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World War II Aces


Dave97

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adolf_galland.jpgKommodore ADOLF GALLAND - LUFTWAFFE -

Il più famoso, e sotto molti punti di vista il più grande, dei cacciatori tedeschi della seconda guerra mondiale fu Adolf Galland, che abbatté centoquattro velivoli alleati sul fronte occidentale: ciò fa di lui uno dei maggiori vincitori nell’elenco dei piloti della caccia

della Luftwaffe che combatterono contro gli inglesi e gli americani; da notare che egli raggiunse quella cifra nonostante che gli fosse stato proibito di combattere a cominciare dal dicembre del 1941 fino alla fine del 1944!

Era un comandante per sua stessa natura e, a trent'anni, aveva già avuto il grado di generale dell'Arma della caccia risultando cosi il più giovane ufficiale delle forze armate tedesche che rivestisse quel grado.

Combatté in Spagna, in Polonia, in Francia, in Italia, in Germania e si guadagnò le maggiori decorazioni della sua nazione: fu anzi il primo tedesco a ricevere la più alta di tutte.

Era uno dei pochi che avesse la conoscenza della guerra aerea sia al livello della prima linea sia a quello di comando.

Galland era nato nella città di Westerholt, in Westfalia, nel marzo del 1912; aveva tre fratelli dei quali altri due entrarono in aviazione e divennero ottimi piloti da caccia nella seconda guerra mondiale.

Il loro padre era balivo del conte von Westerholt, un incarico tenuto dalla famiglia Galland per quasi centottant'anni. (I primi Galland erano ugonotti francesi che andarono in Westfalia per sfuggire alle persecuzioni religiose, stabilendosi in Germania intorno al 1742.)

Adolf fece le scuole elementari a Westerholt, le medie a Buer e, affascinato dal volo a vela che allora era venuto di moda, decise di diventare un pilota delle linee civili; ottenuto il consenso del padre fece il suo primo volo quando aveva diciassette anni ma, sugli inizi, dovette faticare alquanto per imparare le tecniche del volo, come del resto era accaduto a parecchi dei più grandi piloti da caccia; superate queste difficoltà partecipò poco dopo a una gara di volo a vela, nella quale si comportò bene.

Nel 1931, ormai diciannovenne, completò i corsi di addestramento a Wasser in Rhoen; nel frattempo aveva ottenuto diversi notevoli successi nelle gare alle quali continuava a partecipare, finché non fu poi nominato, a sua volta, istruttore di volo a vela.

Ben presto divenne proprietario di un aliante e, dopo aver stabilito nella sua regione un primato di veleggiamento, sostenne l'esame per poter entrare nella scuola di volo delle linee civili della Lufthansa.

Tra le migliaia di aspiranti che parteciparono al concorso soltanto una ventina vennero accettati e Galland fu uno di questi; nel 1932, dopo aver completato con successo i corsi di pilotaggio, fece domanda di essere arruolato nelle forze armate, dove venne accettato (la piccola aviazione militare tedesca era ancora sub rosa, in quell'epoca).

Nel 1934 fu inviato in Italia per un corso segreto di addestramento, dopo il quale venne trasferito alla scuola di volo militare di Dresda, dove gli furono insegnate le acrobazie.

Nel 1935 fu assegnato al 2° Stormo da caccia della Luftwaffe, alla quale il cancelliere Adolf Hitler stava facendo avere una rapida espansione.

Poiché era ormai un pilota esperto cominciò a emergere nel suo ambiente e fu uno dei volontari che Hitler mandò in Spagna per aiutare la ribellione contro il governo repubblicano. Durante la guerra civile, nel 1937 e 1938, Galland non si fece una fama particolare, come cacciatore, il che accadde anche a un altro famoso pilota tedesco, Werner Moelders; portò tuttavia a termine trecento missioni volando sull’ He 51 con il quale si fece una grande esperienza nelle tattiche dell'appoggio diretto alle truppe e ricevette la Croce d'onore della campagna spagnola in oro e diamanti,che soltanto quattordici piloti si meritarono.

Durante la campagna di Polonia del 1939 compì settanta voli di guerra in ventisette giorni e venne promosso capitano.

Dislocato sul fronte occidentale quando, il 10 maggio 1940, Hitler lanciò le sue armate contro la Francia e i Paesi Bassi, conquistò la sua prima vittoria aerea in quelle zone il 12 maggio, abbattendo un Hurricane della RAF.

Quello fu l'inizio di una carriera piena di successi contro le Aviazioni britannica e statunitense, durante la quale Galland fu abbattuto molte volte, obbligato a lanciarsi col paracadute dal velivolo in fiamme e ferito dal nemico in diverse occasioni.

Per ordine personale di Hitler dovette restare a terra senza volare in operazioni e, quale riconoscimento delle sue novantasei vittorie, fu promosso, nel dicembre del 1941, generale comandante dell'Arma della caccia.

Nel 1940, al termine della battaglia d'Inghilterra, avendo abbattuto cinquantasette nemici era il pilota da caccia che avesse riportato il maggior numero di successi.

Nonostante che lo stesso Galland additi in Hans Joachim Marseille il più grande tra i cacciatori di guerra (ambedue dovevano divenire degli idoli per il popolo germanico), sono in molti quelli che pensano che invece non vi fosse nessuno che potesse stare a pari con lui.

I suoi combattimenti ebbero termine, tranne che per qualche occasionale missione, nel dicembre del 1941; per questo il suo risultato finale di centoquattro abbattimenti è tanto più notevole di quanto non possa apparire considerando l'elenco dei migliori assi tedeschi.

Non vi sono dubbi che fosse un pilota eccezionale, qualità che aveva già messo in evidenza all'epoca delle gare di volo a vela, oltre che un magnifico tiratore; per di più, non aveva chi lo superasse in decisione e aggressività.

Quando fu messo a terra non si trovava mai a suo agio e rodeva il freno finché non riusciva a fare un volo; nell'ultimo periodo della guerra tornò in azione alla testa di un gruppo di aviogetti, con i quali si batté contro una schiacciante superiorità numerica.

 

Nel 1941 Galland era Kommodore di uno dei due stormi da caccia lasciati in occidente per contrastare la RAF, dato che la maggior parte della Luftwaffe era stata trasferita sul fronte orientale per l'offensiva contro la Russia.

Il suo stormo occupava, con i propri gruppi, diversi aeroporti nella zona del passo di Calais e il Kommodore, in quell'epoca, era spesso alla testa dei suoi piloti per guidarli contro la RAF; venne cosi a conoscere qualche nome dei più noti assi britannici, alcuni dei quali incontrò personalmente, quando, abbattuti sulla Francia, accettarono il suo invito a pranzo.

 

 

Sfide nei cieli

 

Trudgian-galland.jpg

Il 21 giugno 1941 era un sabato; faceva caldo e il sole splendeva sullo stretto davanti a Dover.

Nei pressi delle coste del Kent e sulle coste francesi della zona del passo di Calais, tra Calais e Boulogne, erano dislocati, strategicamente, gli aeroporti avanzati della caccia, rispettivamente della RAF e della Luftwaffe.

La RAF aveva dato inizio all'offensiva con l'intenzione di dare un certo sollievo alle armate russe sul fronte orientale; perciò i suoi velivoli attaccavano in continuazione, di giorno, gli obiettivi situati in Francia.

Poiché la caccia di scorta (Spitfire e Hurricane) non aveva un notevole raggio d'azione, i colpi venivano di solito portati contro bersagli situati nei pressi delle coste e i caccia della Luftwaffe, stavano adesso esperimentando il ruolo opposto, attaccando gli incursori della RAF sulla Francia.

All'inizio dell'estate del 1941 soltanto due stormi della Luftwaffe, il 2° e il 26°, difendevano la Francia e l'Europa occupata contro gli attacchi della RAF che, nella stampa alleata, venivano chiamati «l'offensiva senza soste».

Kommodore (comandante) del 26° Stormo era il tenente colonnello Adolf Galland, che aveva il suo comando in una fattoria nei pressi di Audemberf.

La mattina del 21 ebbe inizio senza prodromi di azioni e non veniva rilevata alcuna indicazione di attività nemica.

Man mano che la mattina avanzava, la brezza aveva preso a soffiare sempre più forte dallo stretto mentre il sole scaldava le verdi, ondeggianti colline di Calais.

Galland era nervoso: il tempo era troppo buono.

Il suo stormo era composto di tre gruppi, ciascuno dei quali comprendeva tre squadriglie; la forza normale di volo di una squadriglia era da otto a dodici aerei perciò, impiegando tutte e nove le squadriglie, Galland poteva mandare in volo più di un centinaio di aeroplani.

Disponeva inoltre di una Stabschwarm (pattuglia del comando) di quattro caccia della quale egli era, normalmente, il comandante. (In generale, la forza complessiva di uno stormo poteva essere calcolata, in quell'epoca, di centoventi velivoli.)

Una squadriglia era basata a Audembert, con Galland, mentre le altre otto erano dislocate su altri tre aeroporti nei dintorni; il Kommodore faceva ruotare, ogni due settimane, le squadriglie sui vari campi in modo da poter fare una diretta, personale conoscenza di quanti più piloti gli fosse possibile.

Nel 1940 tutte le squadriglie del 26° Stormo erano montate sul Me 109, ma nel 1941 tre di esse, un gruppo , lo avevano sostituito col FW 190.

I Me 109 E stavano al riparo entro baracche di legno mimetizzate nella zona meridionale dell'aeroporto di Audembert, con il ventre pitturato di grigio o di un leggero color celeste che, visti dal basso, si confondeva con lo sfondo del cielo.

Montavano un motore a cilindri in linea, invertiti, il Daimler-Benz da 1150 Hp (DB 605) che trasmetteva la potenza a un'elica tripala la quale a una quota di tremilaseicento metri, dava al velivolo la velocità di più di trecentocinquanta miglia orarie.

I piloti della Luftwaffe ritenevano che i loro Me 109, più piccoli degli Hurricane e degli Spitfire, fossero più veloci del più veloce tra i due. (il Mark I Spit era dato per trecentocinquantacinque miglia orarie, ma a quattromilaottocento metri; in quell'epoca la RAF stava equipaggiando i suoi gruppi con il Mark II Spit, che poteva arrivare a trecentosettanta, mentre la Luftwaffe stava introducendo il Me 109 F che aveva una velocità di una ventina di miglia superiore a quella del precedente tipo E.)

La doppia massa di tettoie che nascondeva i 109 a Audembert era stata mascherata molto bene, al punto da confondersi tra le leggere gibbosità del terreno circostante; sui fianchi erano stati dipinti degli alberi e veniva fatto un largo uso di reti mimetiche tanto che solamente da bassa quota era possibile discernere quelle installazioni.

 

Galland, venne svegliato alle 7.30 di quella mattina.

Il primo ufficiale che gli si presentò fu il capo meteorologo, che gli dette la conferma di quel che aveva già constatato di persona e cioè che le condizioni di volo erano eccellenti, fornendogli anche le ultime notizie spigolate dalle intercettazioni del traffico radio e dagli interrogatori dei prigionieri di guerra.

(Il Corpo tedesco delle telecomunicazioni forniva informazioni molto utili sulle attività della RAF, scendendo anche fino a particolari minuti quali il nome del comandante di gruppo che era stato inviato in licenza.)

Nonostante il suo nervosismo, pareva che sull'altra sponda dello stretto non vi fosse in vista alcuna novità.

Si rassegnò quindi a occuparsi delle scartoffie, un lavoro che si riferiva all'attività del venerdì, tanto per far passare il tempo: le dieci, le undici, mentre all'esterno la temperatura saliva.

A parte la momentanea messa in moto di un motore per qualche piccolo controllo, gli unici rumori che gli giungevano dalla finestra aperta della casetta erano quelli del vento, il ronzare degli insetti o il canto degli uccelli.

Però, nonostante questa tranquillità, Galland non riusciva a rilassarsi.

Ormai erano le undici e un quarto.

Il telefono prese a squillare: era un ufficiale della sala di sorveglianza, una baracca di legno costruita a un paio di centinaia di metri dalla porta d'ingresso, sulla sinistra.

Una voce disse: «In volo, verso Kent», e Galland rispose: «Vengo subito ».

In meno di un minuto stava già infilando la porta della sala operativa addetta alla sorveglianza del cielo nemico, che aveva le dimensioni di circa trenta metri per .trenta; sotto il soffitto a volta, ricoperto all'esterno dalle reti mimetiche che si allargavano da ogni parte, si trovava un gran numero di tavolini coperti di carte sulle quali venivano riportate le indicazioni fornite da una stazione di radar Freya dislocata sulla costa.

Galland passò dall'una all'altra carta e studiò poi la situazione finale, offerta dalla mappa generale sulla quale venivano combinati tutti i dati; il quadro complessivo era abbastanza chiaro.

Dopo aver ordinato l'allarme e disposto un'adunata dei piloti per le istruzioni del caso, se ne andò di furia avvertendo che voleva essere tenuto al corrente di qualunque cambiamento che si fosse verificato nella situazione.

C'era poco tempo disponibile perché la distanza era breve; gli specialisti stavano già controllando che i 109 avessero i motori caldi e fossero pronti alla partenza; il rombare distante cominciava a farsi sentire nella campagna e l'improvviso cambiamento nello stato di pace degli aeroporti della caccia fu tradito dalla frenetica attività che vi si rivelava: la tensione dell'azione imminente aveva cominciato a far sentire le sue unghie sulla piana tranquilla.

Nel frattempo Galland stava spiegando la situazione ai piloti radunati in tutta fretta nella fattoria:

«Sono state avvistate tre formazioni di bombardieri, probabilmente sotto la protezione della caccia, a tremila metri di quota.

Si ritiene che entreranno su terra a poche miglia a occidente di Dunkerque ».

Presa una carta continuò:

«Probabilmente li potremo intercettare tra questi due punti»

(indicò una zona verso oriente, alquanto sotto la costa).

«Tutte le squadriglie si stanno radunando. Se avremo tempo ne prenderò il comando in modo da avere una formazione concentrata, altrimenti attaccheremo in gruppi separati».

 

Vi furono alcune domande, ma il tempo era poco. Galland, avvolgendosi una sciarpa gialla attorno al collo, corse verso i velivoli, circondato da una quindicina di piloti: sarebbe stato alla testa della sua Schwarm di quattro, in aggiunta alla squadriglia di dodici.

Lo stato di allarme, Gefechtsalarm, era già stato diramato e quindi tutto il personale era già al proprio posto, accanto ai 109; Galland salutò il suo capospecialista, sergente maggiore Mayer, saltò nell'abitacolo del suo 109 F 2 già pronto e, dopo essersi legato le cinghie, mise in moto il motore premendo il bottone dell'avviamento.

Dopo un veloce controllo degli strumenti e dei volantini di comando dei compensatori e dei flap fece segno di esser pronto: uno specialista che si teneva vicino al velivolo alzò una pistola e sparò un razzo in aria; una piccola palla di fuoco verde si sollevò di una trentina di metri.

Galland chiuse il tettuccio, mollò i freni e spinse con la mano la manetta gialla che si trovava sulla sinistra; subito il motore prese a rombare e l'elica trascinò avanti il caccia mentre altri aeroplani si mettevano a seguirlo tenendosi a breve distanza.

Galland si spostò sull'orlo meridionale del campo, poi piegò a destra fermandosi sul limite orientale dell'aeroporto; gli altri tre velivoli che, col suo, costituivano la Schwarm erano accanto a lui e dietro di loro stava rullando rapidamente tutta la squadriglia, a coppie o in quattro, per prender posizione.

Erano le 12.24: Galland spinse a fondo la manetta e il 109 prese a saltellare sull'erba prendendo sempre più velocità man mano che la potenza del suo grosso motore trascinava il caccia leggero (due tonnellate e mezzo) fino a sollevarlo dal prato portandolo nel blu del cielo occidentale.

Dietro al Kommodore stavano decollando gli altri velivoli, agili e dal muso a punta, mimetizzati in grigio-verdastro e con le croci nere delle dimensioni di quasi un metro dipinte su ambo i lati delle fusoliere.

Galland spinge un bottone situato di fianco, sul cruscotto, e il carrello del suo aeroplano cominciò a rientrare; riduce il motore iniziando una lenta virata e, sempre facendo quota, chiama l'ufficio operazioni che risponde:

«Die dicken Hunde» (i cani grassi) mentre lui continua la sua rotta.

(I controllori tedeschi addetti alle sale radar indicavano le formazioni di bombardieri, o di bombardieri e caccia, con i nomignoli di « cani grassi» mentre quelle soltanto di cacciatori erano chiamate «indiani ».)

Galland chiude la presa d'aria dell'abitacolo, aggiusta il volantino che ha sulla sinistra per regolare il compensatore del piano di coda in assetto di salita e si mette in rotta per centodieci gradi; il suo 109, un Mickey Mouse come distintivo personale su un fianco, sale nel primo tratto a mille metri al minuto poi, man mano che l'aria si farà più rarefatta, rallenterà questa salita.

Galland calcola che gli occorreranno più di cinque minuti per raggiungere la quota che vuole avere per trovarsi al di sopra degli incursori in arrivo e cioè da quattromila a quattromila trecento metri.

L'indicatore di velocità, posizionato sul cruscotto davanti a lui, indica quasi quattrocento chilometri l'ora (la massima è di settecentocinquanta); Galland controlla che la temperatura del motore e dell'olio sia nei giusti limiti: il sistema tedesco è semplice perché le tubazioni e gli strumenti dell'acqua sono dipinti di verde, quelli dell'olio di marrone, quelli dell'aria di blu e quelli per la benzina di giallo; l'estintore d'incendio è invece pitturato di rosso.

Alza il coperchietto dei grilletti delle armi, per averle pronte, e accende la lampadina del collimatore: esattamente davanti al suo viso, sul rettangolo di vetro che misura dieci centimetri di altezza per cinque di larghezza, compare un cerchietto giallo-biancastro che gli dà la misura esatta dell'apertura alare di uno Spitfire (quasi undici metri) vista da cento metri di distanza.

Galland può sparare il suo cannoncino da venti millimetri, premendo col pollice un bottone nichelato proprio sulla punta della leva, e le due mitragliatrici da sette e otto tirando con l’indice il grilletto in alto, sul davanti della leva stessa, il cui manico, dall'impugnatura anatomica, è di color nero.

Adesso è pronto per l'azione; i 109 della Schwarm, con l'ogiva dipinta di giallo, si spingono sempre più in alto nel cielo, verso oriente; la squadriglia è in posizione dietro i suoi quattro caccia

2000 metri, 2200, 2400.

I bombardieri inglesi, dei Blenheim bimotori, stanno preparandosi per l'attacco a un aeroporto e sono già in rotta di puntamento; si tratta di Arques, presso St.Omer.

I Blenheim, viene informato Galland per radio, sono già a est, davanti ai caccia dall' ogiva gialla che stanno ancora facendo quota e così non vi sarà tempo per radunare l'intero stormo.

Il controllore di Wissant riferisce anche dell'avvistamento di grandi formazioni di scorta della RAF, che si trovano più alte dei bombardieri.

Galland accusa ricevuta e continua nella salita; la quota sale... 2700, 3000, 3400 e la rotta seguita è quella suggerita dai segnalatori a terra, che li fanno dirigere un poco più a sud.

Adesso la formazione nemica dovrebbe essere in vista e tutti scrutano continuamente il cielo davanti a loro; Galland si guarda alle spalle e continua diritto.

In prua può già scorgere St.Omer e, poco più in là, lungo una strada che piega a sud-est, c'è l'aeroporto: e le esplosioni delle bombe.

La base è sotto attacco; i bombardieri della RAF, che comincia adesso a vedere, sono su Arques a tremila trecento metri e, al di sopra di loro, vi sono delle formazioni di Hurricane e di Spitfire.

Galland e i piloti tedeschi, nel vedere il nemico, avvertono la tensione della battaglia imminente; danno motore in pieno per aumentare la salita e passare sopra i caccia britannici e mettersi in condizioni di poter effettuare un attacco in picchiata.

I 109 rombano portandosi sempre più alti rispetto ai bombardieri, che adesso iniziano una virata a destra: anche Galland comincia a virare a destra, sempre tenendo il velivolo cabrato, superando la quota dei caccia di scorta e, maggiormente, quella dei bombardieri che sono sotto di lui, sulla destra; sembra che questi abbiano finito la loro azione e che stiano mettendosi in rotta di rientro.

La Staffel è in posizione, ma i caccia britannici si trovano tra i 109 e i Blenheim: ce la farà a passare in mezzo alla scorta per buttarsi sui bombardieri?

Fino a quel momento nessun altro caccia tedesco sta ancora attaccando: bisogna passarvi dentro; preme il bottone della radio e comanda:

«Attacco!»

Si butta in picchiata sulla destra; le ali, nella virata iniziale, mettono chiaramente in mostra le croci nere e bianche e i 109 acquistano velocità sempre più decisamente, sotto la guida di Galland.

Scendono e, mentre picchiano rapidamente col muso tenuto fortemente in basso, i piloti hanno lo sguardo fisso in avanti attraverso il vetro del collimatore:

Spit e Hurricane, alti sopra i Blenheim, sembrano volersi lanciare al loro incontro con una virata fatta proprio sulla testa dei bombardieri, ma Galland non li degna della sua attenzione e passa come un bolide attraverso la formazione nemica a 650 km/h. Presi di sorpresa, i cacciatori della RAF virano strettamente per agganciare i 109; ma questi sono cosi veloci che sono già in basso, lontani da loro e in rapido avvicinamento ai «cani grassi ».

Galland tira leggermente la leva, avverte il defluire del sangue dalla testa, ma tiene gli occhi fissi sulla formazione nemica; uno dei bombardieri bimotori è un po' lontano dagli altri, sulla destra e si trascina un po' dietro i compagni: manovrando con i comandi mette il suo 109 in volo orizzontale e, sempre lanciato a tutta velocità, gli corre addosso sulla coda.

La distanza diminuisce rapidamente durante l'attacco deciso; il mitragliere della torretta superiore sembra che non si sia accorto di lui e Galland tiene gli occhi puntati attraverso il cerchietto luminoso, con le dita pronte a premere i grilletti... più vicino... più vicino.

L'ala del Blenheim diviene sempre più grande, ha adesso le dimensioni del diametro dell'indicatore luminoso; gli è addosso: pollice e indice premono !

Il cannoncino e le mitragliatrici rombano e vibrano e la mira è di quelle mortali: i colpi raggiungono in pieno il bombardiere che barcolla sotto la raffica mentre pezzi di lamiera ne saltano via: poi c'è una fiammata: benzina!

Galland è arrivato così vicino che deve virare di colpo per evitarsi una morte per collisione: piega sulla sinistra mentre le ali del Blenheim s'impennano e poi precipitano...

Il fumo lo segue, emergendo da grosse lingue di fiamma.

Un paracadute si apre, poi un altro: due, dei tre uomini di equipaggio, si sono lanciati e

non vi è stata nessuna raffica in risposta da parte della sessantottesima vittima di Galland.

Durante l'attacco ha perso di vista i compagni che si sono, ciascuno, scelti un bersaglio per proprio conto; la maggior parte della Staffel è impegnata con i caccia nemici, ma Galland è solo e, dopo aver scrutato il cielo, sale a tutto motore per portarsi ancora dietro ai bombardieri, più in alto.

Farà un'altra puntata se .i difensori nemici non intervengono; a poco a poco il velivolo solitario fa quota mettendosi al di sopra delle pattuglie dei Blenheim e della mischia dei caccia, che si combattono intorno a loro.

Galland riesce a tenersi fuori degli scontri e, raggiunti di nuovo i 3600 metri, è pronto a fare un'altra puntata; un'occhiata alle spalle... nessuno in vista.

Un po' più di quota ancora, supera i caccia nemici e di nuovo si lancia in picchiata; la velocità aumenta e lui passa, come un bolide, in mezzo alla mischia: questa volta, però, uno

dei piloti della RAF ha avvistata il Messerschmitt in candela e piazza in virata il suo Spitfire dando tutto motore e mettendosi al suo inseguimento.

Galland sta picchiando veloce e riesce a staccarlo, sempre tenendo d'occhio i bombardieri nemici attraverso il vetro del collimatore; si avvicina rapidamente mentre livella il velivolo a tutta velocità e decide di buttarsi sul comandante della formazione, passando così in mezzo ai Blenheim e prendendo di mira il velivolo di testa della massa di attacco.

Ha la velocità che gli occorre e manovra i comandi in modo da portare il 109 proprio in coda al comandante nemico, il cui velivolo s'ingrandisce nel collimatore mentre gli si avvicina tanto rapidamente che il mitragliere della torretta non ha nemmeno il tempo di prenderlo sotto tiro.

L'ala riempie il cerchietto luminoso, Galland preme i grilletti e, ancora una volta, i colpi del cannoncino e delle mitragliatrici penetrano nella vittima: è cosi vicino che gli sarebbe impossibile mancarla.

Concentra la raffica nell'ala destra e il fumo comincia a sfuggirne.

Galland perde un secondo a guardare il bombardiere mentre vira di fianco: il Blenheim comincia a barcollare... e cade fuori della formazione, sulla destra, lasciando dietro di sé una scia di fumo nero.

Ancora una volta l'equipaggio, o qualcuno di essa, si lancia col paracadute e Galland vede un ambrellone bianco, poi un secondo: è la vittima numero due, la sessantanovesima vittaria di guerra.

Zeng! Zeng! I traccianti gli arrivano dal di sopra, di fianco.

Un secondo per rendersi conto di questa nuova situaziane.

Fumo!

È stato colpito.

Ha un caccia dietro di sé!

Di colpo dà una pedata sulla pedaliera e sbatte la leva in avanti buttandosi in picchiata e virando, per sottrarsi all'attacco.

Il sistema d'iniezione di benzina del motore Daimler-Benz dimostra ancora una volta il suo valore mentre egli s'infila in un cumulo di foschia che, insieme con la sua manovra decisa, gli salverà la vita.

(I Messerschmitt 109 usufruivano di questo vantaggio tattico sugli Spitfire e gli Hurricane perché, nell'improvvisa affondata, la forza centrifuga interrompeva momentaneamente l'afflusso di benzina ai motori di questi ultimi; ma il Daimler-Benz aveva l’iniettore di carburante e, anche in quelle manavre, continuava a funzionare normalmente.

Quel breve momento e la distanza che ha preso, consentono a Galland di cavarsi d'impaccio: i piloti britannici tentavano spesso di annullare quel vantaggio, dei tedeschi facendo, un tonneau, a un rovesciamento mentre picchiavano nell'inseguimento.

Galland si dà un' occhiata alle spalle: è sfuggito allo Spit, ma ha perso molta quota e intanto, il vapore che fuoriesce ha lasciato una lunga scia bianca, una fumata quasi grigiastra che sembra quella emessa da un camino, dietro al suo F 2.

Si rende conta che è stato colpito nel radiatare destro e che il liquida di raffreddamento, ne sta uscendo, nel frattempo il motore comincia a surriscaldarsi.

Riduce la picchiata e, sempre guardandosi alle spalle, comincia a cercare un posta dove atterrare; il motore dà qualche accenno di noie e la sua temperatura sta salendo, rapidamente: deve aver perduto il liquido e, in tal caso, non può più farvi su alcun assegnamento.

Proprio davanti a sé vede uno spiazzo aperto in mezzo alla campagna, a un paio di miglia a est di Calais; lo scruta attentamente; è un aeroporto proprio quello di Calais-Mark.

Era talmente impegnato nel combattimento, che non ha potuto rendersi conto della sua posizione; il motore adesso zoppica disperatamente, rumoreggiando sempre più forte.

Galland riduce al minimo la manetta ma, proprio in quel momento, il Daimler-Benz si ferma del tutto: l'elica gira sempre più piano e poi si arresta.

Non ha più potenza !

Fortunatamente, l'aeroporto è esattamente davanti; si guarda alle spalle e visto che, grazie a Dio, nessun caccia nemico si è reso conto della brutta situazione nella quale è venuto a trovarsi il suo 109 cosi malridotto, Galland gira sull'aeroporto per potervi atterrare; continua a circuitarvi finché non sarà sufficientemente basso da potervi entrare, quando avrà ormai un centinaio di metri di quota.

Il Messerschmitt plana silenziosamente e Galland fa appello alla sua vecchia esperienza di pilota di aliante mentre la discesa viene segnata da una scia di vapori biancastri; non fa uscire il carrello, atterrerà sul ventre col tettuccio aperto, e intanto si prepara a lanciarsi qualora l'aeroplano dovesse stallare.

Planando veloce si tiene sulla periferia dell'aeroporto, poi fa la virata finale, si rimette in volo livellato e picchia, puntando col muso del velivolo il prato erboso.

Tira lentamente ,la leva, la velocità diminuisce sempre più e la quota anche, trenta metri, quindici, sei o sette... poi il contatto, la strisciata, uno scricchiolio.

Il 109 scivola sul terreno, sempre diritto,poi rallenta la corsa e finalmente si ferma.

Appena il caccia si arresta, Galland si alza in piedi nell'abitacolo e ne salta fuori velocemente, mentre il personale accorre da tutte le direzioni; lui è tranquillo perché sa di aver atterrato in mezzo ai tedeschi.

La sua prima richiesta alla folla che gli si stringe attorno è che venga subito avvertito, per radio, Audembert perché un velivolo da collegamento venga a prenderlo, il che viene fatto immediatamente.

(Audembert è a dieci miglia soltanto lungo la costa, verso sud-ovest.)

Fa un giro intorno al suo 109: l'elica è contorta, la pancia dell'aeroplano è tutta scorticata e il radiatore destro, a meno di mezzo metro dall'elica che si è ripiegata sotto il ventre, è malamente squarciato.

Lo Spit deve essergli arrivato addosso dalla coda e dal basso !

Galland risponde alle domande circa l’azione e racconta dei suoi due abbattimenti; il personale della base si prepara a spostare il 109 danneggiato fuori della zona di attività e intanto un Me 108 compare nel cielo, verso occidente: viene da Audembert e Galland ben presto è in volo per tornarsene alla sua base, sempre in tempo per far colazione, anche se un po' in ritardo.

Giunto al suo comando viene a sapere che pure il suo gregario, Hegenauer, è stato abbattuto; è stata una giornata piuttosto dura... due vittorie in pochi minuti, ma ambedue, lui e il suo compagno, sono stati abbattuti.

Il combattimento viene discusso con molta accuratezza dai piloti tedeschi, molto eccitati.

Dopo colazione Galland, del tutto illeso, se ne torna al tavolo di lavoro, alle sue scartoffie, ai suoi documenti segreti: il tempo si mantiene magnifico... ma certamente la RAF ne ha avuto abbastanza, per quel giorno.

 

Lavora fino alle tre, alle tre e mezzo, alle quattro: e poi...

Il telefono squilla: è L'ufficiale della sorveglianza radar.

Una grossa formazione sista nuovamente preparando sul passo di Calais; Galland corre in sala operativa e dà un'occhiata ai tavoli del radar... vi sono in vista alcune formazioni che stanno già dirigendosi sulla Francia; dai dati rilevati sembra che entreranno su terra a una quindicina di miglia verso sud.

Per la seconda volta nello stesso giorno Galland fa suonare il Gefechtsalarm e i piloti si precipitano per andare in volo; ma lui chi avrà per compagno?

Il suo gregario non è ancora tornato e non c'è tempo per stare a definire la questione: per una delle poche volte nella sua carriera di pilota decide di andare in volo da solo; questo è contrario alle regole tattiche della caccia, ma forse potrà riuscire a riunirsi al suo gruppo, quando questo sarà in quota.

Così, senza stare ad aspettare un gregario, Galland corre al suo Me 109 che nel frattempo gli è stato preparato (ne ha sempre due a sua disposizione) e ben presto solleva un nuvolone di polvere mentre rulla per decollare.

Quasi subito il solitario 109 si stacca dalla striscia erbosa e si slancia nel cielo occidentale, ancora azzurro.

Le quattro del pomeriggio sono passate da pochi minuti quando Galland vira verso sud, verso la zona sulla quale il nemico dovrà passare per penetrare in territorio francese; mentre il carrello sta rientrando fa un rapido controllo degli strumenti del cruscotto, prepara le armi, accende il collimatore: tutto è in ordine e allora continua la sua solitaria salita, sulla rotta che ha già preso.

Ben presto è a 3000 metri, 3500, 3600; chiama l'ufficio operazioni... la formazione nemica dovrebbe essergli dinanzi, a poche miglia, alquanto più alta: sembra che siano dei caccia.

Non riesce ancora a vederli, ma davanti a lui, in basso, compare Boulogne; il motore, spinto al massimo, continua a portare il 109 sempre più in quota, verso sud:

eccolo a 4500,4700,5100, sempre in rotta in modo da avere Boulogne sulla destro mentre continua la salita.

Scruta il cielo davanti... vorrebbe incontrare velivoli amici, prima dei nemici; a sud-est di Boulogne... dei puntini... sono degli aeroplani: li scruta con gli occhi magnetizzati da quelle macchioline che si stanno avvicinando... sono dei caccia; poi riesce a distinguere le sagome... sono dei Me 109!

È il primo gruppo del suo stormo!

Andrà a riunirsi a loro.

Ormai ha più di 6000 metri di quota, si mette in volo livellato e dirige il musetto giallo del suo aeroplano verso i compagni; ma sulla loro destra compare un'altra formazione.

Spitfire!

Ne vede soltanto sei e sono più bassi; ha il vantaggio della quota e,cambiando di colpo il piano che già si era tracciato in mente, vira leggermente a sinistra per andare a mettersi sopra di loro.

Forse potrebbe picchiarvi addosso a tutta velocità sfruttando l'elemento della sorpresa e, abbattendo l'ultimo della formazione, cavarsela prima ancora che gli altri possano rivoltarglisi contro.

Gli Spit sono adesso davanti a lui, più in basso e Galland si butta in una picchiata che dovrebbe portarlo in posizione proprio in coda al sesto caccia nemico: ma dovrà fare alla svelta.

La velocità aumenta e, mentre continua a perder quota, segue la situazione mirando da dietro il vetro del collimatore: l'ultimo Spit è in vista... ancora piccolo dentro il cerchietto giallo luminoso; tira leggermente la leva avvicinandosi a quasi settecento chilometri l'ora, poi si mette in volo orizzontale e piomba alle spalle del nemico.

il sangue defluisce dalla testa e, mentre esce dalla picchiata si sente premuto fortemente sul seggiolino; ma si sta avvicinando alla coda dello Spit che sta adesso divenendo sempre più grande nel cerchietto di mira.

I caccia della RAF si mantengono sempre alla stessa quota, dandogli tempo a sufficienza; gli undici metri di apertura alare coprono già il diametro del cerchiolino: cento metri. Galland preme i grilletti, il cannoncino e le mitragliatrici fanno il loro lavoro nel caccia nemico; alcuni pezzetti si staccano e si perdono nella scia; capisce quasi subito che il velivolo è perduto perché il fumo comincia a uscire dal motore: probabilmente il pilota non è nemmeno riuscito a capire che cosa gli sta accadendo.

Le ali dello Spitfìre si rovesciano e la terza vittima della giornata di Galland precipita verso terra: è la sua settantesima vittoria.

Subito riprende la picchiata per evitare di essere attaccato dagli altri.

Si guarda alle spalle, non vede nulla di allarmante e rimane a guardare ,lo Spitfire che precipita al suolo a poche miglia a sud-est di Bouiogne.

Contrariamente al suo solito 109, sui quale volava nella mattina, questo è sprovvisto di macchina da ripresa e lui vuol vedere dove lo Spitfire va a cadere.

Ma, così facendo, deve pagare il prezzo di quel suo attacco solitario.

Per la seconda volta nella giornata un rombare di sinistro auspicio lo prende di sorpresa:

zeng! zeng! zeng!

Sente benissimo e avverte che il 109 sta incassando dei colpi... molti colpi.

Un dolore improvviso nella testa, nel braccio destro.

Disperato, preso in trappola, Galland butta la leva in avanti e picchia in candela... via, poi la tira al ventre, virando.

Riesce a togliersi dalla linea di tiro, ma è troppo tardi; il 109 è stato gravemente danneggiato e Galland sanguina abbondantemente.

La manovra frenetica lo ha distaccato dai caccia che lo inseguivano, ma il motore sta vibrando e sbraitando rumorosamente: tra breve sarà andato del tutto.

Toglie i contatti per ridurre il pericolo dell'incendio che tutti temono: Specialmente i piloti del 109 che stanno seduti proprio davanti al serbatoio della benzina; l'aeroplano comincia a planare verso il suolo, silenziosamente, proprio come, nella stessa mattina, aveva già fatto un altro suo simile.

Sul lato destro dell'abitacolo e della fusoliera c'è un grosso squarcio attraverso il quale penetra l'aria; anche nelle alii vi sono dei buchi: la mira del caccia nemico è stata davvero mortalmente precisa.

