo il passato, gli amici caduti, ci sembrava di sognare eppure eravamo vivi e superstiti di tante avventure belliche.

    Peppino, amasti profondamente la nostra Patria per la quale ti prodigasti oltre ogni sforzo ed ogni rischio. La tua ala vittoriosa ha spaziato per tutto il Mediterraneo dalle coste Libanesi a Gibilterra.

    Parlare e scrivere di te da parte mia non mi è facile perchè gran parte delle tue vicende sono anche le mie.

    I ricordi di te sono tanti da quelli bellici a quelli delle poche ore di riposo sempre in tensione.

    Spesso parlavamo delle vicende della guerra e non sempre eravamo della medesima opinione, però eravamo concordi che essa doveva essere combattuta al vertice di qualsiasi sacrificio.

    Ricordo che quando le sorti del conflitto erano già decise ed eravamo a Littoria (Latina) nell'agosto del '43 in attesa della telefonata per decollare, ti vidi con le lacrime agli occhi mentre mi gridasti:

    "ormai tutto è perduto; vani sono stati i nostri sacrifici e l'olocausto di tanti compagni caduti, eppure bisogna ancora affrontare rischi e versare sangue per servire fino in fondo la Patria".

    La Patria nella quale hai sempre creduto e servito con esemplare dedizione.

    La tua dipartita costituisce un vuoto incolmabile nelle file degli anziani aviatori:

    lasci me orfano di una amicizia nata e cresciuta al crepitare delle mitragliere fra lo scoppio delle granate nemiche.

     

    Giulio Cesare Graziani

    Aeronautica , Novembre 1992

  4. avrai comprato una versione Low Cost :rotfl:

     

    Scherzi a parte!!!!!!

    Stiamo parlando di un set di 20 volumetti , che in questo momento stanno vendendo su Ebay alla folle cifra di 30€!!!!!!!!!!!

    e cioè, se la matematica non è un Pignone!!!!!!

    a 1.5 € cadauno!!!!!!!!

    Fate Voi!!

  5. nr_11_10.jpg

    Quando la Luftwaffe entrò in guerra, la forza di caccia notturna era praticamente inesistente, grazie al fatto che il suo comandante in capo, Reichsmarschall Hermann Goring, aveva sbandierato ai quattro venti che sulla Germania non sarebbero mai potute cadere delle bombe.

    A meta del 1940 la follia insita in questa affermazione divenne palese e perciò venne costituito in tutta fretta il primo stormo di caccia notturna BF110.

    Inizialmente capace di localizzare gli obiettivi solo mediante la loro acquisizione visiva, questa forza migliorò enormemente la sua efficacia con la catena radar "Wurzburg'; che si estendeva dalla Danimarca fino al confine con la Svizzera, e poi con i radar installati a bordo dei velivoli.

    Per la fine del 1942 la caccia notturna controllava circa 389 aerei e solo in quell'anno aveva distrutto 1.291 bombardieri della RAF.

    Ma le sempre più frequenti incursioni aeree alleate stavano annientando le difese tedesche, e così si dovette ricorrere anche ai caccia monoposto diurni (Fw 190 e Bf109G).

    Nuovi modelli come He 219 continuarono a farsi valere nei letali cieli notturni del 1945, ma il preponderante numero di bombardieri alleati alla fine ebbe la meglio

  6. mkre_w10.jpg

    Cinque Uomini ed un’Aquila

    1° maggio 1942, 204° Squadriglia siluranti.

    aeroporto di Gadurra (Rodi).

    Ore 8,45.

    Decollo di due "S.79" al comando del Cap. De Stefano, sul cui aeroplano io ho preso posta come motorista, per una ricognizione offensiva nelle acque di Porto Said, ove è stata segnalata la presenza di navi nemiche.

    Pochi istanti dopo viriamo, mettiamo la prua verso la zona segnalata nel più assoluto silenzio radio per non cadere nelle maglie dell'intercettazione nemica.

    I motori dei due nostri aeroplani hanno un ritmo uguale e possente, che a noi motoristi in volo pare sia quello della nostra anima.

    Sospesi, in una smaterializzante solitudine, fra il cielo e il mare, mentre il sole si trasforma a volte in una lastra d'acciaio abbagliante, solo la bussola ci indica la rotta.

    Dopo un' ora di volo, nessun avvistamento.

    Solo cielo e mare che si fondono tra di loro in uno sconfinato vuoto.

    Ma ecco che di li ad un'altra ora di volo - sono le 10,45 -, al termine della quale il mare è andato prendendo un colore grigio azzurro, incupito qua e la da scure nuvole basse che vanno velando il sole, scorgiamo all'improvviso a 10 miglia dalla costa di Porto Said, 1500 m. al di sotto di noi, una formazione navale nemica composta da varie navi da guerra e tre piroscafi.

    Immediati gli ordini del Comandante:

    continuare il silenzio radio, traguardare ed attaccare il primo piroscafo che ci sarebbe venuto a portata di tiro.

    Di li a qualche istante, mentre il Cap. De Stefano e il 2° pilota manovrano per portarsi a bassa quota e da qui lanciare il nostro siluro, vediamo un piccolo punto nero disegnarsi nel cielo e muoversi velocissimo contro di noi.

    Un caccia avversario.

    Nello stesso momento una raffica di mitraglia, sparata da una delle navi colpisce in più punti il "79", che ha un grosso sobbalzo.

    Ciononostante, sperando che sia rimasto indenne il meccanismo di lancio del siluro, procediamo decisamente nell'azione e, giunti al punto minimo per l'attacco, azioniamo il sistema di lancio.

    Il siluro parte via, ma, purtroppo, forse per il fondale molto basso, forse per una tempestiva contromanovra della nave attaccata, esso non coglie il bersaglio.

    Maledizione!

    Nella successiva "manovra di scampo" al persistente tiro della contraerea delle navi ci viene addosso il caccia intravisto qualche istante prima, seguito subito da un secondo.

    Replichiamo al fuoco dei due caccia con tutte le armi di bordo;

    io con la mitragliatrice ventrale, il marconista con quella laterale e l'armiere con quella poppiera. Combattimento duro, spietato, e per noi in uno stato di chiara inferiorità.

    Colpito a morte il marconista, io sono ferito alla testa da una scheggia.

    Ho il volto coperto di sangue.

    Continua, intanto, l'S79 a prendere colpi su colpi.

    Abbiamo la certezza di finire in mare insieme alla cagnetta, la dolce, affettuosa Birby, che portiamo sempre con noi.

    Proseguiamo, tuttavia, a combattere decisi a vendere cara la pelle, tant'e che ad un certo momento non vediamo più girarci attorno i due caccia avversari, uno dei quali, centrato dal tiro delle nostre armi, e andato a sprofondarsi nel mare.

    Scomparso, nel frattempo, alla nostra vista l'altro S.79.

    Del pari il secondo caccia, che temiamo, però possa tornare ben presto ad assalirci.

    Anche se a questo punto il combattimento può dirsi finito

    (sempre ammesso che il caccia di cui sopra abbia desistito dalla lotta), la situazione a bordo resta drammatica.

    Equipaggio ridotto a 4 persone, fra cui il sottoscritto che continua a perdere copiosamente sangue; velivolo forato dappertutto con centine sventrate; motore centrale bloccato;

    assetto di volo precario, tra continui sbandamenti; la radio e altri strumenti di bordo fuori uso.

    Mi fascio la ferita con una benda di fortuna, mi incollo ad una mitragliatrice, così come l'armiere, benchè anche egli ferito ad un braccio, ad un'altra arma.

    Occhi inchiodati all'esterno dei portelli, pronti ad affrontare l'eventuale, è assai probabile riapparizione del caccia inglese, mentre, con una sconcertante padronanza di nervi ed eccezionale freddezza, il Cap. De Stefano e il secondo pilota vanno impegnandosi al massimo, madidi di sudore e i volti pietrificati dalla tensione, per poter governare il velivolo in quelle tremende condizioni.

    Trascorrono lunghi, interminabili minuti.

    A 50 metri da noi la superficie del mare, pronto ad inghiottirci.