Ma il 109 risponde bene ai comandi e Galland ritiene di poter fare un altro atterraggio sul ventre; è ancora molto alto, sopra i 5000 metri di quota e sta picchiando verso nord.

A un tratto, un segnale di pericolo: benzina e liquidi di raffreddamento filtrano sulla piantana; lui, con la testa e il braccio sanguinanti, se ne rende conto e capisce il pericolo.

Poi, bang! Ancora il nemico ?

Dà un'occhiata alle spalle, le fiamme si sono sviluppate di colpo avvolgendo la fusoliera.

Rimane quasi senza respiro mentre qualche lingua di fuoco gli si accende tra le gambe, da sotto e da dietro il seggiolino.

Deve lanciarsi !

Galland si slaccia le cinghie, alza la sinistra per sganciare la chiusura del tettuccio, ma la Kabinennotabwurf non funziona!

Il tettuccio non salterà via, qualcosa si è inceppato!

Spinge con tutte le sue forze, con ambedue le mani, ma il meccanismo non si muove e, intanto, il calore nell'abitacolo si fa sempre più forte.

Deve riuscire a lanciarsi o dovrà morirvi bruciato: spinge con tutta la violenza di cui è capace verso l'alto, mentre le fiamme cominciano a svilupparsi fin da dietro il cruscotto; non gli rimangono che brevi secondi, ma non riesce ancora ad aprire il tettuccio.

Con uno sforzo disperato si butta con tutto il suo corpo contro la chiusura dell'abitacolo e la porta anteriore finalmente si apre un poco; poi il vento la solleva, la ripiega all'indietro e la fa saltar via, nella scia dell'aeroplano.

Contemporaneamente Galland dà un colpo alla leva, si mette in piedi sul seggiolino e cerca di buttarsi fuori mentre il 109 si è messo in verticale, col muso puntato verso il cielo.

Riesce a uscirne in parte, ma il paracadute, sul quale stava seduto, rimane agganciato con una cinghia a un pezzo del tettuccio che non si è sganciato e che è rimasto bloccato nella sua sede.

Mentre sta ancora lottando, mezzo dentro e mezzo fuori, ostacolato dal vento che lo trascina, il 109 stalla, si piega su un' ala e poi cade in vite.

Galland ,ancora prigioniero, precipita con il velivolo in fiamme e la forza dell'aria lo sta premendo contro quella parte dell'abitacolo dal quale gli urge, invece, di staccarsi.

Il paracadute vi si è agganciato e lui tenta disperatamente con le mani e con i piedi, mentre cade e gira col velivolo, di staccarsene; ma è trattenuto tenacemente

Il caccia cade col muso verso terra, lui si sente bruciare i piedi mentre il colpo è scosso violentemente dagli ondeggiamenti della vite: per qualche strano e inesplicabile motivo gli balena in mente un complesso elettrico che aveva ideato: si tratta di una complicata. installazione che aveva previsto di fare a Audembert per la quale gli erano arrivati, proprio quella mattina, due motori nuovi di zecca; per alcuni istanti, in quei critici momenti, gli accade di fissarsi sul pensiero che non riuscirà mai a provarli.

È davvero strano il meccanismo con il quale la mente umana lavora !

Scalcia disperatamente mentre con le mani si afferra all'antenna della radio e fa un ultimo, disperato sforzo per liberarsi: a un tratto, senza nemmeno riuscire a capire come mai vi sia riuscito, si ritrova nel vuoto, senza più impacci.

È libero, precipita verso terra e rotola su se stesso mentre vi si avvicina rapidamente; con un senso di sollievo, ancorché sotto l'impressione del colpo subito, Gadland agguanta quella che crede debba essere la maniglia di apertura del paracadute e, appena in tempo, si rende conto trasalendo di quello che stava per fare: stava quasi per slacciarsi le cinghie mentre era ancora a mezz'aria.

Se avesse azionato la Schnelltrennschloss sarebbe caduto liberamente, senza paracadute.

Impressionato, agguanta con grande attenzione la maniglia di apertura (Aufreissgriff) e la tira; per un momento teme che il paracadute non funzioni poi, con un sobbalzo che lo mette in posizione quasi verticale e con i piedi verso il basso, la calotta si apre e lui si trova a oscillare avanti e indietro, dolcemente e senza rumore, mentre cala verso il suolo.

È un tremendo contrasto con la disperazione e il terrore di qualche momento prima; è ancora abbastanza alto e, sotto di lui, i campi del colore di un bel verde estivo si allungano in tutte le direzioni.

Si accorge che il suo Me 109, in fiamme, si sfascia al suolo a poco meno di un miglio di distanza e ripensa a quanto sia stato vicino anche lui a quella a fine.

Poi uno Spitfire fa la sua comparsa svettando per il cielo; sembra che stia prendendo delle fotografie della sua discesa; altri caccia nemici sono più lontani e li sente sparare.

Boulogne è chiaramente visibile verso occidente.

Sta scendendo su una fitta foresta; il vento lo trascina proprio verso i suoi margini, ma non può prender terra in mezzo agli alberi... giù, giù!

Il vento ve lo trascina contro, ormai vi si trova vicino e sta andando a finire esattamente contro una siepe.

Un grande pioppo gli si viene a trovare proprio accanto; vi passa sotto, ma la calotta si va a impigliare nei rami e poi si abbatte al suolo mentre anche lui, non più sostenuto, sbatte a terra violentemente; sente soltanto un gran dolore all'anca sinistra.

Per fortuna è caduto su una zona erbosa, umida e molle, altrimenti vi si sarebbe ferito in brutta maniera; ma anche cosi non si trova certo in buone condizioni.

Fino a quel momento non si era reso conto di essere rimasto molto ustionato; adesso però che si trova disteso per terra perdendo sangue dalla testa e dal braccio destro e con un'anca slogata, bruciacchiato in tutta la parte inferiore del corpo, comincia ad accorgesi di come è ridotto.

Fa uno sforzo per mettersi in piedi, ma non ci riesce: il fianco gli si sta gonfiando rapidamente e sente svanire le proprie energie; a mala pena può muoversi e, toccandosi, si accorge di avere delle schegge metalliche nella testa.

Rimane sdraiato dove si trova, guardandosi attorno con uno sguardo appannato; nota, a una certa distanza, un contadino francese e poi un altro, che si avvicinano lentamente.

Galland parla «Sono tedesco e sono ferito; per favore, aiutatemi».

Tra quelli che lo circondano c'è una donna e tutti sono persone anziane; uno dice:

«Morirà alla svelta, bisogna chiamare i tedeschi :se crepa prima che qualcuno arrivi a soccorrerlo diranno che siamo stati noi ad ammazzarlo ».

Galland che ha capito quanto hanno detto esclama: «Ich werde nicht sterben. Ich bin sehr kraftig ».

(Non morirò affatto, sono forte, io.)

I francesi lo guardano sorpresi; qualcuno si china su di lui, poi si mettono a trasportarlo alla fattoria più vicina e, quando finalmente vi arrivano, il ferito chiede: « Haben Sie etwas Cognac?»

In casa non hanno cognac: c'è soltanto un po' di acquavite in una bottiglia sporca, ma Galland ne beve ugualmente una lunga sorsata.

Uno dei vecchi esce e va a cercare qualcuno dell’organizzazione Todt del lavoro: sono i tedeschi più vicini che vi siano.

Dopo pochi minuti giunge un'automobile e, quando vede che sono dei connazionali, Galland si sente sollevato; questi domandano rapidamente: «Wohin sollen wir Sie bringen?»

Il ferito risponde che vuole essere portato al suo aeroporto, ma quelli dicono che è meglio che vada all'ospedale; dato però che insiste tanto ,lo aiutano a montare in macchina e lo depositano al comando del 26° Stormo, a Audembert.

Il suo arrivo causa eccitazione e sollievo; Galland riesce finalmente ad avere un cognac, un sigaro e comincia a sentirsi meglio.

Poi i suoi uomini lo prendono su e lo trasportano al vicino ospedale della marina di Hardingham dove il suo buon amico, il dottor Heim, gli toglie alcune schegge dalla testa e comincia a rappezzarlo.

Gli suggerisce di rimanere qualche giorno ricoverato, ma Galland si rifiuta di restare e, appena possibile, è di ritorno al suo comando: vuole mantenere il suo posto, anche se deve fare il comandante a terra.

 

Lo stormo aveva denunciato quattordici abbattimenti, in tutta la giornata: una vittoria considerevole; Galland ha aggiunto tre vittorie e ne ha portato il totale a settanta.

Nella stessa sera fu organizzata una specie di festicciola, proprio per far onore al bel risultato da lui conseguito: amici e ufficiali di grado elevato erano arrivati in volo per fargli festa e Galland vi partecipò tutto avvolto nelle bende.

Venne anche il suo amico, generale Osterkamp, che giunse da Le Touquet con una sorpresa, poi confermata da un telegramma ufficiale proveniente dal quartier generale del Fuhrer.

Il messaggio diceva: «lo conferisco a lei, primo ufficiale delle forze armate tedesche a ottenerle, le fronde di quercia con spade sulla Croce di cavaliere della Croce di ferro».

Era firmato «Adolf Hitler».

Cosi Galland fu il primo tedesco a ricevere quella decorazione: aveva già ricevuto .le fronde di quercia e, a quell'epoca, non si sapeva che vi sarebbero state, in seguito, altre decorazioni di guerra di valore superiore.

Con quel telegramma era però arrivato un ordine:

Galland non avrebbe più potuto partecipare ad azioni belliche senza la personale autorizzazione di Hitler.

Questo gli tolse una buona parte del piacere che la serata gli aveva procurato.

 

Tratto da : Sfide nei cieli

 

gallan3.jpg

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Rimase a terra soltanto dieci giorni.

Poiché non era giunto nessun ordine che cambiasse la sua posizione di «comandante a terra» aveva cominciato a pensare alla possibiilità di «provare in volo» un 109 mentre vi fosse in atto una qualche incursione nemica.

Così, il 2 luglio, mentre era in corso l'intercettazione di una grossa formazione avversaria, decollò per «fare una prova»;

gli incursori erano ancora dei Blenheim scortati da Hurricane e Spit e, ancora una volta, Galland si buttò da solo all'attacco.

Era una tattica pericolosa e avrebbe dovuto saperlo, ma non volava da una decina di giorni ed era eccitato per la frustrazione.

Piombò sui bombardieri, ne abbatté uno e poi impegnò combattimento con uno Spitfire che riuscì a colpire; in quel momento, però, il 109 solitario fu danneggiato da un altro Spit che gli stava alle spalle.

Si trovava di nuovo in un guaio serio e malamente ferito; fu soltanto la corazza che gli salvò la vita.

Riuscì a cavarsela e ad atterrare, ma appena sceso dall'abitacolo, ebbe un collasso per lo shock e per il sangue perduto.

La notizia di questo avvenimento arrivò ben presto al comando della Luftflotte e fu trasmessa a Berlino.

Nel frattempo Galland era stato ricoverato in ospedale dove, a riceverlo, il chirurgo disse: «Jetzt werden wir Sie fur eine Weile nicht mehr fliegen lassen ».

(Adesso le impediremo di volare per un pò di tempo.)

Il Reichsmarschall Goring venne a sapere della disubbidienza di Galland e lo seppe anche Hitler; quando il primo telefonò per sapere come mai non aveva tenuto conto dell'ordine specifico emanato dal Fuhrer lui aveva risposto di essere stato in volo per una prova del velivolo; ma questo non aveva convinto nessuno

«Sagen Sie es Hitler », aveva detto Goering e quello fu il primo accenno del suo doversi presentare a Hitler.

Si era in luglio e la grandiosa offensiva tedesca contro la Russia era in piena avanzata verso l’est, ma Galland ricevette ugualmente l'ordine di recarsi dal capo, a Rastenberg, nella Prussia orientale.

Vi andò in volo.

Hitler lo accolse con un sorriso:

«Bitte, wir lieben Sie; wir kunnen Sie nicht verlieren. Ich habe versucht,Sie zu schutzen. Sie haben gegen meine Befehle gehandelt, aber ich kann Sie verstehen. Wir haben nur Angst, Sie zu verlieren. Seien Sie vorsichtig!»

(Prego, tutti noi le vogliamo bene e non possiamo perderla. lo ho cercato di proteggerla, ma lei ha agito in contrasto con i miei ordini, anche se io posso capirla. L'unica paura che noi abbiamo è quella di perderla. Stia accorto.)

Questo era un rimprovero!!!

Hitler volle decorarlo personalmente delle fronde di quercia e delle spade, poi Galland rimase ospite di Goring per diversi giorni prima di poter tornare sul fronte occidentale.

 

Il totale delle vittorie di Galland si accrebbe rapidamente dalle settantuno del 2 luglio a oltre novanta verso la fine del 1941.

Nella seconda metà dell'anno, in agosto, mentre stava salendo verso quella cifra, il tenente colonnello Douglas Bader fu abbattuto presso l'aeroporto della caccia dove lui risiedeva con il suo comando.

Galland mandò una macchina da Bader perché venisse a prendere una tazza di tè da lui e lo ricevette come un nemico degno del massimo rispetto; quando fu invitato insistentemente a riferire il numero delle vittorie che aveva ottenuto (ventidue e mezzo) Bader, secondo quanto ha riferito Galland, non voleva dire la cifra: ricorda ancora la risposta, e cioè che il totale personale, in confronto di quello suo o di quello di Moelders, era una cosa modesta.

Galland gli fece visitare la base accompagnandolo lui stesso e lo lasciò anche sedere nell'interno del proprio velivolo spiegandogliene gli strumenti; poi, su richiesta di Bader, gli presentò un giovane pilota dicendogli che quello era stato il suo abbattitore, anche se la cosa non era molto sicura perché Galland stesso aveva, quel giorno, abbattuto personalmente due Spitfire.

L'incontro si ripeté, in seguito: i due cacciatori si trovavano però nella situazione inversa, dopo la guerra; allora era lui il prigioniero e Bader andò a interrogarlo.

Ripagò in qualche modo l'ospitalità ricevuta offrendogli una scatola di sigari

Alla fine del 1941 il totale delle vittorie di Galland era salito a novantaquattro e fu in quel momento che la morte del generale comandante dell' Arma della caccia, Werner Moelders, un altro dei maggiori piloti tedeschi, gli provocò il richiamo dal fronte perché Goering lo aveva nominato suo successore.

Aveva trent'anni quando divenne, così, il più giovane generale germanico e ben presto fu nuovamente premiato da Hitler, questa volta con i diamanti sulle spade e sulle fronde di quercia, decorazione ricevuta in complesso da meno di una trentina degli appartenenti alle forze armate tedesche durante la guerra.

Galland non era molto soddisfatto del suo lavoro di tavolino e s'interessò direttamente di qualche incarico speciale che, di tanto in tanto, potesse riportarlo al fronte.

Cosi, fu lui che guidò personalmente le formazioni che protessero ,le navi tedesche nel loro ben riuscito passaggio attraverso la Manica nel 1942;

nel 1943 fu ancora lui che si pose alla testa dei caccia che difendevano la Sicilia e poi a volare tra i primi sui nuovi aviogetti tedeschi, facendo quindi uso di tutta la sua influenza per l'armamento e la produzione di quei velivoli nel 1943 e nel 1944.

Tuttavia i duri rapporti che preparava sulle spiacevoli verità che venivano a galla, e che indirettamente portavano a influire sulla posizione del Reichsmarschall Rermann Goring e su quanto questi diceva, lo mise in aperto conflitto sia con questo sia con Hitler e, alla fine del 1944, venne rimosso dall'incarico.

Fu Hitler che mise fine a quella «sciocchezza, come lui la chiamava, dopo che il giovane generale era stato defenestrato e severamente ripreso da Goring; alla fine, anche questi si calmò, ma ormai si era giunti agli ultimi giorni e al collasso tedesco.

Galland prese possesso del suo ultimo incarico nel gennaio del 1945; organizzò uno speciale reparto da caccia (TV 44) montato sui nuovi aviogetti Me 262 al quale fece affluire i più esperti piloti di tutti i fronti.

Il velivolo portava dei grossi razzi, molto efficaci, ed era anche provvisto di un cannoncino: armi con le quali ottenne notevoli successi contro le formazioni di bombardieri e di caccia che in quell'epoca sciamavano giornalmente su tutta la Germania.

Galland si batté fino all'ultimo (il suo libro è infatti intitolato Il primo e l'ultimo) e in questi combattimenti fu ferito di nuovo.

Per sfuggire alla cattura, negli ultimi giorni della guerra aveva fatto trasferire i suoi aviogetti da Monaco a Salisburgo; ma li fece incendiare quando i primi carri armati statunitensi fecero la loro comparsa alla periferia della città.

Fu poi catturato e tenuto due anni come prigioniero di guerra, quindi rilasciato; un anno dopo se ne andò in Argentina dove gli era stato offerto un posto.

Nel gennaio del 1955 fece ritorno nella madrepatria.

 

Se Galland non fosse stato richiamato dal fronte alla fine del 1941 sembra probabile che il numero delle sue vittorie sarebbe salito moltissimo, anche se l'incarico di generale dell' Arma della caccia possa forse avergli salvato la vita, tanta era la sua aggressività in combattimento.

Due dei suoi tre fratelli, che furono anch'essi piloti da caccia nella Luftwaffe, rimasero uccisi durante la guerra dopo aver riportato rispettivamente cinquantuno e diciassette vittorie.

Non vi sono dubbi che egli sia stato uno dei più grandi piloti da caccia della secoda guerra mondiale e, tenendo presente le sue capacità di comandante, di capo e di pilota, si può dire che sia,probabilmente, il più eminente “Esperten” sopravvissuto della Luftwaffe

 

Tratto da : Sfide nei cieli

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Marsielles109TN.jpgTENENTE HANS-JOACHIM MARSEILLE - LUFTWAFFE -

Di tutti i piloti della caccia tedesca nella seconda guerra mondiale, quello che più decisamente eccitò la fantasia e l'immaginativa dei suoi concittadini, e che doveva divenire una leggenda paragonabile a quella di Douglas Bader nella RAF, fu Hans-Joachim Marseille.

Oggi viene considerato come il più grande di tutti i piloti della caccia della Luftwaffe da autorità come Adolf Galland, Hans Ring e da altri suoi camerati che volarono in Africa insieme con lui.

Alcuni degli avvenimenti a lui occorsi sono talmente incredibili che gli scettici delle nazioni alleate rifiutarono per molti anni di accettame la documentazione o anche soltanto di controllarla.

Quelli che ebbero modo di vederlo in azione lo classificarono già in una categoria a parte quale magnifico tiratore aereo; la sua mira era cosi precisa che il suo gregario, che assisteva alle sue vittorie, veniva chiamato col soprannome di fliegendes Zahlwerk ( macchina addizionatrice volante).

Il suo comandante in Africa, il colonnello Eduard Neumann : «Non c'era nessun altro come lui; riuscivo sempre a riconoscerlo dal modo in cui volava".

Il suo gregario, Reiner Poettgen,:«Era il più grande di tutti i nostri piloti».

Galland lo definisce: "un virtuoso, ineguagliato tra tutti i piloti da caccia della seconda guerra mondiale.

I risultati che ha ottenuto sarebbero stati definiti impossibili, prima che lui vi riuscisse".

Hans Ring, che ha parlato con un gran numero di piloti tedeschi che avevano volato con Marseille, dice che era il « più grande » di tutti gli « Experten» tedeschi.

La missione di volo descritta in questo capitolo è l'unico racconto di questo libro che si riferisca a un pilota scomparso; è stato possibile ricostruirla unicamente perché esistono ancora moltissime informazioni particolareggiate e testimoni oculari del volo che andremo a esaminare.

Il suo gregario è ancora vivo e abita a Colonia; il suo comandante è anch'egli tuttora in vita, a Monaco: ambedue erano in volo con lui durante quel memorabile episodio di cui ci si occupa in questo capitolo e ricordano, ancora oggi, persino qualcuna delle parole che allora furono scambiate.

Oltre a questo, uno dei piloti abbattuti in quel giorno da Marseille ha dato la conferma degli avvenimenti, visti dall'altra parte, mentre uno sguardo alle perdite che la RAF ha subito in quella data ha dimostrato che le vittorie pretese da Marseille sono del tutto vere.

Mi sono servito dei resoconti tedeschi di quel combattimento oltre che dei riconoscimenti confermati sulla base di quei rapporti, giungendo alla conclusione che le dichiarazioni di Marseille non sono state affatto gonfiate.

Quando ci si riferisce alle vittorie di guerra è ovvio che vi sia sempre la possibilità che le informazioni, che è poi possibile ottenere dall'altra parte alla fine delle ostilità, debbano alterare alquanto il quadro e perciò il risultato ottenuto da Marseille deve essere considerato tenendo presente questa eventualità, che è valida per qualunque altro pilota da caccia.

 

La carriera di Marseille fu molto breve.

Nato a Berlino nel 1919 frequentò le scuole nella capitale e aveva diciannove anni quando scoppiò la guerra.

Suo padre aveva prestato servizio, anch'egli nell'aeronautica, durante la prima guerra mondiale, e la famiglia discendeva da antenati di buona origine di ugonotti francesi.

Marseille prese il brevetto di pilota ed era già un giovane sottotenente sul fronte occidentale quando, il 10 maggio 1940, cominciò l'offensiva tedesca contro la Francia e i Paesi Bassi.

Era allora in forza al 52° Stormo da caccia e abbatté sette velivoli durante la campagna francese; trascorse quindi un breve periodo al 5° Stormo e poi venne trasferito al 27° Stormo poco prima della partenza per l'Africa di un gruppo dei suoi piloti; arrivò con loro nell'aprile del 1941 e, in qualcosa come poco più di un anno di guerra, abbatté centocinquantuno avversari.

La sua morte, avvenuta il 30 settembre 1942, giunse quando la Luftwaffe era pervenuta al massimo del suo sforzo in Libia.

Quanto valesse come pilota, per la Luftwaffe e per l'Africa Korps, può essere facilmente immaginato quando si pensi che soltanto nelle ultime quattro settimane di combattimenti, nel settembre del 1942, aveva abbattuto cinquantasette aeroplani nemici.

In questo ultimo mese ebbe la sua più grande giornata abbattendo diciassette velivoli in tre voli successivi; dopo la guerra vi sono state delle contestazioni riguardo a queste conferme e vale la pena di dare una scorsa agli avvenimenti di quel giorno.

Marseille raccontò di avere abbattuto due Spitfire e due Curtiss nella prima missione di volo del mattino; altri otto Curtiss (sia Tomahawk sia Kittyhawk) in un altro volo compiuto nella tarda mattinata su Alam el-Halfa e altri cinque Curtiss ,nel tardo pomeriggio, a sud di Imayid.

È stato detto che ha abbattuto gli otto Curtiss del mattino in dieci minuti e gli altri cinque in sei; i quattro del primo volo richiesero undici minuti.

Una così rapida e totale distruzione non era mai stata ottenuta prima di allora e sorsero interrogativi sia nella Luftwaffe, in quell'epoca, sia tra gli Alleati, dopo.

A guerra finita fu detto, controbattuto da parte tedesca, che la RAF non aveva perso tanti velivoli in tutto il Medio Oriente, in quel giorno, quanti Marseille pretendeva di averne abbattuti.

Tuttavia, la documentazione ufficiale registra tredici velivoli della RAF abbattuti e altri sei atterrati fuori campo perché danneggiati in combattimento: un totale cioè di diciannove; oltre a questi, altri caccia furono colpiti.

Dei diciannove, due erano Spitfire, otto erano Curtiss e nove Hurricane; dato che i tedeschi confondevano spesso gli Hurricane con i Curtiss non è possibile essere eccessivamente pignoli finché tutte le perdite della RAF nel Medio Oriente non siano state accuratamente controllate sia come tempi sia come località.

In altre occasioni, Marseille abbatté diversi velivoli del tipo dei Curtiss con grande rapidità e con pochissimi colpi: non sembra quindi logico concludere che non fosse possibile che avesse abbattuto parecchi Curtiss in pochi minuti.

L'evidenza dei fatti accertati dimostra che non solo avrebbe potuto farlo, ma che anzi lo foce in diverse occasioni; non bisogna dimenticare che il Me 109 sul quale Marseille volava era un caccia di tipo decisamente superiore ai Curtiss o agli Hurricane che erano allora impiegati nel Medio Oriente.

Le conferme date dalla Luftwaffe, oltre ai concordi pareri dei piloti che volavano con Marseille, sono elementi assolutamente positivi per affermare che le sue dichiarazioni erano del tutto realistiche

Soltanto pochi, tra i piloti alleati, tra i quali David McCampbell, della Marina degli Stati Uniti, e G.H. Dyson, della RAF, furono capaci di distruzioni paragonabili a quelle di Marseille, in un solo volo, McCampbell abbatté nove Zeke e ne danneggiò altri due nello stesso volo, nell'ottobre del 1944; come Marseille, McCampbell volava con un caccia di caratteristiche superiori, l’ F 6F, e gli Zeke avevano assunto una formazione difensiva non molto diversa dalla similitare adottata dai Curtiss nel Medio Oriente contro i 109, quella contro la quale la tattica di Marseille ebbe risultati cosi efficaci.

Dyson, impegnato nella prima campagna africana, nel dicembre del 1940, abbatté sei Fiat CR 42, uno dei quali precipitò su un bombardiere SM 79 facendolo a sua volta precipitare, dando così alla RAF il massimo ottenuto in un solo volo: sette abbattimenti.

La formazione denominata «Lufbery», che ebbe tanto successo nella prima guerra mondiale, sembra sia stata piuttosto vulnerabile, come manovra difensiva, contro piloti decisi e montati su velivoli molto più veloci di allora.

Una delle principali ragioni per i successi di Marseille, secondo quel che hanno raccontato coloro che hanno assistito al suo sviluppo, fu la cura tutta particolare che il colonnello Eduard Neumann, suo comandante al 27° Stormo caccia, mise nell'assisterlo nella sua audacia e nel trattenere le sue esuberanze.

Marseille fu trasferito al reparto proprio prima della sua partenza per l'Africa e aveva avuto qualche grana di carattere disciplinare sia al 2° sia al 5° Stormo; Neumann, che era allora comandante del gruppo e che divenne poi il Kommodore dello stormo quando questo fu riunito, ebbe molta pazienza nel seguire Marseille, il cui carattere si presentava decisamente riottoso.

Aveva allora ventun anni e, come già durante le scuole e la campagna di Francia, era ancora un tipo fuori del normale sia nel comportamento sia nell'aspetto; anche nel volo e nelle relative tattiche si comportava in maniera fuori dell'usuale commettendo spesso infrazioni a quelle che erano le norme ufficialmente ammesse.

Vestiva in maniera del tutto personale, era un appassionato del jazz, delle danze all'ultima moda, delle ragazze e, tutto sommato, avrebbe potuto divenire un grave problema sia nel campo disciplinare sia in quello morale.

Una volta, in Germania, aveva atterrato su un'autostrada; in Africa, preso dalla rabbia, era andato in volo e aveva sparato una raffica mirando nei pressi della tenda dove viveva un suo superiore che si era rifiutato di dargli degli incarichi per delle missioni di combattimento. Recentemente, parlando di Marseille, il colonnello Neumann osservava:

«Col suo coraggio avrebbe potuto essere un grave problema oppure un magnifico pilota da caccia. Nei primi tempi la sua personalità, oltre che la sua mancanza di disciplina, gli alienarono i sentimenti dei compagni. Però, quando si resero conto delle sue doti, della sua abilità e videro i risultati che otteneva, capirono le sue capacità di combattente, di comandante »

Neumann si ,rifiutò di lasciarsi dominare dall'irrequietezza della persona e fece uno sforzo, opportunamente calcolato, per guadagnarsi il rispetto e la confidenza di Marseille, riuscendo perfettamente nel suo tentativo.

È quello che accadde nella RAF con Bob Tuck, salvato da un probabile esonero dal pilotaggio, quando era ancora alla scuola di primo periodo, dalla comprensione dei superiori: anche il successo di Marseille fu probabilmente dovuto soltanto al fatto che Neumann intuì la poderosa capacità dell'individuo con il quale aveva a che fare.

Secondo quanto narrano i suoi compagni sopravvissuti, le tattiche di combattimento di Marseille erano estremamente audaci; attaccava anche in condizioni o in circostanze che, universalmente, sarebbero state riconosciute come sfavorevoli.

Quando i piloti nemici si chiudevano nella «Lufbery» per potersi difendere, lui non esitava a lanciarsi contro di loro; la teoria da tutti accettata era che chiunque attaccasse uno dei velivoli così circolanti sarebbe stato a sua volta attaccato dal pilota che era dietro .al velivolo minacciato.

Marseille era cosi esperto nel tiro che effettuava le sue puntate in picchiata oppure risalendo dal basso dopo una candela con la quale aveva preso velocità; molto spesso abbatteva uno dei velivoli in difensiva al solo primo passaggio, con una raffica di nemmeno un paio di secondi.

Qualche volta entrava addirittura nella fila del circolo nemico.

Un altro tipo di formazione che aveva l'abitudine di attaccare in quella che era considerata una posizione estremamente svantaggiosa era la «V»

Si avvicinava dalla coda, esponendosi così al fuoco dei gregari per poter colpire il capo, che si trovava al centro; piombava con velocità sufficiente per sfuggire alla reazione dei caccia nemici che venivano a trovarsi sui suoi fianchi e strappava la vittoria con una veloce, ben mirata raffica; questa tattica fu da lui impiegata in più di un'occasione.

La chiave del successo di Marseille era la quasi perfezione nel tiro aereo; abbatteva i nemici con un minimo spreco di munizionamento; il calcolo delle correzioni da apportare mentre picchiava, o mentre cabrava per colpire dal basso, era una sua specialità.

Esercitandosi continuamente era divenuto talmente preciso (e fiducioso in se stesso) nel tiro in manovra, che aveva studiato un sistema in base al quale sparava mentre il velivolo nemico, che virava davanti a lui, stava sparendogli sotto il muso del 109; dopo una breve raffica non prestava più attenzione alla vittima che aveva avuto davanti e si concentrava nella mira contro il caccia che lo seguiva nel circolo che aveva davanti a sé.

La sua abilità di pilotaggio era, ovviamente, fuori del normale.

Durante tutto quello che fu il suo ultimo anno di combattimenti, nel quale raggiunse più di centocinquanta vittorie e divenne il più grande asso del fronte occidentale di tutta la guerra, il suo velivolo non venne mai colpito.

Le sue manovre erano più veloci di quelle della media dei vari piloti e, nonostante che la cosa possa apparire più una leggenda che una realtà, i suoi compagni di volo ancora viventi sono concordi nell'affermare, senza ombra di dubbio, che il Me 109 di Marseille originava una scia di condensazione dall'estremità delle ali quando nessun altro nella formazione faceva altrettanto: tra quelli che confermano un simile fatto citiamo Neumann e Poettgen.

Aveva una vista acutissima,e le ottime condizioni meteorologiche e l'eccellente visibilità che usualmente si presentavano in Africa lo mettevano in condizioni di volare con regolarità e di mirare esattamente nel punto prescelto.

Data la superiorità del suo velivolo,e la fiducia che aveva in se stesso, trovatosi sotto la guida di un esperto comandante, Marseille poté impiegare le sue capacità per dare un formidabile apporto allo sforzo che il suo paese stava facendo in campo aereo

 

I suoi compagni di volo, qualche volta con simpatia e qualche altra in ben diversa guisa, furono .le vittime del suo continuo esercitarsi nelle puntate per il tiro quando la squadriglia rientrava dalle sue missioni di volo.

 

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Il Duello

 

Il giorno cominciò nella massima calma, i piloti del 27° Stormo gironzolavano con indosso la camicia kaki estiva e Marseille aveva indossato le calze bianche e le scarpette da tennis con le quali era abituato a volare; cosi vestito si sentiva libero dal complesso di giubbe impellicciate, combinazioni da volo, e altri equipaggiamenti che tanto infastidivano i piloti in climi più freddi o in alta quota.

Le forze del 27° Stormo erano inferiori, come numero, a quelle nemiche, ma il morale a Martuba era alto e Marseille era uno dei motivi di questo spirito aggressivo e della fiducia di tutti i piloti.

Un centinaio di miglia più a oriente, a Gambut, una base della caccia della RAF, il 5° Gruppo sudafricano stava predisponendo le operazioni della giornata.

I piloti dei P 40 Tomahawk ricevettero l'ordine di effettuare, nella tarda mattinata, una crociera sulla fortezza assediata di Bir Hacheim e, mentre gli specialisti controllavano i velivoli, i piloti si preparavano per il decollo.

A Martuba, quella stessa mattina, giunsero ordini di volo soltanto per un limitato numero di caccia tedeschi.

Una pattuglia di sei, condotta da Marseille, avrebbe scortato gli Stuka che dovevano bombardare Bir Hacheim; il decollo era stato fissato per le 11.30.

I piloti della prima e della seconda squadriglia si misero a riposo mentre i sei prescelti, compreso Marseille e il suo gregario, il sergente Reiner Poettgen, cominciarono a prepararsi per il volo.

Il sole era caldo e c'era poco vento ma, a parte questo, il tempo era ottimo; Marseille ebbe ben pochi ordini da dare ai propri uomini perché la missione era una delle solite: tutti avevano già scortato i bombardieri in picchiata.

Poco dopo le undici i sei uomini s'incamminarono verso i decentramenti riparati dai fusti di benzina dove i Me 109 F, dai lunghi musi, erano stati approntati.

Erste Wart Meyer, il capospecialista di Marseille, lo aiutò a legarsi nell'abitacolo e a chiudere il tettuccio; scambiando qualche parola ogni tanto, attendeva sull'ala destra con la manovella in mano, in attesa del segnale del pilota mentre un altro motorista stava sull'ala sinistra.

Il numero 14, in cifre alte poco più di un metro, era dipinto con vernice gialla proprio dietro il posto di pilotaggio su ambedue le fiancate della fusoliera.

Soddisfatto delle condizioni in cui era il velivolo, Marseille fece un segno con la mano destra accennando col capo e ordinando: « Los! »

Lo specialista si mise a far girare la manovella e il sibilare della massa rotante cominciò a farsi sempre più acuto mentre il pilota aspettava che divenisse un fischio; allora schiacciò il pulsante della messa in moto e il motore Daimler-Benz da millecinquecento cavalli cominciò a borbottare, emettendo fumate nere dai sei tubi di scarico che si affacciavano dalle cappottature del muso, quindi si mise a rombare decisamente.

L'elica a tre pale prese a girare sempre più velocemente, divenendo un'ombra appena percettibile, mentre il vento scuoteva le leggere uniformi degli specialisti.

I due uomini saltarono giù dall'ala a un cenno di Marseille che, facendo sollevare un nuvolone di polvere e di sabbia alle sue spalle, si mosse per far uscire dal riparo il suo caccia dalle lunghe ali.

 

Altri cinque velivoli prendono a muoversi dai loro ricoveri mimetizzati, segnalandosi per il polverone che sollevano; dato che la sabbia è di grana grossa e pesante i piloti evitano di rullare l'uno dietro l'altro e perciò la formazione avrebbe decollato in coppie, ciascuna spostata di fianco rispetto alla precedente, quasi in linea di fronte.

Marseille, che in codice ha il nominativo di « Elbe 1 » si porta sulla testata settentrionale del campo e si mette in direzione sud-sud-est: due caccia sono sulla sua destra e altri tre sulla sinistra; un'occhiata agli strumenti, ai compensa tori, al parzializzatore del liquido di raffreddamento, poi comincia a spingere in avanti la manetta.

Il Daimler-Benz emette un ruggito che si sente a miglia di distanza e il caccia comincia a muoversi; gli altri lo seguono e il rumore diviene ancor più forte.

Gli aeroplani rombano sempre più veloci, nascosti dalla polvere che sollevano e decollano dal campo.

Marseille inizia una leggera virata mentre fa rientrare il carrello e ben presto i sei 109 diventano piccole sagome che rimpiccoliscono fino a sparire a sud-est, nel cielo della mattinata.

Sono le 11.32.

Gli Stuka effettueranno il lancio da bassa altezza , perciò Marseille non fa molta quota; controlla le armi, il cannoncino da venti millimetri del muso e le due mitragliatrici da sette e nove (il Me 109 F ha un solo cannoncino mentre l’ E ne aveva due); un pallido cerchio giallastro compare nel vetro del collimatore e intanto il pilota si guarda intorno nel cielo per cercare gli Stuka che deve scortare su Bir Hacheim.

Un centinaio di miglia più a oriente, dall'aeroporto di Gambut dove è dislocato il 5° Gruppo sudafricano, decollano i caccia britannici; sono quaottordici o sedici Tomahawk P 40, che si mettono in rotta verso sud-ovest per andare a proteggere Bir Hacheim.

Invece delle croci, sulle loro ali sono dipinti dei cerchi rossi e blu, mentre sulla fusoliera sono blu bianco e rosso.

Marseille avvista ben presto gli Stuka nella zona prevista per l’incontro e allora fa allargare la propria pattuglia per dar loro il massimo di protezione.

I bombardieri, pesantemente caricati, sono poco veloci e i 109, con le manette ridotte, effettuano delle lente « S » sopra di loro per rimanere in posizione di scorta senza però perdere troppa velocità, il che li renderebbe molto vulnerabili in caso di attacco.

Marseille e Poettgen sono più in avanti e più in alto rispetto ai grossi .Ju 87, che si tengono a bassa quota, milleduecento metri; tutti si guardano intorno, ma il cielo è perfettamente sgombro.

Le colline della Cirenaica sono ormai scomparse alle spalle e davanti a loro si stende la pianura piatta e giallastra mentre Ain el-Gazala compare sulla sinistra.

La squadriglia prosegue il suo volo, sempre diretta a sud-est; è già mezzogiorno e Bir Hacheim dista una ventina di minuti di volo.

Gli Stuka, con la bomba a bordo, due uomini di equipaggio e i loro quasi quattordici metri di apertura alare, non fanno più di centosessanta miglia orarie, il che obbliga i caccia a zigzagare per mantenere una sufficiente velocità in caso di sorpresa; ma nessun nemico è in vista.

Sono le 12.10; una cinquantina di migaia più a oriente, a circa una dozzina di minuti di volo da Bir Hacheim, vi sono i velivoli britannici che si recano anch'essi all'appuntamento sullo stesso obiettivo.

Vanno più veloci della formazione tedesca, lenta e pesante; i Piloti non vedono niente in giro per il cielo, mentre scrutano verso sud-ovest nello splendore abbagliante della luce meridiana.

Adesso gli Stuka e i caccia che li circondano cominciano a distinguere Bir Hacheim e i piloti dei bombardieri cominciano a mettersi in fila indiana per prepararsi alla picchiata mentre i mitraglieri si guardano intorno per cercar di vedere se vi sono in giro dei caccia britannici, che potrebbero trovarsi in attesa nel cielo dell' obiettivo.

Ma forse quella sarà una missione semplice, anche se questa è la seconda incursione su Bir Hacheim e la pressione degli italiani e dei tedeschi si mantiene costante.

Gli Stuka si avvicinano al bersaglio e si preparano alla virata d'inizio della picchiata... i piloti manovrano per mantenersi in fila per la manovra d'attacco mentre Marseille e i 109 si sono portati alquanto più a occidente di Bir Hacheim.

Sono le 12.21.

« Horridoh!»

L'urlo arriva di colpo negli auricolari dei piloti tedeschi: "Nemici alle spalle », avverte qualcuno.

Marseille si gira e scorge i Tomahawk più alti dietro di loro: quelli del 5° Gruppo sudafricano.

I Ju 87 sono già in candela e le bombe cominciano a scoppiare su Bir Hacheim da dove soltanto la contraerea leggera reagisce.

Marseille cabra un poco e, automaticamente, i Me 109 si separano a coppie; il capo formazione è il più alto di tutti.

I Tomahawk, leggermente più scuri di colore, arrivano con una buona velocità come se volessero buttarsi sugli Stuka, ma di colpo si accorgono del 109 !

Qualcuno di essi cambia rotta e, da ambedue le parti, i piloti cominciano a sentire la tensione.

Marseille si mette in rotta d'intercettazione e arriva adesso al loro livello continuando a far quota mentre gli Stuka, usciti dalla picchiata, si stanno rimettendo in pattuglia dirigendosi verso nord-ovest.

Il comandante della formazione dei Tomahawk vira a destra e si mette a circolare per avvantaggiarsi della capacità che hanno i suoi velivoli di virare più stretto.

La loro quota è di millecinquecento metri, Marseille è più alto e si avvicina, con Poettgen in posizione a un centinaio di metri sulla sua sinistra, esaminando gli avversari che continuano a circolare, nella loro formazione chiusa, in difensiva.

Giallo 14 vuole attaccare la «Lufbery»: i Tomahawk non sono a più di una sessantina di metri l'uno dall'altro, con le ali molto inclinate nella virata stretta.

Marseille spinge la leva in avanti e comincia a picchiare, seguito dal gregario.

Il 109, picchiando, acquista velocità e si avvicina alla « Lufbery », ne raggiunge la quota, ma continua verso il basso; poi Marseille tira la leva e il muso giallo del 109 si alza verso il circolo mentre fissa gli occhi su un Tomahawk.

L'ala del P 40 s'ingrandisce, si allarga sempre più... tocca adesso il bordo del cerchietto luminoso, ormai è a una quarantina di metri dalla sua vittima, col velivolo in cabrata a destra, dietro al nemico; allora preme ambedue i bottoni di sparo delle armi: cannone e mitragliatrici esplodono e vibrano.

La breve raffica centra il motore e scorre velocemente verso la coda.

Marseille adesso cabra ancora il velivolo portandosi di nuovo al di sopra della formazione, che continua a virare.

Il P 40 si lascia dietro una scia di fumo, esce dal circolo e precipita in basso: la puntata ha avuto la durata di qualche secondo.

Marseille si mette in volo orizzontale al vertice della virata: il Tomahawk, mortalmente ferito, sta ancora precipitando in candela lasciandosi alle spalle una scia verticale di fumo, poi si infrange al suolo esplodendo.

Gli altri continuano nella manovra difensiva che terrebbe lontani molti attaccanti, ma non certo Marseille, che picchia di nuovo prendendo velocità mentre adocchia un nuovo bersaglio.

Con una manovra calcolata fino all'attimo esce dalla candela, vira strettamente sulla destra piombando esattamente in coda di un'altra vittima predestinata di quel circolo; il suo velivolo è tanto veloce che il caccia che gli è alle spalle non fa nemmeno in tempo a prenderJo di mira. Dirige, per qualche secondo, diritto sul nemico poi preme i bottoni e le armi urlano ancora; un'altra valanga di metallo da una quarantina di metri o poco più va a concentrarsi nel motore che gli è davanti. (Marseille, aveva il sistema di sparare appena il nemico gli spariva sotto il muso; l'intera raffica, sparata nell'esatta direzione e molto da vicino, di solito andava a finire nel motore o nel posto di pilotaggio.)

Anche il secondo nemico emette fumo e esce dalla formazione mentre Poettgen guarda ammirato.

Marseille picchia, poi riprende a cabrare, ma questa volta, nel tornare indietro, si avvicina alla «Lufbery» molto più veloce di quanto non lo fosse dopo la prima raffica; nel frattempo la seconda vittima sta precipitando verso terra, da cui dista poco più di mille metri: i caccia, sempre circolanti, stanno perdendo quota continuamente e intanto Marseille ha le dita sui grilletti e lo sguardo puntato attraverso il vetro del collimatore mentre vira a destra, pronto a entrare nel circolo per il terzo attacco.

Ha calcolato la virata in modo da penetrarvi proprio dietro la vittima prescelta, cabrando attraverso la «Lufbery », allenta un attimo la leva e, per uno o due secondi, è in posizione di sparo.

In quel preciso istante le armi del 109 dal muso giallo sputano un'altra massa di pallottole che, per la terza volta, vanno ancora a segno perché anche questo velivolo comincia a fumare.

Marseille è nuovamente più in alto della formazione nemica, dà un'occhiata alla scena che si offre ai suoi occhi sotto di lui e, nel riprendere la manovra, sta già scegliendo la quarta vittima. Questa picchiata è ancora più veloce delle altre; mentre l'ultimo nemico colpito e avvolto nel fumo scende verso terra, il 109 vira di nuovo verso i Tomahawk.

Picchia, virando strettamente a destra, e intanto Marseille calcola tempo e distanza: l'apertura alare del velivolo riempie il cerchietto luminoso, poi scompare sotto il muso del 109.

Pigia i bottoni ma il cannoncino non spara più, si è inceppato!

Però le due mitragliatrici funzionano e le loro raffiche convergono nello stesso punto del muso del Tomahawk; pezzi di lamiera si staccano volandosene via, il motore emette fumate bianche e nerastre, il caccia dal lungo muso barcolla, poi un'ala si piega decisamente e anch'esso lascia la formazione.

Marseille non ha dato nemmeno un'occhiata alla sua quarta vittima, non ha commesso, cioè, quello che è proprio il peccato fondamentale, anche se normale, nei combattimenti.

È così sicuro della sua mira che, dopo un colpo d'occhio alla situazione, si concentra sulla prossima puntata.

Poettgen, affascinato, guarda il terzo caccia abbattuto, che tocca terra ed esplode anch'esso,

mentre il quarto ha appena iniziato la sua ultima picchiata.

 

Marseille torna ancora, velocissimo, sulla «Lufbery » e, con un'altra stretta virata sulla destra, manovra brevemente timoni e alettoni per piazzarsi dietro al numero cinque.

I piloti nemici, evidentemente sotto l'impressione che la massa dei caccia attaccanti sia notevole, non sembrano rendersi conto di quello che sta accadendo cosi velocemente e continuano a circolare.

Sono le 12.28: sei minuti da quando il primo P 40 è stato abbattuto.

In pochi secondi Marseille è di nuovo in posizione, virando leggermente dall'alto, come se fosse stato uno dei caccia della RAF; preme i bottoni, e soltanto le mitragliatrici sparano...

Ma anche i loro colpi vanno a segno, sempre dal motore all'abitacolo del pilota... una raffica brevissima, ma mortale.

Marseille solleva il dito, ancora manovrando fuori del circolo mentre anche la quinta vittima precipita avvolta nel fumo.

Poettgen vede che il quarto caccia si sfascia a terra mentre i resti della formazione sono ormai molto bassi perché a ogni virata hanno perso un po' di quota.

Marseille si mette a guardare, tenendosi adesso alquanto distante e facendo i suoi conti.

Il cannoncino non spara più; ha abbattuto cinque velivoli nemici, che sono precipitati dalla formazione mentre lui non è stato colpito... un risultato velocissimo, fulminante, incredibile. Sopra di ,lui sta girando Poettgen.

Marseille vede che i Tomahawk continuano a spiraleggiare perdendo sempre più quota, ha ancora delle munizioni e, poiché è in volo da un'ora, ha carburante a sufficienza.

Spinge di nuovo a fondo la manetta del motore per andare a buttarsi un'altra volta in mezzo al circolo.

Con lo sguardo fisso su quella che dovrà essere la sua sesta vittima Marseille manovra il velivolo in modo da fare un'ultima fulminea puntata in mezzovalla formazione.

Saetta nello spazio esistente tra due Tomahawk ed entra nel circolo a tutta velocità; l'ala di quello che ha davanti è nel cerchietto e allora, virando con le ali quasi perpendicolari al terreno, tira ancora un poco la leva facendo abbassare sul muso del suo 109 ,il caccia che sta virando davanti a lui.

La vittima gli sparisce dalla vista: fuoco !

Le mitragliatrici martellano, scuotendo l'assalitore per la sesta volta mentre ,le pallottole penetrano nell'aeroplano nemico e Marseille cabra per allontanarsi poi dalla formazione con una picchiata.

Il velivolo colpito emette fumo dagli scarichi, esce dal circolo e comincia a perdere quota.

Ne ha abbattuti sei!

Esaltato ed eccitato preme il bottone della radio: «Elbe 1 a Elbe 2: Hast du den Aufschlag gesehen?» (Li hai visti cadere?)

Poettgen risponde: «Elbe 2 a Elbe 1: Vittoria! Vittoria! »

Allora batte le ali e sale, dirigendosi indisturbato verso di lui; poi, con sua gran sorpresa, Marseille sente negli auricolari delle congratulazioni : il Kommodore Eduard Neumann è arrivato sul posto giusto in tempo per assistere al combattimento. « Bravo, Joachim! » gli urla, mentre altre congratulazioni gli arrivano da altri piloti e lui ne è tutto contento.

Il combattimento è finito di colpo; gli altri 109, pochi dei quali sono riusciti a scontrarsi col nemico, se ne tornano a Martuba mentre i Tomahawk rientrano alloro campo e la sesta vittima di Marseille perde quota sempre più.

La squadriglia, trionfante, punta ormai i musi gialli dei suoi velivoli verso nord-ovest e il cuore del comandante batte forte: è la prima volta che è riuscito ad abbattere sei caccia in un sol volo.

E non gli è costato che undici minuti!

Il tempo scorre lentamente quando si torna alla base di partenza, ma alla fine Martuba appare alla vista davanti a loro; Marseille vi si abbasserà per fare un tonnenu lento che significa l'aver riportato delle vittorie.

A terra il personale, tra cui qualcuno scommetteva sempre sugli abbattimenti del comandante, sta seduto e aspetta.

Finalmente cominciano a sentire il rombare dei velivoli, ancora lontani, verso sud-est e poi la squadriglia compare ai loro occhi, con Marseille alla testa; man mano ,che si avvicinano Giallo 14 si abbassa e picchia, sempre più veloce: passa sulle tende, sulle baracche e sulle costruzioni sparse sulla sabbia rosso-brunastra e fa tre tonneaux lenti; poi si raddrizza e si allontana.

Gli specialisti urlano di gioia, specialmente quelli suoi: tre abbattimenti!

Ma Marseille vira oltre il limite del campo con l'ala perpendicolare al terreno, a bassa quota, e torna indietro per ricominciare la manovra: uno, due, tre tonneaux lenti... poi si allontana ed entra in circuito, virando per venire all'atterraggio.

Tutti, specialisti e piloti sono eccitati da questa comunicazione aerea e sanno benissimo che sei vittorie in un sol volo è un nuovo primato anche per Marseille.

Questi intanto ha chiuso il motore, ha aperto le alette del radiatore, ha abbassato il carrello; l'elica gira più piano, il motore borbotta in tono minore e il velivolo plana per atterrare.

La velocità scende: duecento chilometri orari, centonovanta, centottanta, centosettanta; pochi metri di altezza, poi il contatto col suolo.

Giallo 14 è a terra e sta rullando: Poettgen è di fianco, a una quarantina di metri di distanza.

Quando ha smaltito la velocità Marseille gira a sinistra e rulla fino al decentramento dove una gran folla di specialisti lo sta aspettando in grande eccitazione.

Poettgen rulla dietro di lui che penetra nel recinto difeso dai fusti pieni di sabbia, dà motore, fa dietro-front poi toglie i contatti.

Diversi avieri lo circondano e , istintivamente urlano un evviva; il suo capo specialista sorride: «Gratulieren!»

Poettgen si ferma a una cinquantina di metri, salta rapidamente dal velivolo e corre verso quello di Marseille intorno al quale si sta radunando il personale; il pilota è stanco, ma parla con quelli che lo circondano e che lo colmano di sorrisi e di congratulazioni.

Quando arriva Poettgen gli chiede di nuovo se ha visto cadere le sue vittime e questi gli ripete, ancora, di averle viste tutte e sei: gli armieri che hanno cominciato a dare un'occhiata al cannoncino sono meravigliati quando hanno aperto l'arma: sono stati sparati soltanto dieci colpi da venti millimetri.

Una cinghia messa di traverso ha provocato l'inceppamento; l'esame delle mitragliatrici dimostra che ha sparato soltanto poche centinaia di pallottole per ognuna.

La folla cresce e Marseille rimane accanto al suo velivolo una decina di minuti per rispondere alle domande e raccogliere le congratulazioni; scherza con tutti quelli che vengono a dare un'occhiata al «Pilota dell'Africa», poi deve andare alla tenda del comando, che è nei pressi, a scrivere .il rapporto sul combattimento e parlare con Neumann.

 

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Il 30 settembre 1942 di ritorno da una missione al Cairo il suo caccia , per un problema di lubrificazione al motore, si incendiò riempiendo la cabina di pilotaggio di fumo ed iniziò a perdere rapidamente quota.

Marseille cercò di riportare l'apparecchio entro le linee italo-tedesche e, riuscitovi, mise l'aereo in volo rovescio per aprire il tettuccio e lanciarsi: il suo corpo colpì violentemente il timone di coda del velivolo e, svenuto, non riuscì ad azionare l'apertura del paracadute.

Il suo corpo cadde senza vita nella zona di Sidi Abdel Rahman.

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hartmann2_small.jpg ERICH HARTMANN – LUFTWAFFE -

Il più grande «Experten» della seconda guerra mondiale, oltre che quello che ha riportato il massimo numero di vittorie tra i piloti da caccia della storia, è Erich Hartmann che nel 1939 era ancora uno scolaro e che arrivò sul fronte di combattimento soltanto nel terzo anno di guerra.

Gli venne attribuito il sorprendente numero di 352 vittorie; praticamente tutte, però ottenute sul fronte orientale e, anche se gli abbattimenti conseguiti in oriente non erano completamente paragonabili a quelli ottenuti sul fronte occidentale, quel numero fa ugualmente di lui il più grande cacciatore tra i piloti da caccia.

Hartmann era un cacciatore sicuro e metodico quando era in volo, oltre che di temperamento gentile e allegro quando era a terra.

Molto spesso faceva più di un volo al giorno, per settimane e per mesi interi, battendosi contro grandi formazioni di bombardieri e di cacciatori russi che volavano a bassa quota.

Le occasioni che aveva di incontrarli erano quasi continue e, normalmente, aveva la possibilità di scegliere i suoi bersagli tra grandi masse di velivoli nemici.

Non era però il tipo che cercasse di abbatterli a tutti i costi ogni volta che volava; il 24 agosto 1944 ne abbatté sei, ma normalmente si contentava di meno.

Fece 1425 voli di guerra e s'impegnò contro il nemico 800 volte; la sua riputazione di «Diavolo Nero dell'Ucraina», era pienamente meritata.

 

Erich Hartmann era nato a Weissach, nel Wurttemberg, nel 1922, quattro anni dopo la fine della prima guerra mondiale; quando ebbe inizio la seconda, era diciassettenne e andava ancora a scuola.

Si arruolò nella Luftwaffe nel 1940 e, dopo aver effettuato con successo tutto l'addestramento, fu destinato verso la fine del 1942, sul fronte orientale: aveva appena vent'anni.

I suoi primi voli non dettero alcun segno che egli dovesse poi divenire il pilota che avrebbe riportato il maggior numero di vittorie nel corso di tutto il conflitto; infatti, fino all'estate del 1943 le ore di volo che aveva fatto e le vittorie conseguite, anche se degne di considerazione, non erano per niente fuori della norma, se messe a confronto con quelle di qualcuno dei suoi compagni.

Durante tutto quel periodo stava elaborando le tecniche di attacco che gli avrebbero poi dato la superiorità su tanti dei suoi avversari; una di queste consisteva, quando attaccava di coda, di mandare il proprio gregario più in basso, davanti al nemico, in modo da adescarlo e farlo venire a tiro delle proprie mitragliatrici; se invece il suo compagno di volo era molto giovane lo faceva rimanere più in alto, per coprirgli le spalle, mentre lui picchiava fin sotto l'avversario per poi cabrare e sparargli una raffica ben precisa e accurata mentre saettava attraverso la formazione, mettendosi subito fuori di tiro (qualcosa di simile alla tattica impiegata da Marseille).

Hartmann di solito si avvicinava «fintanto che il velivolo non gli riempiva tutto il parabrezza» prima di aprire il fuoco.

Le sue raffiche erano di solito molto brevi e ben centrate e, evidentemente, non era il tipo da commettere l'errore di esagerare nel giocare le sue carte, cercando di abbattere troppi velivoli in una sola missione; quasi sempre si contentava di una vittoria, rimandando la successiva a un altro giorno e questa era probabilmente la ragione per la quale, in quest'altro giorno, era ancora in volo.

Come molti piloti da caccia non era molto grosso e muscoloso; possedeva tuttavia i requisiti fondamentali per il successo: prontezza di riflessi e di coordinamento, ottima vista, spirito aggressivo e freddezza in azione; li possedeva in un grado cosi elevato da consentirgli di raggiungere le trecentocinquantadue vittorie in due anni e mezzo.

 

Considerazioni

 

Dato il gran numero delle sue vittorie si può esser portati a valutare con un apprezzamento diverso i risultati che ha ottenuto, attribuendo a quelle relative al fronte russo una difficoltà inferiore e presumendo che vi fossero facilmente ottenibili.

Per giungere a un'accurata valutazione bisogna però tener presenti diverse considerazioni per poter poi tirare le somme.

Prima di tutto i piloti tedeschi avevano molte possibilità di abbattere nemici e uno dei fattori di questo vantaggio era il gran numero di velivoli russi; secondo, il modo di volare su quel fronte era il più adatto per gli intercettori che volavano a coppie o in quattro, in caccia libera, cioè alla sola ricerca delle formazioni russe, che si tenevano sempre molto basse.

I cacciatori tedeschi erano, pertanto, padroni di stabilire come e quando attaccare e quale massa ritenevano più conveniente scegliere, il che rappresenta il più grande vantaggio tattico che possa esser dato a dei caccia, specialmente quando dispongono di una velocità superiore.

Per di più, i piloti tedeschi del fronte orientale non erano impegnati in una campagna offensiva strategica, contro la Russia, che richiedesse lunghi voli effettuati ad alta quota; al contrario, erano unicamente ridotti al ruolo di intercettori delle pattuglie di bombardieri e di cacciatori che venivano ad attaccare obiettivi situati in territorio occupato dai tedeschi stessi.

In queste condizioni i piloti potevano volare senza troppa difficoltà per tre o quattro volte al giorno, effettuando partenze su allarme e intercettazioni molto veloci a bassa quota, senza quindi la necessità di salire a grandi altezze e senza allontanarsi eccessivamente dalle loro basi.

Questo sistema forniva molte, oltre che continue, opportunità per riportare delle vittorie, il che può essere facilmente constatato controllando le documentazioni personali di volo dei cacciatori tedeschi del fronte orientale.

Quelle di Hartmann sono più che esaurienti, su questo punto, perché abbatté una media di un velivolo ogni quattro voli, cioè uno ogni due o tre combattimenti; se esaminito tenendo presenti tutte queste considerazioni, il totale delle sue vittorie può essere facilmente compreso. Tra le aviazioni alleate i piloti che avessero al loro attivo cinquecento missioni di guerra erano eccezionali; il più grande asso britannico, Johnnie Johnson (che, come Hartmann, cominciò ad abbattere aeroplani qualche anno dopo l'inizio della guerra) effettuò in tutto 515 missioni di guerra pur essendo passato attraverso periodi nei quali non era in operazioni, ma nelle retrovie o in riposo.

Il totale delle vittorie di Hartmann può essere visto in una prospettiva migliore quando ci si renda conto che oltre cento piloti tedeschi abbatterono più di cento velivoli nemici ciascuno; più del novanta percento di questi prestarono servizio sul fronte orientale e due di essi raggiunsero i trecento abbattimenti.

 

Le vittorie di Hartmann sul fronte russo non furono ottenute nel corso del primo anno di guerra, l'epoca durante la quale i piloti tedeschi trovarono più facile l'abbattere i loro avversari; ottenne il suo primo successo nell'ottobre del 1942 e nell'estate del 1943 non aveva ancora raggiunto le venti vittorie.

Fu abbattuto diverse volte e anzi, dopo una di queste avventure, rimase anche prigioniero, sia pure per breve tempo: mentre si trovava sul camion che lo trasportava insieme ai suoi catturatori , dette un gran colpo a quello che aveva più vicino e si buttò fuori della macchina correndo verso i boschi.

Sfuggi agli inseguitori e poté rientrare nelle sue linee.

I piloti tedeschi non erano molto contenti di essere abbattuti in territorio tenuto dai russi perché non piaceva loro molto di sentirsi tagliare la gola; perciò la maggior parte dei cacciatori stava attenta a tenersi esattamente sul fronte o, se possibile, appena aldiquà in modo da poter essere subito recuperati dai loro connazionali se fossero stati abbattuti o se avessero dovuto lanciarsi col paracadute; così riuscivano a tornare in poche ore al proprio reparto, dove riprendevano a volare e a distruggere nemici.

Nonostante che fosse abbattuto diverse volte, Hartmann prestò servizio fino all'ultimo giorno di guerra e fu appunto in questa giornata che ottenne il suo 352° successo: la sua ultima vittima russa stava eseguendo un tonneau lento, per festeggiare la vittoria.

Il numero dei velivoli da lui distrutto è impressionante sotto qualunque punto di vista venga considerato; si può attribuire, in parte, alla maggior massa di velivoli e cioè di bersagli, al genere di guerra che veniva combattuta sul fronte orientale, al numero dei voli e quindi di combattimenti impegnati, oltre che alle superiori caratteristiche del suo Me 109.

Bisogna però attribuirlo anche allo stesso Hartmann e rimane sempre un risultato prodigioso e senza precedenti.

Come si sarebbero comportati i piloti del fronte orientale contro le forze aeree delle democrazie occidentali?

Questa è una delle domande che più frequentemente vengono rivolte quando si parla dei cacciatori; ma lo studio della relativa documentazione dimostra che non si sarebbero certo comportati male.

Non avendo però la possibilità di far tanti voli quanti, effettivamente, ne fecero sul fronte russo non avrebbero probabilmente ottenuto le tante vittorie registrate.

Hartmann ebbe un'opportunità del genere quando fu, per breve tempo, trasferito in Romania nell'estate del 1944; volando sempre sullo stesso 109, al quale è rimasto fedele durante tutto il conflitto, in quel periodo abbatté cinque P 51 (probabilmente i migliori caccia di tutta la guerra).

L'esperienza fatta da altri piloti del fronte orientale, oltre che da interi stormi, dimostra che non sarebbe saggio giungere a superficiali conclusioni circa la facilità di conquistare vittorie in quella zona.

Un esempio ci è fornito dal maggiore Joachim Muencheberg, uno dei soli otto piloti tedeschi che ottennero più di cento abbattimenti in occidente; questi venne infatti trasferito sul fronte orientale nel 1942 e vi rimase per poche settimane: in questo breve periodo fu abbattuto tre volte.

Un altro esempio ci è dato dalle avventure del 1° Stormo, che riportò tanti successi sul fronte alleato prima di essere inviato su quello russo; in tre settimane venne praticamente distrutto ed eliminato come reparto combattente, tanto che fu di nuovo rimandato in occidente.

Le condizioni di combattimento sui due fronti erano decisamente differenti e il pilota abituato al fronte orientale, quando veniva di colpo trasferito su quello occidentale aveva paura degli attacchi che doveva fare ad altissima quota contro le strette formazioni, molto ben difese, dei bombardieri americani e, nei primi tempi, non rendeva molto in queste missioni.

Similmente, i piloti abituati a questo fronte dovevano acclimatarsi, quando trasferitivi, alle condizioni di combattimento delle linee russe, sulle quali il tiro contraereo abbatteva più velivoli che i piloti nemici e dove lo stile di volo, a bassa quota, era del tutto differente.

Lo stormo di Hartmann fu quello che riportò i migliori successi di tutta la Luftwaffe perché ebbe centosettantasette vittorie sul fronte occidentale prima di essere trasferito all'est, dove ne ottenne quasi altre undicimila; il gran numero di abbatimenti registrati da questo stormo rappresenta un altro dato statistico relativo alle occasioni che vi avevano i piloti del Reich.

A tal proposito è interessante notare che gli «Experten» (i tedeschi non impiegavano la parola «asso») operarono, essi soli, più della metà del totale delle distruzioni registrate sul fronte russo.

Hans Ring ritiene che delle quarantaquattromila vittorie ivi riportate, trentamila siano dovute a soli trecento piloti .

Cosi, il veterano della guerra aerea orientale era spesso un professionista decisamente redditizio che, molto spesso, raggiungeva dei livelli di abbattimenti assai elevati; per il novizio, invece, le cose non erano affatto facili: uno stormo che, in un certo periodo di tempo, vi aveva perso ottanta piloti dovette accorgesi che ben sessanta di essi non avevano abbattuto nessun velivolo.

La guerra sul fronte orientale era, dunque, un duello tra una gran massa di velivoli che agiva su una zona molto estesa; ma non sarebbe possibile, tuttavia, fare un confronto con quella che si svolgeva sul fronte occidentale e non vi è nemmeno la necessità di farlo.

Si può discutere circa l'influenza che ebbe, sul gran numero delle vittorie aeree germaniche contro i russi, il maggior numero di nemici che i cacciatori tedeschi vi incontravano, la superiorità del materiale e il vantaggio tattico del quale potevano avvalersi nel combattimento; era ovvio che la situazione offrisse maggiori opportunità e che qualche volta fosse anche più facile l'abbattere avversari, ma d'altro canto sembra giusto che le vittorie conquistate dalla caccia della Luftwaffe nell'est meritino un rispetto maggiore di quello che qualcuno ha loro accordato nei primi anni del dopoguerra

 

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L'offensiva era cominciata il 5 luglio.

Il generale Heinz Guderian ricorda, nel suo Panzer Leader (aveva allora il grado di ispettore generale delle truppe corazzate), che la Germania aveva accumulato per quell'attacco tutte le forze che avesse, comunque, disponibili.

Si trattava di una manovra a tenaglia che avrebbe dovuto agganciare e intrappolare le masse russe che si trovavano nel saliente che queste si erano costituite a Kursk, contro il quale furono impegnate dieci divisioni corazzate, una di granatieri corazzati e sette di fanteria di linea nella branca che doveva attaccare da sud (cioè dalla zona di Bielgorod) e sette corazzate, due di granatieri corazzati e nove di fanteria di linea nel nord (la zona di Orel).

I tedeschi vi impiegarono i nuovi carri Tigre e Pantera, nei quali riponevano le più grandi speranze, ma che erano invece destinati a finire molto male sotto i tremendi attacchi dei cacciabombardieri russi, gli Il II che erano stati muniti di due cannoncini da trentasette millimetri a lunga canna, i P 11/37.

La Luftwaffe doveva cooperare spezzando la resistenza russa nei primi giorni dell' offensiva e, nel tardo pomeriggio del 4 luglio, molti dei suoi gruppi erano stati segretamente trasferiti su quel fronte; il carburante e i rifornimenti di materiale furono trasportati nel corso della notte dai velivoli da trasporto JU 52

 

I gruppi avrebbero dovuto attaccare all'alba della mattina successiva.

 

La 7a Squadriglia del 52° Stormo, della quale faceva parte anche il sottotenente Hartmann, era stata dislocata a Ugrim verso la fine del pomeriggio del giorno 4, trovandosi così a quattordici chilometri dietro lo schieramento di partenza della tenaglia meridionale; nel corsa della notte i carri armati, che avrebbero dovuta effettuare lo sfondamento, si misero in posizione da tutte le parti mentre i velivoli da trasporto atterravano recando i rifornimenti necessari ai gruppi operanti.

Alle prime luci del 5 luglio cominciò l'offensiva e i panzer tedeschi penetrarono diritti dentro le linee russe; ma i piloti di Ugrim ebbero un brutto colpo; i primi quattro caccia, ivi compreso quello del comandante di squadriglia, non fecero ritorno nonostante che non vi fosse un'apprezzabile reazione aerea nemica.

Si dovettero poi accorgere che nel terreno si trovavano depositi di minerali di ferro in misura fuori del comune e questo faceva si che gli aghi delle bussole deviassero notevolmente; venivano constatate delle oscillazioni persino di 60° o 70° e ben presto i piloti si trovavano perduti.

Dopo il mancato ritorno della prima pattuglia di 109, e del comandante della squadriglia, il comando di questa venne affidata a Hartmann.

Il giorno dopo, l'offensiva tedesca continuò, ma il guaio era che i carri corazzati incantravano una nuova linea difensiva ogni chilometro o due di avanzata; era ovvio che i russi si fossero preparati accuratamente predisponendo le opportune difese contro l'avanzata tedesca, le cui linee generali erano state previste.

 

I caccia di Ugrim si resero conta delle strane deviazioni delle bussole e impararono a correggere la rotta.

Nel frattempo l'apposizione aerea nemica continuava a essere quasi nulla quando, la sera del 6 luglio i piloti della 7a Squadriglia se ne andarono a letto, sotto le piccole tende frettolosamente preparate per loro nell'alta erba estiva dei prati della Russia meridionale, non potevano certo supporre che, all'indomani, le cose sarebbero state del tutto differenti.

Mancava poco alle tre del mattino quando i primi raggi di luce presero a illuminare i prati leggermente ondulati che si stendono nella zona dell'Ucraina a duecento cinquanta miglia a settentrione della penisola di Crimea, dove, a nord-ovest di Harkov, era stato preparato l'aeroporto di Ugrim.

I Me 109 G della 7a Squadriglia, pitturati di blu-verdastro, erano dispersi nell'erba, alta circa mezzo metro, senza alcun mascheramento protettivo; sulla fusoliera di uno di quegli aeroplani bassi di carrello e dal muso dipinto di bianco, era stato disegnato un cuore nel quale era scritto il nome di Usch; in distanza si stendeva il paesaggio leggermente collinoso rivestito di betulle, di querce o di pini tutti verdi e il cielo era, ancora una volta, completamente limpido; da due giorni l'offensiva tedesca continuava sotto l'insegna del buon tempo che

l'estate aveva portato. I

Ai margini del prato erano state erette sei o sette tende mimetizzate e un gran numero di piccole tende per dormire; queste erano delle dimensioni di un metro e ottanta per novanta, appena sufficienti per contenere un materassino di gomma.

Un aviere mise il capo dentro una di queste e chiamò: «Leutnant, aufstehen ».

Erich Hartmann si svegliò, rispose e prese a vestirsi; infilò i pantaloni grigio-azzurri, una camicia grigia e le scarpe, pure grigie, del tipo sportivo e con le suole di gomma.

Dopo essersi cosi abbigliato usci all'aperto e si diresse verso un ruscelletto che scorreva nei pressi, dove cominciò a lavarsi e a farsi la barba nell'acqua fresca.

Poi se ne andò al «bar», una delle tende più grandi nella quale i piloti mangiavano e passavano il tempo; in un angolo c'era la sezione operazioni del gruppo e nell'altro una stufa sulla quale due ragazze russe stavano preparando la colazione. « Was gibt’s »,. domandò, ma gli risposero che non c'erano novità: tutto era tranquillo.

 

Mancavano pochi minuti alle tre e Hartmann era uno dei quattro piloti che già si trovavano nella ,tenda; poco più tardi, avrebbero dovuto fare la scorta al velivolo che avrebbe eseguito la prima ricognizione della giornata e che doveva decollare subito dopo le tre.

Tutte le mattine quell' aeroplano staccava le ruote alle prime luci per andare a esaminare il fronte e, .tutte le mattine, quattro piloti gli volavano intorno in missione di scorta, molto poco popolare tra i cacciatori.

Quella mattina era il turno di Hartmann; mangiò un'abbondante colazione, due uova fritte, pane col burro e due o tre tazze di caffè.

Era ormai quasi l'ora che il FW 89 decollasse per fare la sua ricognizione: Hartmann dette un ordine e tutti e quattro si diressero verso i rispettivi aeroplani.

 

Il velivolo di Hartmann è in attesa non molto lontano dal «bar », sotto le cure del suo capospecialista « Bimel» Merten.

«Ist der Bock klar?» (È pronto?) chiede in tono scherzoso;

Merten risponde di sì e lo aiuta a legarsi.

Poco dopo tutto è in ordine, l'orologio di bordo indica le 3,04 e il cielo comincia a sbiancarsi verso oriente: è l'ora di partire e anche l’ FW si è già mosso.

Hartmann regola dapprima i Flap, facendoli abbassare di un terzo per mezzo di uno dei due volantini grigi posti un po' indietro sulla sua sinistra poi, con l'altro, il compensatore di coda per il decollo; apre le alette del parzializzatore, controlla il livello del carburante, dà qualche pompata con il pistoncino dalla manopola dipinta di giallo che si trova sulla sinistra della piantana e apre un po' la manetta del gas, facendo cenno col capo a Merten.

Questi, in piedi sull'ala destra, si mette a far ruotare la manovella e ben presto un sibilo comincia a farsi sentire, sempre più acuto: adesso, è tempo, Hartmann gli fa cenno di allontanarsi e Merten urla:« Frei!»

«Frei», risponde il pilota e tira il piccolo comando dipinto di nero che si trova proprio al di sotto della scatola degli interruttori sul cruscotto.

Il Daimler-Benz da millequattrocentocinquanta cavalli starnutisce e brontola diverse volte emettendo sbuffate di fumo dai sei tubi di scarico; poi si mette in moto e il fumo svanisce nel nulla mentre l'elica comincia a girare al minimo.

Non lontano da Hartmann altri tre 109 fanno sentire la loro voce e la pattuglia è pronta per muoversi.

Nella scarsa luce si vede l'ufficiale agitare più volte la mano destra per segnalare ai compagni e molla i freni cominciando a rullare per portarsi in posizione di decollo, mentre Merten gli manda un saluto e un augurio.