    Miracolosamente i due motori reggono ancora bene e sono per noi l'ultimo filo di speranza, che, però, ad un tratto si rompe:

    dal foro di una tubazione esce a fiotti olio.

    Mi precipito su di essa, tampono il foro con una mano.

    Un dolore lancinante, che l'alta temperatura dell'olio mi brucia la mano.

    Lo sguardo mi si annebbia.

    Ma debbo assolutamente resistere, poichè, se avessi tolto la mano dal foro e non fosse più rimasto olio nei serbatoi, l'aeroplano si sarebbe inevitabilmente trasformato in una gigantesca torcia ardente.

    In aggiunta nessuna possibilità di lancio in mare con il paracadute e il battellino di salvataggio - sul quale

    poi non si potrà fare alcun affidamento poichè avrebbe potuto essere bucato - stante la quota che tenevamo per ridurre la capacità di manovra del caccia avversario nel caso di un suo ritorno.

    Giunti fuori dal tiro delle navi inglesi e dal pericolo di un nuovo attacco da parte del suddetto caccia - di certo allontanatosi dalla zona per avere ritenuto il suo pilota che il nostro S.79 non sarebbe stato in grado di restare in aria per i colpi ricevuti - saliamo piano piano dai 50 metri di quota ai 500.

    Ed è, questo, il momento in cui riaffiora in noi un barlume di speranza di salvezza.

    Andiamo avanti cosi per un paio di ore, con il fiato che si mozza in gola ad ogni scricchiolio dell'aeroplano e, finalmente, ci appare l'amica costa dell'isola di Rodi.

    Ci sentiamo quasi liberi dall'incubo da cui eravamo stati presi, quand'ecco il Cap. De Stefano avvertirci che l'apparato di fuoriuscita del carrello era in avaria e che, pertanto, non restava che tentare un atterraggio sulla pancia;

    manovra che, già di per se stessa assai problematica e rischiosa, lo era ancora più in una simile circostanza poichè con l'impatto contro il terreno il velivolo, date le lesioni riportate, avrebbe potuto andare in pezzi, esplodere, incendiarsi.

    Ci aggrappiamo qua e la ai longheroni dell'aeroplano con le poche forze che sono rimaste in noi, ci abbandoniamo fatalisticamente al nostro destino.

    Il Comandante compie alcuni giri sull'aeroporto per fare capire che avrebbe tentato il succitato atterraggio, quindi comincia a perdere lentamente quota.

    Di li a pochi secondi un urto violento.

    Ma con l'aiuto di Dio, il vecchio S.79, l'eroe di tante battaglie vittoriose, ha vinto anche questa, riportando al nido con il suo grande "cuore" e sebbene gravemente "ferito", cosi come sono uso fare le aquile con i propri aquilotti, cinque uomini, ancorchè uno di essi senza più vita

     

    Bruno D’Orazio

    Aeronautica, Novembre 1992

  7. nr_5_s10.jpg

    Gli Spitfire Mk I e II prestarono servizio in prima linea con la RAF solo per un breve periodo, ma durante il 1940-41 i loro piloti furono autori di impressionanti successi ai danni della Luftwaffe.

    Questo volume descrive minuziosamente la storia dei primi assi della RAF della Seconda Guerra Mondiale, che contribuirono ad arginare l'invasione tedesca quando la Gran Bretagna lottava per la sua sopravvivenza nei difficili anni fra il 1939 e il 1941.

    Le prime versioni dello Spitfire erano caratterizzate da un armamento leggero, un corto raggio d'azione e un motore che tendeva a surriscaldarsi.

    Tuttavia, nelle loro prime timide puntate offensive verso la Francia durante gli scontri aerei su Dunkerque e sull'lnghilterra sud-orientale, molti piloti riportarono successi degni di nota.

    Sono riferite le imprese di nomi quali Malan, Tuck e Bader, come pure quelle di altri forse meno celebrati, quali l'asso degli Spitfire, il sergente George Unwin.

     

     

    nr_26_10.jpg

    Anche se lo Spitfire è indubbiamente meglio conosciuto per le sue imprese contro la Luftwaffe nella Battaglia d'inghiiterra, non meno determinante fu il suo successivo contributo allo sforzo bellico allorchè, agli ordini del Fighter Command, venne impiegato contro le potenze dell' Asse su tutti i fronti.

    Questo volume è dedicate alle gesta dei piloti che affrontarono e sconfissero le agguerrite formazioni della Luftwaffe in Europa occidentale e nel Mediterraneo,volando sugli Spitfire Mk VI, VII, VIII, IX, e XIV.

    Personaggi come Johnnie Johnson, Neville Duke e Donald Kingaby, oltre a una miriade di piloti meno noti provenienti da svariate nazioni sono ritratti in questo volume assieme ai loro inseparabili velivoli.

  8. Ritorno a Campomarino

    Inverno 1994.

    Sono in auto con Giulio Cesare Graziani e Umberto Bernardini alla guida.

    Stiamo andando a Campo-marino, paese del Molise vicino a Termoli, che, nel 1944, durante la campagna di liberazione nazionale, ebbe ad ospitare lo Stormo da bombardamento "Baltimore", il mio Reparto d'allora.

    La strada corre lungo il corso del fiume Bifemo, da cui per altro prese il nome la nostra pista di volo, fatta di grelle di ferro, larga poco più di quaranta metri, stesa sulla spiaggia di Campomarino, parallela al mare.

    Le altre vicine piste di Canne e Nuova, attaccale alla nostra, perpendicolari al mare, erano utilizzate dalla Caccia.

    Prima dell'inizio della piana di Termoli uno sbarramento ha creato un grande lago artificiale, utilizzato, finora, solo per l'energia elettrica.

    Al nord, con le splendide insenature che vediamo e i fili alberi messi a dimora sulle sponde, saranno probabilmente sorti insediamenti turistici.

    Nuovi posti di lavoro, nuovo benessere per il Molise, la più giovane regione d'Italia.

     

    mkre_c11.jpg

    Inverno 1944.

    Sono un Ufficiale in S.p.e., non il più anziano, non il più giovane.

    Sono, pertanto quello giusto per svolgere un compito sgradito a tutti, me compreso:

    smantellare l'accampamento di Campo Vesuvio (nel comune di Ottaviano di Napoli), precedente base dello Stormo, caricare i materiali ordinari sui nostri vecchi "Fiat 626" e aulocarri inglesi.

    Poi, con gli specialisti non di equipaggio di volo, avieri di governo e i cani, tra i quali un cucciolo tirato su a vino dalla 253° Squadriglia, trasferimento a Campo Marino, la nuova base operativa per missioni sui Balcani.

    Viaggiamo nel buio della notte.

    Sono sul primo automezzo, un "'626", accanto all'autista.

    Il finestrino è difettoso e, per quanti artifici io metta in essere, scende inesorabilmente e fa entrare un'aria gelida che rende penosissimo il lungo viaggio.

    Traversiamo l'Appennino.

    Paesi spettrali, all'apparenza deserti, privi di luci.

    Persone isolate, piccoli gruppi, ai bordi della strada, nei crocevia, ci chiedono un passaggio.

    Non è regolare, non sarebbe possibile, ma acconsento.

    Non me la sento di non dare una mano, in quelle condizioni in cui viveva l'Italia di quei tanto travagliali giorni.

    Qualche mese prima mio padre mi aveva accompagnato alla stazione Termini di Roma.

    Avevo un Foglio di viaggio per Bari.

    Molto avvilito, mio padre mi aiuta a salire sul carro merci, riservalo al personale militare italiano in trasferimento.

    Non posso non pensare alle raccomandazioni in Accademia di tenere sempre alla dignità e alla forma, che, nei viaggi in treno, consisteva, ovviamente, nell'occupare un posta di I classe.

    L'inseparabile valigia dell'Accademia, visibilmente segnata dall'Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, mi fa da sedile.

    Non ricordo con esattezza la località di campagna dove il treno, prima di Napoli, fu costretto a fermarsi. Fui obbligato a scendere su una strada bianca, sterrata, comunale.

    Veniva giù una pioggia leggera, noiosa, ma sufficiente per bagnarmi completamente.