I 109 blu-verdastri sono adesso tutti e quattro in fila e le eliche, mentre i velivoli rullano, piegano l'erba alta dietro di loro; giunti al limite del campo, a pochi metri dalla croce che indica l'inizio della zona di atterraggio, Hartmann controlla gli strumenti del motore poi dà un'occhiata agli altri piloti: i velivoli sono fermi, nei suoi pressi, ed eliche e motori urlano rompendo la calma delle prime ore della mattina e facendosi sentire per miglia nei dintorni.

 

Segnala l’ ordine di partenza, allenta i freni e spinge la manetta gialla alla sua sinistra, mandandola a fondo corsa; il 109 si slancia in avanti con un balzo e anche gli altri fanno altrettanto dando cosi inizio alla corsa di decollo, tenendosi a una decina di metri, o poco più, l'uno dall'altro dietro a Hartmann, che comincia a muoversi sempre più velocemente.

Dopo trecento metri l'elica sta trascinando il leggero caccia a centosessanta chilometri l'ora; tira leggermente la leva mentre l'indicatore continua a salire, tenendo il velivolo esattamente diritto con l'uso della pedaliera, poi le ruote si sollevano e Hartmann è in volo, alle 3.06.

Anche gli altri piloti decollano, uno dopo l'altro, e ben presto i quattro Messerschmitt virano sulla sinistra, allontanandosi dall'aeroporto mentre i carrelli rientrano lentamente.

Il capopattuglia riduce alquanto la manetta, chiude le alette del radiatore e controlla ancora gli strumenti del motore; gli altri tre caccia si avvicinano all’ FW 89 che è proprio davanti a loro e

Sta facendo lentamente quota verso nord-est, verso un cielo che, piano piano, va facendosi sempre più luminoso.

Hartmann controlla le armi e il collimatore: il cerchietto luminoso e le sbarrette che definiscono le distanze da un bersaglio, se attaccato dalla coda; tutto è in regola; le armi dispongono di munizionamento di vario genere: Panzer, Panzerspreng, Panzerbrand e Panzermine (perforanti normali, perforanti pesanti,incendiarie e esplosive).

La quota aumenta lentamente: seicento, mille, milleduecento metri; i velivoli tedeschi debbono tenersi a una discreta altezza sul terreno altrimenti il fuoco delle armi leggere potrebbe inseguirli, da ambedue le parti combattenti.

I caccia continuano a dirigersi verso nord-est e Hartmann sbircia ogni tanto verso il basso dove riesce a scorgere molti veicoli, tra i quali dei carri armati.

Scruta l'orizzonte verso oriente, sempre tenendo d'occhio il vicino velivolo da ricognizione; nei giorni precedenti vi è stata ben poca attività aerea da parte del nemico e i piloti, nel loro subconscio, non si aspettano novità.

Hartmann fa una chiamata di controllo al centro operativo, ma la radio gli risponde che nella zona non vi è nulla di nuovo e il volo continua tranquillamente.

Il velivolo da ricognizione fa un'ampia virata e i suoi angeli custodi, dall'ogiva dipinta di bianco, lo seguono fedelmente nel cielo che ormai si illumina rapidamente; la luce mette bene in mostra il numero uno, dell'altezza di quasi un metro, che è stato dipinto sul fianco della fusoliera di Hartmann dietro l'abitacolo; sotto di questo, invece, è scritto il nome della fidanzata, Usch, dentro un cuore rosso trafitto da una freccia.

Il pilota scrive quotidianamente a Usch Paetch e, dopo la guerra, tutta quella corrispondenza dovrà divenire una notevole fonte di informazioni giornaliere, tanto più importante in quanto i suoi documenti personali e di volo relativi all'ultimo anno di guerra sono andati perduti.

Il volo continua senza che, per qualche tempo, vi siano novità da segnalare; finalmente l’ FW 89 mette la prua su Ugrim e inizia il ritorno al campo di partenza.

Proprio in quel momento, su quell'aeroporto, l'ufficio operazioni riceve una comunicazione da un centro « Adler»!

I posti «Adler» sono disseminati per tutta la zona e consistono in un osservatore che se ne sta su una macchina munito di un poderoso binocolo e di un radiotelefono.

La linea del fronte è tracciata su una mappa che porta una suddivisione in numeri lungo un lato e una in lettere sulla base; ogni centro operativo e i vari «Adler» ne hanno una copia e quando un osservatore vede, o sente, dei velivoli nemici subito comunica per radio l'osservazione fatta e la posizione.

L'ufficio operazioni chiama immediatamente Hartmann e gli riferisce: velivoli nemici in volo verso ovest, posizione «Berta neun» (B 9).

Da dieci a venti russi in volo a bassa quota.

Hartmann sente un certo fremito mentre dà un' occhiata alla carta; la pattuglia è molto vicina a B 9; scruta il cielo verso est, non vede nulla e allora vira verso la direzione dalla quale dovrebbero arrivare i nemici.

Si mette a cabrare tenendosi sulla rotta di intercettazione dopo aver aumentato la potenza del motore; tutto appare tranquillo, ma la tensione cresce.

I quattro piloti scrutano attentamente il cielo davanti a loro, guardano, cercano, sperano di vedere dei puntini nella lontananza; i minuti però passano e non si scorge nulla mentre i Messerschmitt continuano nel loro volo.

Gli auricolari di Hartmann entrano in vibrazione:

«Achtung! Sehen Sie links, vor uns, dicke Mobelwagen! »

(Attenzione! A sinistra, avanti, cacciabombardieri!);

è uno dei suoi piloti che li ha visti.

Hartmann guarda sulla sinistra e subito vede una massa di puntini verso est.

«Vittoria», risponde allora.

Dà tutto motore e tira leggermente la leva facendo quota per prepararsi all'attacco; nel frattempo l’ FW 89 è sparito verso sud-ovest, diretto a Ugrim, ed egli studia le piccole sagome della formazione che sta arrivando

... troppo grandi per essere dei caccia, sono dei bombardieri Il II che si preparano ad attaccare obiettivi tedeschi al suolo.

Questo Il II è pesantemente corazzato e difficile da abbattere tranne quando venga colpito dal basso, nel grande radiatore dell'olio: se colpito li s'incendia rapidamente.

La stella rossa sui piani verticali di coda dei nemici comincia ad apparire ben chiara, come anche le loro armi difensive posteriori; i velivoli russi procedono diritti e Hartmann, più alto, si mette in virata per effettuare un attacco; gli avversari, cosi potentemente difesi, sono dipinti di verde scuro e si trovano a poco più di mille metri di quota mentre i 109 ne hanno quasi duemila e si trovano esattamente di fronte alla formazione che si avvicina.

I piloti sanno che cosa debbono fare: ognuno può attaccare a volontà e Hartmann, con gli occhi fissi sui nemici, preme il bottone del microfono: «Wir greifen an!» (Attacchiamo!)

La sua ala balena un attimo, per un riflesso di luce, mentre si butta in picchiata contro i cacciabombardieri avversari.

Il motore romba in pieno mentre la velocità aumenta e ben presto è a millecinquecento metri, ma si abbassa ancora, poi tira leggermente la leva e si mette in virata per attaccare dal basso e dai dietro uno degli Il II.

La formazione nemica continua a volare diritta e Hartmann si sceglie il bersaglio mirandolo attraverso il vetro del collimatore sul quale si riflettono il cerchietto e le sbarre; ha scelto la vittima mimetizzata di verde, e lavora sui comandi per giungerle addosso dal basso, alle spalle.

Il 109 sta volando a seicento chilometri l’ ora dopo la picchiata e volteggia veloce ma Hartmann aspetta mentre la sagoma scura del velivolo ormai segnato s'ingrandisce rapidamente nel cerchio luminoso: il pilota nemico prosegue diritto in volo livellato, ignaro di quanto stia accadendo alle sue spalle e il mitragliere posteriore non può vedere nel settore cieco sotto di lui.

L'apertura alare ha adesso toccato le sbarrette verticali, ma Hartmann aspetta ancora; il veloce caccia è a duecento metri, poi a centocinquanta e le armi sono puntate verso il grande

radiatore che sporge sotto il muso, cento metri - fuoco -

Preme con l’indice il grilletto nichelato mentre il pollice preme l'altro; subito, le due mitragliatrici da dodici millimetri e il cannoncino da venti cominciano a sputare metallo da breve distanza, e le pallottole s'infilano nel radiatore dell'olio.

Hartmann si sta avvicinando con tanta velocità che la raffica può durare appena un secondo o due, poi supera la sua vittima e tira su, al di sopra della formazione; nello stesso istante una breve fiamma bluastra fa la sua comparsa dietro il radiatore dell’ Il II.

Gli altri 109 si sono buttati anch'essi sulle pattuglie nemiche, scegliendosi le vittime e sparano loro addosso; molti velivoli russi, come spesso fanno, continuano il volo serrando le distanze mentre altri cercano di reagire all'attacco dei 109.

Hartmann dà un'occhiata in basso verso la formazione nemica; quello che ha attaccato sta fumando fortemente ed esce dal gruppo, buttandosi in picchiata: la distanza. dal terreno è poca e un getto di fiamme nasconde tutto il motore mentre picchia, cade in candela e s'infrange al suolo, esplodendovi contro.

È la prima vittima del 7 luglio e la ventiduesima di Hartmann!

Virando in cabrata per tornare indietro, si prepara a un secondo attacco.

La formazione russa sta intanto separandosi in tante coppie o in velivoli isolati.

Il cacciatore livella il suo volo, poi si butta in picchiata e ricomincia di nuovo a prendere velocità; si porta più basso della quota dei russi per poi cabrare sotto di loro, ha munizioni a volontà e, dopo essersi regolarmente controllato alle spalle, si dirige contro un altro Il II lavorando sui comandi .per stabilizzare il velivolo, perché qualunque movimento distorce il tiro e impedirebbe la mira accurata.

Piovendogli addosso a tutta velocità dalle spalle e guardandone la sagoma ingrandirsi nel vetro del collimatore, Hartmann si prepara a sparare sulla seconda vittima.

Adesso però il pilota vede ,il. caccia della Luftwaffe alle sue spalle e di colpo cabra il velivolo, virando: è una tattica, non certo delle migliori, di molti piloti russi; ma il cacciatore è un esperto della correzione di deflessione e un maestro nel giudicare l'esattezza della mira quando è in coda a un nemico in virata.

Di colpo gli è alle spalle e gli arriva addosso calcolando il tiro: distanza duecentocinquanta metri, duecento,centocinquanta, preme i grilletti.

È molto vicino all'avversario e la mira è precisa; le pallottole piovono sul bombardiere color verde scuro dal quale si staccano pezzi di lamiera che si sperdono nella scia.

Poi... il fuoco bluastro e il fumo rivelatori!

Ancora una volta è stato colpito il radiatore dell'olio.

Hartmann tira su violentemente al di sopra della formazione, adesso completamente dispersa e guarda in basso e intorno a sé.

La sua seconda vittima sta cadendo e altri Il II sono in fiamme; l'attacco dei quattro caccia ha avuto successo.

I russi sono stati dispersi e rientrano verso est; Hartmann si accorge a un tratto che ormai il cielo è quasi sgombro e allora cerca di riunire la sua pattuglia; preme il pulsante della radio e comunica che si sta dirigendo verso Ugrim.

Il suo gregario lo ha tenuto d'occhio e ben presto sono tutti e quattro di nuovo insieme, diretti a sud-ovest; Hartmann riferisce l’azione al centro operativo: sono appena le 3.50!

Ha già conseguito due vittorie prima ancora che il giorno abbia avuto inizio per la maggior parte degli altri piloti.

Ugrim è a un quarto d'ora di distanza e i Messerschmitt sono a millecinquecento metri di quota; mentre sorvolano delle formazioni tedesche, vedono dei razzi color arancio salire dal basso: è il segnale che fanno i reparti nazionali per indicar loro dove sia arrivata la linea del fronte.

Dopo una quindicina di minuti il campo compare davanti a loro e Hartmann batterà le ali, inclinando il velivolo alternativamente sui due lati, gesto tradizionale per annunciare vittoria; picchia, prendendo velocità man mano che vi arriva, poi si raddrizza e attraversa il prato a bassa quota abbassando prima un'ala e poi l'altra; quindi torna indietro e ripete il battere delle ali dando così con questo saluto la notizia: vittorie ventidue e ventitré.

Ben presto la pattuglia entra in circuito d'atterraggio e i caccia dalle ali lunghe e dall'ogiva bianca, abbassati i carrelli, vengono a terra: si raddrizzano proprio sull'erba... toccano il suolo. Hartmann tiene la leva al ventre, rulla normalmente e poi si dirige verso il parcheggio dove lo aspetta Merten che, ovviamente, ha visto i due segnali di vittoria.

Altra gente lo attende quando arresta il motore dopo aver fatto fare dietro-front al velivolo, chiuso la manetta e tolto tutti i contatti.

Merten sorride mentre salta sull'ala e gli grida: « Gratulieren!»

Hartmann deve risponde a molte domande circa il combattimento del mattino, quello che ha visto, quanti Il II erano in volo e così via.

Lascia il paracadute sul velivolo e, dopo tante domande e tante risposte, raccolte molte congratulazioni, si dirige verso la tenda grande.

Quanto a Merten, le due vittorie rappresentano un lavoro di pittura da fare; già ci sono ventuno distintivi sul timone di coda e adesso ve ne aggiunge un'altra coppia: due sbarrette gialle di sette centimetri l'una.

Hartmann spera che un giorno potrà dipingervi sopra la parola hundert che vuol significare cento sbarrette. (Alla fine della guerra si sarà meritato ben tre hundert sul timone di coda oltre a una cinquantina di sbarrette.)

 

*********

 

Hartmann si arrese in Cecoslovacchia agli americani, sperando così di evitare di essere catturato dai russi; a causa però dell'ingenuità politica statunitense e dei precedenti accordi con i comunisti, gli americani lo consegnarono ai reparti russi, che avanzavano da est.

Una volta in mano loro venne trattato come un criminale; giudicato da un tribunale sovietico e condannato alla prigione, vi rimase dieci anni; come aveva, però, superato le prove impostegli dalla guerra così riuscì a sopravvivere anche a quelle del dopoguerra.

Rilasciato dalle prigioni russe, e restituito alla sua terra natale, si riunì a Usch, con la quale si era sposato otto mesi prima della fine del conflitto; poi si arruolò nuovamente nell' Aeronautica tedesca e, quando la nuova Luftwaffe ebbe in dotazione gli aviogetti americani Hartmann li provò in volo.

Inviato successivamente in America per seguirvi un corso, divenne istruttore di pilotaggio su aviogetti.

Adesso, mentre questo libro è in corso di stampa, Hartmann presta servizio, col grado di Oberstleutnant (tenente colonnello) nell'Aeronautica militare tedesca.

Ha quarantatré anni e, tra tutti i grandi piloti da caccia che sono sopravvissuti alla guerra, Hartmann rimane un individuo dalla personalità enigmatica; è sempre gioviale e sereno a terra, ma freddo in volo anche se è nervoso non lo lascia assolutamente intravedere.

Era troppo giovane per avere un comando durante la seconda guerra mondiale, ma il combattere intensamente per due anni e mezzo sul fronte russo in un grado che ne faceva «carne da cannone» e i dieci anni di prigionia passati in Russia non hanno lasciato alcuna impronta visibile sulla sua personalità.

All'atto pratico, oggi è più rilassato e ha l'aria del buon ragazzo di una volta più di quanto non l'abbiano invece i piloti di recente formazione; una tale rigida indistruttibilità che ha resistito agli ultimi venticinque anni di vita è una notevole testimonianza delle sue doti di autodisciplina.

 

The Fighter Pilots

 

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sca-hase-avi48-09453.jpgSIR DOUGLAS BADER – RAF -

 

Tra tutte le storie riguardanti i piloti della caccia alleata nella seconda guerra mondiale la più istruttiva è, forse, quella del colonnello Douglas Bader.

Molti saranno certo già al corrente della sua vita, che è stata narrata nel libro La scalata al cielo (Reach for the sky ) di Paul Brickhill e nel fìlm che porta lo stesso titolo.

Ciò nonostante appare necessario farne un breve riassunto.

Douglas Robert Steuart Bader era il figlio più giovane di Frederick e Jessie Bader ed era nato a Londra nel 1910.

Nel 1914 suo padre andò in guerra e mori in Francia, dopo l'armistizio, in seguito ai postumi di una ferita dovuta allo scoppio di una granata.

Douglas lo aveva appena conosciuto.

Nonostante che sua madre si fosse risposata, in seguito, con un pastore protestante dello Yorkshire, il fatto di essere orfano obbligò il ragazzo a vincere una borsa di studio se voleva frequentare le scuole pubbliche; i problemi finanziari avevano un'importanza essenziale in famiglia.

Resosi conto delle circostanze, Bader studiò coscienziosamente e riuscì a guadagnarsi l'ambito premio; a tredici anni e mezzo si licenziava da St Edward, a Oxford, dove aveva primeggiato negli studi e nello sport.

Quale suo prossimo obiettivo scelse di sostenere l'esame di ammissione a Cranwell, l'Accademia aeronautica, con l'intenzione di vincere una delle borse di studio per i cadetti. Studiò, per mesi, ore e ore al giorno riuscendo cosi a piazzarsi al quinto posto quando passò il difficile esame che gli permise di essere ammesso, alla scuola della RAF, per merito dei propri sforzi.

A Cranwell eccelleva in tutte le gare (a St Edward era stato il capitano della squadra di rugby) dedicandosi in particolare al pugilato, nel quale sport divenne un esperto del knock-out.

Nel frattempo però aveva cominciato a prendere gli studi un po' alla leggera e questa leggerezza, unita a frequenti, anche se leggere, infrazioni alla disciplina, ebbe per risultato di fargli infliggere un severo rimprovero con la comunicazione che non sarebbero state tollerate ulteriori mancanze.

Minacciato rosi dell'espulsione Bader si rimise immediatamente a studiare, tornando di nuovo ad essere uno studente sul serio.

Nel 1930 ricevette la nomina a ufficiale.

La sua prima destinazione fu al 23° Gruppo di Kenley, dove volava allora sui caccia Gloster Gamecock rendendosi ben presto famoso in tutta l'aeronautica sia nell'atletica sia nel volo acrobatico.

Era cosi bravo nel rugby che entrò a far parte della squadra della RAF e casi abile nei suoi voli da essere prescelto per un'esibizione durante la mostra aeronautica di Hendon, davanti a centasettantacinquemila spettatori.

Il Times descrisse le sue acrobazie e quelle del suo comandante di squadriglia, Harry Day, qualificandole come le più impressionanti dimostrazioni acrobatiche che fossero mai state viste in Inghilterra.

Bader si sentiva il padrone del mondo, era membro del XV Combined Services, gli erano conosciute capacità di comandante, era stato accolto con favore dal gran pubblico.

In quell'epoca il 23° Gruppo cambiò velivolo ed ebbe il caccia Bulldog più pesante, più veloce, ma meno maneggevole del Gamecock; fu proprio questo velivolo che lo fece passare per un'esperienza che, a tempo debito, avrebbe fatto di lui un essere leggendario.

Nel dicembre del 1931, mentre stava eseguendo un volo di normale addestramento con altri due piloti, i tre ufficiali atterrarono su un campetto di fortuna e, dopo esserne ripartiti, Bader vi fece sopra un tonneau lento, a bassa quota.

Forse giudicò male la propria altezza rispetto al suolo, la velocità del velivolo o le caratteristiche diverse del Bulldog; comunque la sua ala toccò il prato e il velivolo vi si sfasciò contro.

Portato all'ospedale in condizioni molto gravi, la sua vita risultò addirittura appesa a un filo molto sottile; era cosi debole che il chirurgo non poté nemmeno amputargli subito la gamba destra, benché fosse necessario fare immediatamente l'operazione, rimanendo invece in attesa che si riprendesse alquanto dallo choc, un' ora o due dopo.

Sopravvisse a mala pena agli effetti dell'operazione e, qualche giorno dopo, fu necessario amputargli anche la gamba sinistra; fu un'altra dura prova per la sua costituzione fisica, ma sopravvisse.

Il famoso pilota e famoso atleta, una cosi nuova e brillante promessa nel campo del volo e in quello sportivo, era ormai ridotto a un essere senza gambe.

Qui comincia la storia che doveva appassionare l'immaginazione della nazione e, in seguito, del mondo.

Bader era deciso a non permettere che la perdita delle gambe dovesse fermare la sua carriera di aviatore; non esistono casi precedenti circa ciò che un uomo cosi stroncato abbia saputo fare dopo l'incidente.

Nonostante che amici e infermieri cercassero di prendere per valide le sue pretese, erano ben pochi coloro i quali credevano che avrebbe mai potuto volare ancora o anche soltanto continuare a rimanere in servizio; più volte parve che la maggioranza dovesse aver ragione e Bader sofferse molte delusioni.

La peggiore di tutte gli occorse quando, dopo esser riuscito con molti sforzi a servirsi agevolmente di due gambe artificiali, dopo aver imparato a camminare e a guidare un'automobille, venne provato in volo dagli istruttori della Scuola centrale di pilotaggio. L'esame gli andò bene e chi aveva volato con lui dichiarò che non aveva perduto nulla delle sue doti di pilota.

Pensando di aver finalmente vinto la sua battaglia, che era stata lunga e difficile, si presentò alla commissione medica, l'unica che avrebbe potuto dargli l'autorizzazione definitiva a volare di nuovo da solo; poiché questa commissione lo aveva già fatto provare dalla scuola di volo (forse con la probabile convinzione che ne sarebbe stato scartato), Bader riteneva che avrebbe potuto senz'altro essere dichiarato idoneo.

Invece l'ufficiale medico più elevato in grado, pur con qualche imbarazzo, gli disse che il suo ufficio non avrebbe potuto concedergli l'autorizzazione perché «non c'era nulla di simile nei regolamenti» che riguardasse il suo caso.

Dopo che aveva dimostrato, nei vari voli di prova ai quali era stato sottoposto, di essere in condizioni di riprendere il servizio attivo, questa fu una delusione tremenda.

Bader venne assegnato alla sezione auto trasporti dell'aeroporto da caccia di Duxford, ma qui doveva ricevere il colpo di grazia; fu infatti chiamato una mattina dal comandante della base, un suo vecchio amico, il quale dovette confessargli che stava per fare la cosa più difficile che mai gli fosse stata richiesta durante il suo servizio nella RAF; porse a Bader una lettera del ministero dell' Aeronautica, una comunicazione molto breve e precisa, nella quale gli veniva detto che, primo, dato l'esito delle decisioni prese dall'ufficio sanitario lui non poteva più rimanere in servizio, nemmeno nella branca dei servizi della Royal Air Force; secondo, gli proponeva di andare in pensione «per causa di cattiva salute»; terzo, che gli sarebbe stata inviata, in seguito, una comunicazione con la proposta della data del suo ritiro dal servizio, della pensione di invalidità e della paga che avrebbe ricevuto da pensionato.

 

All'epoca della crisi di Monaco, nel settembre del 1938, Bader si rese conto che la guerra sarebbe stata inevitabile e scrisse allora al ministero dell'Aeronautica, chiedendo di essere ammesso a un corso di riambientamento al volo.

La risposta fu negativa con la scusa che, nelle sue condizioni, sarebbe stato in continuo pericolo di un incidente; gli veniva però richiesto se avrebbe accettato un incarico a terra. Rispose di no: aveva ancora il volo nel cuore e, sei mesi dopo, rinnovò la domanda.

Nella primavera del 1939 scrisse al nuovo capo del personale del ministero dell' Aeronautica, al quale già un suo buon amico si era rivolto per patrocinare il caso.

Il Maresciallo dell' Aria Sir Charles Portal rispose con quello che, a prima vista, poteva sembrare un nuovo rifiuto; ma un più attento esame della lettera dimostrò che vi era stato un cambiamento di tono.

Portal scriveva infatti che in tempo di pace non gli sarebbe stato consentito di arruolarsi nella riserva di volo, ma che, in caso di guerra, poteva ritenersi sicuro che il ministero dell'Aeronautica avrebbe « quasi certamente» gradito i suoi servizi anche in qualità di pilota, qualora i medici avessero dato parere favorevole.

In settembre Hitler invase la Polonia e, per la seconda volta ,in venticinque anni, la guerra scese sull'Europa.

Bader cominciò a bombardare di richieste di richiamo tutti i suoi amici e le varie autorità; finalmente, in ottobre, gli venne ordinato di presentarsi a visita medica; erano già trascorsi sei anni da quando le sue possibilità di continuare a volare erano state annullate proprio da una commissione sanitaria.

Quando entrò nella sala e si presentò per essere esaminato, si rese conto che tutti ritenevano che volesse soltanto avere un incarico a terra; perciò quando un ufficiale gli chiese in qual genere di servizio avrebbe preferito essere destinato rimase un po' scosso e rispose decisamente che l'unico incarico che potesse interessarlo era quello del volo.

L'ufficiale (Vice Maresciallo dell'Aria Halahan) era stato suo comandante a Cranwell e gli spiegò che lui trattava soltanto gli incarichi a terra; dopo una pausa, tuttavia, Halahan scrisse un appunto e gli disse di consegnarlo ai medici; quindi gli augurò buona fortuna.

Il personale sanitario, non certo molto incoraggiante, gli fece notare, quasi incidentalmente, che non avrebbe mai potuto essere classificato come idoneo a volare da solo; Bader però rispose con ottimismo.

Finita la visita medica dovette presentarsi al colloquio finale, dall'altra parte della stessa tavolata di medici che lo aveva tanto deluso sei anni prima.

L'ufficiale che aveva di fronte cominciò col dirgli che, gambe a parte, il suo fisico era perfettamente sano; poi gli fece leggere l'appunto di Halahan, una fortissima raccomandazione; poi tacque.

Bader, che ricordava il tremendo momento di tanti anni prima, ebbe l'impressione che l'ufficiale non avesse la forza di affrontarlo: continuava a tacere pur seguitando a fissarlo diritto negli occhi.

Finalmente disse che era d'accordo con Halahan e che lo classificava abile al pilotaggio, anche da solo!

Fu un momento indimenticabile.

Era rientrato nella RAF, perfettamente idoneo a qualunque servizio di volo, dopo sei anni di lontananza e di lotte.

Ricevette l'ordine di presentarsi alla Scuola centrale di pilotaggio a Upavon il 18 ottobre 1939, per la sua prima prova; fortunatamente fu il maggiore Rupert Leigh, un compagno di corso dell'Accademia, che ebbe l'incarico di portarlo in volo e questo calmò la sua tensione; infatti superò facilmente l'esame.

Era la prima volta che volava, dopo sette anni e, successivamente, venne accettato per un corso completo di familiarizzazione; il 27 novembre 1939 venne finalmente il momento in cui l'istruttore scese dal suo abitacolo e gli disse di decollare da solo.

Fece rullare il Tudor fino al punto di partenza e, levatosi in volo, vi rimase per venticinque minuti prima di venire all'atterraggio; la strada per il rientro era stata lunga.

Completò il corso nel febbraio del 1940 e venne poi inviato al 19° Gruppo con il grado di tenente ma, nell'aprile, si era meritata la promozione a capitano, comandante di squadriglia, nel 222° Gruppo.

Fu con questo reparto che ebbe il suo primo combattimento aereo, verso la fine di maggio; il gruppo era uno di quelli montati sugli Spitfire che erano stati trattenuti in Inghilterra per far fronte a qualunque emergenza; era dislocato nel nord, a Kirton-in-Lindsay, quando una mattina all'alba ricevette l'ordine di trasferirsi a Martlesham, presso la costa del Suffolk.

Bader e gli altri piloti sapevano ben poco di quello che stava accadendo sull'altra sponda della Manica dove l'esercito britannico, battuto e frammisto ai resti di altri eserciti, stava convergendo su Dunkerque.

Per diversi giorni il 222° pattugliò il cielo su quelle spiagge rendendosi ,conto, direttamente, di come stessero le cose; poi, una mattina, mentre gli Spit stavano dando la caccia a una formazione di Me 110, vennero attaccati da una massa di 109.

In un duro combattimento Bader abbatté freddamente un caccia tedesco e, trovatosi isolato dal resto della sua pattuglia, se ne tornò al campo da solo.

Nel pomeriggio ,era impegnato in un'altra crociera e abbatté in fiamme un He 111 mentre un altro Spit si univa a lui dopo che aveva già eliminato il mitragliere di coda e incendiato il bombardiere.

Il « prodigio senza gambe», come E.C.R. Baker ha definito Bader e come doveva poi essere dovunque conosciuto, aveva superato l'esame di combattimento contro il miglior caccia del nemico.

Era ormai definitivamente idoneo a qualunque servizio!

Nel giugno del 1940 Bader fu promosso al grado di maggiore, il che significava che aveva raggiunto gran parte dei suoi compagni del corso di Cranwell, e gli venne dato il comando del 242° Gruppo, montato su Hurricane.

Il comandare un gruppo fu quasi una rivendicazione e il comandante del 12° Raggruppamento, il Vice Maresciallo dell'Aria Trafford Leigh-Mallory che lo conosceva molto bene, lo scelse apposta per quell'incarico.

Il reparto era composto soprattutto di canadesi e aveva già prestato servizio in Francia, in mezzo alla confusione e alla demoralizzazione della rotta alleata e dell'evacuazione; senza mezzi adeguati, senza coordinamento né controllo, aveva sofferto perdite del cinquanta per cento.

I piloti erano amareggiati o disgustati, l'azione di comando era venuta a mancare e si sentiva la necessità di un comandante dinamico, capace di rimettere in piedi il morale del personale. Fu in questa situazione, mentre il gruppo era a Coltishall presso Norwich, che arrivò Bader con l'incarico di nuovo, e senza gambe, comandante; quando qualcuno dei piloti canadesi venne a sapere della sua condizione ne dedusse che avrebbe volato ben poco e che sarebbe stato una persona poco attiva.

Fu la supposizione più sbagliata che fosse stato possibile fare durante la guerra!

Bader fece presto a rimettere a posto il 242°.

Sostitui immediatamente i due comandanti di squadriglia, pretese cura della persona e della disciplina dando per primo un energico esempio di precisione di volo; cosi facendo infuse nel gruppo un nuovo spirito.

Quando riscontrava deficienze nella manutenzione o mancanza di parti di ricambio o di utensili sollevava un tal putiferio di proteste che l'eco giungeva fino al comandante in capo del Comando caccia, che una volta invitò Bader a presentarsi da lui.

Il risultato fu che un ufficiale addetto ai rifornimenti a Coltishall e un altro di grado molto elevato del Comando caccia vennero rimossi dal loro incarico in ventiquattr'ore; le parti di ricambio e le attrezzature per gli Hurricane di Bader arrivarono immediatamente.

All'atto pratico, era un uomo che sapeva il fatto suo; voleva che quello che era necessario fare fosse fatto e ben presto tutto il suo personale fu dominato dal suo spirito.

Mentre la battaglia d'Inghilterra aveva il suo inizio in luglio, e continuava in agosto, il 242° non veniva mai chiamato a menar le mani e Bader ne stava facendo una malattia; era cosi impaziente di buttarsi sul nemico, cosi pronto a slanciarsi, che quando finalmente venne permesso al 242° di partecipare alla lotta ogni pilota del gruppo era psicologicamente preparato.

Tuttavia, fino al 30 agosto non entrarono in lizza nonostante che fossero passate delle settimane da quando la Luftwaffe aveva cominciato i suoi pesanti attacchi.

Poiché il 242° faceva parte del 12° Raggruppamento ed era dislocato presso Norwich, molto a nord rispetto alla zona della battaglia, non era possibile impiegarlo senza farlo prima spostare su un aeroporto più meridionale fin dalle prime ore della mattina; da quello avrebbero potuto partire su all’arme dopo che le incursioni nemiche fossero state avvistate dai radar.

Bader chiedeva continuamente, e anche impazientemente, che il suo gruppo venisse impiegato in quel modo e, finalmente, gli venne fornita l'occasione.

 

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L' intercettazione ad Est di Londra

Il 29 agosto di quell'eccezionalmente bella estate del 1940 era piovuto, ma il 30 era spuntato col bel tempo sulla Manica, sulle zone meridionali e sul Norfolk.

L'aeroporto di Coltishall era situato a nord di Norwich e su quella base di caccia stavano in attesa gli Hurricane del 242° Gruppo, sparpagliati sul prato; gli specialisti ne stavano scaldando i motori mentre il cielo si illuminava verso oriente.

Stokoe, l'attendente di Bader, imboccò il corridoio della palazzina ufficiali, una costruzione di mattoni a due piani, apri la porta di una camera e vide che il maggiore era già sveglio.

Bader aveva il sonno ,leggero e Stokoe lo trovava raramente addormentato; gli dette il buongiorno, rispettosamente, posò una tazza di tè sul comodino, mise accanto al letto un paio di gambe artificiali e se ne andò; erano le sei della mattina.

Bader si alzò in un istante, se ne andò nel bagno che era accanto alla camera servendosi delle mani, s'immerse nella vasca per lavarsi e si fece la barba con un rasoio di sicurezza.

In quindici minuti era già uscito dal bagno e di ritorno in camera dove s'infilò le gambe con la stessa rapidità con la quale un qualsiasi altro pilota si sarebbe infilato gli stivali da volo. Indossò l'uniforme d'ordinanza, mise la cravatta nera e si cinse il collo con una sciarpa blu a pallini bianchi; alle 06.25 era al circolo dove sedette a un tavolo molto lungo mettendosi a pallare con il maggiore Rupert Leigh che comandava il 66° Gruppo, anch'esso dislocato a Coltishall, e con altri piloti.

Fece una colazione leggera, a base di fette di pane arrostito, burro e marmellata; ma i suoi pensieri erano sempre rivolti ai voli previsti per quel giorno.

Aveva un gran desiderio di muoversi dalla baracca del decentramento e le sue speranze erano, ovviamente, sempre quelle di potersene andare al sud per prender parte alle intercettazioni contro la Luftwaffe; lui e i suoi piloti stavano aspettando questa possibilità da parecchie settimane.

Perciò, dopo appena pochi minuti passati al tavolo della colazione, stava già uscendosene dal circolo con quell'andatura tutta sua particolare, l'unica cosa che lasciasse sospettare l'uso delle gambe artificiali.

Zampettò fino a una macchina a quattro posti che stava aspettando all' esterno e se ne andò al suo decentramento dove, come altri piloti del 242°, indossò la «Mae West » si mise a controllare gli indumenti e il materiale da portare in volo, bevendo tè e aspettando.

Per tutte le settimane precedenti, nonostante i duri combattimenti, i piloti del 242° erano sempre rimasti seduti nella baracca e anche questa mattina cominciava come tutte le altre. Pochi minuti dopo, però, il telefono prese a squillare.

Bader rispose di persona.

Era l'ufficio operazioni e quello che gli dicevano lo stava, evidentemente entusiasmando; subito anche altri piloti presero interesse alla chiamata.

Bader riabbassò il microfono e urlò trionfante: «Forza, ragazzi! Si parte! »

Una ventata di eccitazione scosse la baracca mentre i piloti si precipitavano verso i velivoli; quello di Bader era proprio davanti alla porta; appena pochi passi e già era accanto all'ala verde-bruna dello Hurricane mentre gli altri s'imbarcavano sul camioncino che li avrebbe deposti presso i loro velivoli.

Il motorista aveva già messo in moto il motore e io vento dell'elica faceva ondeggiare l'erba del prato; il suo,paracadute rimaneva sempre nell'abitacolo, contrariamente alla norma.

Dopo aver salutato motorista e avieri appoggiò la mano sulla spalla sinistra del più vicino e saltò sull'ala sinistra; infilò poi per prima la gamba destra nell’abitacolo, aiutandosi con le mani, poi agguantandosi a quella fiancata, v'infilò anche l'altra e si mise seduto sul seggiolino.

Un aviere che stava in piedi sull'ala destra lo aiutò ad allacciarsi le cinghie, quelle ventrali e quelle delle spalle, e a sistemare la maschera dell' ossigeno.

Bader si mise subito a controllare gli strumenti e i comandi; nei pressi, anche le altre eliche presero a girare e poco dopo dodici Hurricane stavano rullando per prepararsi al decollo.

Bader, il cui nome in codice era «Laycock comandante rosso» frenò, arrestando il velivolo, controllò i caccia dietro di lui, il cielo davanti e, col tettuccio aperto, spinse a fondo la nera manetta del gas; la sua pattuglia cominciò a muoversi mentre gli altri tre, dopo aver atteso qualche istante, dettero anch'essi inizio alla corsa di decollo, seguendolo.

Poco dopo tutte e quattro le sezioni stavano rincorrendosi, una dietro l'altra, ciascuna di fianco a quella che la precedeva, sul prato dell'aeroporto.

Bader fu il primo a staccarsi; fece rientrare il carrello, chiuse il tettuccio e ridusse il motore dirigendosi a sud a bassa velocità in modo che gli altri potessero raggiungerlo.

Quando il gruppo fu tutto riunito in formazione conmnuò il volo a bassa quota per dieci o quindici minuti; poi, di colpo, una voce ruppe il silenzio radio: era il controllore che ordinava a Bader, e al 242° di rientrare alla base di partenza.

Bader, esasperato, montò su tutte le furie, ma ubbidì.

Fece una larga virata e riatterrò a Coltishall dove subito si precipitò al telefono per chiedere, arrabbiato, che cosa stesse succedendo: gli venne detto, con calma e decisione, di attendere ordini.

I piloti, delusi, si sedettero e si misero a bere tè o caffè, domandandosi se sarebbero stati ancora chiamati all'azione.

Un'ora dopo il telefono suonò: decollare (di nuovo!) per Duxford!

Si ripeté la scena precedente; Bader si sistemò nell'abitacolo, si legò, mise in moto il motore e rullò fino alla posizione di decollo; i dodici Hurricane lasciarono l'aeroporto di Collishall dirigendosi a sud verso il limpido cielo meridionale; le nove erano passate da poco, ma già quella giornata pareva lunghissima a Bader e ai piloti del 242°.

Ridotto il motore, la formazione si strinse in linea di fila e si mise in rotta per Duxford; questa volta non vi fu nessun richiamo e, dopo venticinque minuti di volo, il 242° stava circuitando sull'aeroporto di destinazione chiedendo l'atterraggio.

Un decentramento simle a quello di Coltishall attendeva e, appena Bader vi fu arrivato ed ebbe fermato il velivolo, si precipitò nella baracca e telefonò all'ufficio operazioni .chiedendo: «Woody, che novità? » li tenente colonnello «Woody Woodall », un amico di Bader, gli rispose: «Nulla, per ora ».

Poi gli disse che il 242° era di riserva, e che sarebbe stato impiegato soltanto se necessario.

In quel momento una massa di velivoli tedeschi, circa un centinaio, attraversava la Manica, ma i gruppi dell’undicesimo Raggruppamento erano già stati mandati in volo per intercettarli.

Cosi, il 242° rimase in attesa.

Gli incursori tedeschi attaccarono diversi aeroporti della RAF, ivi compreso Biggin Hill, sul quale un gruppo del 12° Raggruppamento era in crociera per proteggerlo, ma il 242° non venne mandato in volo.

Poi vi fu un periodo di quiete: tuttavia Bader non volle lasciare la baracca e i suoi piloti si buttarono per terra intorno ai loro velivoli fermi al sole, mangiando panini per colazione... e aspettando.

Bader rimase quasi sempre accanto al telefono, ma non giunse nessuna chiamata.

Alle 13.30 tre formazioni della Luftwaffe vennero avvistate dai radar verso sud, in direzione di Dover.

Il nemico stava attaccando i campi della caccia dell'undicesimo Raggruppamento:

Biggin HHl, Tangmere, Shoreham e Kenley; otto gruppi vennero mandati in volo per intercettarli, ma per il 242° non giunse alcuna chiamata.

Il sole cominciò a calare verso occidente; l'aver atteso così a lungo di entrare in azione e l'essere stati fatti rientrare una volta a Coltishall fece sentire a Bader molto deludenti l'attesa e l'inazione di Duxford.

Erano ormai le 16.00 e qualcuno aveva già concluso che la giornata sarebbe stata del tutto inattiva per il 242° Gruppo.

I minuti passano: 16.15... 16.30... 16.45; i velivoli tedeschi che hanno effettuato l'ultimo attacco sono armai di ritorno alle loro basi in Francia.

Tuttavia, senza che Bader lo sappia, altre formazioni sono in arrivo: attraversano la Manica e, dagli schermi dei radar, appare evidente che si preparano a attaccare obiettivi di vario genere. L'ufficio operazioni, indaffarato a studiare le rotte e a preparare ,le intercettazioni, sta scegliendo quali gruppi debbano esser mandati in volo e, quando una formazione nemica prende la direzione di North Weald, un aeroporto della caccia situato nella zona nord-orientale di Londra, a sud di Duxford, ordina la partenza del 242°.

Il telefono suona; Bader prende il ricevitore e sente la voce di Woodall: «In volo! C'è del lavoro in arrivo ! »

Bader sbatte giù il microfono e urla: «Decollo!»

Tutti si mettono in movimento.

Gli specialisti hanno già messo in moto mentre lui si avvicina di corsa: monta a bordo, si lega, dà motore e comincia a rullare; per tutto il decentramento i velivoli del 242° stanno già muovendosi; i piloti sono saltati a bordo in un lampo e sono già pronti.

Bader percorre una breve distanza, poi spinge la manetta e accelera velocemente, saltellando sull'erba; le sezioni gialla, verde e blu lo seguono nell'ordine, ciascuna con tre velivoli, Eric Ball in testa alla prima, George Christie alla seconda e Georgie Powell-Shedden all'ultima.

Gli Hurricane rombano a pieno motore e Bader tira lentamente la leva mentre il velivolo si solleva dolcemente sul prato; la rotta è verso sud.

I caccia fanno quota rapidamente (salgono meglio dello Spitfire) e, quando ha fatto rientrare il carrello e i fap, ha chiuso le alette di raffreddamento e il tettuccio, Bader chiama Woodall per radio: «Laycock comandante rosso chiama Steersman. In volo; che quota? »

«Quota quarantacinque », è la risposta; poi Woody aggiunge: «La merce si dirige su North Weald. Rotta uno-nove-zero. Motore! »

Il comandante esegue e dà tutto motore; dai tre scarichi laterali del Rolls-Merlin escono adesso getti di fiamma; il sole è ormai a occidente e la tattica del nemico, nelle sue ultime incursioni, è stata quella di avvantaggiarsi di questo fatto per giungere con il sole alle spalle.

Bader decide perciò di tenersi alquanto più a destra; punta verso occidente in modo da rendergli la pariglia; sta ripetendo lo stesso gioco della prima guerra mondiale.

I suoi comandanti di sezione danno la posizione;

«Comandante giallo, a posto »;. «Comandante verde, a posto ».. «Comandante blu, a posto ». Bader accende il collimatore e toglie la sicura alle armi mettendo l'interruttore su «fuoco».

Dà un'occhiata al vetro del collimatore sul quale vede un cerchietto giallo luminoso con delle righe laterali; sposta col pulsante apposito la loro distanza fino a portarla a quella corrispondentea un'apertura alare di dodici metri; quella dei 109 è circa di nove, ma la « merce» probabilmente comprende anche dei bombardieri, che hanno un'ala più lunga.

Le quattro pattuglie, che procedono serrate, dirigono per duecentoventi gradi e salgono a centoquaranta miglia orarie verso il sole pomeridiano; sono su Hertford, a una decina di minuti da North Weald.

In distanza si vedono l'estuario del Tamigi e la grande macchia di Londra quando a un tratto una voce si fa sentire negli auricolari:

« Comandante blu a comandante Laycock, tre aeroplani più bassi, ore tre ».

Bader dà un'occhiata e vede tre puntini, sulla destra, in basso; allora ordina a Powel-Shedden di andare, con la sua sezione, a vedere di che si tratta.

La sezione blu se ne va con i suoi tre velivoli tuffandosi sulla destra e il 242° rimane con nove caccia solamente.

Bader allunga una mano sulla, sinistra e apre l'ossigeno; cento per cento.

La quota aumenta... tremilaseicento... quattromila... quattromilacinquecento;

L’ elica, mantenendo fisso il numero di giri, tira disperatamente col motore a tutta manetta e i musi appuntiti degli Hurricane, pitturati di color bruno-verdastro, salgono sfrecciando verso il cielo chiaro.

Steersman continua a dare indicazioni: l'ultima rotta ordinata è stata « due-quattro-zero », che mette il gruppo in rotta di intercettazione; Bader guarda da tutte le parti davanti a sé, più in alto, ma non vede niente.

Il rombare dei motori rintrona negli abitacoli, ma all'infuori di questo tutto è silenzio.

I piloti girano la testa da un lato all'altro, si guardano alle spalle: sono le 17.00.

La quota si avvicina ai cinquemila metri; nonostante la leggera foschia che copre il terreno fino a duemila metri il grande serbatoio di Enfield è chiaramente visibile.

Chiama Steersman e Woody risponde: «North Weald è sotto attacco ». Li può vedere? L'eccitazione lo fa trasalire mentre scuta il cielo verso la direzione indicata, davanti sulla sinistra, ma non scorge niente;…vede l'aeroporto... ma non vi sono nemici !

Dove mai possono essere?

Davanti a lui dei batuffoli coprono il cielo del campo... la flak!

Ma allora il nemico deve essere li.

La radio risuona: «Qui Due Rosso: nemici di fronte a sinistra». È Willie McKnight, il suo gregario, che ha avvistato la formazione.

Bader scruta davanti a sé, sulla sinistra... adesso li vede... sono dei puntini: tanti puntini che stanno avanzando.

Preme il bottone della radio: « Li ho visti ».

I nove piloti sentono ,la tensione dell'attesa mentre una massa di velivoli tedeschi è in arrivo verso di loro; tutti possono vederne la quantità; sono due grosse pattuglie di almeno una trentina di velivoli ciascuna che diventano sempre più grandi e più neri.

Poi, sopra i bombardieri, Bader avvista altri puntini, più piccoli... caccia!

Sono un poco più alti del 242°: bisognerà avere a che fare con loro, anche se ha soltanto nove velivoli.

Tre possono attaccare la formazione più alta dei bombardieri; preme il bottone della radio: «Sezione verde, attaccare quelli alti…»

Christie conferma e i suoi tre velivoli si allontanano sulla destra, facendo quota; il 242° dispone adesso di sei aeroplani !

Bader continua la sua rotta, sempre facendo quota; i bombardieri sono, per b maggior parte, dei bimotori grigiastri, i Dornier 17; le «matite volanti»

Sono in pattuglie di quattro o anche di più e i Me 110 si sono messi in mezzo a loro, che procedono con rotta nord-est.

I sei Mark I di Bader vanno loro incontro con prua sud-sud-est, tenendosi più alti; poiché i bombardieri sono già su North Weald non ha tempo per seguire l'azione della sezione verde che, al di sopra, piega, con tutti i suoi velivoli, sulla sinistra, virando secondo un arco che dovrebbe portarli, col sole alle spalle, sulle formazioni nemiche.

Eccoli!

Bader ordina per radio di disporsi in fila indiana e di attaccare per sezioni; da mille metri al di sopra degli incursori si mette a picchiare e gli Hurricane prendono velocità lasciandosi il sole in coda; non distoglie gli occhi dai bombardieri, dei quali vuole rompere la formazione prima di attaccarli individualmente.

L'indicatore di velocità sale deciso mentre il rombare dei motori si fa più forte e il vento di corsa fischia nel lambirere le fusoliere; le sagome nemiche si fanno sempre più grandi attraverso il vetro del collimatore.

Bader sta arrivando velocissimo, adesso; non gli riuscirà di passare attraverso la prima o la seconda linea, ma attaccherà la terza.

Alla testa dei suoi tre Hurricane brunastri apre il fuoco precipitandosi in mezzo ai bombardieri, poi sfreccia in giù, dopo esser passato tra due pattuglie; nel frattempo i velivoli nemici si buttano in tutte le direzioni.

La seconda sezione passa anch' essa, sparando, in mezzo ai Dornier 17 che si sono allargati, mentre Bader sta ricominciando a far quota per scagliarsi contro qualche aeroplano isolato; la sua prima raffica era andata dispersa in mezzo a loro.

Mentre risale, con McKnight dietro a lui sulla sinistra e Crowley-Milling sulla destra, dà un'occhiata in alto e vede davanti a sé, più in alto, tre Me 110 che stanno virando a destra. Fissa gli occhi sul terzo della pattuglia e dirige il muso del caccia verso quest'ultimo gregario bimotore.

Dopo un migliaio di metri di picchiata a tutto motore ha preso una bella velocità; vede i sedici metri di apertura alare del 110 ingrandirsi rapidamente nel collimatore.

I piloti nemici fanno quota e virano sulla destra mentre Bader vira all'interno e le ali s'ingrandiscono sempre più nella linea di mira.

Si avvicina rapidamente... sempre più vicino... ancora più vicino. Ormai è arrivato... a tiro.

Preme il pollice scatenando le otto Browning con un tremendo rombo che fa vibrare lo Hurricane.

Bader è giunto cosi vicino che una fiumana di pallottole penetra subito nel 110 e pezzi metallici ne volano via mentre all'attacco dell'ala destra si sviluppa un incendio; sta quasi per mangiargli la coda con l'elica quando smette di sparare.

Il bimotore precipita in basso sulla destra, fuori controllo, con una grande fumata che lo segue nella caduta.

Ma Bader non ha tempo per stare a vedere perché si guarda intorno, a destra, a sinistra, alle spalle... altri Dornier e altri 110 si stanno sparpagliando; durante l'azione ha perduto i suoi due gregari, che si sono buttati su altre vittime.

Tutto a posto: è rimasto solo e si rende conto che ha ottenuto la sua prima vittoria nella battaglia d'Inghilterra.

Non ha, tuttavia, molto tempo da dedicare a questo pensiero: sotto di lui, sulla destra... un altro 110.

In picchiata, Bader avverte qualcosa allo stomaco perché il corpo ha seguito in ritardo il movimento del velivolo; il Messerschmitt è appena uscito da una brusca virata o da uno stallo, allora manovra di pedaliera e di leva per far combaciare l'apertura alare del nemico con le sbarrette gialle che vede sul vetro del collimatore.

Adesso però il nemico tira sù... si mette a cabrare e Bader lo segue; quello picchia, e Bader gli è sempre dietro, sempre più vicino.

È una strana manovra e non riesce a immaginare quello che il pilota nemico possa pensare di fare.

Il 110 tira su di nuovo bruscamente... e lo Hurricane lo segue, guadagnando sempre terreno man mano che l'avversario continua ad andare su e giù.

Adesso sta ancora picchiando e Bader è abbastanza vicino da potergli sparare addosso!

Ma ora tira su e Bader cabra: le ali del nemico riempiono la distanza tra le sbarrette gialle e lui può distinguere le croci nere sulle ali.

È a tiro!

Gli è vicinissimo quando preme il pollice e le otto Browning sputano una valanga di pallottole nell'ala destra: le loro traiettorie, rese visibili nell'aria dalle scie di fumo che si lasciano dietro, vanno a concentrarsi tutte li.

La massa di fuoco, a così breve distanza, ha effetti tremendi: l'ala si copre di buchi e pezzi di lamiera volano da tutte le parti; Bader è troppo vicino per poter sbagliare e una vampa di luce serpeggia sul bersaglio; fiamme !

Il caccia bimotore picchia di muso mentre alza l'ala sinistra, poi precipita.

Ormai Bader non spara più e sta a guardare; il nemico cade a picco fumando, con le ali che turbinano; si dà un'occhiata alle spalle, ma può rimettersi a guardare il Me 110 che diviene sempre più piccolo.

Nessun paracadute ne salta fuori e soltanto allora gli viene in mente di non essersi accorto dei mitraglieri posteriori in nessuno dei due che ha abbattuto!

Gli hanno forse sparato?

Non lo saprà mai!

Si guarda di nuovo alle spalle: appena in tempo.

Una sagoma nera è dietro di lui... un caccia bimotore, un Me 11O!

Immediatamente Bader dà una pedata a destra accompagnandola con un violento colpo di leva dalla stessa parte e mettendo cosi lo Hurricane nella più stretta virata che possa fare.

Il nemico era quasi a portata di tiro... un altro secondo o due e sarebbe stato troppo tardi.

Il 110 non può virare stretto come l’ Hurricane e Bader sta guadagnando terreno; il pilota nemico si rende conto di quello che sta accadendo e decide di non aspettare che l'inglese gli arrivi in coda... picchia quasi in candela.

Bader lo segue buttandosi all'inseguimento, quasi in verticale, dietro di lui; ma la velocità iniziale del tedesco ha aumentato le distanze e il 110 deve aver dato i motori in pieno. L'incursore e il difensore, gradatamente perdendo quota, picchiano ancora e Bader lo sta fissando da dietro il vetro: non riesce a riprender terreno perché il Me ha guadagnato troppo spazio con la picchiata improvvisa che lo ha preso di sorpresa prima che potesse capire la manovra e seguirlo.

L’ Hurricane è in volo orizzontale e sempre a distanza: il nemico riuscirà a sfuggirgli; ma per lo meno, non sarà riuscito ad abbattere il comandante del gruppo che lo ha attaccato in difesa degli obiettivi.

Bader vira e torna indietro verso la zona della battaglia; fa quota velocemente e scruta il cielo intorno a sé.

Non ci sono velivoli da nessuna parte!

Ma dove sono andati a finire tutti quelli che, qualche minuto prima, gli sfrecciavano vicino?

Può godersi la soddisfazione di avere abbattuto due bimotori nemici; vira a destra e a sinistra, poi schiaccia il bottone della radio: «Qui Laycock comandante rosso... vado al campo».

Mette la prua a nord, sempre scrutando il cielo per vedere se vi sono amici o nemici, di dietro o sui fianchi.

Scorge un caccia isolato, in distanza, che si avvicina e va verso di lui.

Gli va incontro senza distogliere gli occhi dalla sagoma, che piano piano si rivela... ala bassa, monomotore.

Uno Spit, uno Hurricane o un 109 ?

Lo guarda mentre arriva: vicino, più vicino... è uno Hurricane!

Il caccia amico vira dietrò a lui e va a mettersi in pattuglia: è McKnight!

È il suo gregario nella formazione e Bader alza due dita con un sorriso: due vittorie.

Willie sorride anche lui... e ne alza tre !

Questo significa cinque, tra tutti e due.

Bader si domanda che cosa sia successo al rimanente del gruppo e intanto continua a dirigersi a nord; quanti ne saranno andati perduti?

E North Weald è stato bombardato?

Un altro Hurricane viene a mettersi in pattuglia: ancora uno del 242°; cosi sono già tre che tornano al campo.

Poi un quarto pilota del 242° si aggiunge alla formazione e Bader chiama Woody:

«Sono in rientro ».

Pochi minuti dopo Duxford è in vista, insieme a un quinto pilota che si unisce a loro: sono cinque Hurricane che rombano sull'aeroporto e vi compiono sopra un giro prima di atterrare.

Duxford non è stato attaccato e ben presto i velivoli sono in atterraggio.

Bader è il primo; chiude alquanto la manetta per perdere velocità, abbassa il carrello, abbassa la levetta rossa del comando idraulico dei flap alla sua destra e vira in finale.

La corsa si frena; novanta, ottantacinque, ottanta... sta sfiorando il prato... è a terra.

Appena ha rallentato sufficientemente si dirige verso il decentramento, dà un colpo di motore e toglie i contatti urlando le buone notizie con una smorfia.

Ben presto un gruppo di gente circonda il velivolo del quale sono visibili i copricanna delle mitragliatrici aperti e, appena Bader è a terra, lo assediano di domande; man mano che atterrano, anche gli altri piloti corrono dal loro comandante di gruppo, accanto al suo aeroplano.

In breve quasi tutto il gruppo, compreso l'ufficiale addetto alle informazioni, si raduna sul prato e l'azione viene discussa in tutti i suoi particolari.

Bader interroga i piloti, tutti felici, e fa il totale delle vittorie: i suoi dodici uomini hanno abbattuto dodici nemici senza subire perdite; tutti sono rientrati; la ,loro prima intercettazione nella battaglia d'Inghilterra è stata una vittoria completa.

Bader è ai sette cieli; i suoi due abbattimenti sono il quarto e il quinto.

Scrive rapidamente un resoconto dell'azione per l'ufficiale delle informazioni descrivendone ogni particolare e buttando giù tutto quanto possa ricordare; poi viene il momento di tornarsene a Coltishall; è tardi, ma le lunghe giornate estive lasciano luce in cielo fino alle nove di sera.

Bader e il suo 242° Gruppo, per la quarta volta nella giornata, mettono in moto i Rolls-Merlin e lasciano il campo; ma questa volta sono diretti a nord.

Il successo del 242° Gruppo nella sua prima intercettazione contro gli attaccanti tedeschi, il 30 agosto, convinse Bader che le maggiori speranze per ottenere il massimo delle vittorie contro il nemico consistevano nel disporre di una massa di caccia più numerosa nel momento dell'attacco.

 

 

Poco dopo il suo successo del 30 agosto Bader portò in volo una formazione di caccia più grande e ancora una volta ebbe successo: il 7 settembre, con un solo gruppo i suoi piloti dichiararono undici vittorie; il 9 settembre, questa volta con tre gruppi (242°, 310° e 19°) lo stormo dichiarò venti abbattimenti.

Con cinque gruppi (242°, 310°, 19°, 302° e 611°) le vittorie dichiarate furono cinquantadue! Rader era orgoglioso di questi,risultati e riteneva che le sue scarse perdite dipendessero dalla solidità delle tattiche impiegate; in riconoscimento del suo lavoro ricevette la prima decorazione, l'Ordine della Distinzione in Servizio (DSO).

Continuò a combattere alla testa dello stormo di Duxford fino alla fine della battaglia d'Inghiherra; in quel momento aveva conseguito dodici vittorie.

Quando la RAF passò poi all'offensiva nel 1941, Bader ebbe il comando dello stormo di Tangmere, formato da tre gruppi di Spitfire (145°, 610° e 616°); vi si dedicò con un'aggressività che non ebbe mai uguali nella RAF e ben presto aveva effettuato sulla Francia un numero di crociere superiore a quello di ogni altro pilota.

Gli venne consigliato di prendersi un poco di riposo, dato che era quasi quotidianamente in volo profittando del buon tempo della piena estate del 1941, ma non volle accettarlo; in quel momento era al quinto posto tra i piloti della RAF che avevano delle vittorie al loro attivo.

 

*********

Il 9 agosto fece l'ultimo volo portando il suo stormo ad attaccare una formazione di 109 nel cielo di Le Touquet; ne abbatté due prima che un altro lo abbattesse a sua volta, avendogli tagliato in due la coda e facendolo cosi precipitare in candela.

Bader dovette lottare come un disperato per uscire dall'aeroplano, il che avvenne solamente quando gli si ruppe la stringa di cuoio che gli allacciava la gamba destra, rimasta intrappolata nell'abitacolo.

Il paracadute si apri regolarmente, ma prese terra male e, inevitabilmente, venne subito catturato.

I tedeschi seppero ben presto chi era e lo trattarono con rispetto.

Il colonnello Adolf Galland mandò una macchina all'ospedale, dov'era stato ricoverato, per prelevarlo e fargli fare una visita ai piloti del 26° Stormo da caccia.

Il « prodigio senza gambe» era ancora pieno di spirito e, qualche sera dopo, con l'aiuto di un'infermiera francese che prestava servizio nell'ospedale, riuscì a scappare !

Legò insieme delle lenzuola prese in diversi letti e si calò dalla finestra riuscendo a uscire dal cortile e a raggiungere, nella notte, la casa di un contadino, in una fattoria.

Venne ripreso un giorno prima che i partigiani riuscissero a farlo partire, tradito da un'altra infermiera dell'ospedale e catturato proprio mentre stava per essere dato in consegna a un patriota francese.

Nel frattempo la Luftwaffe aveva fatto pervenire alla RAF un messaggio per comunicare che le gambe di Bader si erano fratturate e offrendo a un velivolo inglese un salvacondotto per lanciargliene un altro paio.

La RAF rifiutò il salvacondotto, ma subito effettuò il lancio del pacco, che la Luftwaffe consegnò regolarmente a Bader

Questi tentò altre volte di scappare, ma ormai la sua natura e il suo spirito erano ben conosciuti per cui fu trasferito al campo speciale di sicurezza, Kolditz, ove rimase prigioniero fino all'aprile del 1945; dopo essere stato liberato e aver goduto di due mesi di licenza venne nominato colonnello della RAF; ma rifiutò l'incarico che gli era stato proposto per il tempo di pace e, nel 1946, tornò ad impiegarsi presso la ditta con la quale già lavorava prima della guerra, quella che adesso è conosciuta come la Shell, dove tuttora si trova.

Bader fu decorato della DSO con una barra, della DFC con una barra, della Legion d'Onore e della Croce di guerra francese.

Era indubbiamente un esperto di tattica, era eccezionale come pilota da caccia, un capo dalle doti naturali e possedeva un coraggio quasi illimitato.

Aveva riportato ventidue vittorie e mezzo quando, abbattuto, dovette lanciarsi sulla Francia. Se questo non fosse successo è difficile valutare quanti aeroplani nemici avrebbe distrutto, come è difficiole stimare quanto abbia giovato, al suo paese e alla RAF, quell'uomo che non volle accettare lo svantaggio e la sconfitta fisica e che possedeva una cosi potente forza di decisione.

Il suo esempio, e la sua leggenda, furono di continua ispirazione per i piloti della caccia del tempo di guerra, per quelli che lo seguirono e per altri milioni di persone di tutto il mondo che si trovano nei vari stadi della loro vita.

 

The Fighter Pilots

 

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L’ incidente

Il Mattino del 14 dicembre 1931, un lunedì, era limpido e pieno di sole; l'aria era pungente, e solo a milleduecento metri di quota si notava un leggero strato di cumuli sparsi.

Verso le dieci, Douglas Bader stava effettuando acrobazie non lontano dall'aeroporto quando, vedendo due caccia Bristol Bulldog levarsi in volo, rammentò che i due piloti Phillips e Richardson si sarebbero recati all'aeroporto di Woodley, vicino a Reading, per far visita al fratello di Phillips, che aiutava a dirigere il locale aeroclub.

Subito decise di unirsi a loro.

Mezz'ora dopo, i tre aerei si posavano sulla pista dell'aeroporto di Woodley.

Poco dopo, nei locali del club, alcuni giovani piloti tempestarono Douglas di domande sull'acrobazia aerea, e qualcuno lo invitò a esibirsi in qualche figura acrobatica.

Douglas rifiutò, adducendo a motivo che l'esibizione aerea di Hendon l'avevano affettuata sui Gamecocks, mentre il Bristol Bulldog era diverso.

Mentre si schermiva, rammentava la lavata di testa di Day e le osservazioni sulla sua tendenza a "mettersi troppo in mostra".

L'argomento fu abbandonato sino a quando tutti si alzarono per andarsene.

In quel momento, un giovanotto tornò alla carica, ma Douglas, ancora una volta, rifiutò.

Qualcuno sorrise e buttò là una battuta sui "fifoni".

Per Bader, quella fu una sfida.

Richardson decollò per primo, seguito da Douglas, collerico e con le labbra serrate.

Mentre Phillips si staccava dal suolo, l'aereo di Douglas scivolava fieramente d'ala in una stretta virata, tornava indietro e picchiava per effettuare un passaggio sul campo d'aviazione,

mentre un gruppo di uomini stava a guardare dalla soglia del club.

Sfiorando la pista, ed esibendosi in un roll a bassa quota, il Bulldog superò la rete che recingeva il campo, sollevò appena il muso e cominciò a scivolare d'ala sulla destra.

Douglas stringeva saldamente la barra... timone leggermente alzato per mantenere il muso sollevato... barra leggermente a sé per tenersi in quota... dare gas al momento del rollio per evitare lo stallo.

Douglas senti che l'aereo cominciava a perdere quota.

Barra completamente in avanti, adesso.

Le ali erano verticali e scintillavano al sole, l'aereo scendeva veloce.

Douglas stava richiamandolo per iniziare la virata, quando l'estremità dell'ala sinistra toccò la pista e attirò il muso dell'aereo verso il basso.

Mentre l'elica e la cappottatura del motore si frantumavano nella collisione col terreno, il motore veniva strappato e rimbalzava sollevando una nuvola di terriccio.

Il Bulldog si accartocciò, rotolando su sé stesso; legato al posto di pilotaggio, Douglas non provò alcuna sensazione, udì solo un rumore assordante.

Per un istante nulla si mosse nell'aeroporto.

Solo al centro ribolliva una densa nube di polvere e terriccio, nella quale s'intravedeva l'aereo distrutto, simile a un ammasso di carta spiegazzata.

Mentre la polvere cominciava a diradarsi, gli uomini del club accorrevano verso il luogo del disastro.

Al frastuono subentrò un silenzio assoluto.

Douglas pensò vagamente che doveva essere precipitato, ma quell'idea gli sfiorò appena la mente; il dolore che provava alla schiena ottenebrava tutto.

A poco a poco il dolore diminuì, ma fu sostituito da una fitta lancinante alle ginocchia, simile a quella che si prova quando si urta con un gomito.

Douglas abbassò la testa e notò che la sua gamba destra era piegata in modo innaturale; non vide la gamba sinistra, ma non se ne preoccupò.

La gamba sinistra era finita sotto il seggiolino, e Douglas vi sedeva sopra.

Il piede destro poggiava, ripiegato, contro l'angolo estremo dell'abitacolo; la tuta bianca era lacerata all'altezza del ginocchio e rossa di sangue che fiottava in piccoli zampilli regolari.

Fra il sangue e la tela, Douglas intravedeva il ginocchio e un qualcosa che spuntava su tutto. Sembrava la barra di un timone. Molto strano...

Il giovane la fissò distrattamente, addirittura con distacco, sino a quando un pensiero improvviso non venne ad assillarlo

"Maledizione! sabato non potrò giocare".

Ma anche quella preoccupazione dileguò in fretta, sommersa da una calma beata.

 

***************

 

Nuovamente in Volo

 

Era un venerdi.

Douglas rispose subito comunicando che si sarebbe presentato la domenica, poi telefonò al suo sarto per ordinargli una divisa nuova, che doveva essere pronta in una settimana.

In quel momento, senti di essere tornato a far parte della R.A.F.

Per i voli di aggiornamento si presentò ancora a Rupert Leigh.

Dopo aver pranzato ritrovò un altro vecchio amico: Christopher Clarkson, che lo fece volare su un Avro Tutor.

Clarkson pilotò l'aereo per primo, poi lo affidò a Douglas, che effettuò un ottimo atterraggio la prima volta, e la seconda ne esegui uno perfetto, toccando terra con tutte e tre le ruote contemporaneamente.

Mentre si accingeva a rullare sulla pista per ripartire, Clarkson scese, dicendogli: «L'aereo è tutto tuo, amico».

Era venuto il grande momento, e finalmente mi ritrovavo solo alle prese con un aereo.

Era il 27 novembre 1939: erano trascorsi quasi otto anni esatti dal giorno in cui ero precipitato.

Girai il Tutor K3242 controvento e decollai.

Quel pomeriggio lo ricordo chiaramente come se fosse adesso: il cielo era grigio, con nubi a circa cinquecento metri di quota e vento da sud-ovest.

Sopra il campo d'aviazione gironzolava un certo numero di aerei, e io mi allontanai da quel traffico…….

Poco dopo squillò il telefono nell'ufficio di Rupert Leigh.

Afferrato il ricevitore, Leigh udi la voce fredda del tenente colonnello Pringle, capo degli istruttori:

«Leigh, sono sceso proprio ora. Mentre atterravo, sono passato vicino a un Tutor che volava capovolto a meno di duecento metri di quota! »

Leigh senti il sangue gelarglisi nelle vene.

Pringle continuò, sempre col medesimo tono:

«So chi è quel pilota. Mi faccia la cortesia di dirgli di non infrangere tutti i regolamenti di volo sin dal primo giorno ».

Quando Douglas, dopo l'atterraggio, parcheggiò l'aereo davanti al capannone, trovò il maggiore Leigh ad aspettario.

«Non lo faccia più. Per favore, non lo faccia più! »

«Che cosa?» domandò Douglas.

Leigh gli disse che cosa era accaduto.

Douglas non sapeva come spiegargli che, durante il suo primo volo senza istruttore, qualcosa l'aveva costretto a girare l'apparecchio sottosopra a una quota proibita.

Del resto, in quel momento, nemmeno lui si rendeva conto che quell'impulso aveva qualcosa a che vedere col suo ultimo volo, quello dell'incidente.

II tempo trascorse in continui allenamenti al volo durante il giorno, e in compagnia dei colleghi durante la sera.

All'inizio dell'anno nuovo, Douglas ebbe l'occasione di volare con un Hurricane, un aereo adatto a un individualista quale egli era.

Il giovane diede gas piano piano, corresse una lieve tendenza a slittare verso sinistra mentre la coda si sollevava, e l'aereo si staccò dal suolo.

Sin dall'inizio, si senti un tutto unico con l'aereo, la macchina più maneggevole che avesse mai pilotato prima d'allora, tanto che, dopo appena venti minuti di prove, cominciò a eseguire acrobazie.

L'aereo rispose a tutti i suoi comandi, e Douglas se ne innamorò subito.

Verso la fine di gennaio, Geoffrey Stephenson, che aveva manovrato abilmente per lasciare l'incarico presso il Ministero, assunse il comando dello Squadron 19, e subito si diede da fare per avere Douglas con sé.

Lo Squadron 19 era di base a Duxford, proprio l'aeroporto in cui Douglas credeva di aver detto addio per sempre alla R.A.F., ed era dotato di apparecchi Spitfìre.

Douglas non aveva mai volato su quel tipo di aereo, ma per lui la cosa non aveva alcuna importanza, poiché desiderava solo essere assegnato a un reparto il cui comandante non tenesse conto della sua menomazione.

 

Tratto da Reach for the sky

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Abbattuto

Il giorno dopo, tutto andò storto, sin dall'inizio.

Per prima cosa, il decollo si compi in disordine.

Lo Squadron che doveva assicurare la copertura dall'alto si disperse, e Douglas. non osò rompere il silenzio radio per richiamarlo.

Poi, quando erano a mezza strada sulla Manica, si ruppe l'indicatore di velocità e la lancetta retrocesse sino allo zero, lasciando Douglas, che doveva raggiungere il grosso della formazione sopra Lille, nei guai.

Tuttavia decise di preoccuparsi della cosa più tardi e fece salire gli Squadron a ottomilacinquecento/novemila metri, in modo da avere il vantaggio dell'altezza e del sole a favore.

Quel giorno dovevano attaccare i caccia tedeschi dovunque li avessero incontrati.

Li avvistarono appena superata la costa francese, un poco a sud di Le Touquet, dritti davanti a loro e circa seicento metri piu in basso.

Pareva che nessuno di quegli aerei si preoccupasse di guardarsi alle spalle, sicché costituivano dei bersagli ideali.

Douglas si tuffò alla testa dei primi quattro aerei, seguito da tutta la muta degli altri, mentre i tedeschi continuavano placidamente a salire davanti a loro.

Scelto il secondo aereo da sinistra, Bader serrò le distanze con rapidità sorprendente: pareva che il 109 puntasse obliquamente su di lui, e Douglas capi improvvisamente di aver sbagliato. La velocità era eccessiva, il tempo troppo breve!

Stava per entrare in collisione con l'aereo tedesco, e all'ultimo istante agi sulla barra di comando e sul timone, virando brutalmente, sfrecciando avanti senza vedere la carneficina in atto fra gli aerei nemici, mentre gli Spitfires che lo seguivano attaccavano e si ritiravano.

Irritato, Douglas riportò in linea il suo aereo a circa settemilatrecento metri, poi guardò dietro di sé solo per scoprire che nessuno lo seguiva.

Meglio riguadagnare quota in fretta e raggiungere gli altri, perché era troppo pericoloso trovarsi soli in quel cielo nemico.

Poi avvistò altri sei nemici davanti a sé, disposti su tre colonne di due aerei ciascuna, coi musi puntati nella sua stessa direzione. Bersagli facili anche quelli!

Douglas sapeva di dover guadagnare quota e lasciarli andare; più volte aveva ripetuto ai suoi piloti di non tentar nulla quand'erano soli.

Ma la tentazione era troppo grande.

Un'altra occhiata dietro: tutto sgombro.

L'ingordigia ebbe ragione della prudenza, e Douglas si lanciò all'inseguimento della coppia al centro della formazione.

Nessuno si accorse della sua presenza.

Sparò da cento metri, al secondo della colonna, che subito lasciò dietro di sé una lunga scia di fiamme e precipitò bruscamente, scivolando d'ala.

Gli altri aerei tedeschi continuarono a volare placidamente: i piloti dovevano essere ciechi.

Douglas mirò al capo squadriglia, e da centocinquanta metri gli sparò addosso per tre secondi. Dalla fusoliera si staccarono alcuni rottami, prima che l'aereo lasciasse un pennacchio di fumo denso e bianco dietro di sé e precipitasse.

Ma i due caccia a sinistra viravano puntando su Douglas, che a sua volta virò a destra per rompere il contatto, accorgendosi che i due aerei di quel lato continuavano a volare come prima, come se nulla fosse accaduto.

Il desiderio di fare una bravata lo spinse a proseguire su quella rotta per passare in mezzo ai due caccia tedeschi.

Qualcosa colpi il suo apparecchio.