    Valigia in spalla, seguii le indicazioni di un contadino per raggiungere una stanzioncina di una ferrovia secondaria che mi avrebbe portato a Napoli.

    Riuscii ad infilarmi in un vagone strapieno, in mezzo al chiasso e al vociare napoletano.

    Si recavano in città per racimolare il pane quotidiano.

    Riesco a raggiungere finalmente il Comando del Presidio.

    Rimedio, in dotazione, un giaccone di pelle, da autista, e l'indicazione di un posto letto in una scuola elementare, ubicata nei quartieri spagnoli.

    In un vicolo buio, prima di arrivare a conquistare la mia branda, mi colpisce una frase sprezzante di richiamo, rivolta in dialetto da una ragazzina, troppo truccata, ad una sua compagna che, automaticamente, nel vedere una divisa, si accingeva a proporre la sua compagnia intima:

    " ... Lascialo perdere ... non lo vedi che è italiano! ... "

    Aveva ragione, ero italiano.

    Non ero perciò in condizione di poter offrire un pasto a lei e alla sua famiglia.

    Non avevo "corned beef", ne "evaporated milk" e tanto-meno preziose sigarette.

    Da ragazzo, negli anni trenta, avevo conosciuto una Napoli ben diversa.

    Così anche quando ero in Accademia e nel primo anno di guerra.

    La sconfitta militare, i bombardamenti, la fame l'avevano completamente trasformata.

    Il giorno dopo ebbi ulteriori conferme, sotto tutti gli aspetti, tanto da indurmi a fare di tutto per mettermi in contatto telefonico con Campo Vesuvio, dove sapevo che c'era il mio Comandante Giulio Cesare Graziani.

    Questi operò rapidamente tanto da evitarmi l'inutile trasferimento a Bari e ottenere il nulla osta per la presa in carico dal mio vecchio Gruppo, il132°.

    Con un mezzo di fortuna finalmente raggiunsi il Reparto che stava effettuando il passagio sui "Baltimore".

    Ritrovai l' Asso Massimiliano Erasi, seduto su una sedia coloniale, con un largo cappello di paglia a protezione dal sole.

    Nell'estate del 1942 era stato mio istruttore di aerosiluramento a Gorizia.

    Con lui, Giulio Cesare Graziani, Rindone e Marescalchi, un formidabile terzetto di Ufficiali del Corso "Rex". Poi, Durante, Frustaci, Aprea, Biagiola, del mio Corso "Turbine" e "pinguini" dell' ''Urano'' e del "Vulcano". Ancora nuovi amici come Fagiolo, ex 51 ° Stormo Caccia e mio paziente istruttore sul "Baltimore" e l'indimenticabile Brolis, il carissimo Agostino, della covata aerosilurante di Marescalchi.

    Dopo il lungo periodo in ospedale a Gorizia, la lunga convalescenza, il periodo di Roma occupata dai tedeschi, ero di nuovo in un Reparto bellico, nel mio ambiente, nella mia seconda casa.

    Roma e Napoli, con la corruzione portata dalla fame e dagli Alleati, erano dimenticate.

    Sull'altro lato della stetta pista di Campo Vesuvio gli amici della caccia, anche loro impegnati nel passaggio sui nuovi velivoli ceduti dagli Alleati, prima di rientrare in zona operazioni.

     

     

    Inverno 1994.

    Sulla destra l'insediamento FIAT, poi i tornanti della vecchia strada statale Adriatica per entrare a Campomarino.

    Il paese, venendo dalla nostra direzione, non sembra cambiato.

    E’ rimasto come cinquantanni or sono.

    A sinistra una piccola balaustra panoramica sul mare, poi la piazzetta con la vecchia Chiesa.

    A destra la casa dello scomparso Barone Norante, ora Scuola elementare.

    Infine, proseguendo e superando il bivio per il nostro vecchio accampamento, la nuova moderna Campomarino, con il Palazzo comunale che guarda sulla piazza dove e stato collocato, nel 1983, il monumento agli Aviatori, ai nostri compagni, caduti nella Guerra di Liberazione.

    Parliamo con il Sindaco Ettore Catena e con l'Assessore Italo Casolino.

    Otteniamo piena disponibilità per una cerimonia commemorativa da tenersi il 18 o il 25 settembre p.v.

    Pasto veloce a Termoli da "Antonio" e poi ritorno a Campomarino.

    Graziani si ferma con il figlio del Barone Norante, mentre Bernardini ed io andiamo verso il mare, alla ricerca dei ricordi della nostra vecchia pista.

    A destra, sul ciglione, in luogo dell'accampamento sud africano, c'e il villaggio FIAT.

    Sotto il ciglione corre la nuova velocissima Adriatica.

    Lo stabilimento balneare, bar, ristorante, dove ci siano fermati nel 1983, in occasione dell'inaugurazione del pre-citato monumento, sono vuoti.

    Il proprietario si ricorda di noi.

    Ci offre un caffè, poi ci apre un'ampia vetrata sul mare.

    Tira vento forte, gelido.

    Bernardini lo affronta impavido in giacchetta, senza cappello.

    Io mi rinserro nell'impermeabile imbottito e tengo fermo il copricapo.

    E’ un vento che riconosciamo.

     

    mkre_c12.jpg

    E’ lo stesso vento che ci colpiva di fianco durante il decollo o l'atterraggio e rendeva più pericoloso il già delicato controllo del "Baltimore".

    Ci viene naturale evocare episodi, ricordi antichi.

    Su questa spiaggia, in questo paese, è rimasta una parte importante della nostra vita.

    In quel punto, dove ora c’è l'apertura della barriera di scogli protettiva, al ritorno da una missione, si è infilato in mare con tutto il proprio equipaggio, Biagiola.

    Dal paese la moglie lo ha visto morire.

    Ed ancora, il decollo, a pieno carico di bombe, l'improvvisa uscita di pista di Grazioli con il suo navigatore Petruzzelli.

    Purtroppo non ci vengono in mente i nomi dei due specialisti, chiusi nella vera e propria prigione, costituita dalla fusoliera del "Baltimore".

    Prima di sentire il rumore, si vide una grande palla di Fuoco innalzarsi a campanile nel cielo.

    Dei quattro uomini non rimase nulla.

    Come nulla è rimasto nella storia del nostro Paese a ricordare questa come tanti altri episodi oscuri.

    Non era Forse un "eroico bel gesto" accomodarsi nei propri posti di combattimento, giorno dopo giorno?

    Il "navigatore" non aveva via di scampo perchè posizionato tra le due eliche.

    Il "pilota" lo stesso, anche se in apparenza poteva sembrare quello privilegiato.

    L'antenna della radio dietro il posto di pilotaggio sarebbe stata, inevitabilmente, un'arma letale.

    E se questa non bastava, c'era la corta fusoliera e gli imponenti piani di coda.

    Non parliamo degli specialisti di bordo, costretti ad infilarsi da uno stretto buco nel ventre dell'aereo e, come abbiamo, purtroppo, potuto osservare, senza possibilità di scampo in caso di incidente o combattimento aereo.

     

    mkre_c13.jpg

    Il campo sportivo è sempre nello stesso luogo, nel vecchio paese, accanto al cimitero.

    Ora è contornato da gradinate e da una tribuna.

    Anche qui venne combattuta una battaglia.

    Una battaglia che, istintivamente, nacque da un'infinità di frustrazioni represse.

    Una salutare battaglia a "cazzotti" contro i sudafricani che, pur essendo terminato il loro turno, non volevano lasciare libero il campo.

    Giulio Cesare Graziani, come suo costume, sempre in prima linea, seguito da tutto il personale presente, si buttò gagliardamente nella mischia.

    Dall'accampamento, specialisti ed avieri, non appena informati, accorsero numerosi, qualcuno anche con le armi.

    Conclusione: un sudafricano rimase sul terreno.

    Probabilmente nel suo Paese sarà ricordato come "morto per la Patria"

    Dopo l'inchiesta e l'accertamento della verità ricordo l'imperturbabilità e la naturalezza con la quale il Comandante inglese dello "Wing" organizzò un cocktail per sancire la pace ufficiale tra i due Reparti ai suoi ordini.