Douglas avverti l'urto, ma la sua mente era stranamente intorpidita e non riusciva a rendersi conto di quel che stava accadendo.

Non udiva alcun rumore, ma qualcosa tratteneva il suo aereo per la coda togliendogliene il controllo, e facendolo avvitare.

L'aereo sbandò improvvisamente e puntò il muso verso terra; Douglas tirò a sé la barra di comando, che cedette senza resistenza alcuna e andò a sbattergli contro lo stomaco.

L'aereo precipitava in vite, e Bader, confuso, guardò dietro per vedere se qualcosa lo seguisse.

Dapprima fu stupito, poi terribilmente spaventato nel vedere che il suo aereo era stato troncato di netto dietro l'abitacolo.

Il secondo 109 doveva averlo investito, tagliando con l'elica una porzione dello Spitfire. Douglas vide vagamente che l'altimetro scendeva in fretta, che la quota diminuiva rapidamente.

"Buttati! Buttati!"

Dapprima si tolse il casco e la maschera, poi tirò la pallina di gomma sopra la sua testa; il tettuccio schizzò via e un sibilo frastornante riempi l'abitacolo.

Lo spinotto della cintura di sicurezza si staccò, e Douglas si afferrò ai bordi dell'abitacolo per sollevarsi, domandandosi se ce l'avrebbe fatta a uscire, dato che non poteva spingersi con le gambe.

Lottando disperatamente, riusci a sollevare la testa oltre il parabrezza, e subito si senti risucchiare fuori dalla corrente d'aria che lo sferzava.

La parte superiore del corpo era già fuori.

Era uscito dall'abitacolo... No!

Qualcosa lo tratteneva per una gamba.

Il piede inerte della gamba destra era rimasto impigliato nell'abitacolo, l'aereo precipitava, trascinandolo in un incubo fatto di frastuono, di vento, in un'agonia che pareva non dovesse aver fine, e lui era li, impotente.

La caduta continuò... sino a quando i lacci che tenevano la protesi finalmente si ruppero.

Douglas fluttuava, tranquillo.

Il sibilare e lo sferzare del vento erano cessati.

Sulla sua testa il cielo era sempre azzurro, sotto si stendeva uno strato di nubi; Douglas vi sprofondò, lo attraversò in pochi secondi e sotto di sé scorse la campagna verde, chiazzata di macchie dorate là dove il sole filtrava fra le nubi.

Qualcosa sbatacchiava, sferzandogli il volto: la gamba destra dei calzoni, vuota, squarciata lungo la cucitura.

Dalla fenditura spuntava, indecente, la pelle bianca del moncone.

La protesi della gamba destra se n'era andata. "Che fortuna" pensò, "aver perso le gambe e averne di artificiali, sostituibili!"

Altrimenti sarebbe morto precipitando con l'aereo.

E un altro colpo di fortuna era di non dover atterrare su quella rigida gamba metallica, altrimenti si sarebbe rotto la spina dorsale.

Douglas non rifletté che, per prendere terra, gli restava soltanto mezza gamba.

La terra, che pochi secondi prima pareva tanto remota, si avvicinava con una rapidità impressionante.

"Accidenti! Sto per cadere su un cancello!"

Douglas tirò alcune corde per far sfuggire l'aria dal paracadute, per spostarsi lateralmente, e toccò terra goffamente, senza provare altro che un lieve dolore alle costole, quando il ginocchio gli urtò contro il petto.

Tre soldati tedeschi, vestiti di uniformi grigie, si chinarono su di lui e lo liberarono dalle cinghie del paracadute e dal giubbotto di salvataggio "Mae West"; poi lo sollevarono e lo portarono di peso fino a un'auto parcheggiata in un viale.

Douglas non provava alcun dolore, ma solo una specie di sonnolenza tranquilla.

L'auto parti, e dopo un tragitto che parve interminabile, passò rombando sotto un'arcata e si fermò davanti a un edificio di pietra grigia.

********

I tedeschi lo sollevarono ancora, varcarono una porta, salirono alcuni gradini e percorsero un corridoio...

Douglas fiutò l'odore ben noto dell'ospedale.

Giunti in una sala spoglia, asettica, lo depositarono su un lettino di medicazione del pronto soccorso.

Un uomo in camice bianco s'avvicinò..

Nel vedere che la gamba destra dei calzoni era vuota, il medico corrugò la fronte, poi, sollevata la stoffa lacerata, rimase sbalordito.

Guardò Douglas, vide i gradi e i nastrini delle decorazioni.

Confuso più che mai, mormorò: «Lei ha perso la gamba».

Douglas pronunciò le prime parole da quando era precipitato.

«Si! Si è staccata mentre uscivo dall'aereo che precipitava. »

Il medico tornò a guardare il moncone, cercando di capire come un uomo con una gamba sola potesse essere un pilota di aereo da caccia.

«Ach so!» esclamò alla fine. «È una vecchia amputazione. Adesso dovremo toglierle i calzoni. »

"E io voglio ridere" pensò Douglas, sollevandosi per quanto poteva, mentre il medico, sbottonati i calzoni, glieli sfilava e restava ancora più esterrefatto a fissare l'apparecchiatura di ferro e di cuoio che serrava il moncone della gamba sinistra.

Alla fine, con un sibilo disse: « Ach! Abbiamo sentito parlare di lei ».

Due infermieri in uniforme grigia sollevarono Douglas e, fatte due rampe di scale, lo portarono in una stanzetta, posandolo su un letto; poi lo spogliarono, gli tolsero la protesi sinistra, lo avvolsero in una specie di camicia da notte corta e bianca, e dopo averlo coperto, appoggiarono la protesi al muro e se ne andarono.

Douglas giacque immobile.

Era tutto indolenzito come se fosse stato passato al torchio, la testa gli ronzava come un alveare; appena si muoveva, un dolore acuto alle costole, sotto il cuore, lo faceva soffrire: sembrava che gli frugassero in petto con un coltello.

*********

L'alba trovò Douglas in condizioni migliori.

Con la nuova luce, cominciò a rendersi conto più chiaramente della propria situazione.

Capi dov'era, ricordò cos'era accaduto e fini per rassegnarsi.

Bisognava procedere con ordine, e al diavolo tutto il resto: doveva procurarsi altre gambe e far sapere a Thelma che era vivo.

La porta si apri e due giovani piloti della Luftwaffe entrarono nella stanza.

«Salve!» esclamò in ottimo inglese quello che pareva il più elevato in grado, ed era un conte di qualcosa che Douglas non afferrò bene. «Come sta? »

«Benone, grazie.» Douglas rispondeva a monosillabi, ma i due tedeschi chiacchieravano amabilmente; erano venuti da Saint Omer per conversare con lui come fra amici, fra colleghi. «Gli Spitfires sono ottimi aerei. »

« Si» rispose Douglas, «ma sono ottimi anche i vostri. »

« Mi hanno detto che lei è senza gambe » disse il conte.

«È vero»

I due tedeschi gli domandarono cosa si provava a volare senza le gambe.

Entrò un anziano ufficiale di commissariato, che rimase ad ascoltare, poi, guardando la protesi appoggiata alla parete, osservò causticamente:

«Ecco una cosa che in Germania non permetterebbero mai! »

Il visitatore che entrò poco dopo era un calvo ufficiale meccanico, e anche lui si imbarcò in una serie di noiose domande sulle sue mutilazioni.

Douglas tagliò corto, domandandogli se potevano mettersi in comunicazione via radio con l'Inghilterra.

«Senta, non potete chiedere via radio che mi mandino un'altra gamba?»

Se lo avessero fatto, Thelma avrebbe saputo che era vivo.

L'ufficiale tedesco rispose che quella gli pareva una buona idea.

 

Più tardi entrò un ufficiale della Luftwaffe, alto, sulla quarantina; dopo aver salutato Douglas battendo i tacchi, disse: «Signor comandante, abbiamo trovato vostra gamba ».

Entrò un soldato instivalato che, dopo essere scattato superbamente sull'attenti, protese il braccio che sosteneva l'arto artificiale coperto ancora di fango, con la cinghia rotta penzoloni. Contentissimo, Douglas esclamò: «lo vi ringrazio, signori! » Ma poi, vedendo che il piede stava quasi parallelo alla caviglia, brontolò: «Accidenti, è fracassata ».

« Molto meno del suo aereo» rispose l'ufficiale. « L'abbiamo trovata fra i rottami. »

« Senta» disse Douglas, rifattosi gentile. «Crede che i suoi ragazzi all'aeroporto possano ripararla? »

L'ufficiale rifletté, poi rispose: «Forse! Gliela porteremo e sentiremo cosa dicono ».

E, dopo uno scambio di complimenti reciproci, l'ufficiale tedesco salutò battendo i tacchi e se ne andò.

La mattina dopo l'ufficiale tedesco tornò, camminando sempre impettito come se fosse a una parata, salutò Dpuglas, e mentre stava dicendo: «Signor comandante; noi abbiamo portato vostra gamba » il militare instivalato fece un altro ingresso drammatico, e dopo essersi fragorosamente fermato sull'attenti, porse la gamba.

Era molto diversa dalla protesi infangata del giorno prima: pulita e lucidata, col piede fissato solidamente nella posizione giusta.

Douglas la prese; la cintura era stata riparata a dovere, con l'aggiunta di un tratto in cuoio di ottima qualità, le ammaccature erano state eliminate, e persino i cuscinetti di gomma della caviglia erano stati sostituiti, ridando elasticità al piede.

« Va bene, cosi?» domandò ansiosamente l'ufficiale tedesco.

Stupito e commosso, Douglas esclamò: «È un lavoro magnifico! siete stati veramente gentili a ripararla. La prego di ringraziare infinitamente, a nome mio, i ragazzi che hanno fatto questo ottimo lavoro! »

Douglas infilò le protesi, scese dal letto, e si mise a zoppicare avanti e indietro per la stanza, sotto lo sguardo degli altri, che lo fissavano incantati.

Felici e raggianti, i due tedeschi alla fine se ne andarono.

 

********

 

L’incontro con Galland

Mezz'ora dopo, l'infermiera tedesca gli portò gli abiti.

Douglas cominciò subito a pensare al modo per uscire dall'ospedale.

Era ancora li a rimuginare pensieri di fuga, quando tornò il giovane conte, inappuntabile come sempre.

Il conte, decorato con la croce di cavaliere, disse subito a Douglas che l'Herr Oberstleutnant Galland, che comandava l'aeroporto di Wissant, vicino a Saint Omer, lo aveva incaricato di porgere i suoi ossequi all'Herr Oberstleutnant Bader, e di dirgli che si sarebbe sentito onorato se avesse accettato di essere suo ospite per il tè.

«Non cercheremo di ottenere informazioni da lei» aggiunse sinceramente.

«Il comandante desidera soltanto conoscerla. Come dite voi Inglesi, siamo camerati, anche se combattiamo da parti opposte. »

Douglas era imbarazzato.

Rifiutare sarebbe stata una scortesia; e poi, anche lui desiderava conoscere Galland, col quale, forse, si era già incontrato in combattimento.

Quel gesto riportava nei rapporti fra nemici un soffio dell'antica cavalleria, cancellata definitivamente dal concetto moderno della guerra. E, oltre tutto, gli offriva anche l'occasione buona per spiare un po' in giro, per studiare l'organizzazione di un aeroporto nemico.

"Chissà ch'io non possa tornare a casa con un Messerschmitt" pensò.

« Ne sarò veramente lusingato» rispose.

« Gut!» esclamò il conte, raggiante. «Un'auto verrà a prenderla. »

L’ auto si fermò accanto a una bella casa colonica di mattoni rossi, davanti alla quale attendevano diversi ufficiali tedeschi.

Quella casa era la mensa degli ufficiali dell'aeroporto.

Appena Douglas scese, un uomo di bell'aspetto, che aveva circa la sua età, capelli scuri e due baffetti sottili, si fece avanti; dal collo gli pendeva la croce di ferro con fronde di quercia e spade, quasi la massima onorificenza tedesca.

« Galland» disse l'ufficiale, porgendogli la mano.

Douglas gliela strinse.

Gli altri ufficiali si fecero avanti a turno, scattando sull'attenti a mano a mano che gli venivano presentati.

Poi Galland gli fece strada.

Seguiti da tutti gli altri ufficiali, percorsero il vialetto del giardino e giunsero a uno spiazzo ombreggiato da un pergolato basso e lungo, dove, con grande stupore di Douglas, era sistemata una ferrovia in miniatura, molto elaborata, che occupava la maggior parte dello spiazzo.

Galland premette un pulsante, e trenini minuscoli presero a sfrecciare passando davanti alle stazioni in miniatura, superando scambi e segnali, gallerie e trincee.

L'ufficiale tedesco si volse a fissare Douglas con occhi sfavillanti, quasi fosse un ragazzino che si diverte un mondo con un bel giocattolo, e l'interprete spiegò:

«Questo è il luogo dove l'Herr Oberstleutnant ama trascorrere il suo tempo, quando non vola».

Dopo, attraversarono un boschetto e si recarono in un capannone, dove..si trovava un Messerschmitt 109.

Douglas rimase come affascinato a guardare l'aereo, e Galland lo invitò gentilmente a salire. Douglas fece stupire tutti per la facilità con la quale prima salì sull'ala, e poi, senza aiuto, afferrata la gamba artificiale, la fece roteare e s'infilò nell'abitacolo.

Mentre guardava con occhio esperto gli strumenti sul cruscotto, nella sua mente ribollivano pazzeschi pensieri di fuga con quell'aereo.

Douglas si rivolse all'interprete:

«Può chiedere all'Herr Oberstleutnant se posso decollare e fare un giro di prova con questo aereo? »

Galland rispose ridendo,... e l'interprete tradusse con un sorriso.

«Ha detto che, se decollerà, anche lui decollerà subito dietro di lei. »

«Sta bene» ribatté Douglas, fissando Galland con il cuore pieno di speranza. «Proviamo, dunque. »

Galland rise ancora, e rispose che in quel momento non era di servizio.

Quando scese dall'aereo, Douglas si guardò in giro, e scorse il mare, oltre il quale gli parve di intravedere le bianche scogliere di Dover.

Per un momento si senti soffocare dalla nostalgia, pensando che l'Inghilterra non doveva distare più di quaranta miglia.

Presero il tè nella mensa della casa colonica, e camerieri in giacca bianca servirono panini e vero tè inglese, probabilmente bottino di guerra.

Pareva di essere nella mensa di un aeroporto della R.A.F., solo che le uniformi erano diverse, ed era diversa anche l'atmosfera, cosa del resto comprensibile.

Tutti sorridevano, si sforzavano di apparire cordiali, ma ci riuscivano soltanto a fatica e la discussione continuava su un tono freddamente convenzionale.

Galland regalò a Douglas un barattolo di tabacco inglese, e quando lo accompagnò all'auto, gli disse: «Mi ha fatto molto piacere conoscerla.Temo che lei si troverà meno bene in un campo di prigionia, ma se potrò fare qualcosa per esserle utile, la prego di farmelo sapere ».

Poi gli sorrise amichevolmente, gli strinse la mano e lo salutò battendo i tacchi e inchinandosi.

Douglas sali in macchina e tornò all'ospedale.

Quella sera stessa, un soldato tedesco entrò nella sua camera, e in un inglese semplicemente atroce gli disse: «Herr Kommandant, siete pregato di tenerfi pronto per domattina alle otto, perché dofete essere trasferito in Germania ».

Il tedesco batté i tacchi, salutò e, fatto dietrofront, uscì.

Douglas rimase seduto sul letto, come stordito

 

Tratto da Reach for the sky

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  • 2 settimane dopo...

FirstofmanyTN.jpg Capt. STANFORD TUCK - RAF -

 

L'uomo che forse fu il miglior tiratore dell'aeronautica britannica nella seconda guerra mondiale era un bello ed elegante esemplare di pilota da caccia: Roland Robert Stanford Tuck.

Frequentò le scuole di St. Dunstan e, finiti gli studi, entrò come cadetto nella Marina mercantile, spintovi dal suo spirito avventuroso.

Non era stato molto brillante nello studio, anche se aveva dimostrato una particolare tendenza per le lingue straniere.

Due anni e mezzo di mare lo rafforzarono e l'indurirono permettendogli di migliorare sempre più la sua abilità nel l'uso delle armi da fuoco; aveva imparato a uccidere i pescecani con un unico colpo di fucile, il che era molto difficile.

L'interesse di vedere il mondo da bordo di una nave cominciò però a dileguarsi; i bastimenti impiegavano troppo tempo per andare da un punto all'altro.

Un giorno del 1935, mentre stava godendosi alcuni giorni di licenza in casa di suo padre, a Catford, gli cadde lo sguardo su un manifesto che eccitò la sua immaginazione: Vola nella RAF!

Dovette sottoporsi a una prova scritta, a un'accurata visita medica e finalmente a un esame orale tenuto da cinque ufficiali effettivi.

Dopo due settimane di ansiosa attesa ricevette dal ministero dell'Aeronautica una lettera che lo informava che era stato ammesso!

Tuck ricevette l'ordine di presentarsi, all'aeroporto militare di Uxbridge, a mezzogiorno del 16 settembre; quell'ordine riguardava trentatré giovanotti, che dovevano permanervi due settimane durante le quali dovettero sorbirsi esercitazioni, conferenze ed esami attitudinali: sei o otto di quelli sono ancora in vita.

Da quell'aeroporto Tuck venne poi trasferito alla Scuola di addestramento al volo di Grantham, nella contea di Lincoln, dove, per la prima volta in vita sua, ebbe modo di avvicinare un aeroplano; ne rimase colpito: pareva così fragile a confronto dei bastimenti sui quali era stato da marinaio

Ma nonostante questa delusione iniziale, si abituò ben presto alla leggerezza degli aeroplani del 1935.

A questo punto il suo eccessivo impeto e la sua premura lo portarono quasi al fallimento.

Per sua fortuna, aveva avuto come istruttore il tenente A.P.S. Wills, persona dotata di sensibilità e di comprensione, che si accorse subito che Tuck, così pieno com'era di entusiasmo, non poteva non riuscire nonostante tentasse disperatamente di venire a capo delle difficoltà del pilotaggio.

Mentre altri allievi avevano già effettuato il decollo, lui continuava nei suoi voli a doppio comando senza acquisire niente, incapace di rilassarsi.

Il suo errore consisteva nell' eccesso delle correzioni sui comandi e nell'incapacità di muoverli con leggerezza, dolcemente.

Il tempo di volo con l'istruttore considerato normale era ormai superato e già altri due allievi erano stati esonerati; questo non fece che aggiungere alle difficoltà di Tuck, e alla sua rigidezza di pilotaggio, una grande preoccupazione e una forte tensione nervosa.

Wills tentò in tutti i modi di metterlo a suo agio e di tirarlo fuori da quel suo stato di nervosismo; quando doveva correggerlo stava bene attento a farlo come se si trattasse di cosa casuale o lo faceva in tono amichevole, parlandogli tranquillamente dello spettacolo offerto dal terreno sottostante, appunto per distrarlo dalla sua rigidezza.

Anche i suoi compagni lo trattavano con simpatia e scherzavano per dargli tono e aiutarlo a rilassarsi, ma ormai aveva già al suo attivo tredici ore di doppio comando e non avrebbe potuto continuare così senza un volo di prova col vice comandante della scuola, il capitano Tatnall.

Se non avesse dimostrato qualche miglioramento in questo volo, avrebbe dovuto essere esonerato dal pilotaggio.

Tuck sapeva perfettamente, nel suo intimo, di non poter nutrire speranze e divenne perciò più o meno rassegnato al suo destino.

La mattina in cui avrebbe dovuto fare il suo ultimo volo la stanchezza e il senso di resa uniti insieme riuscirono a allentargli la morsa delle mani e la pressione dei piedi sui comandi al punto che era quasi ,incapace di muoverli.

Quando Tatnall gli ordinò di decollare, rispose come se fosse stato mezzo intorpidito ma, nonostante questo, la partenza fu buona; salì diritto, poi la virata gli riuscì dolcemente; stava volando come se ormai la cosa non lo interessasse più affatto e, di colpo, imparò la lezione fondamentale, quella che non era mai riuscito a capirle fino a quel momento: tutto era facile se non si cercava di farlo troppo alla svelta e brutalmente !

Quanto poco sforzo costava !

Continuò a volare con tranquillità e la speranza si affacciò di nuovo; dopo una quindicina di minuti di volo in sempre deciso miglioramento, Tatnall gli disse di atterrare; quando ebbe toccato dolcemente il prato e il velivolo si fu arrestato, il vice comandante scese dall'abitacolo e gli disse, come per caso: « Decolli ».

Fu uno dei momenti più drammatici di tutta la vita di Tuck: invece di essere esonerato, gli era stato dato l'ordine di decollare!

Tatnall si allontanò dal velivolo senza tradire il minimo dubbio, l'allievo dette motore e cominciò il suo primo volo da solo.

Si sollevò dolcemente e girò intorno al campo, dirigendosi poi all'atterraggio; concentrandosi nell'appena imparato sistema di muovere i comandi con leggerezza si mise tranquillamente in volo planato, toccò terra e rullò ben diritto.

Wills, Tatnall e altri istruttori stavano seguendolo ansiosamente stando su un lato dell'aeroporto; qualcuno che stava arrivando allee loro spalle disse: « Ecco davvero una futura promessa ! "

Si girarono a guardare e salutarono il capo-istruttore W.A.B. « Jimmy » Savile nei cui occhi brillava un sorriso; anch'esso era perfettamente al corrente della lotta che Tuck aveva dovuto sostenere.

Superata questa fase critica iniziale, Tuck non fece che progredire e ben presto giustificò pienamente lo sforzo supplementare che gli istruttori avevano fatto per aiutarlo. Un corso dopo l'altro arrivò alla fine e venne qualificato

« eccezionale », il che lo riempì di fiducia; divenne tanto sicuro di se stesso che i superiori presero a considerarlo in diverse occasioni come troppo negligente o anche impudente e, nei due anni successivi, doveva spesso giustificare quei giudizi.

Rapido di riflessi com'era, qualche volta azzardava troppo; più di una volta rischiò la pelle finché, nel 1938, venne di colpo rimesso in carreggiata, forse appena in tempo.

Era in volo, in pattuglia strettissima, quando all'improvviso incontrarono aria agitata; il pilota che gli era subito davanti ebbe un brusco movimento verso l’alto e Tuck non riusci a evitare in tempo la collisione.

La sua elica colpi e uccise sul colpo il collega mentre lui, dati i danni notevoli riportati dal suo velivolo che aveva cominciato a precipitare fuori controllo, dovette lanciarsi.

Il tettuccio, però, non si apriva perché anche la fusoliera era stata malridotta e Tuck stava andando incontro a morte sicura, quando l'ala mezzo accartocciata si ruppe, liberando così il tettuccio e permettendogli di saltar fuori dall' abitacolo appena in tempo e con le mani insanguinate per lo sforzo disperato di aprirlo.

Mentre stava spingendo a tutta forza per uscire, un pezzo di metallo troncato lo colpì in faccia, lasciandovi una cicatrice permanente e procurandogli una considerevole perdita di sangue.

Anche se nove giorni dopo era di nuovo in volo, quell' esperienza era stata tremenda.

Nell' aprile successivo si trovò coinvolto in un' altra collisione aerea e riuscì a mala pena a effettuare un atterraggio di emergenza mentre le ali si stavano quasi staccando dalla fusoliera; ma anche in questo incidente non era da biasimare e i superiori dicevano: «È la solita fortuna di Tuck!»

Dopo aver portato a termine con pieno successo il suo addestramento, Tuck era stato trasferito al 65° Gruppo East India di Hornchurch nel quale, dopo due anni di permanenza, venne promosso tenente; fu proprio a Hornchurch che gli accaddero quei due, quasi fatali, incidenti di volo.

Poco tempo dopo un Tuck alquanto più maturo venne prescelto dal 65° Gruppo per effettuare il passaggio sul nuovo Supermarine Spitfire.

Tuck si presentò verso la fine dell'anno all'aeroporto di Duxford, dove Jeffrey Quill, già pilota della RAF e allora capo-pilota collaudatore della Vickers Supermarine Works, lo provò sullo Spitfire.

Come tutti quelli che non avevano mai visto prima di allora il nuovo caccia, così tirato a lucido, ne rimase come oppresso; passò un'ora nell'abitacolo con Quill, imparandone le installazioni, i vari comandi e le procedure da seguire prima del decollo.

Quando poi fu in volo e si mise a piroettare per il cielo ne rimase conquistato ed entusiasta più di tutti gli altri tipi sui quali aveva fino allora volato.

Nel gennaio di quel fatale 1939 se ne tornò a Hornchurch con parole piene di lodi che venivano ascoltate a bocca aperta dai suoi colleghi, i piloti del 65° Gruppo.

In quell'epoca, appena sette mesi e tre settimane prima dell'inizio della guerra, Tuck. era uno dei pochissimi che avessero volato su quell'aeroplano; non era certo troppo presto, dato che l'anno successivo ne avrebbe portato uno nel suo primo combattimento sulle spiagge di Dunkerque, quando il Comando caccia vi lanciò, per la prima volta, una massa di Spitfire.

 

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La crisi di Dunkerque

In una delle camere dell'alloggio ufficiali situato in una palazzina di mattoni, a due piani, dell'aeroporto di Northolt l'aviere Thomson, con in mano una tazza di tè caldo, scosse leggermente il capitano R.R. Stanford Tuck per destarlo; era buio perché non era ancora spuntata l'alba del 23 maggio 1940.

In quella mattina di primavera il 92° Gruppo doveva trasferirsi sulla base di Hornchurch, dalla quale avrebbe mandato le proprie pattuglie su un porto che ben presto sarebbe divenuto famoso: Dunkerque.

I piloti erano ansiosi di levarsi in volo perché non avevano ancora avuto occasione di combattere fin da quando era cominciata la guerra, nove mesi prima.

Tuck accolse Thomson con la solita frase:

«Che cos' è questa maledetta porcheria che mi stai portando?»

e l'aviere gli dette la solita risposta: «È un tè, signore».

Lo bevve mentre si alzava dal letto, vesti l'uniforme grigio-azzurra sulla quale portava una sciarpa rossa e, visto che doveva fare un volo di prova per dare un'occhiata alle condizioni atmosferiche, prese una tazza di caffè con il maggiore Roger Bushell e insieme salirono su una macchina che li condusse a una piccola baracca nera, decentrata ai margini del campo; dopo aver parlato con gli addetti alle operazioni, Tuck se ne andò al suo aeroplano... uno Spitfire, fermo a una cinquantina di metri dal piccolo ufficio.

Gli specialisti gli avevano già scaldato il motore e subito fu a bordo, pronto e legato, con l'elica in moto.

Poiché era l'unico velivolo che doveva volare non c'erano particolari procedure o attese e quindi dette motore e si mise a rullare; sul campo gravava una leggera nebbia che però si stava alzando.

Poco dopo correva sul prato, decollava e puntava verso il cielo sereno.

Il tempo, al di sopra, era magnifico; dopo pochi minuti discese e, con il carrello e i flap abbassati, penetrò nella foschia col motore ridotto, dirigendosi all'atterraggio.

Rullò fino alla baracca, saltò fuori dall'aeroplano e telefonò al comando per dare il suo parere:

«Va bene, il gruppo può partire».

Poco dopo tutti i piloti si recarono al decentramento e cominciarono a prepararsi per il decollo.

Bushell si mise in rotta verso est-sud-est e i dodici Spitfire pitturati di colore verde-brunastro atterrarono, dopo venti minuti di volo, sulla vecchia base di Tuck, Hornchurch; su quell'aeroporto si sarebbero uniti ad altri gruppi (54°, 65° e 74°) per le operazioni previste in quel giorno su Dunkerque.

Il colonnello Cecil «Boy» Bouchier, tenne una riunione dalla quale i piloti ebbero la conferma definitiva e i particolari delle operazioni della giornata; il comandante disse, rivolto ai più anziani:

«Sarete lieti di sapere che, per la prima volta, quest'oggi andremo in azione; a Dunkerque c'è roba che brucia; sta avvenendo un'evacuazione; andate e attaccate qualunque velivolo che cerchi di contrastare ,le nostre truppe o le navi».

Gli equipaggi vennero informati che dovevano attendersi d'incontrare i caccia tedeschi in masse di forse anche una quarantina di aeroplani.

I comandanti di gruppo rivolsero delle domande circa le quote di volo, il tempo, le informazioni sulla situazione, e poi tutti se ne tornarono nelle zone di decentramento.

Giunti a quella del 92°,Bushell e Tuck discussero della formazione da adottare, delle quote e di altri particolari con i loro piloti,che aspettavano con i nervi resi.

Erano le 10.30 quando il telefono suonò nella baracca, che subito si svuotò: Tuck si era infilato i guanti e, con il casco in mano, stava correndo verso il suo velivolo.

Salutò gli specialisti, saltò a bordo dal portellino di sinistra e s'infilò nell'abitacolo... dove subito si mise al lavoro.

La manovra era facile e ordinata: freni tirati; compensatori a posto, con le righe bianche di controllo combacianti per la posizione di decollo; flap su; ripetitore della bussola escluso; serbatoi pieni; leva di comando del carrello abbassata e bloccata; alette del radiatore aperte al massimo per il raffreddamento del motore in decollo, maschera dell'ossigeno attaccata e bretelle bloccate.

Tuck urla: «In moto» e spinge i due bottoni del pannello di destra mentre lo specialista preme a sua volta il comando di collegamento dell'impianto di bordo con il carrellino delle batterie a terra.

L'elica comincia a girare;dà un paio di scosse, poi si muove più velocemente e qualche sbuffo di fumo, bianco e nerastro, esce dagli scarichi; di colpo il motore Rolls-Merlin si mette in moto con i suoi milleduecento cavalli e una,ventata penetra all'improvviso nell'abitacolo aperto.

La spina degli accumulatori viene estratta dalla presa di bordo e lo specialista salta a terra dall'ala; Tuck dà un' occhiata al velivolo del maggiore e vede che Bushell sta già rullando per portarsi in posizione di decollo.

Dà il segnale di partenza alla sua squadriglia, molla i freni e spinge la manetta: il motore prende a rombare più forte e, mentre specialisti e avieri salutano augurando buona fortuna, comincia il rullaggio

Cinque Spitfire lo seguono, mettendosi in posizione... il 92° decollerà in due pattuglie di sei velivoli, ciascuna delle quali comprende due « V» di tre; negli auricolari giunge la voce del comandante di gruppo che ordina:

« Decollo! »

Bushell sta già correndo sull'erba alla testa dei primi tre velivoli e quasi subito l'altra terna lo segue.

Tuck frena, li guarda levarsi nel cielo sereno, poi dà motore fin quasi al massimo, la sua pattuglia prende velocità e si fa sempre più 'leggera; tira legger¬mente la leva, il velivolo risponde al comando e ab¬bandona ii prato che gli scorre sotto; subito, levata la mano dalla manetta e afferrata con quella la leva, porta l'a:ltra sul comando del carrello e lo fa rientrare, poi ridw:e motore, chiude il tettuccio e lo fissa per mezzo dell'apposito galletto. Uno sguardoal'le spalle... gli altri velivoli sono in ordine; dà allora un'occhiata al cielo e scorge i sei velivoli di Bushell leggermente avanti sul,la sinistra: comincia allora ad avvicinarsi lentamente al suo comandante. Tuck e il 92° Gruppo sono in volo... stanno andando verso il loro primo combattimento: sono le 10.50 e, sebbene Tuck non lo sappia, è il suo ultimo giorno da comandante di squadriglia.

I suoi sei Spit tagliano la strada e si stringono a quelli di Bushell, che si mette in rotta diretta per Dunkerque.

Il famoso tiratore accende il collimatore: un cerchietto color arancio-rossastro e due sbarrette compaiono nel vetro inclinato davanti ai suoi occhi; la distanza tra le due righe poteva essere variata a piacere, facendo girare l’apposita manopola, per adattarla alla larghezza dell'apertura alare del velivolo nemico.

Tutto funziona a dovere: aveva anche inciso una tacca sul parabrezza in modo da poterla adoperare come linea di mira se per caso il collimatore si fosse spento ed era situata in modo da non dover nemmeno spostare la testa, se avesse dovuto farne uso.

L'armamento delle sue mitragliatrici è preparato in modo speciale: infatti vi ha fatto mettere un percento maggiore del prestabilito di pallottole De Wilde, un tipo di perforante-incendiaria-tracciante.

Questo munizionamento sporca moltissimo le canne, ma Tuck lascia che di questo si preoccupino i suoi armieri perché lo ritiene ben più efficace di quello normale.

Toglie la sicura alle armi mentre il gruppo, che sta facendo quota, supera le coste inglesi a millecinquecento metri.

I dodici Spit salgono nell'azzurro verso il sole mattutino... 2000, 2500 metri; la radio tace e l'unico rumore che si sente è quello del motore, che romba sicuro; sotto di loro navi e barche ondeggiano, lasciandosi dietro una leggera scia.

Un velo di fumo si leva dalle coste... ancora lontano davanti a loro... Dunkerque!

Si vede da molto distante.

La formazione, appena un poco più allargata, continua la sua rotta verso il porto di scampo.

Tuck vede diversi Hurricane, sotto di lui, che se ne tornano alla base dopo aver effettuato le prime crociere e intanto l'indicatore di velocità comincia a salire fino a raggiungere le duecento miglia, la velocità di crociera la salita è terminata.

I piloti si contorcono sui sedili cercando di tener d'occhio sia il cielo sia le spiagge sottostanti, profondamente interessati al dramma che vi sta accadendo.

Quando sono sul porto, Bushell vira decisamente a sinistra e porta il gruppo a risalire la costa; non vi sono nemici in vista, ma tutti ne sono alla ricerca... aspettandoli.

Il maggiore si mette parallelo alla spiaggia tenendosi a 2500 metri di quota e andando avanti e indietro in modo da eseguire quella che gli ordini descrivono come una «crociera offensiva »; in quel momento però non vi sono velivoli nemici contro i quali svolgere azioni offensive e il gruppo continua il suo pattugliamento.

Un batuffolo nero fa la sua comparsa nei dintorni: la flak!

Altri vi si aggiungono... abbastanza lontani dalla loro rotta; i tedeschi stanno sparando da una certa distanza, i caccia non sono in pericolo immediato e Tuck ha anche il modo di dare un' occhiata al movimento che s'intravede in basso.

Scorge delle esplosioni di bombe presso le navi che sono lungo la costa; ma dove sono i bombardieri?

Scruta il cielo, ma non vede niente; però non può rimanere a lungo a guardare nell'azzurro perché deve anche mantenere la formazione e guardarsi alle spalle.

Non gli piace la formazione stretta che i gruppi della RAF sono stati abituati a tenere anche in prossimità del nemico, perché i movimenti essenziali o immediati divengono pericolosi, come lui sa fin troppo bene, senza contare che riducono il tempo disponibile al pilota per scrutare il cielo d'intorno.

Il gruppo incontra una zona di aria agitata; la formazione si allarga, ma subito dopo i velivoli riprendono il loro posto.

Tuck non si sente a suo agio.

A ogni inversione di rotta, Bushell dà l'ordine per radio; adesso ordina:

«Virare a destra. Via! » e i dodici caccia levano verso il cielo l'ala sinistra mentre si preparano a virare di centottanta gradi a dritta.

Sono su Dunkerque e Tuck dà un' occhiata a ognuno dei piloti che lo fiancheggiano; per un qualche incognito motivo fa loro un cenno di mano, al quale essi rispondono alzando le due dita in modo da formare la V.

Un urlo risuona negli auncolari: non si può fare a meno di sentirlo, è un urlo di eccitazione.

Gira di colpo la testa; qualcosa sta succedendo... dietro, sulla sinistra, stanno venendo giù dalle nuvole che sovrastano, veloci... picchiano... sono caccia!

Me 109 ! Stanno puntando quasi addosso agli Spit... dirigono proprio su di loro. Tuck. dà motore mentre uno dei suoi velivoli esplode in una fiammata: tutto è successo in un attimo; il silenzio radio viene rotto e diversi piloti gridano avvertimenti; Bushell urla un ordine.

È un caos !

I piloti degli Spit reagiscono istintivamente e la formazione si rompe !

Tuck vira violentemente portandosi fuori della linea di tiro, poi torna indietro; il comandante dei caccia nemici, forse lo stesso che ha incendiato lo Spit, passa come un bolide in "mezzo agli inglesi e poi fa una cabrata; poiché ha picchiato da almeno millecinquecento metri di quota il tedesco ha il grande vantaggio della velocità che impiega appunto per mettersi di nuovo più in alto, fuori della portata degli Spit e delle loro otto Browning.

Tuck guarda il comandante nemico di fronte a lui, sulla destra in alto e, mentre lo tiene d'occhio, sorveglia anche il proprio settore di coda.

Ce la farebbe ad attaccarlo?