    Ed ancora l'ospitalità offerta al personale, durante le feste natalizie, in povere semplici case contadine dove, intorno al caminetto a legna, dominavano i ritratti in divisa dei mariti e dei figli.

     

    Indimenticabili le tende "Moretti" costruite per i climi caldi.

    L’umidità creata dal terreno argilloso e il freddo intenso di quel duro inverno 1944/45 sono albergati ancora, in via permanente, nelle nostre ossa.

    Man mano ogni tenda, con l'aiuto dei nostri magnifici specialisti, si era attrezzata, per superare il freddo inverno, con un fusto di benzina, tagliato in basso come una bocca di caminetto.

    Dentro mattoni da costruzione sui quali, attraverso un tubicino da carburante, munito di rubinetto graduabile nell'apertura veniva ovviamente incendiata e tenuta accesa dal flusso metodico del carburante.

    In pratica si dormiva stesi sul pagliericcio sempre bagnato delle brande, ma in un'atmosfera calda.

    Nel caso di guasto dell'impianto di riscaldamento, le norme di ... sicurezza erano costituite dalla prontezza di riflessi e dalla fuga.

    Avevo anche un comodino, costituito da un rocchetto di legno, abbandonato, di cavi telefonici.

    Gli Ufficiali specialisti Mastrolorenzi e Bernazzani, quest'ultimo già marconista dell'aereo di Mussolini, avevano surclassato tutti e raggiunto il "top" della raffinatezza antiumidità.

    Avevano costruito una tenda pensile, con i paletti di sostegno poggiati su quattro fusti di benzina, uniti e tenuti fermi da grelle di Ferro come quelle della pista di involo.

    Le grelle, a loro volta, erano rivestite da una moquette, costituita da vecchie coperte militari.

     

    La fine delle operazioni, la fine della guerra.

    L'ultimo volo venne effettuato il 5 maggio 1945.

    Un ordine radio, mentre eravamo in pieno Adriatico, ci fece invertire la rotta e scaricare in mare la dotazione di bombe da caduta.

    Era una giornata di sole.

    Al rientro, in vista della pista, sorvoliamo Campomarino in una formazione davvero insolita e stravagante: gesto di esultanza per la fine della guerra, che è costata tanti sacrifici agli aviatori italiani, a tutti i combattenti del sud; sacrifici che purtroppo, dovremo amaramente vedere in gran parte vanificati con le dolorose mutilazioni territoriali imposteci dal trattato di pace.

    Scaccio questa angosciosa considerazione dalla mia mente e la sostituisco con una visione di un campo di ulivi nei giorni del raccolto, con nostri avieri che, frammmisti alla gente del posto, aiutano a stendere i teli, a far cadere le olive e colmare gli appositi cesti.

    Sono giornate serene.

    E’ il primo raccolto di pace, dopo cinque anni di aspra guerra.

    Ed è anche il segnale che la vita sta rinascendo.

    Molti, però, rimarranno per sempre a Campomarino.

    Sono i miei compagni aviatori caduti nell'adempimento del dovere e, purtroppo, dimenticati da quanti alla guida della Nazione avrebbero avuto l' obbligo morale di onorarne perennemente la memoria, così come di tutti i soldati morti, non importa in quale guerra, non importa su quale fronte, nel sacro nome della Patria.

     

    P.Ammannato

    Aeronautica, aprile 1994

  9. @ dave97: ma è tratto da un libro o t è capitato veramente?

    È un bellissimo passaggio tratto dal libro di Guido E. Bergomi

    La mia vita in aeronautica…

     

    Complimenti, e benvenuto tra i pinguini!!!! <_<

    PS: visto che esiste un apposito topic dedicato al “Primo Volo” potresti approfittare per raccontare la tua avventura in modo più dettagliato!!! <_<

  10. leggete il bel libro che gli ha dedicato Nico Sgarlato per le edizioni Delta, è il meglio che si trovi in italiano....

    Già fatto !!!

    In realtà mi ero appostato la sera prima della sua uscita, davanti all'edicola! :rotfl:

     

    chiedo scusa per il doppio post..mi sono incasinato con la funzione Modifica :pianto:

  11. Non capisco dove siano le imprecisioni sul B70: il primo volo andò proprio così, ....

    Beh ad essere onesti il primo volo non andò proprio così!

    Con il carrello fuori per un problema idraulico, è difficile raggiungere velocità di 1.600km/h!!!

    Comunque !!!

    la storia delle imprecisioni non è una critica alla rivista che all’epoca era il Top.

    Ma semplicemente un modo per ironizzare sulla cosa!!!! ;)

  12. scansione002mi6.jpg

    Jon Lake è impiegato come redattore in una casa editrice britannica di pubblicazioni aeronautiche e ha collaborato con articoli e fotografie a molte riviste del settore.

    Aerei e fotografia sono sempre stati la sua passione, con un interesse particolare per gli aerei sovietici. Dopo aver conseguito il brevetto di pilota privato presso una scuola di volo della RAF, ha potuto volare su molti velivoli a getto per scattare fotografie 'aria-aria' e spera un giorno di poter volare anche sui MiG-29.

    "Non so se sarei più interessato a far fotografie o se mi farei tentare la mano per fargli fare qualche manovra, come quella fantastica scampanata", confida.

    Difficile capire se scherza o fa sui serio.

    Questo libro non avrebbe potuto essere pubblicato senza il generoso contributo, consiglio e incoraggiamento di moltissimi amici.

    In special modo, si ringraziano Jilly Foreman, Bill Gunston, il comandante Tony Paxton, Hasse Vallas, Bob Dorf, Denis J. Calvert. Pushpindar Singh, Emil Pozar, Bill Green, Gordon Swanborough, Mike Badrocke, Paul Blanchard, Allan Burney, Big Bill Beadsmoore, Patrick Bunce, Grant Race, Ian RentouL Robert Ruffle, Tom Wakeford, Dick Ward e Chris Allan.

    E inoltre grazie al commodoro dell' Aria Dan Honley e al signor Duncan Simpson della SBAC.

    L'autore ringrazia anche i colleghi Dave, Rod, Johnny, Lee e Paul per aver sopportato ore di conversazione sul Fulcrum.

    Spera di non aver scroccato troppe pinte.

    Ma soprattutto grazie a Rotislav Belyakov, Mikhail Waldenburg, Roman Taskaev, Anatoly Kvotchur e Alexander Velovic del Mikoyan OKB.

    La loro disponibilità e gentilezza sono state un beneficio inatteso a Farnborough 1988.

    Per gli appassionati di fotografia, l'autore confida di aver utilizzato una Canon T-90 e pellicole Kodachrome 64 e Kodachrome 200.

    Non sono noti i mezzi utilizzati dagli altri fotografi.

     

    -------------

    Oggi, in biblioteca ho rimediato questo volume. <_<

    Personalmente non apprezzo molto i libri fotografici, avrei preferito qualche foto in meno e qualche contenuto tecnico in più.

  13. mkrebookcielof1yi4.jpg

    I Quaderni di cultura aeronautica contengono argomenti di divulgazione aeronautica trattati in forma sintetica, ma completa.

    Costituiscono quindi delle piccole monografie che sono indispensabili a quanti si interessano di aeronautica e in particolar modo agli allievi delle scuole di volo e per gli specialisti, sia civili che militari.

    Questo IV quaderno contiene una esauriente trattazione illustrata della classificazione e della nomenclatura delle macchine volanti, argomento ancora poco conosciuto e finora inedito.

    Edizioni CIELO

     

    Il numero V è dedicato al Muro del suono , argomento spiegato in modo veramente semplice ed esaustivo.

  14. PRIMO VOLO VALKYRIE

    Il North American XB.70A VALKYRIE, l'aereo sperimentale destinate a fornire informazioni ed esperienze di fondamentale importanza per lo sviluppo dei futuri aerei civili e militari capaci di Mach 3, non ha convinto completamente i tecnici al suo primo volo.

    Il primo prototipo (620001), affidato al capo collaudatore della casa costruttrice Al White e al Ten. Col. Joe Cotton dell'USAF. è decollato il 21 settembre per la prima volta dalla pista della Edwards AFB.

    Durante il volo, nel quale sono state raggiunte velocità di 1.600 km./h., i piloti hanno riscontrato alcune gravi avarie, quali irregolarità nel funzionamento dei motori, che li costrinse a fermarne uno, e il guasto dei freni del carrello principale di sinistra.

    Allo scopo di non distruggere questo prezioso prototipo, oltremodo avanzato ed estremamente costoso, i piloti decisero di interrompere il volo e di atterrare sulla superficie liscia e compatta del lago asciutto di Muroc.

    Dopo aver toccato terra, il B-70 è riuscito felicemente a fermarsi in una nuvola di fumo provocato dal completo consumo dei pneumatici del carrello.

    Motori: sei General Electric Y J93-3 eroganti ciascuna una spinta di 15.000 kg.;

    carburante : JP-6.

    Dimensioni: apertura alare, 32,00 m.;

    lunghezza, 56,38 m.;

    altezza, 9,144 m.;

    peso massimo, oltre 250.000 kg ..

    Prestazioni: velocitità massima, Mach 3; raggio d'azione, intercontinenta

    tangenza, oltre 21.000 m .

     

     

    ....e che dire di questo trafiletto, presente sul numero di dicembre del 1964 ?

    certo oggi, possiamo dire che contiene qualche imprecisione!!!!!!!! :rotfl:

     

    Sullo stesso numero è presente un’interessante articolo,

    che presenta un nuovissimo team acro, molto promettente,

    dal nome un tantino insolito: Frecce tricolori. :adorazione:

  15. mkre36storief01db2.jpg

     

    l'argomento

    Oltre a costituire una delle pagine più esaltanti della nostra civiltà, la storia dell’aviazione rappresenta l’appagamento di un sogno: quello del dominio di una dimensione libera, nella quale le leggi che regolano l’esistenza ordinaria sembrano non aver più luogo.

    Uomini intraprendenti fino alla temerarietà hanno vissuto esperienze straordinarie, talora concluse con un imprevedibile lieto fine, talora dominate da una sorte avversa.

    Nell’uno e nell’altro caso, i protagonisti di queste imprese sono stati sfiorati dall’alea del destino e hanno visto da vicino il volto tragico e beffardo della morte.

    Nella grande storia del volo, ai pionieri e agli audaci che in condizioni di estremo pericolo si sono salvati contro ogni più ragionevole aspettativa, si contrappongono i più sfortunati, i martiri, noti e meno noti, di questa grande epopea.

    È a loro che questo libro, nato dallo sviluppo di due volumi del 1978,

    Voli misteriosi e Quando la morte è distratta,

    vuole rendere omaggio, ricordandone le gesta e il coraggio, lo spirito di sacrificio e il senso dell’avventura.

     

     

    l'autore

    Giorgio Evangelisti (Bologna, 1933) è pilota di aeroplani e di alianti, nonché pilota militare ad honorem, in riconoscimento del quarantennale lavoro in favore dell'aviazione, con conferimento del Ministero della Difesa (14 maggio 1998) su proposta dell'Aeronautica Militare.

    Giornalista dal 1958, ha al suo attivo pubblicazioni di argomento aeronautico su quotidiani e riviste specializzate italiane e straniere.

    Nel 1968 ha conseguito il Premio "Mario Massai" per il contributo alla diffusione giornalistica dell'aeronautica e dell'idea del volo.

     

    Ps: il post 1° italiano oltre il muro del suono è tratto da questo libro :adorazione:

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    - Sabbia e Rabbia -

    E’ il mattino del 26 ottobre 1942, sull'aeroporto di Bu-Amud, a Tobruk.

    Soffia un «ghibli» caldo e accecante; la sabbia sollevata violentemente dal vento ci investe, ci punge, penetra dappertutto, negli occhi, nella combinazione di volo, nelle tende, dentro i velivoli decentrati, in bocca.

    Ecco, in bocca.

    Siamo nel pieno della terza ritirata e mangiamo sabbia e rabbia;

    rabbia per la nostra impotenza a fermare l'avversario, dal quale ci difendiamo come possiamo, come dal «ghibli» che soffia impietoso e inesorabile, fischiando ed ululando, facendo oscillare la tenda della 92a Squadriglia caccia, dove siamo riuniti,piloti e specialisti ,ad esaminare l'ordine di operazioni arrivato poco fa.

    Esso prevede inizialmente una prima formazione di quattro Macchi C.200 da inviare in crociera di protezione fuori dal porto per un paio d'ore.

    Il capitano Sansone, comandante di squadriglia, ha già fatto l'ordine di volo, piloti designati :

    ten. Petrosellini, serg. magg. Pavan, serg. Moressi, serg. Pisano.

    Aspettiamo soltanto che la visibilità migliori un po' per partire.

    Il capo motorista serg. magg. De Zen e il suo vice serg. magg. Pistilli hanno scaldato i motori, con i filtri antisabbia ben chiusi.

    Il capo armiere serg. Mottola ha rifornito le mitragliatrici di nastri.

    Il cap. Sansone di tanto in tanto si affaccia per guardare fuori.

    Dentro la tenda si soffoca.

    Finalmente il comandante dice: «Potete partire».

    Ci avviamo agli aerei, schiaffeggiati dal vento e dalla sabbia.

    Il maresciallo Foti, capo montatore, mi aiuta ad indossare il paracadute e l’aviere Vendemmiati, marconista, mi assicura che le radio sono state provate su tutti i quattro velivoli.

    Il vento è ancora mollo forte, ma la visibilità è leggermente migliorata: si riesce a distinguere il limite opposto del campo, dove sono decentrati alcuni S.82.

    Salgo a bordo e, in piedi sui seggiolino, alzo il braccio destro e ruoto l'indice puntato verso l'alto per ordinare la messa in moto ai gregari.

    Partono tre motori soltanto: quello di Pavan non ne vuol sapere.

    Io, Moressi e Pisano, seduti ognuno nel proprio velivolo, guardiamo preoccupati i tentativi degli specialisti di farlo avviare.

    Niente, non va in moto.

    De Zen corre vicino a me e, urlando per sovrastare il rumore del mio motore al minimo, mi grida che non c'è niente da fare, che forse c'è sabbia nei magneti: bisognerebbe prendere un altro aereo, prepararlo, scaldare il motore ...

    Decido a malincuore di lasciare Pavan a terra e faccio segno con le mani a Pisano e Moressi di seguirmi nel rullaggio.

    Decolliamo insieme in «ala destra», ossia tutti e due i gregari a destra del capo pattuglia.

    Sù il carrello, iniziamo a salire: l'ordine prevede la crociera di protezione a 4.000 m a Nord dell'imboccatura della baia.

    Ci teniamo in contatto, i gregari ed io, con brevi cenni delle mani, dovendo rispettare il silenzio radio.

    A 1.000 m usciamo dal «sabbione» e ci troviamo fra i caratteristici cumuletti africani, che nella parte inferiore riflettono il giallastro del deserto.

    Ora la visibilità è ottima e a 3.000 m siamo nel sole pieno.

    Cominciamo a girare, guardandoci intorno: a 4.000 m ci troviamo un bel po' sopra le nubi sparse sottostanti.

    Sembra tutto cosi calmo: continuiamo la nostra virata e di tanto in tanto ci guardiamo l'un l'altro, camuffati come siamo con casco, occhialoni, maschera dell'ossigeno.

    Almeno quassù si gode un po' di fresco.

    Sorvegliando il cielo circostante, alzo lo sguardo, lo giro avanti e indietro, lo abbasso.

    E ho un sobbalzo: un bimotore, molto più basso di noi, appena sotto i cumuletti (quindi intorno ai 1.000 m) si sta dirigendo verso il porto.

    Sembra uno Ju.88 tedesco: ma se invece fosse un ricognitore nemico?

    Meglio accertarsene.

    Il bimotore entra ed esce dai cumuli: da 3.000 m sopra di lui lo distinguo appena e non sono in grado di vedere i distintivi di nazionalità.

    Faccio segno con la mano a Moressi e Pisano di iniziare l'affondata ma di non cominciare a sparare se non dopo che l'abbia fatto io.

    Durante la picchiata continuiamo a vedere il bimotore che, fra un cumulo e l'altro, si avvicina al porto.