In un attimo decide di tentare.

Gli altri caccia, Spit e Me 109, si stanno mischiando in tutte le direzioni e allora Tuck dà tutto -motore, il Rolls-Merlin ha come un muggito e il pilota restituisce un poco la barra per prendere velocità.

Il caccia nemico è davanti, a destra, e lui non lo abbandona un attimo... mentre effettua una stretta virata a sinistra cominciando una picchiata per iniziare un nuovo attacco.

Questo è il momento buono per Tuck; mentre il tedesco vira può girare più stretto dietro di lui e tagliargli la strada; piega decisamente il velivolo a sinistra tenendogli il muso basso per acquistare ancora velocità.

Il pilota nemico non sembra essersene accorto e inclina ancor più il velivolo mentre lo Spit gli si avvicina con una virata più stretta; Tuck allenta un po' la barra pur tenendola di lato per mantenere la virata e comincia a sentirsi eccitato mentre la sagoma del 109 si avvicina al centro del collimatore.

Lavora di piedi e di leva per mettersi in buona posizione di mira; s'inclina ancor più sulla sinistra per spostare il cerchietto luminoso davanti al musetto appuntito del Me 109 che sta, ovviamente, correndo forte; ma la virata interna effettuata da Tuck consente a questi di arrivargli addosso, a portata di tiro.

Tutto il suo addestramento, tutta la sua preparazione degli anni che hanno preceduto la guerra hanno valore per questo solo momento, quello del suo primo combattimento della seconda guerra mondiale.

Poiché è uno dei migliori tiratori che siano in servizio nella RAF dovrebbe far fare al caccia tedesco, davanti a lui, quello che gli è sempre riuscito di fare contro i bersagli sui quali si è esercitato per tutti quegli anni; ma non ha mai sparato a un essere umano su un altro caccia... fino ad ora.

Eccolo a tiro!

Ancora un controllo per assicurarsi che la compensazione della virata sia giusta; lo è; poi Tuck preme il pollice, otto Browning si mettono a urlare facendo vibrare lo Spit .

Ha sentito molte volte questo rumore e tante volte ha visto il bersaglio rimorchiato sul quale sparava stracciarsi nel vento, tutto sforacchiato dalle sue pallottole; ma non ha mai visto l'effetto del fuoco di otto mitragliatrici su un altro aeroplano.

Cosi, mentre l'urlo delle sue armi viene a sovrapporsi al rombare del motore, fissa con l'animo teso il caccia nemico che ha davanti.

La prima indicazione dell'accuratezza del tiro gli viene dalle leggere scie lasciate dalle traccianti... vanno tutte a finire addosso al 109, che sta ancora virando a sinistra, ma il cui pilota tira la barra con tutte le sue forze per uscire dalla picchiata. Adesso Tuck vede le pallottole colpire l'ala destra: il nemico gli ha offerto un buon bersaglio... sta infatti cercando di riprendere quota proprio davanti allo Spit che gli piove addosso e al quale offre una bella porzione di superficie alare sulla quale mirare.

Le pallottole continuano a centrare l'ala destra e qualche pezzo comincia a staccarsi, perdendosi nella scia; il 109 continua a salire e anche Tuck tira leggermente verso di sé la leva, per seguirlo nella manovra.

Adesso è l'alettone destro che si stacca e si perde rotolando e rimbalzando nell'aria, ma le pallottole continuano a penetrare nel velivolo danneggiato, ormai decisamente centrato.

L'ala è uno dei punti più delicati del 109 (si sapeva che alcuni piloti tedeschi avevano perso le ali all'uscita da una picchiata) e il fuoco concentrato di Tuck è fatale; il Messerschmitt sembra stia sprofondando e comincia a rimettersi in volo orizzontale. Poi, di colpo, la sorpresa subitanea: l'intera ala destra si stacca dalla fusoliera e cade lentamente verso il suolo mentre la fusoliera, con ancora attaccata l'altra ala, è più pesante e precipita rapidamente.

Tuck ha smesso di sparare e guarda affascinato la sua prima vittima di guerra che va in vite cadendo verso la costa sottostante; si dà un'occhiata d'intorno per esser certo di non aver nessuno nei pressi e si mette poi a virare a sinistra e a destra fino a che non vede i resti del velivolo sbattere per terra; l'ala destra sta ancora voltolandosi qua e là, scendendo più lentamente.

Allora si guarda alle spalle, guarda in alto, intorno a lui: è rimasto solo; poiché ha inseguito il nemico nell'entroterra si è allontanato dal suo gruppo e, come tutti i caccia isolati su territorio avversario,è in pericolo.

Subito si dirige a nord-ovest... verso l'Inghilterra e Hornchurch; ha ridotto il motore fino a portarsi a velocità di crociera, così non ha timore di restare con poco carburante, tranne che non incontri un'altra formazione nemica.

Arriva sulla costa di Dunkerque e si butta sull'acqua domandandosi quanti del suo gruppo possano essere stati colpiti, quanti Spit siano stati abbattuti e quanti caccia possa aver perduto il nemico.

Un'occhiata all'orologio gli indica che sono le 12.10; ormai è in volo da un'ora e mezzo e, mentre attraversa la Manica, si dà regolarmente delle occhiate alle spalle. Ma nessun velivolo nemico è in vista e allora comincia a rilassarsi e a concentrare il pensiero sulla prima vittoria che ha conseguito contro il più veloce e miglior velivolo di cui disponga il nemico: è un buon inizio!

I minuti trascorrono mentre Tuck, riflettendo sull'accaduto, si sente più sicuro di sé e, nell'eccitazione del suo primo successo, quasi arrossisce.

Ancora un minuto o due e la costa inglese è in vista... una debole, sottile linea scura sull'orizzonte, davanti a lui.

E’ una terra amica e una vista piacevole.

Guardando in basso sul mare vede, di fianco, un' ombra che corre da una cresta all'altra verso nord-ovest: alza gli occhi dall'acqua e ne scorge l'origine: un altro caccia.

Scruta attentamente la forma delle ali... è uno Spitfire!

Così non è del tutto solo, anche se l'altro compagno ha qualche centinaio di metri di differenza di quota.

Intanto pigia il bottone della radio e cerca di mettersi in contatto con «Cornflower », il nome in codice di Hornchurch; ma non ha risposta.

Chiama di nuovo e questa volta stabilisce il contatto; riferisce la sua posizione e comunica di stimare l'arrivo alla base tra dieci minuti : così, almeno, adesso sanno che il comandante dell'altra pattuglia di Bushell non è stato abbattuto.

Taglia la costa e si dirige verso il campo, subito a est di Londra.

Il verde della campagna gli sembra risplendente, sfuggendo sempre più veloce sotto le sue ali man mano che perde quota; in pochi minuti avvista la zona dell'aeroporto di Hornchurch e chiede l'autorizzazione per l'atterraggio, che gli viene subito concessa.

Fa il suo giro regolare dopo aver abbassato il carrello e i Flap; toglie motore per ridurre la velocità dello Spit ed entra in finale a circa cento metri di quota; la velocità scende ancora man mano che fa alzare il muso e sedere il velivolo... centotrenta, centoventi, centodieci.

Il campo è vicino, supera la recinzione, tiene fermo il caccia: toccato !

Barra al ventre, lo tiene diritto lavorando di pedaliera.

L'aeroplano rallenta fino a velocità di rullaggio e Tuck si dirige verso il suo decentramento dopo aver aperto il tettuccio; guarda in avanti, vede i suoi uomini che lo aspettano.

Arrivato al suo posto fa ruotare il velivolo, poi sorride mentre chiude definitivamente la manetta e il motore si ferma: sono le 12.45.

Tutto il personale gli si affolla intorno per salutarlo, lui fa il racconto della sua prima vittoria e, mentre riceve le congratulazioni, si rende conto della grande attività che regna dappertutto.

Gli specialisti stanno approntando altri Spitfire nei suoi pressi e qualche pilota sta già accanto ai velivoli: Tuck è stato uno degli ultimi a rientrare, ma il personale di terra sa che potrebbe venir richiesta un'altra crociera

Corre alla baracca, dove spara una serie di domande agli altri piloti, che ne rivolgono altrettante a lui.

Parecchi di loro hanno riportato delle vittorie e la maggior parte del gruppo è rientrata ed è in salvo; manca Pat Learmond e Bushell è molto addolorato della perdita, come lo è anche Tuck.

S'informa del perché corra voce di un'altra pattuglia: gli rispondono che il gruppo è di allarme per un' eventuale nuova crociera su Dunkerque!

Descrive la sua vittoria all'ufficiale addetto alle informazioni e a qualche altro camerata e gli vien detto che nel feroce combattimento del mattino sono state denunciate cinque vittorie, contro la perdita di un solo Spitfire: tutti sono soddisfatti della proporzione.

Tuck, dopo aver ricevuto le congratulazioni, va a far colazione poi se ne torna al decentramento; ma non arrivano altri ordini e il tempo trascorre lentamente: le ore passano, le tre, le quattro, le cinque del pomeriggio.

 

************

 

Poi, una chiamata dall'ufficio operazioni: decollo!

Di nuovo si butta di slancio fuori della porta e corre al suo Spit; per la seconda volta Bushell è alla testa di sei caccia e Tuck lo segue con altri sei. Sono le 17.20.

La rotta è la stessa e il gruppo punta di nuovo sulle spiagge di Dunkerque; le vittorie della mattina hanno aguzzato i loro appetiti e tutti si sentono stimolati.

I dodici Spit (un pilota di riserva ha preso il posto di Learmond) attraversano la Manica e, ancora una volta, Tuck accende il collimatore e leva la sicura alle armi: non hanno combattuto per nove mesi e adesso stanno facendo la seconda crociera della giornata!

Secondo Tuck la formazione è ancora troppo stretta; ma lo stile è tuttora una cosa sacra nella RAF e il gruppo, ben compatto, fa quota e si dirige sul porto; dopo pochi minuti la cortina di fumo è di nuovo visibile, davanti a loro, poi anche Dunkerque appare in vista.

I velivoli, adesso a tremila metri, virano al comando di Bushell e iniziano il volo di pattugliamento; sono le 17.45 e il sole sta scendendo verso occidente.

Tuck, pur tenendo il suo posto informazione, scruta il cielo, specialmente verso l'alto, dato che loro sono alquanto bassi proprio per proteggere le truppe e le navi. Questa situazione lascia troppo cielo libero verso il sole e i piloti ricordano la frase abituale dei cacciatori alleati della prima guerra mondiale:

« Attento al tedesco contro il sole».

Il pomeriggio è limpido e tutta l'attività, intensissima, delle truppe, dei veicoli e delle navi, è chiaramente visibile sotto di loro.

Urla negli auricolari!

Tuck intercetta una delle voci che avverte «alcuni nemici in picchiata dall'alto»: sono diversi i piloti che li hanno visti contemporaneamente.

Alza la testa e guarda in su;

Bushell ordina una virata a sinistra per buttarsi in una specie di «Lufbery»! una manovra difensiva.

La tensione aumenta mentre l'ordine viene eseguito; i piloti... tengono d'occhio il cielo sopra di loro; Tuck scorge delle macchioline nere che stanno piovendo dall'alto a gran velocità... sono più grandi dei soliti caccia monomotori: vede poi che hanno due gobbe, una per ala... ma non sono bombardieri, non stanno attaccando in picchiata.

Me 110!

Sono i caccia tedeschi bimotori!

È la prima volta che li vede; sono armati con cannoncini e mitragliatrici anteriori e hanno un mitragliere con un'arma brandeggiabile alle spalle del pilota.

Mentre Bushell mantiene i dodici Spit in uno stretto cerchio, Tuck li guarda venire avanti: la loro formazione è grande... venti o trenta, ma non ha tempo da perdere a pensare agli svantaggi perché il capopattuglia punta direttamente contro gli Spitfire. Le sue armi prendono a fiammeggiare e le traccianti innaffiano il cielo verso gli Spit, sempre circolanti.

A questo punto i piloti del 92° Gruppo cominciano a manovrare ciascuno per proprio conto perché altri 110 stanno arrivando dietro al capo formazione, pronti per l'attacco; tutti cercano di salvarsi le spalle e di sfuggire al fuoco mettendosi nel con tempo in posizione per attaccare a loro volta gli assalitori.

Tuck vira violentemente per evitare una raffica nemica mentre alcuni Spit, che si trovano in posizione di poter sparare di muso contro gli attaccanti, aprono il fuoco; lui cerca un bersaglio, una vittima; deve virare ancora, strettissimo, per evitare un 110 che attacca dal basso, poi un altro ancora...

si rende conto che anche i 110 stanno mettendosi a virare, per battersi contro gli Spitfire: non hanno alcuna intenzione di passare, sparando, attraverso la formazione per poi sparire in picchiata.

I combattimenti isolati si accendono da tutte le parti.

A un tratto una forma scura gli compare davanti al muso, quasi di fronte, proiettata verso l'alto... è un bimotore... un 110!

La mano sinistra di Tuck sbatte in avanti la manetta del motore mentre il 110 sta inclinandosi leggermente: il suo mitragliere posteriore, sorpreso, scorge lo Spitfire proprio dietro di loro e, subito, gira la mitragliatrice e comincia a sparare.

Tuck vede le traccianti che gli vengono addosso mentre sta freneticamente lavorando di leva e pedaliera per prendere di mira il caccia nemico.

Troppo tardi: zeng! Zeng! sente i colpi... vede le traccianti venire diritte verso di lui che, istintivamente, china la testa per un secondo... sente puzzo di cordite... è colpito.

Deve far subito qualcosa... un'occhiata veloce attraverso il collimatore... le ali del 110 sono a tiro... il pollice preme il bottone di sparo; nel frattempo qualche pallottola rimbalza sul parabrezza corazzato e qualche altra penetra, alle sue spalle, nell'abitacolo... da dove viene il puzzo di cordite.

Il suo fuoco, più formidabile (otto armi contro una), rovescia la situazione... le De Wilde colpiscono dappertutto il Me 110 la cui struttura è leggera, le perforanti-incendiarie sfondano le vetrate del compartimento del mitragliere posteriore, che ora

non spara più: quel viso coperto dal casco nero non lo sta più guardando e la mitragliatrice è ferma.

Tuck, però, è adesso arrivato molto vicino mentre il 110 stringe al massimo la virata... preme ancora il pollice sul bottone e questa volta la raffica di traccianti investe in pieno il motore di sinistra; da cosi breve distanza i suoi colpi sfasciano l'ala e la navicella del motore stesso (le sue armi sputano pallottole al ritmo di oltre un centinaio al secondo). Questo è troppo per il caccia nemico, che comincia a emettere un sottile filo di fumo dalla sinistra; il 110 vacilla... da una parte e dall'altra; il pilota ha perso i comandi o è morto.

Il Messerschmitt si rovescia di fianco.

Tuck smette di sparare e guarda... è quasi arrivato in coda al nemico, che ha il ventre in alto... poi il muso punta la terra e il rottame cade verso la spiaggia mentre una scia di fumo, che esce dal motore sinistro, ne segna la discesa in candela.

È la seconda vittoria!

Il combattimento sta ancora infuriando intorno a lui; questa volta non è solo, come lo è stato quella mattina dopo la sua vittoria sul 109.

Da ogni parte può vedere i caccia che picchiano o che virano... negli auricolari gli giungono delle urla e degli avvertimenti di non usare troppo la radio.

Grida un ordine per radio, ma le voci continuano.

Cerca di portarsi nel centro di tutta quell'attività... ma in quel momento gli passa vicino uno Spit, quasi addosso a un 11O che cerca di sfuggire; riconosce Tony Bartley... che sta quasi mangiando la coda del nemico con l'elica mentre il 110 incassa colpi.

Di fianco c'è una vista poco incoraggiante: uno Spitfire che precipita in fiamme: pensa che sia il sergente Klipsh; non vede nessuno saltarne fuori e rimane con quel pensiero quando... zeng! Zeng! Zeng! Colpito di nuovo!

Tuck alza di scatto la testa... eccolo, davanti: gli sta piovendo addosso un Me 11O con il bordo d'attacco dell'ala scintillante per gli spari delle armi.

Prende di mira la sagoma che sta avvicinandosi, con qualche breve manovra di leva e pedaliera, poi preme il pulsante di sparo.

Il 110 arriva... ritiene di scorgere i propri colpi andare a segno, ma quando ci si scontra di fronte si vede poco e il velivolo nemico offre un bersaglio molto piccolo: soltanto i motori e la linea sottile delle ali.

I due caccia si avvicinano a quasi seicento miglia l'ora e Tuck ha appena qualche istante ancora... le sue pallottole fanno centro... ma ormai stanno per scontrarsi: sta puntando diritto contro la macchina nemica... nessuno dei due piloti cambia assetto e ambedue continuano a sparare.

Non vogliono offrire all'altro un bersaglio più grande dando una strappata ai comandi: in un certo senso, è tutta questione di nervi.

Tuck china la testa sapendo che si scontreranno; si avvicinano... sono passati: il caccia nemico lo ha sfiorato sopra o sotto, Tuck non lo sa con esattezza.

Si guarda alle spalle... eccolo!

Il 110 sta virando verso est, si dirige nell'interno, sta andandosene... non torna indietro.

Tuck ha sparato una gran quantità di munizioni, ma forse ne ha ancora abbastanza... se riesce a raggiungerlo.

Piega a destra e picchia; il nemico sta anch'esso picchiando, diretto a oriente; ha più di un miglio di vantaggio e Tuck guadagna qualche poco nella virata.

Lo Spit va ancora a tutto motore; il 110 non è veloce come il 109 e Tuck, picchiando con l'elica al massimo dei giri, guadagna terreno.

Il nemico deve averlo visto perché picchia sempre più mentre lui lo insegue, avvicinandosi velocemente: lo vuole agguantare, e presto.

Il 110 è quasi a terra, ovviamente diretto al proprio campo e il mitragliere è chiaramente visibile, di fronte a lui, in attesa con l'arma già puntata.

Ben presto è a tiro.

Il 110 sta pelando le cime degli alberi e lo Spit si avvicina ancora: cinquecento metri, quattrocento.

Tuck lo ha collimato e tiene fermo il proprio velivolo.

Il pilota nemico tenta di togliersi di mira, muovendo i timoni di fianco e facendo lievi accostate; ma Tuck aspetta e poi riprende a puntarlo... più vicino, sempre più vicino, con qualche correzione... adesso... è a tiro. Fuoco!

Le traccianti volano verso il 110 e il suo mitragliere, arcuando leggermente la loro traiettoria nel vento.

Zeng!

Tuck sente un colpo; un altro gli si viene a schiacciare contro il parabrezza: il mitragliere nemico è un buon tiratore.

Sono cosi vicini alle cime degli alberi e ai tetti che un piccolo sbaglio può essere l'ultimo.

Vede i suoi colpi entrare nel 110, ma il pilota nemico vira e s'inclina: Tuck spara ancora, una breve raffica; l'avversario si butta ancora più basso.

Proprio davanti... una linea ad alta tensione e il tedesco vi passa sotto; lui invece esita e poi tira su all'ultimo momento: cosi facendo espone il ventre del velivolo, l'armiere nemico spara immediatamente e Tuck sente i colpi che gli arrivano sotto.

È stato preso.

Deve eliminare il mitragliere prima che lo Spit sia colpito gravemente su territorio nemico: picchia di colpo inseguendolo; il pilota tedesco tenta ancora azioni evasive, ma questa volta Tuck gli si attacca addosso con una violenza feroce... prende la mira... è a tiro... sta volando diritto e livellato: fuoco !

Tuck non sa bene quante munizioni gli siano rimaste, ma sa che deve, per prima cosa, eliminare il mitragliere.

Lo Spit gli è quasi addosso: vede i suoi colpi entrare nella parte posteriore dell'abitacolo, l'armiere cade di colpo e la lunga canna si affloscia di lato senza

più sparare: lo ha fatto fuori ! .

Anche il pilota se n'è accorto e vira bruscamente, ma Tuck lo segue.

Il Me 110 è alla sua mercé; si sta dirigendo verso un campo aperto che gli si apre davanti: gli si mette in coda e sta quasi per sparare di nuovo quando il 110 si abbassa, si abbassa sempre più... diminuendo la velocità.

Lo sta sorpassando e allora vira di fianco.

Il 110 sta atterrando; guarda il bimotore sfiorare il prato, toccare terra... scavare un solco in mezzo a una nuvola di polvere e di fango.

Tuck vira di nuovo e si mette a girare attorno all' aeroplano ormai fermo; il pilota ne salta fuori, sano e salvo e rimane vicino al suo velivolo a guardare lo Spitfire che vola basso.

Un buon pilota... ma lo Spit era troppo veloce per lui.

Tuck gli passa sopra con i flap abbassati... apre l'abitacolo e saluta con la mano il nemico sconfitto.

Ma un foro appare d'un tratto nel fianco del tettuccio: un colpo attutito e un buco; guarda in giù: il pilota nemico è in piedi con qualcosa in mano.

Gli ha forse sparato?

Tuck sente bollirsi il sangue: vira di colpo e si butta a terra mirando al 110 sfasciato e al pilota che gli sta vicino; prima che questi abbia il tempo di muoversi, o si possa rendere conto di quanto sta facendo, lo Spit gli è sopra, a pochi metri di quota.

Tuck preme il bottone; ha ancora delle munizioni e le armi sputano uno zampillo di pallottole: il fango saltella e il 110, squarciato, s'incendia.

Tuck non sta a vedere che cosa accade al pilota nemico, ma questa volta nessuna pallottola colpisce il suo caccia: si mette a cabrare e si dirige verso la costa.

Comincia adesso a risentire gli effetti del combattimento e della lunga giornata; è solo e molto addentro in territorio nemico: deve perciò arrivare alla base senza farsi scoprire.

Mette la prua a occidente e continua a far quota ,controllando continuamente il cielo alle sue spalle; per sua fortuna è del tutto libero.

Non ha molto tempo da dedicare al pensiero di tornarsene con due vittorie... tre in un giorno!

È troppo dedito alla navigazione, al livello del carburante e al nemico.

Mentre prende quota gli si scopre davanti la costa; Dunkerque è di fianco: vira a nord-ovest e ben presto passa veloce al di sopra della spiaggia... diretto in Inghilterra.

Dopo qualche minuto si sente più sicuro, ma continua a guardarsi alle spalle; poco distante un altro velivolo, sulla stessa rotta... è uno Spit.

Si dirige verso di lui: è uno del 92° Gruppo, è Tony Bartley!

Avvicinatosi all'aeroplano vi vede molti buchi, ma nel frattempo Bartley lo chiama per radio per dirgli che il suo caccia è molto malridotto!

Si mettono in coppia e si dirigono verso Hornchurch; la costa inglese è visibile davanti a loro e poco dopo la sorvolano... ambedue i motori funzionano ancora bene.

Però le lancette degli strumenti stanno andando verso il rosso, sul velivolo di Tuck; pare che stia perdendo anche le ultime gocce del liquido di raffreddamento; il Merlin continua a girare, ma il suo rombare comincia a suonare in falso, senza contare che le temperature continuano a salire di momento in momento.

Ecco il campo!

Bartley gli è accanto e Tuck gli dice di essere nei guai; Tom risponde che lui può attendere e gli suggerisce di atterrare subito.

Chiude un po' la manetta e picchia leggermente, ma proprio in quel momento il motore si mette a zoppicare e non ne vuol più sapere: dà un'occhiata agli strumenti: tutte le lancette sono sul rosso, al massimo: bisogna fermarlo.

Deve atterrare subito, senza stare a seguire il circuito, diritto come si trova.

Abbassa il carrello e guarda l'indicatore di velocità che cala rapidamente, poi picchia e si mette in volo planato: non ce la fa ad arrivare nella consueta striscia di atterraggio... è troppo corto.

Il motore borbotta, cigola e si arresta definitivamente.

Non può più contare sul suo aiuto, deve atterrare a tutti i costi; potrà arrivare giusto giusto sul prato che è accanto alla torre di controllo.

Tira la leva, lavora di piedi... rimbalza un po', ancora... poi rulla diritto, con l'elica in croce; lo Spit tende ad andare a destra e Tuck deve fare continuo uso del freno sinistro per tenerlo diritto, oltre che del timone di direzione: evidentemente la gomma destra è a terra.

Riesce a evitare di fare una cappottata e finalmente il caccia cosi mal conciato si ferma.

Tuck si alza lentamente dal posto di pilotaggio dopo essersi slegato e avere slacciato cinghie e cavi; poi scende sull'ala sinistra e allora può vedere bene i buchi che ha riportato nella fusoliera e nella velatura.

Il primo ad arrivare è Bouchier, il comandante della base, che appare agitatissimo: urla a Tuck di togliere subito di lì il caccia.

Evidentemente indignato ricorda al pilota che deve sapere benissimo come sia vietato parcheggiare gli aeroplani in quel punto;

Bouchier teme che altri velivoli debbano atterrare e potrebbero andare a sbattergli contro.

Mentre ancora sta camminando a gran passi, urlando in continuazione di levare di lì l'aeroplano, dà un'occhiata allo Spitfire e tace di colpo.

Vede poi la gomma sgonfia, i buchi e i danni sparsi qua e là dappertutto, si rende conto dell'assurdità di tutta la scena e a un tratto si mette a ridere, quasi senza accorgersene.

Ride così forte e così di gusto che anche Tuck si mette a ridere con lui..

 

*************

 

Dopo quel primo giorno di combattimento, Tuck continuò la sua dura guerra contro la Luftwaffe per quasi diciotto mesi; in molte altre occasioni, durante questo periodo, si portò vicinissimo al nemico, rischiando molto e incassando colpi pur di distruggere l'avversario.

nel gennaio del 1942, venne abbattuto dal fuoco dell'artiglieria contraerea mentre stava mitragliando obiettivi terrestri nei pressi di Boulogne.

In quel momento aveva ventinove vittorie confermate.

Fu catturato dai soldati tedeschi, ma solamente dopo aver attaccato di nuovo la postazione che lo aveva colpito, distruggendola con tutti i serventi e il veicolo che li portava.

Poco dopo ebbe un'interessante conversazione con un pilota tedesco che era il comandante della caccia della Luftwaffe che si batteva contro la RAF: il tenente colonnello Adolf Galland.

Questi aveva già avuto notizia di Tuck perché, nell'ultimo scontro che avevano avuto, lo aveva quasi preso di sorpresa alle spalle.

Gli aveva mandato l'invito per una cena alla mensa del 26° Stormo la sera stessa della sua cattura; nel riceverlo egli fece notare che nel loro ultimo incontro era stato quasi sul punto di ucciderlo.

Tuck si mise a riflettere e poi si ricordò di quel volo: era alla testa del suo stormo che effettuava una crociera offensiva sulla Francia ed era stato preso di sorpresa da dei 109 che gli erano piovuti addosso dall'alto.

La coppia di testa della formazione tedesca era passata attraverso tutte le pattuglie degli Spit buttandosi direttamente sul comandante britannico, Tuck.

Questi, all'ultimo momento, aveva virato disperatamente, ma il Messerschmitt, che gli era ormai in coda, aveva abbattuto il suo gregario; a sua volta, Tuck aveva abbattuto quello di Galland.

«Cosi, era lei» disse Tuck. «lo feci fuori il suo gregario mentre mi passava davanti» Galland gli aveva risposto: «E io avevo fatto fuori il suo, il che ci mette, come dite voi? sullo stesso piano ».

Tuck venne inviato in un campo di prigionia (lo Stalag Luft III) dove ritrovò Bushell, Douglas Bader e molti altri.

Sfuggi alla morte in diverse occasioni soltanto per la sua buona fortuna: una volta, quando avrebbe dovuto partecipare a quella che, fin da allora,

venne conosciuta come «la grande fuga» (esiste un libro con questo titolo, scritto da Paul Brickhill, che narra tutta la storia nei suoi particolari) fu trasferito per due settimane in un altro campo.

La fuga avvenne com'era stata progettata e settantasei prigionieri evasero attraverso una galleria che avevano scavato; furono però tutti ripresi, compreso Roger Bushell, meno tre e furono poi uccisi dalla Gestapo.

Dopo diversi tentativi gli riusci alla fine di scappare da un campo della Polonia, nel tremendo gennaio del 1945; per settimane e settimane, insieme ad altri fuggitivi, si diresse verso est, incontro alle armate russe che avanzavano.

Diverse volte fu sul punto di rimanere intrappolato dalle truppe tedesche ma, alla fine, congelato in più parti e quasi morto di fame, incontrò i russi che, prima di accettare per vero quello che raccontava loro, stavano per sparargli; non riuscì a ottenere di essere spedito a Mosca e fu invece obbligato a combattere con loro contro i tedeschi per due settimane, rifacendo all'incontrario la strada che aveva percorso nella sua fuga.

Sfuggito finalmente anche ai sovietici riuscì a scappare dalla Polonia fino in Russia, dove gli fu possibile telefonare all'ambasciata britannica a Mosca; qui gli dissero di prendere il primo treno per la capitale, il che fece immediatamente.

Da Mosca venne mandato a Odessa dove s'imbarcò su un piroscafo diretto in Inghilterra.

Il totale delle vittorie realizzate da Tuck è notevole per il fatto che, anche alla fine della guerra, si trovava all'ottavo posto nella classifica dei cacciatori della RAF, nonostante che fosse stato prigioniero per tre anni!

Nel periodo successivo al conflitto era stato riconosciuto come uno dei più valenti piloti bellici sia dal suo antico nemico, Adolf Galland, sia dai suoi stessi compagni. Ricevette la DSO, la DFC e due barre e la decorazione americana DFC: quel ragazzo che stava per essere esonerato dalla scuola di pilotaggio ed era stato oggetto di particolari cure da parte dei suoi istruttori aveva dimostrato quanto queste fossero state bene spese.

 

The Fighter Pilots

 

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Capitano di Corvetta IYOZO FUJITA

Iyozoh FLljita fu uno dei due piloti di marina capace di abbattere dieci aerei nemici in un solo giorno.

Figlio di un medico e di una levatrice, vide la luce nella provincia di Shantung, in Cina, nel novembre del 1917.

Durante la scuola superiore maturò l'intenzione di avviarsi alla carriera in marina, e le sue attitudini scolastiche gli consentirono l'ammissione all'Accademia Navale di Etajima, classe 1938.

Il giovane guardiamarina completò l'addestramento aereo nel giugno 1940.

Quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbour il 7 dicembre 1941, il sottotenente di vascello Fujita decollò dalla portaerei Soryu come capopattuglia della seconda ondata di caccia di scorta.

Mitragliò al suolo diversi obiettivi e il suo Zero venne colpito dal Fuoco nemico. In seguito, mentre si stava ricongiungendo ai suoi per il rientro, la sua formazione fu sorpresa da una squadriglia di P-36 o di P-40, e ne scaturì un selvaggio duello.

Sganciatosi dall'azione col suo Zero danneggiato, Fujita ricondusse i suoi uomini sulla portaerei, e subito dopo l'appontaggio si staccò un pezzo dal suo motore.

I piloti giapponesi salutarono il 1942 con un morale altissimo e una totale fiducia nei propri Zero.

A quei tempi un pilota di marina doveva avere al suo attivo tra le 50 e le 100 ore di volo, oltre a quattro o cinque appontaggi, per ricevere il brevetto di aviatore navale, e anche il più giovane dei piloti della flotta aveva alle spalle almeno 500 ore di volo.

Uno di quelli prescelti per Midway in virtù dei suoi precedenti successi fu proprio Iyozoh Fujita.

"Dopo Midway, molti piloti sopravvissuti furono distolti dal servizio attivo per divenire istruttori" si lamentò Fujita.

"Il trasferimento dei veterani dalle unità in prima linea ci fece perdere la nostra capacità combattiva.

In definitiva, le conseguenze sopportate dai nostri piloti furono spaventose, e credo che a Midway almeno il dieci per cento dei nostri veterani andò perduto."

L'incarico successivo del tenente di vascello Fujita fu come ufficiale di divisione sulla portaerei Hiyo.

Partecipò ai combattimenti nelle Salomone e a Guadalcanal, e nel novembre 1943 venne promosso comandante del 301° Gruppo aereo, agli ordini del capitano di fregata Katsutoshi Yagi.

In qualità di esperto pilota di prima linea, il tenente Fujita inoltrò ripetute richieste di miglioramento delle armi e dei congegni di mira, e anche se i costruttori ascoltarono i suoi suggerimenti, ben poche, se non addirittura nessuna, furono le modifiche effettivamente apportate.

Prima che terminasse il conflitto, il tenente Fujita prese parte alle battaglie di Iwo Jima, Formosa e alla difesa dell'arcipelago giapponese.

Terminò la guerra presso il campo d'aviazione di Fukuchiyama, attendendo quell'attacco finale degli americani che non si materializzò mai.

Il bottino finale del capitano di corvetta Fujita è difficile da stabilire, poichè gli storici gli assegnano 11 vittorie, mentre altre fonti gliene attribuiscono 42.

Il numero di aerei abbattuti confermati era di sette.

Dopo la guerra Iyozoh Fujita divenne un pilota delle linee aeree giapponesi, finchè non andò In pensione nel 1978.

Già presidente dell' Associazione piloti dei caccia Zero, è stato uno degli ospiti d'onore alla conferenza sulla Battaglia di Midway tenuta presso la Naval Air Station di Pensacola nel 1988.

 

Aerei Militari

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DdaypatrolTN.jpgMaggiore J.E. JOHNSON, - R.A.F.-

 

Il Pilota da caccia alleato al quale vengono ufficialmente attribuiti il maggior numero di abbattimenti di velivoli tedeschi è un inglese proveniente dalla contea di Leicesterche, fu quasi respinto dalla RAF: James Edgar Johnson.

Il vice Maresciallo dell'Aria Johnson è nato a Loughborough nel 1915, dove ha anche frequentato le scuole prima di passare all'università di Nottingham; quando gli venne in mente per la prima volta di arrolarsi nella RAF era ventiduenne e aveva appena iniziato una promettente attività in un impiego a Loughton come ingegnere civile.

Dopo che la domanda di arruolamento gli era stata rifiutata se ne andò a prestare servizio nel Corpo volontario di cavalleria della contea di Leicester, dove rimase fino al 1939, quando ricevette una chiamata dal ministero dell'Aeronautica; la lettera diceva che, se fosse stato ancora interessato al volo, avrebbe dovuto presentarsi due giorni dopo a Londra, a Store Street dove era il comando della Riserva volontaria della RAF, per passarvi una visita medica.

Johnson superò la visita nella stessa mattina e, nel pomeriggio, aveva prestato giuramento ed era già divenuto un sergente della RAFVR; la guerra distava soltanto pochi mesi, ma dovevano passare due anni prima che riuscisse a riportare la sua prima vittoria contro la Luftwaffe.

Venne spedito a Stapleford Tawney, una scuola di pilotaggio dell'Essex,

dove cominciò a volare sul Tiger Moth durante i fine di settimana; due volte la settimana doveva inoltre frequentare a Londra delle lezioni serali nelle quali gli venivano insegnati la navigazione, l'armamento, le comunicazioni e altre essenziali mater,ie teoriche relative al volo.

Con l'inizio della guerra la Riserva volontaria venne mobilitata immediatamente e Johnson fu destinato a Cambridge, dove continuò nei suoi allenamenti sul Tiger Moth; rimase in quella sede fino alla primavera del 1940, quando fu trasferito alla Scuola di addestramento di Sealand, presso Chester, dopo aver compiuto in tutto ottantaquattro ore di volo.

A Sealand, dove cominciò a volare sul Miles Master, fu uno dei pochi del suo corso a essere nominato allievo ufficiale; in quell'epoca la guerra era esplosa in tutto il suo furore sul continente e Johnson, ancora in addestramento, doveva contentarsi dei racconti che i giornali facevano dei combattimenti aerei.

In quell'estate ebbe la sua prima avventura, dalla quale se la cavò per miracolo; era stato mandato in volo da solo, di notte e con brutto tempo: si perse dentro una nuvola, vi ebbe anche delle vertigini, ma alla fine riuscì a venire a terra sano e salvo e a rintracciare la pista, debolmente illuminata, sotto un plafond di nemmeno duecento metri di nubi.

Johnson fu nominato sottotenente mentre era ancora a Sealand e quindi trasferito al vicino aeroporto di Hawarden, dove venne provato sullo Spitfire, che era il migliore e più veloce caccia della RAF, facendovi ben presto rapidi progressi proprio nel periodo in cui cominciava la battaglia d'Inghilterra.

Una volta gli venne ordinato di trasportare a Sealand un pacco di documenti per il comando; il campo era corto e, mentre cercava di arrivare giusto giusto proprio sulla recinzione all'inizio della striscia di atterraggio, perse velocità troppo rapidamente e ancora troppo alto;cosi sfasciò il carrello e il velivolo cappottò.