    Quando siamo ad un migliaio di metri sopra e dietro di lui, improvvisamente, con una manovra rapidissima, fa un strettissima virata a tutto motore (si vede il fumo nero uscire dai tubi di scarico). Illuminate dal sole distinguo chiaramente le coccarde rosso-blu e la sagoma dell'aereo, un Martin Maryland (ne abbiamo visti molti, durante l'avanzata, abbandonati a Sidi Barrani; quindi una vecchia conoscenza).

     

    maryland_5.jpg

    Accendo il collimatore, tolgo la sicura alle armi.

    Virando seguito dai gregari, comincio a sparare.

    Dopo un po' anche Pisano e Moressi, leggermente scalati, aprono il fuoco.

    Il Maryland gira strettissimo, con le classiche scie di condensazione all'estremità delle ali, e sale cercando di infilarsi nei cumuli.

    A un tratto lo perdiamo, poi sbuca da una nube, in stretta virata a destra e si trova in coda a Pisano.

    Apre il fuoco con il cannone da 20 mm che ha nell'ala sinistra.

    Moressi ed io gli siamo addosso da dietro; lui inverte la virata, gira a sinistra ed entra nuovamente in una nuvoletta.

    Non c'e che dire: è un pilota di classe.

    Manovra il pesante bimotore come fosse un caccia.

    Mi infilo deciso fra due cumuli molto vicini, sperando di riacciuffarlo.

    Giro la testa, cerco Moressi e non lo vedo più.

    In mezzo alle nubi, ci siamo distaccati, così come è rimasto distaccato Pisano.

    Forse lo stanno cercando, come faccio io, per conto loro.

    Eccolo nuovamente, diritto in salita, avanti e sopra di me, con prua verso il mare aperto; probabilmente pensa di averci seminati.

    Gli corro dietro, cercando con gli occhi i gregari.

    Non li il vedo: sono solo con lui.

    Gli sono in coda, ma il mitragliere dalla torretta binata apre il fuoco.

    Faccio un «S» per evitare che mi inquadri e, in virata provenendo dalla sua destra, gli infilo una raffica nell'ala.

    Il Maryland gira dalla mia parte di colpo, strettissimo:

    è una manovra da maestro, per rendermi il puntamento quasi impossibile.

    Con le mascelle serrate «tiro» disperatamente e riesco a stare dentro la sua virata; vado per sparare ancora, ma tutte e due le armi si inceppano.

    Continuiamo a girare strettissimi, io dietro a lui, mentre tento disperatamente, azionando le leve di riarmo, di rimettere in funzione le due mitragliatrici.

    La giostra continua e io lavoro come un matto fra cloche, manetta, comandi delle armi.

    Finalmente, riesco a far partire una raffica da una sola mitragliatrice.

    Una seconda raffica e subito il suo motore destro è una palla di fuoco.

    La sua velocità diminuisce immediatamente.

    Vedo lo sbuffo del fumo bianco dell'estintore uscire dal motore destro e l'elica fermarsi in bandiera.

    Il mio valoroso avversario è riuscito a fare correttamente anche la manovra d'emergenza per tentare di estinguere il fuoco.

    Ma dal serbatoio forato continua ad uscire carburante che brucia; un lungo fumo nero segue il a Maryland.

    Ormai vola con la prua verso terra; mi avvicino e gli faccio segno di seguirmi.

    Il pilota annuisce: ha capito che è ormai conclusa ogni possibilità di rientro alla sua lontana base.

    Porto la mano al casco nel saluto militare per esternargli in qualche modo la mia ammirazione.

    Il crepitio improvviso di una raffica (sono vicinissimo al Maryland) mi scuote: il mitragliere dalla torretta mi spara, da una distanza di pochi metri.

    Viro di colpo, mi allontano un po' e quindi indirizzo una raffica obliqua con l'unica arma efficiente verso la fusoliera, più o meno in corrispondenza della postazione del mitragliere.

    Il Maryland abbassa il muso e si infila nelle nubi.

    Lo cerco ancora disperatamente, picchiando anch'io, seguendo la scia nera del suo carburante che brucia.

    Ma anche la scia, alla fine, si confonde con le nubi e poi con la sabbia sollevata dal «ghibli» che continua a soffiare impetuoso.

    Sotto le nubi, a cinque o seicento metri, la visibilità è molto scarsa; niente da fare, l'ho perduto.

    Mi mordo le labbra dalla rabbia e mi accingo a rientrare: non è facile, perchè ci si vede pochissimo.

    Intravedo il molo di Tobruk, le navi in rada.

    Ecco, Bu Amud è a Sud-Est.

    Arrivo sopra, distinguo a malapena alcuni aerei decentrati: giù il carrello, giù i flaps, faccio un avvicinamento con molta prudenza, sballottato da continue sberle di vento.

    Sorvolo una carcassa di G.12 in fondo al campo e finalmente sono con le ruote a terra.

    Rullo lentamente lungo il bordo della superficie aeroportuale e finalmente arrivo al decentramento della 92a Squadriglia.

    Tutti mi corrono incontro, bianchi di sabbia fino ai capelli.

    Pisano e Moressi hanno già atterrato da qualche tempo e sono ansiosi di sapere.

    Fermo il motore, scendo dall'aereo e ci avviamo insieme al comando dell'8° Gruppo per il rapporto.

    Intanto racconto i fatti a loro due che, isolatamente, sono rientrati, soprattutto per far partire una nuova formazione per la crociera di protezione che dovevamo fare noi.

    Trovo il comandante del gruppo, magg. Sacich, al telefono.

    Poi mi fa cenno di avvicinarmi, ascolta il mio breve concitato racconto e subito dopo mi dice che il comandante dell'aeroporto, ten. col. Sostegni, gli ha comunicato che il Maryland ha atterrato col carrello retratto sulla spiaggia, a pochi chilometri da noi.

    Corro dal medico e con l'ambulanza ci precipitiamo, sulle piste sabbiose, verso la spiaggia indicata.

    Arriviamo che alcuni soldati stanno tirando il pilota ferito fuori dal Maryland quasi intatto (il fuoco evidentemente si è spento da solo) piazzato col muso sulla battigia e la coda in acqua.

    Mi dicono che è l'unico superstite: gli infermieri corrono con la barella.

    Lo adagiamo con precauzione, perchè il sangue gli cola dalla schiena.

    Il tenente medico gli tampona alla meglio la ferita.

    Il mio leale avversario è in «battle dress» grigio azzurro.

    Sulle spalline i gradi di Flight Officer e la scritta «New Zealand»: un tenente pilota neozelandese biondo, con gli occhi chiari.

    Mi guarda e capisce a volo: io sono «quello».

    Mentre l'ambulanza corre verso Tobruk, gli tengo stretta la mano, gli asciugo la fronte madida di sudore.

    Mi guarda e parla con fatica: ci intendiamo in francese e le nostre non sono le parole di due nemici.

    Aerospazio, luglio 1984

  17. Nelle notti di pioggia ascoltavamo i dischi di Glenn Miller e tostavamo tramezzini di formaggio sulla stufa a carbone nella baracca del capo squadriglia.

    Se durante il giorno avevamo avuto fortuna, marchiavamo un'altra svastica sulla porta con un ferro rovente.

    Ogni svastica rappresentava una vittoria in combattimento e alla fine del mio turno su quella porta ce n'erano cinquanta.

    In quattro avevamo collezionato più della meta degli abbattimenti complessivi del gruppo.

    Durante l'ultima settimana di novembre divenni un doppio asso con undici vittorie in un duello che rimase storico, la più grande vittoria individuale americana della guerra aerea.

    Andy comandava il gruppo e io una delle squadriglie.

    Il nostro compito era di scortare altri Mustang diretti a Poznan, in Polonia.

    Portavano una bomba e un serbatoio ausiliario sotto le ali per attaccare dei depositi sotterranei di carburante.

    Li coprivamo volando a diecimila metri, mentre loro, armati di bombe, incrociavano più in basso.

    Sui radar tedeschi fummo scambiati per una flotta di bombardieri pesanti senza scorta e la Luftwaffe fece decollare ogni caccia disponibile in Germania orientale e in Polonia.

    Andy e io li vedemmo arrivare per primi; a ottanta chilometri o più, sembravano una nube nera sempre più vicina a noi.

    « Dio onnipotente, ce ne devono essere centocinquanta », esclamò Andy.

    Non potevamo credere a una simile fortuna.

    Andy ordinò una virata a sinistra e io mi trovai in testa; mollammo i serbatoi ausiliari e piombammo come falchi sulla retroguardia dei caccia tedeschi.

    Noi eravamo sedici e loro oltre duecento, ma presto altri Mustang dello stormo arrivarono a dare manforte.

    Cristo, c'erano aerei da tutte le parti.

    Ne tirai giù due subito; uno esplose, ma dall'altro si lanciò il pilota.

    Lo vidi saltare, ma aveva dimenticato di allacciarsi l'imbracatura del paracadute; gliela strappò via l'aria, ed egli cadde giù roteando.

    L'ho ancora davanti agli occhi.

    Un duello aereo ha un suo tempo particolare, non so per quanto mi avvitai e feci capriole nel cielo.

    A un certo punto mi ritrovai a seicento metri da terra dopo aver abbattuto quattro tedeschi.

    Tornato alla quota giusta, m'accorsi che ero rimasto solo.

    Ma fin dove mi riusciva di vedere, da Lipsia su fino al nord, la terra era cosparsa di rottami ardenti.

    Uno spettacolo spaventoso.

    In seguito scoprimmo che non avevamo neppure attaccato la loro forza principale: i tedeschi avevano mandato in aria 750 caccia contro quella che ritenevano un'imponente flotta di bombardieri.

    Andarono a sbattere contro duecento Mustang di tre diversi stormi e persero novantotto aerei.

    Noi undici.

    Salii a quota diecimila e vidi tre puntolini di fianco a me leggermente più in alto.

    Mi erano rimasti ancora un bel po' di carburante e di munizioni e avevo appena iniziato la virata per raggiungerli, quando udii una voce familiare:

    «Un nemico giù a sud ».

    Solo una persona poteva avermi visto da quella distanza.

    « Andy»,chiesi, « sei tu? »

    Era lui.

    E pazzi bastardi quali eravamo, volammo l’uno contro l'altro per lanciarci in un combattimento simulato, felici come pasque.

    Lui ne aveva abbattuti tre.

    Andy ci guidò verso casa e fu uno dei momenti più divertenti della nostra amicizia.

    Giravano dei venti piuttosto insoliti da prua e dopo un paio d'ore Andy, convinto di essere sulla Manica, cominciò a scendere.

    E noi dietro, completamente immersi nelle nuvole, fin quando ci trovammo di colpo proprio sulle postazioni contraeree delle isole Frisone.

    Penso che avremmo potuto camminare fino a casa su quegli scoppi.

    Il cielo ne era completamente oscurato.

    E noi li, a soli centocinquanta metri sopra quei cannoni.

    Quante ne dicemmo al povero Andy.

    Scese dall'aereo che aveva le orecchie rosse.

    E continuammo così per giorni.

    Cavolo, non gliel'ho ancora perdonata.

     

    Tratto da Vivere per volare

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    Rovistando nella cantina di un caro ed appassionatissimo amico, ho trovato qualche annata di questa datatissima rivista (1964 – 1969).

    Leggere gli articoli di firme come N.Sgarlato, G. Apostolo, G. Evangelisti è sempre un piacere.

    (ps: anche se , a causa dell'età, POTREBBERO contenere qualche imprecisione :rotfl: )

    Leggere la scheda tecnica del F100-super Sabre redatta da Evangelisti è veramente suggestivo. :adorazione:

     

    La ricognizione di un TU-16 Badger sulla portaerei KittyHawk in navigazione nel pacifico.

    L’aereo sovietico è scortato da due F-4B phantom II e da un F-8 Crusader.

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    Ok, le foto sono poco definite, ma considerando l’età…. <_<

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    AVIANO ANNI TRENTA

    L' entusiasmo per la Scuola Caccia nei ricordi di un pilota

     

    Nell’ aprile 1935 venni reclutato dall'Aeronautica Militare, per il mio periodo di leva, inviato al centro di Orvieto, e dopo quattro giorni rimandato a casa in licenza in attesa di destinazione.

    Poi via ad Aviano, alla Scuola Caccia: il sogno cominciava a diventare realtà.

    Il fatto di indossare un'uniforme, che a quel tempo si portava con orgoglio, non come ora che la portano come un abito da lavoro, dal quale ci si spoglia al termine dell' orario di servizio, e l'idea di andare alla Scuola Caccia, mi faceva sentire un poco privilegiato e dentro di me mi davo un po' di arie.

    Alla scuola trovai naturalmente i compagni che erano ad Orvieto e con tutti fu facile legare, dato che la passione era la stessa e l' entusiasmo uguale per tutti, ed in ognuno c'era l'ansia di intraprendere i voli, avvenimento che si verificò il 15 luglio.

    L' istruzione cominciò col Ba.25, col motore Linx a stella.

    Era questo un bell'aeroplano, ma non suscita in me un grande entusiasmo perchè in fondo era solo un poco più importante del Ba.15.

    Con questo velivolo volai circa tredici ore, delle quali cinque a doppio comando ed i resto per allenamento, con qualche doppio comando per acrobazia.

    Poi venne finalmente il giorno del CR 20, e qui le cose cambiarono decisamente, perchè questo era l'aeroplano dei miei sogni, che si presentava con la grinta di un vero caccia.

    E la sua personalità la dimostra subito ai primi voli, reagendo ai comandi nella giusta maniera (almeno cosi mi sembrava), solo quando sentiva che la cloche era tenuta da un pilota vero.

    Ma col mio istruttore, il mar. Morelli che faceva da intermediario, il CR 20 a poco a poco accettò la mia presenza con tanta bonomia e cominciammo ad entrare in confidenza.

    Certo era un aeroplano rustico, un po' scorbutico di carattere, anche in atterraggio con quel carrello molleggiato come una cassapanca di legno.

    Ma in fondo era burbero per fare un poco di scena e soprattutto per insegnare che in volo non si deve andare alla leggera.

     

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    Era talmente buono e comprensivo che perdonava tanti errori: troppo piede, bruschi movimenti sui comandi, controllo dei giri motore non sempre rispondenti alla manovra o all'assetto;

    lui sapeva sempre cosa fare quando l'allievo era nel pallone.

    Anche l'istruttore consigliava:

    "Quando non sai più cosa fare, molla mani e piedi che lui (il CR 20) sa come riprendere il giusto assetto". Questa regola era il toccasana e quando nelle prime manovre acrobatiche da solo non tutto filava liscio, bastava lasciare fare a lui (sempre il CR 20), che si rimetteva in linea.

    Qualche problema l'avevo con la vite, perchè io la cominciavo, ma lui la finiva a suo piacimento.

    Però col tempo e l'allenamento le cose cambiarono e tutto cominciò a filare meglio, compresi gli atterraggi fatti ormai con il CR 20bis, che non aveva più quel brutto rampone che arava il campo ad ogni atterraggio, perchè era dotato di un ruotino di coda ed il carrello era di un tipo più molleggiato.

    Però con il CR 20 diventai amico e quando lo misero da parte per volare col CR Asso, più elegante col suo motore in linea raffreddato ad aria, quasi quasi provavo nostalgia per quel testone di CR 20.

    Certo che con il CR Asso cominciai un addestramento di maggior interesse, perchè l'acrobazia veniva meglio, e dopo aver eseguito i prestabiliti voli da solo, ebbero inizio i voli in pattuglia.

    Prima pattuglia a due, e le prime volte dava una certa emozione avvicinarsi al capo pattuglia, che, col cenno della mano battuta sul parabrezza, indicava di avvicinarsi, fino a mantenere la distanza classica con la mia ala all'altezza dei timoni e lontano della larghezza dell'ala del capo.

    Fin quando il volo era in linea retta non c'erano difficoltà, ma quando si comincia con le virate allora la faccenda fu più entusiasmante, perchè si doveva lavorare di comandi e di manetta, per mantenere la posizione stabilita.

    Poi vennero le pattuglie a tre, ma quello che in seguito eccitò ancor più il mio entusiasmo fu quando cominciai le esercitazioni di finta caccia, prima puntando un palloncino che faceva di tutto per non farsi inquadrare e sempre sfuggiva all'impatto che lo doveva far scoppiare, e poi invece con un aereo pilotato da un istruttore e che si doveva inquadrare con la foto-mitragliatrice.

    Era questa l' esercitazione più entusiasmante anche se era la più difficile perchè ovviamente l'istruttore faceva di tutto per non farsi inquadrare nel collimatore.

    Per completare l'addestramento eseguii anche qualche ricognizione fotografica, poi atterraggi di precisione, quote ufficiali, ecc.

    Alla fine del corso ero proprio al massimo della gioia ed avendo superato tutte le prove, mi sentivo già un pilota da caccia ed il mio entusiasmo era sempre alle stelle, anche perchè sul nostro campo, ad eccitarmi ancor di più, venivano sempre i piloti dello stormo da caccia di base a Campoformido a far le loro dimostrazioni, isolate o in pattuglia, alimentando sempre più i miei sogni di volare presto con il loro CR 30.

     

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    Intanto, finito il corso, potevamo finalmente mettere sul petto quell'aquila d' oro con tanto di corona, propria dei piloti militari.

    Non mi sentivo certo alla loro altezza, o un loro pari, ma ormai ero uno di loro e questa piccola superbia la scontai ,infatti al termine del corso, un 'influenza o qualcosa di simile mi butto a letto in infermeria per una decina di giorni, proprio nel momento in cui venivano fatte le destinazioni ai reparti di impiego;

    cos’ addio stormo da caccia e fui assegnato al V Stormo d'Assalto di base a Ciampino Sud.

    Non si era mai parlato di questo stormo, di questa specialità, in quanto tutti noi ritenevamo ovvio che quando un allievo avesse seguito il corso alla scuola caccia, andasse logicamente a uno stormo di questa specialità.

    La mia delusione fu enorme: addio CR 30, addio pattuglie acrobatiche, addio a tutti i miei sogni, con questo animo partii per la nuova destinazione, con la coda fra le gambe ritenendomi punito per la mia superbia.

    Chissà, pensavo, anche cosa sarebbero servite le esercitazioni in finta caccia col CR Asso e le pattuglie a tre tutte quelle cose tipiche della caccia, all' Assalto che cosa si faceva?

    Ma!

    Arrivai a Ciampino Sud e fui assegnato alla 86a Squadriglia, comandata dal capitano Cartoni, la cui nobiltà d'animo ed il suo entusiasmo mi fecero capire che anche fuori dalla caccia si era piloti.

    Si raccontava, quando ero alla scuola Caccia di Aviano, mezzo secolo fa, che al comando dell'aeroporto di Campoformido arrivavano continui rapporti dei carabinieri, riguardanti le infrazioni commesse dai piloti dello stormo caccia di stanza su quella base.

    Questo era lo stormo dei nostri sogni, alimentati sempre dalle visite di quei piloti sul campo scuola a dimostrazione delle loro capacità.

    Era un'esaltazione continua e l'entusiasmo per la caccia diventava sempre più grande.

    Forse per noi allievi l'aviazione era solo quella.

    Ma per tornare ai fatti, i rapporti che pervenivano al comando erano soprattutto relativi ad una infrazione definita pericolosissima, che metteva a repentaglio la vita dei piloti e, peggio ancora, costituiva un rischio per il materiale dello stato: era quella eseguita dai piloti più spericolati (per gli estensori dei rapporti), che si divertivano a passare con l' aeroplano sotto le arcate del ponte sui fiume.

    Visti con l'occhio del pilota i fatti non erano poi così gravi:

    sì, un po' di ardimento ci voleva, ma nemmeno tanto, perchè le arcate del ponte non erano così basse e così strette, per cui l’aeroplano ci passava comodamente.

    Bastava un po' d'occhio, ma per il pedone nato coi piedi per camminare e non con le ali per volare queste manovre apparivano molto pericolose.

    Quando queste infrazioni divennero troppo frequenti, il comandante dello stormo fu costretto a prendere provvedimenti e, chiamati a rapporto tutti i piloti sul piazzale antistante l'hangar, impartì loro la dura ramanzina per renderli consapevoli del loro pessimo comportamento.

    E, sia come sia, la ramanzina fu impartita ed alla conclusione il comandante invitò i piloti responsabili di questi misfatti a fare un passo avanti perchè fossero tutti ben individuati.

    Tutti fecero un passo avanti, e dicendo tutti si intendeva dire che fra questi c'era il comandante dello stormo ...

    Ma ci si può oggi domandare:

    se non ci fossero stati questi ardimentosi, come sarebbero nate le famose pattuglie acrobatiche che fin da quei tempi entusiasmarono le folle di tutto il mondo, così come lo fanno oggi?

    E questo non era solo esibizionismo, perchè questo addestramento diede i suoi frutti durante l'ultima guerra, nella quale i nostri piloti si trovarono pochissime volte in condizioni di superiorità per numero e per qualità di mezzi, per cui solo l'abilità conseguita con l'addestramento consentiva loro di portare a termine le missioni loro affidate, con esito favorevole.

     

    A dire il vero di piloti squinternati qualcuno ce n'era;

    anche questi hanno avuto i loro bravi rapporti e le loro meritate punizioni, perchè non avendo un fiume e relativo ponte un po' isolato a portata di mano, trovavano un surrogato di questa struttura nelle linee ad alta tensione, che coi loro tralicci molto lontani ed i cavi tesi alti dal suolo.

    Sostituivano l'arcata del ponte, col vantaggio che erano più alti e più larghi.

    Come giustificazione con c'e male, se non fosse che, data la facilità della manovra, pensavano di complicarla inventando di fare il looping attorno alla linea.

    E tale manovra, debbo dirlo in tutta sincerità, era pura scemenza, e fatta una volta non si ripeteva più.

    Poi altre cose si facevano senza pericolo alcuno;

    sempre infrazioni erano ma, se non c'era nessuno a prendere il numero della carrozzella (così si diceva a quel tempo per indicare il numero scritto sulla fusoliera dell'aeroplano, tutto finiva bene senza danni per nessuno.

    Il gioco consisteva nel mettere le ruote a terra su una strada qualsiasi che presentasse un buon rettilineo, senza pali che la fiancheggiassero.

    Individuato il posta, il gioco veniva ripetuto da molti, fin quando, diffusa la calunnia, non si trovava appostata una pattuglia dei carabinieri, pronta a prendere ora e numero, per cui quello che ci capitava pagava per tutti.

    Questo gioco si poteva fare perchè a quel tempo le macchine non erano poi tante sulle strade, ma quando capitava che in fondo al rettitineo si aveva la sfortuna di incontrare una macchina od un carretto, ecco che scoppiava la grana.

    Per il pilota pericolo non c'era, perchè una tiratina di cloche sistemava tutto;

    forse non era la stessa cosa per chi si vedeva un aeroplano venirgli incontro.

    Queste erano le cose extra, le sperimentazioni individuali e personali che esulavano da ogni regolamento e da ogni addestramento, il quale invece era studiato in ogni manovra, sia da isolati che in pattuglia ed anche se ai non addetti ai lavori sembrava una pazzia, in effetti era solo una dimostrazione di capacità e di controllo delle nostre azioni.

    Se così non fosse stato, come si poteva fare il fanalino di coda stando a meno di un metro dalla coda del compagno di pattuglia senza mangiargli i timoni?

    E come avrebbero potuto i più bravi partire, manovrare ed atterrare legati l'uno all'altro?

    Queste cose tanto strane non solo erano per che le eseguiva, perchè in ogni momento la calma e la sicurezza di mantenere il controllo del velivolo erano il frutto di un'intensa preparazione, di un addestramento meticoloso che non lasciava nulla alla fantasia, unita ad una innata capacità di pochi piloti dotati di manico, come si diceva allora per definire gli assi.

    Erano davvero pochi ed io non ero di quelli…

     

    Ezio Dell’Acqua

    Aerofan, luglio 1990

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