Non era certo stato un felice rientro a Sealand; nonostante che non venisse rimproverato, e nemmeno trasferito ad altra base, si rese conto che doveva rigar molto diritto perché era ormai considerato «in prova»; se avesse avuto un altro incidente sarebbe stato esonerato.

Nel frattempo la battaglia d'Inghilterra raggiunse il culmine della sua intensità e Johnson non era ancora in condizioni di potervi prender parte.

Finalmente, verso la fine di agosto, fu chiamato nell'ufficio dell'aiutante maggiore dove ricevette l'ordine di fare le valige e di presentarsi al 19° Gruppo, a Duxford, presso Cambridge.

In quel momento aveva duecentocinque ore di volo e appena ventitré sullo Spitfire; pensava che avrebbe cominciato a scontrarsi con i Me 109 ma, arrivato a Duxford con altri due piloti di rimpiazzo, si accorse che i veterani del 19° Gruppo non avevano molta voglia di mandare lui, o gli altri giovani, contro la Luftwaffe.

Dapprima ne fu grandemente contrariato, ma la decisione era indubbiamente stata una delle più logiche perché il 19° Gruppo stava passando delle traversie con i suoi nuovi cannoncini da venti millimetri e aveva perso dei piloti molto esperti, tra i quali anche il comandante dello stesso gruppo, negli scontri che avvenivano giornalmente. I tre complementi erano troppo giovani per poter essere buttati nella mischia senza qualche volo di addestramento con gli anziani:

Johnson non aveva nemmeno sparato un colpo di mitragliatrice, a Hawarden, ma non c'erano tempo o piloti liberi per portarli a spasso.

Dopo pochi giorni l'aiutante maggiore li chiamò tutti e tre nel suo ufficio e disse che, data la situazione, non potevano ricevere l'addestramento supplementare del quale necessitavano e che erano stati trasferiti a Coltishall dove era il 616°, un gruppo dell'Aviazione ausiliaria ritirato dal fronte per far riposare e riorganizzare il personale; presso quel reparto avrebbero ricevuto tutto l'addestramento del quale avevano assoluto bisogno prima di poter essere mandati in combattimento.

Così Johnson riparti per un altro centro di addestramento e cominciò a volare con il 616°, presso Norwich.

Il destino continuava a negargli la possibilità di partecipare in pieno alla battaglia d'Inghilterra perché, dopo aver avuto un buon inizio con quel reparto, la spalla destra aveva cominciato a fargli molto male e la visita medica rivelò che si trattava di una vecchia frattura, riportata giocando al rugby, che non era stata ridotta con precisione tanto che gli aveva poi malamente agganciato un nervo.

Era necessaria un' operazione e non fu che in dicembre, quando ormai la battaglia d'Inghilterra era finita, che Johnson poté rientrare al 616° Gruppo.

Finalmente, nel gennaio del 1941, ebbe la sua prima occasione di sparare su un velivolo nemico e, con un altro pilota del gruppo, condivise la denuncia di aver danneggiato e messo in fuga nelle nubi un bombardiere Do 17.

Quell'anno divenne molto importante per lui perché fu proprio allora che andò a finire sotto lo sguardo vigilante di Douglas Bader e che cominciò a imparare le tattiche e i trucchi del combattimento sotto la guida di uno dei grandi condottieri della RAF;

Bader era stato trasferito in marzo alla base del 616°, Tangmere, come comandante di stormo col grado di tenente colonnello e presto vide in Johnson le premesse di quell'abilità che doveva poi manifestarsi cosi evidentemente durante il prosieguo della guerra.

Da quel momento Bader lo scelse come comandante di sezione nella propria pattuglia e da allora, fino a quando Bader fu abbattuto sulla Francia nell'agosto, Johnson volò sempre con lui.

Ebbe la sua prima vittoria nel giugno e venne promosso comandante di squadriglia;

volò continuamente per tutto il resto del 1941: alla fine di quell'estate aveva ottenuto sei vittorie e mezzo mentre alla fine di quella successiva il libretto dei voli e dei combattimenti di Johnson risultava già al di sopra della media.

Ricevette la Croce di distinzione in servizio di volo (DFC) e nel luglio 1942 gli venne affidato il comando del 610° Gruppo.

Fu appunto alla testa di questo reparto, composto di nazionalità miste, che si mise in luce come uno dei più brillanti piloti della RAF.

Nonostante che fosse impegnato sul fronte dal 1940 al maggio 1945, la gran maggioranza delle sue vittorie doveva ottenerla nell'estate del 1943 (diciannove in sei mesi) e nel 1944 durante le scorte ai bombardieri pesanti americani che effettuavano incursioni sulla Francia e sui Paesi Bassi.

Sotto un certo punto di vista il suo procedere ha un lontano parallelo con quello di Erich Hartmann, il maggiore asso tedesco il cui elenco di abbattimenti cominciò a salire rapidamente soltanto nel 1943, cioè nel quarto anno di guerra.

L'ultima vittoria Johnson la ottenne nel suo ultimo combattimento, avvenuto il 27 settembre 1944 durante la fatale operazione di Arnhem; fu l'unica volta, durante tutti i cinquecentoquindici voli di guerra da lui effettuati, che colpi nemici raggiunsero il suo velivolo.

I caccia della RAF non avevano il raggio d'azione necessario a consentir loro di partecipare totalmente alla battaglia di Germania che, giornalmente, si estendeva sempre più; questo fatto è stato messo in evidenza dallo stesso Johnson nei suoi libri Wing Leader e Full Circle, ma siccome il suo reparto era dislocato nel Belgio egli poté rimanere al fronte fino alla fine della guerra, anche se non ebbe più combattimenti da sostenere.

Le sue vittorie non vennero ottenute né durante la battaglia d'Inghilterra né in quella di Germania, ma in massima parte nell'intervallo tra le due, quando i caccia tedeschi non erano molto numerosi sul fronte occidentale; i suoi trentotto abbattimenti furono tutti ottenuti contro velivoli da caccia, mai contro bombardieri.

Quale era il segreto dei suoi successi?

Quali qualità possedeva in maggior grado dei suoi compagni?

Una era senz'altro la sua netta superiorità nel tiro; quei piloti che volarono con lui sono d'accordo nel confermare che aveva una mira magnifica.

In combattimento era freddo e teneva la testa a posto; aveva attitudini naturali al pilotaggio, coraggio e decisione: doti, queste, che lo aiutarono a superare tutti i suoi combattimenti fino a raggiungere un massimo che non fu mai uguagliato da nessun altro pilota della caccia alleata in Europa. .

Il momento peggiore, quello nel quale è stato più vicino di ogni altro alla morte, non gli accadde durante il combattimento del settembre del 1944, quando il suo caccia fu colpito dal fuoco nemico nel cielo di Nimega-Arnhem, ma su Dieppe, verso la fine dell’ estate del 1942.

In quell'epoca era stato nominato maggiore da poco tempo e stava conducendo il 610° Gruppo in una crociera sulla zona del primo tentativo di occupazione alleata nella Francia invasa.

Il suo reparto era dislocato a Norfolk e ricevette l'ordine di trasferirsi a West Malling per prender parte all'invasione: l'operazione Jubilee.

 

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L’operazione Jubilee

L’operazione Jubilee, che venne iniziata il 19 agosto 1942, venne fatta passare come una ricognizione in forze, qualcosa come una specie di prova generale del grande sbarco in Europa che gli Alleati avrebbero poi effettuato.

Era stata concepita e studiata dal Comitato di pianificazione del comando delle operazioni combinate e, sebbene Churchill la definisse una ricognizione riuscita, non sarebbe del tutto sbagliato ritenerla oggi, almeno dal punto di vista tattico, una limpida vittoria delle forze tedesche a Dieppe.

Sfortunatamente l'attacco fu procrastinato dopo che le truppe destinate a prendervi parte erano già state imbarcate e completamente messe al corrente di quanto dovevano fare;cosi, alcune migliaia di soldati erano a conoscenza del piano operativo ed è molto verosimile che qualche voce facesse in tempo a giungere sul continente; forse fu qualcosa di più di una diceria, quella che arrivò fino alle orecchie dei tedeschi, e sembra sicuro che l'attacco non prendesse del tutto di sorpresa i difensori germanici; le perdite alleate furono di tremilaottocentoventinove, secondo i dati ufficiali, e quelle tedesche meno di seicento; quelle dei canadesi furono le più gravi perché la fanteria canadese rappresentava il grosso della forza di attacco; erano tremilatrecentosessantanove ed ebbero novecentosette caduti.

Sembrerebbe che i tedeschi siano riusciti vittoriosi anche nella battaglia aerea.

La RAF aveva accettato di buttare nella mischia sessanta gruppi da caccia oltre a quelli da bombardamento necessari; un totale di più di cinquecento aeroplani.

La forza della caccia tedesca in Francia era limitata agli stormi 2° e 26° il che significava che la Luftwaffe poteva mettere insieme dai due ai trecento velivoli, circa la metà del numero disponibile per gli Alleati.

I tedeschi avevano, ovviamente, il vantaggio della difesa e delle minori distanze; nei duri combattimenti che ebbero luogo per tutta la giornata del 19 la Luftwaffe dichiarò di avere abbattuto centododici aerei nemici; le perdite effettive della RAF furono di centotto.

Le vittorie denunciate dalla RAF furono novantuno e le perdite effettive dei tedeschi trentacinque.

È bene tener presente che, in quell'epoca, il FW 190 tedesco era probabilmente il miglior caccia che si potesse trovare in volo, superiore anche allo Spitfire V.

La Russia chiedeva disperatamente un'azione diversiva in occidente mentre le armate germaniche stavano penetrando, per la seconda estate successiva, nell'interno del territorio sovietico; l'operazione di Dieppe risultò quindi una specie di Prova dei nervi, per i tedeschi, non senza qualche risultato.

Le truppe che sbarcarono, o che tentarono di farlo, sulle spiagge di Dieppe in quello che fu il primo tentativo contro il Vallo atlantico vi incontrarono, fin dal primo momento, un poderoso fuoco difensivo di sbarramento.

Nonostante che perseverassero coraggiosamente nell'operazione furono sopraffatte tragicamente con gravi perdite e alla fine, sul termine della giornata, dovettero ritirarsi senza aver potuto raggiungere molti degli obiettivi tattici prestabiliti.

L'esperimento fu pagato a caro prezzo, ma ne risultarono diversi vantaggi; i comandi alleati non sottovalutarono mai più le difficoltà connesse con un attaco anfibio e, inoltre, la vittoria ottenuta dalla difesa, secondo quanto hanno riferito diverse fonti tedesche, dette a Hitler un'idea esagerata della forza delle difese costiere.

Questo concetto doveva poi avere dei riflessi, almeno in parte, su alcune decisioni sbagliate che furono prese nell'anno cruciale 1944.

 

******************

All'alba del 19 agosto 1942, un mercoledi, si poteva già prevedere una bella mattinata d'estate e l'attività sulla base della caccia di West Malling era molto intensa; era previsto che da quell'aeroporto, subito a occidente di Maidstone, i gruppi dovessero decollare a intervalli regolari per appoggiare il primo tentativo di sbarco degli Alleati nella Francia occupata dai tedeschi.

Gli specialisti controllavano i velivoli o le mitragliatrici mentre i piloti si stavano già vestendo o cominciavano a ridestarsi dalla tranquilla salvezza del sonno.

Al piano terreno della palazzina ufficiali costruita in mattoni sulla base di West Malling un attendente apri la porta di una delle stanze da letto che vi si trovavano e annunciò rispettosamente:

«Sono le cinque, signore»

Poi depose una tazza di tè sul comodino del maggiore J.E. Johnson; questi si svegliò immediatamente, lo ringraziò .

Indossò l’uniforme blu della RAF sulla quale mise una sciarpa di seta blu (punteggiata da teste di volpe ricamate in bianco) che gli avvolgeva tutto il collo, infilandola quindi dentro la camicia aperta: si trattava di un regalo di sua madre, che abitava nella contea di Leicester dove la caccia era sempre stata in gran voga. S'infilò un paio di scarpette e se ne andò alla mensa dove i piloti stavano già discutendo sulle operazioni della giornata.

Il tenente colonnello Pat Jameson (un neozelandese) aveva dato le istruzioni al personale di volo fin dalla sera precedente, al ritorno da Uxbridge, al cui comando aveva assistito a una riunione di alto livello.

I piloti sapevano quindi che le missioni previste in quel giorno li avrebbero condotti su Dieppe, anche se il momento esatto del decollo sarebbe stato comunicato per telefono direttamente ai decentramenti.

Parecchi di loro discussero circa la sicurezza del segreto di quello sbarco, che non era stata quella che avrebbe dovuto essere, ed espressero la speranza che le forze della difesa nemica non avessero ricevuto alcun allarme: non invidiavano certo i cinquemila soldati comandati per la conquista di Dieppe e del suo aeroporto con un attacco veloce, di sorpresa.

In breve la colazione era già finita e Johnson, comandante del 610° Gruppo, Bill Newton del 411° (canadese) e Grant del 485° (neozelandese), erano già in macchina diretti alle baracche dei rispettivi decentramenti.

Erano le 7.00.

Jameson aveva dato ai gruppi l'ordine di tenersi l'uno sopra all'altro con seicento metri di gradino: lo stesso avrebbero fatto eventuali altri reparti che si fossero aggiunti a loro; il 610° di Johnson sarebbe stato il più alto e si sarebbe tenuto a tremila metri.

Gli autobus si fermarono e i piloti ne scesero ed entrarono nella baracca per ritirare il materiale da volo e prendersi un'altra tazza di tè mentre Johnson approfittò del tempo libero per un'altra riunione con i suoi piloti: insisté molto sul cambio di formazione, al suo segnale, da quella normale a quella detta « delle quattro dita »

Jameson preferiva la consueta linea di fila e, infatti, i tre gruppi avrebbero effettuato il volo tutti insieme fino a Dieppe, usando quel vecchio sistema.

Lui però aveva imparato la «quattro dita» quando era con Bader al 616° e la -preferiva; perciò spiegò ancora ai suoi undici ascoltatori che al suo segno, probabilmente sopra Dieppe o nei dintorni, il gruppo si sarebbe disposto in quel modo.

Quando fu sicuro che non vi fossero più dubbi, Johnson si accese una sigaretta e sorbi un'altra tazza di tè mentre alcuni piloti si buttavano fuori, distesi sull’erba, e altri rimanevano invece a passeggiare un po' nervosamente nell'interno della baracca.

L'attesa era la cosa peggiore; i minuti passavano mentre tutti avrebbero preferito dare inizio all'operazione.

In un angolo dello stanzone di circa quattro metri e mezzo per dieci c'era un piccolo tavolo e sopra un telefono nero che collegava direttamente la baracca con l'ufficio operazioni; seduto, in attesa, un piantone aveva l'incarico di registrare qualunque messaggio o ordine che venisse trasmesso.

Alle 7.30 la suoneria si fece udire e tutti gli occhi conversero su di lui che, dopo aver ascoltato un momento, rimise a posto il microfono e annunciò:

« DecoLlo alle 7.40 per la crociera su Dieppe »

La stanza si vuotò.

Johnson doveva percorrere soltanto una cinquantina di metri e giunse quindi accanto al suo Spitfire VB, pitturato di grigio bluastro, prima di molti dei suoi piloti.

Salutò gli specialisti, entrò nell'abitacolo e fece rapidamente i controlli mentre si agganciava le cinghie addominali e quelle delle spalle con l'aiuto di un motorista; regolato il compensatore per l'assetto di decollo e messa l'elica al passo minimo dette un'occhiata verso l'altro lato dell'aeroporto per cercarvi Grant e il suo gruppo, il 485°, dietro al quale avrebbe dovuto decollare

Ormai erano quasi le 7.40 e in quel momento vide che le eliche lontane cominciavano a girare.

Lo specialista che aveva predisposto il carrellino degli accumulatori capì che era venuto il momento e chiese:

« Pronto per la messa in moto? »

Johnson annui con la testa, controllò di aver sistemato il comando della miscela su «ricca», spinse di un paio di centimetri la manetta del gas, svitò il comando del « cicchetto» dando poi diverse pompate, controllò il livello del carburante e dette i contatti ai due magneti.

« Pronto! » urlò allora Johnson e, quando lo specialista ebbe ripetuto la parola, soggiunse: «Contatto! »

Udita la risposta dell'uomo a terra spinse i due bottoni neri che aveva sul cruscotto e il Rolls-Merlin da milletrecento cavalli si mise in moto con una sbuffata di aria e di fumo, facendo sparire davanti a lui l'elica, che divenne solo un'ombra leggera.

Chiuso il «cicchetto », assicuratosi di avere il parzializzatore bene aperto e controllate rapidamente le temperature e la pressione dell'olio (che doveva raggiungere i quarantacinque gradi prima del decollo), Johnson fece un cenno di saluto ai suoi uomini, dette manetta e mollò i freni.

Il vento dell'elica aumentò intorno a lui con il rombare del motore e lo Spitfire cominciò a muoversi.

Mentre rullava con il suo gruppo, che gli si era accodato, vide che gli altri due si stavano già preparando per il decollo; giunto al limite del campo dette un'occhiata ai suoi piloti per controllarne la posizione; sarebbero partiti in tre pattuglie di quattro. Grant stava seguendo Jameson, che si era già staccato da terra e ora toccava al 610°.

Johnson fece un segnale con la mano dal tettuccio aperto, spinse la manetta a fondo e cominciò a lavorare di pedaliera per tenere il velivolo diritto; lo Spit si spinse in avanti a tutta forza, con gli altri dietro, e ben presto i primi quattro stavano già prendendo velocità saltellando sul prato.

L'indicatore di velocità si mise a salire rapidamente; tra gli ottanta e i novanta ebbe per un attimo la sensazione dell'assenza di peso e poi l'aeroplano si sollevò.

Tirò leggermente la cloche a sé e cominciò a virare dolcemente, azionò la leva del comando carrello ; le ruote cominciano a rientrare; poi chiude il tettuccio e spostò l'interruttore che è sul pannello sinistro per far rientrare i flap.

La voce di Jamie gli arrivò per radio:

«Tutto bene, johnnie? »

« Bene, Jamie, ti ho in vista», risponde Johnson che stringe un poco la virata per cominciare ad avvicinarsi alla formazione di stormo.

Ben presto tutti e tre i gruppi sono a posto, l'uno dietro l'altro, e assumono la rotta di centosettanta gradi; un quarto gruppo si è unito a loro e i quarantotto caccia sfrecciano diretti quasi a sud, tenendosi bassi mentre il sole, che sta alzandosi nel cielo verso oriente, rimane sulla loro sinistra.

Lo stormo passa su Hastings: il ventre dei velivoli color blu-cielo e le coccarde, rosse bianche e blu, sotto le ali sono chiaramente visibili a chi li guarda da terra.

Tengono la velocità di duecentocinquanta miglia orarie, non molto elevata, ma a questa quota cosi bassa il terreno scorre via assai rapidamente.

Johnson accende il collimatore e subito gli compare nel vetro il cerchietto luminoso, poi prepara le armi.

Lo stormo supera la costa e si addentra sul mare, sempre basso perché Jameson spera di evitare di essere scoperto dai radar; per radio giungono dei rumori e Johnson riesce a percepire qualche parola; mentre lo stormo si avvicina, quasi a pelo delle onde, le voci si fanno più forti e riesce anche a capire le frasi:

« Qualcuno è stato abbattuto!» Un'altra: «Apriti la strada ! » Ancora degli urli negli auricolari, ovviamente provenienti da piloti che si trovano su Dieppe.

«Ritirarsi appena possibile ! » Poi «Due Me 109! »

I combattimenti nel cielo di Dieppe sono duri e Jamie commenta con calma ai suoi piloti:

«Sembra che quelli se la vedano brutta », e tutti si sentono tesi all'avviso che davanti a loro stanno avvenendo scontri disperati.

Gli occhi si sforzano nella ricerca, fissando il cielo verso sud e Johnson vede un caccia che viene verso di loro, ancor più basso dello stormo, poi un secondo: sono amici; mentre guarda ne vede anche altri, poi una coppia, tutti diretti verso casa.

La maggior parte sono Hurricane, ma vi sono anche degli Spit; i primi forse erano andati a mitragliare, ma gli altri sono cosi bassi perché hanno avuto un combattimento.

Dieppe è a dieci miglia soltanto davanti a loro; Jameson si mette a cabrare e tutto lo stormo lo segue puntando i musi dei velivoli verso il cielo; Johnson dà un po' più di motore del suo comandante di stormo perché deve portarsi in quota.

Gli Spit si slanciano in alto... millecinquecento!,duemilaemila metri; Jameson avvisa per radio:

«Riduco motore, aprire le formazioni ».

Johnson continua però a salire; tutti vedono ormai bene,. davanti a loro, Dieppe dal cui porto si solleva una colonna di fumo; Grant, col suo gruppo, è sotto di lui; più in basso ancora c'è Jameson con l'altro:

allora johnson dà il segnale ai suoi piloti, battendo le ali; i velivoli si aprono assumendo la formazione « quattro dita» e continuano a far quota.

Dieppe dista soltanto tre miglia.

Qualcosa scintilla in alto, davanti, nel sole!

Sono caccia!

Un'occhiata scrutatrice... non sono Hurricane e nemmeno Spit.

Sono nemici... che stanno manovrando per prenderli in coda e che hanno anche un vantaggio di quota.

Johnson preme il bottone della radio e chiama Jameson:

«Jamie, una grossa formazione si sta dirigendo verso di noi, più alta!»

Jamie risponde:

«Bene, Johnnie, tienli d'occhio!»

Questi allora dà tutto motore e prende a cabrare: il suo gruppo è più vicino degli altri ai caccia nemici e sembra che debba essere il primo a entrare in azione.

I Rolls-Merlin rombano trascinando verso l'alto i dodici velivoli del 610°, ma non abbastanza in fretta perché la formazione nemica, forte di trenta o quaranta tra Me 109 e FW 190 mischiati insieme, sta virando per picchiare e saltare addosso agli Spitfire.

Johnson è appena arrivato a tremilatrecento metri quando un urlo negli auricolari lo fa sobbalzare:

«Via a sinistra ! »

È Crowley-Milling e Johnson dà una pedata a sinistra e contemporaneamente inclina la leva con violenza.

Lo Spit vira sulla punta dell'ala mentre si rivolge contro i nemici, qualcuno dei quali ha picchiato prima che lui se ne accorgesse; i piloti della RAF sfuggono all'attacco di molti dei caccia tedeschi, ma il gruppo si disperde in manovre disperate.

Altri si staccano dalle formazioni più alte e si buttano sugli Spitfire che si sono adesso suddivisi in sezioni, in coppie e ogni pilota sta lottando per se stesso.

La maggior parte degli attaccanti erano dei FW 190; Johnson sta ancora facendo quota, virando stretto per impedire a qualcuno di prenderlo in coda e, a un tratto, un caccia nemico gli appare alla vista, lontano, attraverso il parabrezza: è un 190! Johnson si sente teso e manovra con i comandi per andargli addosso: l'avversario non si è accorto di averlo alle spalle e lo Spit gli si avvicina, a poco a poco; ormai lo ha in mira, ma è troppo lontano, sono quattrocento metri.

Ce la farà ad abbatterlo a quella distanza o non gli converrebbe aspettare un poco per ridurre la distanza?

Tenterà un tiro lungo.

Tira appena sulla leva per far alzare la traiettoria delle armi e tener così conto della correzione di caduta dei proiettili, mira accuratamente tenendo l'ala tra le sbarrette illuminate... sta serrando sotto, lentamente.

Sparerà soltanto con i cannoncini perché le mitragliatrici non ce la farebbero.

Giù il pollice!

Le grosse armi rombano, lo Spit vibra e Johnson continua la raffica per quattro o cinque secondi, fissando intensamente.

Dapprima non nota nulla, poi comincia a vedere dei colpi andare a segno e l'ala destra del Focke-Wulf si alza mentre Johnson gli si avvicina ancora; il 190 vira a sinistra, colpito, e comincia a lasciarsi dietro una sottile scia di fumo; allora lo prende di nuovo sotto mira.

Adesso la distanza è di duecento, centocinquanta metri, fuoco!

Questa volta preme anche il grilletto delle armi minori e le pallottole calibro sette e sette si uniscono ai proiettili da venti che vanno tutti a segno molto più da vicino di prima: la valanga di metallo fa a pezzi il Focke-Wulf già danneggiato, il carrello si abbassa e un fumo sempre più spesso esce dal motore.

Poi un'ala si stacca!

Il caccia nemico grigio-verdastro precipita, verso il mare che gli è sotto, per la sua ultima picchiata .

Johnson è sorpreso di sentire la voce di Crowley¬Milling che gli dice, per radio:

« Bel tiro, Johnnie ! »

Crowley-Milling, Smith e il gregario di questi gli sono ancora vicini; dà un'occhiata all'avversario che cade, ma brevissima perché il lavoro è molto.

Il suo gruppo sta facendo quello che può per tenere il nemico a distanza, ma non riesce a impedire i continui attacchi che gli vengono dall'alto e i piloti si stanno sempre più separando mentre il combattimento continua, abbassandosi nelle virate.

Un caccia tedesco picchia e vira per prenderlo in coda, ma Johnson lo vede in tempo e fa compiere al suo Spit una strettissima virata: per fortuna può girare più stretto del nemico.

Sopra ne vede altri, che anch'essi si tuffano per attaccare e, mentre continua a virare per tenersi fuori delle loro traiettorie, i suoi occhi scorgono a un tratto qualcosa, verso est, a poche miglia entroterra.

Un'occhiata molto lunga, profonda: molti puntini, una grossa formazione e istintivamente preme il bottone della radio:

«Jamie, arrivano grossi rinforzi; più di una cinquantina, da terra! »

Jameson risponde e poi riferisce la notizia al comando dell'Undicesimo Raggruppamento, che sta controllando la battaglia: ma anche lui, come Johnson e gli altri piloti, deve lavorare fin sopra i capelli per salvarsi la pelle.

Johnson ha ancora due caccia con sé (Creagh e Smith) e vira continuamente, a sinistra e a destra per impedire a qualche nemico di prenderlo in coda.

Il resto del gruppo è disperso.

Adesso è arrivato a quasi cinquemila metri di quota... non ha fatto altro che salire fin da quando ha avvistato il nemico.

All'uscita da una mezza virata si trova quasi direttamente in coda a un caccia isolato; è mai possibile?

Un Me 109 separato dal grosso!

Tutta manetta, si avvicina e si piazza in modo da poterlo collimare: per la seconda volta in pochi minuti ha un'ala scura che gli s'ingrandisce nel vetro.

Ha gli occhi fissi sulla sagoma dall'ala lunga, un compagno per lato che lo difendono standogli alquanto indietro; lo Spit raccorcia continuamente la distanza e il nemico diviene sempre più grosso nel collimatore: ha il pollice sul bottone metallico, come anche i suoi gregari, a sinistra e a destra... il nemico sembra ancora inconscio del pericolo che lo minaccia alle spalle.

I motori Rolls-Merlin rombano a tutta forza e ogni secondo sembra eterno; finalmente a tiro, Johnson preme il bottone centrale e tutte le armi,cannoncini e mitragliatrici, sputano una massa di proiettili con un tremendo fragore; anche Smith e Creagh sparano sul Messerschmitt, che incassa brutti colpi.

La mira di ]ohnson è stata precisa anche questa volta: bianche strisce segnano le traiettorie delle pallottole, gli impatti cominciano a far saltare dei pezzi dal piccolo caccia e il pilota nemico è intrappolato prima che possa pensare a disimpegnarsi.

Gli Spit gli stanno addosso e continuano a sparare; poi, di colpo, un'ala si abbassa bruscamente, il caccia precipita emettendo glicol e fumo, per piombare in candela verso il mare, in basso.

Adesso, però, stanno arrivando i rinforzi avversari.

La grossa formazione è già sugli Spit e Johnson deve virare bruscamente per evitarli... il cielo è pieno di nemici...

Johnson valuta che siano più di un centinaio ed è costretto a manovrare continuamente per evitare i caccia e i loro proiettili.

La quota è superiore ai seimila metri, ma lui sale ancora e, mentre altri nemici sopraggiungono, ne vede uno, isolato, sulla sinistra, alla sua stessa altezza.

Vira bruscamente e mantiene la virata finché non vede il nemico, un 190, passare; allora gli gira dietro, tenendosi più alto e poi comincia a picchiare leggermente per attaccarlo da destra.

La maggior parte dei caccia sono distanti abbastanza per consentirgli di concentrarsi su quello.

Il solitario se ne va tranquillo mentre Johnson gli sta puntando addoso da destra e lo prende di mira lavorando coi comandi in modo da fare, del suo Spit, una piattaforma di tiro stabile e sicura.

Mentre gli sfreccia contro vede benissimo il fianco destro del 190 dal muso tozzo e lo collima in modo da avere il cerchietto di luce abbastanza davanti all'ogiva dell'elica:

sempre meno, però, man mano che si avvicina.

Ora è a tiro: giù il pollice!

Le mitragliatrici sparano, ma i cannoncini no: hanno finito le munizioni !

Ma anche le pallottole piccole arrivano a segno perché la correzione del tiro è stata esatta: dei pezzi saltano via dall'abitacolo e una sottile scia d'olio comincia ad apparire.

La distanza diminuisce rapidamente... il 190 è a cinquanta metri davanti, appena sulla sinistra.

Poi, di colpo, un'ombra... Johnson gira il capo... a pochi metri da lui, sulla sinistra, sta arrivando un altro caccia con le armi scintillanti !

È Smith!

Di colpo vira a sinistra: il caccia amico stava quasi per investirlo.

Smith è esattamente in coda al 190 sparando con tutte le sue armi e il Focke-Wulf non può resistere al fuoco combinato dei due: si piega su un'ala e comincia a cadere in picchiata.

È la terza vittima alla quale Johnson è riuscito ad arrivare a tiro sin da quando è giunto su Dieppe; adesso però sta precipitando in candela, da grande altezza, lasciandosi dietro una fatale scia di fumo.

Johnson ha soltanto un secondo o due a disposizione per guardare; vi sono troppi velivoli nei dintorni.

Alcuni nemici stanno arrivandogli alle spalle e, ancora una volta, lo Spit vira strettissimo mentre altri gli si stringono dappresso.

Le manovre cominciano a dive¬ire violente: uno sguardo alle spalle... ha perso Creagh, il suo gregario; ma adesso lo riconosce, sta precipitando di fianco e fumate bianche di vapori di glicol gli escono dal motore: se almeno potesse fare qualcosa per aiutarlo!

Ma un caccia nemico gli è alle spalle e deve riprendere a manovrare, non c'è altra cosa che possa fare.

Altri seguitano a piovere dall'alto e Johnson è costretto a virare sulla punta dell'ala, più stretto di loro, per evitame il fuoco.

Uno gli arriva proprio alle spalle e lui deve stringere ancora la manovra; cosi facendo, perde i piloti del 610° che ancora gli erano vicini e che virano, a loro volta, in direzione opposta.

Riesce a sfuggire al nemico, ma si ritrova solo.

Dà un'occhiata in giro: il 610° è completamente disperso... ognuno per i fatti propri. I caccia continuano a frullare, a picchiare, a virare tutto attorno a lui e al di sotto.

Per il momento, tuttavia, Johnson non è in pericolo; il motore romba tranquillamente e lui si trova esattamente su Dieppe a una quota di oltre seimila metri.

Vede gruppi di due a quattro Spitfire che combattono dappertutto: quelli che non sono stati abbattuti fanno del loro meglio per impedire alla Luftwaffe di buttarsi sulle spiagge dell'invasione, sotto di loro.

Mentre vira ancora per guardarsi alle spalle vede, davanti a sé, un caccia solitario: uno Spit o un nemico?

Si avvicina; se è un amico si unirà a lui perché sarà sempre meglio essere in due che restarsene soli; se è un nemico vedrà se potrà fare un tentativo.

Controllandosi le spalle e facendo spesso manovre brusche per togliersi dalla possibile mira di un avversario non visto, Johnson si avvicina all'altro aeroplano e sforza gli occhi per identificarlo... motore stellare... nemico... FW 190!

Poiché questo è un velivolo superiore allo Spitfire V come velocità, come picchiata e come salita, Johnson, non disponendo di alcun vantaggio di quota, deve stare molto attento.

Forse potrebbe prendere il nemico di sorpresa.

A un tratto, proprio mentre pensa a questa eventualità, il FW grigio-verdastro fa un'improvvisa virata e lui capisce che è stato avvistato: la sagoma frontale gli viene addosso e i due caccia si corrono incontro, sulla verticale di Dieppe, a più di cinquecento miglia l'ora.

È uno scontro frontale!

A circa ottocento metri Johnson vede fiammeggiare i quattro cannoncini del FW 190, ma lui non risponde al fuoco: il suo vantaggio consiste nel fatto che lo Spit vira più stretto del 190.

Mentre i due velivoli si corrono incontro, fa una stretta virata a sinistra per cercar di mettersi alle spalle del nemico; ma anche questo vira con le ali in verticale: ormai si tratta di vedere chi dei due potrà arrivare in coda all'altro.

Johnson, tirando la leva allo stomaco con tutte le sue forze, fa frullare l'aeroplano sull'estremità dell'ala, puntata direttamente contro Dieppe, e guarda attraverso il cerchi etto mentre saetta nella curva stretta... il nemico è lì, vira insieme con lui: è un Focke-Wulf col muso tozzo, con le sue croci orlate di bianco chiaramente visibili. Johnson tira più che può per guadagnare sull'avversario ma, con suo grande sgomento, si accorge che è il nemico che accorcia le distanze, che sta virando più stretto di lui!

Tira più che può, fino ad avere la visione grigia, man mano che il sangue defluisce dalla testa; gira così stretto che i fremiti che annunciano lo stallo cominciano a farsi sentire: sta chiedendo il massimo al suo velivolo.

Un' occhiata indietro, sulla sinistra: sta accadendo il peggio, perché il 190 guadagna sempre !

Ancora una virata o due e Johnson verrà a trovarsi sotto tiro.

Invece di anticiparsi una vittoria comincia a sentire che la sua preoccupazione aumenta!

È quasi preso in trappola perché il 190 lo supera anche nella picchiata; l'unico vantaggio del quale disponeva era la certezza di poter virare più stretto !

Adesso non ha più che dei secondi per decidersi... dietro di lui i cannoncini del

FW stanno arrivando, a poco a poco, in posizione di tiro.

Lo Spit freme, è sul punto di stallare, e Johnson deve tentar di fuggire in picchiata anche se, fin dall'inizio, il 190 può superarlo pur se preso di sorpresa da una manovra improvvisa... è la sua unica speranza.

Disperato, butta la leva in avanti, sulla sinistra e, sebbene legato strettamente al seggiolino il suo stomaco avverte la caduta improvvisa e gli effetti della forza centrifuga, ma intanto lo Spit è in candela con tutto motore prendendo sempre più velocità mentre precipita verso terra.

È un gioco pericoloso, ma lui è, adesso, il cacciato e si sente molto vicino a divenire una vittima; il suo improvviso cambiamento di tattica sembra aver colto l'avversario di sorpresa, ma soltanto per un istante perché questi si sta già precipitando dietro di lui che ha tuttavia guadagnato un paio di preziosi secondi, aumentando la distanza tra i due caccia di un centinaio di metri o poco più.

Lo Spit fischia nella discesa, diritto, mentre l'indicatore di velocità sale rapidamente verso i cinquecento; è quasi in candela e picchia con un'inclinazione da sessanta a settanta gradi: è il massimo che la cellula possa sopportare.

Dieppe è ancora ad alcune centinaia di metri al di sotto e la corsa continua mentre si guarda alle spalle: il Focke¬Wulf è ancora lì !

Seguita a .picchiare sempre più deciso.

Ormai la terra sta salendo veloce verso di lui e Johnson tira la leva, non troppo forte per non far saltare le ali, ma intanto il sangue defluisce dalla testa mentre comincia a rimettersi in volo orizzontale e allora dà un colpetto alla pedaliera e tira un'altra virata, la più stretta che può, in piena velocità, guardandosi alle spalle: il Focke-Wulf è ancora li.

Si abbassano sempre più, ormai è quasi al livello dei tetti sottostanti, sempre in virata, con l'ala in verticale, tirando sulla leva.

Ma il pilota tedesco, dimostrando una maestria di volo straordinaria, è a due o trecento metri soltanto,quasi a portata di tiro.

Johnson deve continuare a virare, ondeggiando, per evitare il suo fuoco.

Mentre passa rombando sulle case e sugli alberi ha come delle rapide visioni di carri armati, della passeggiata di Dieppe, del Casino tutto bianco, della spiaggia deserta... ma deve continuare a manovrare.

Vede il campanile di una chiesa e vi s'infila accanto, di fianco e più basso, poi tira la virata più stretta che abbia mai fatto e si dà un'occhiata alle spalle: il FW 190 è ancora in posizione!

S'inclina violentemente sulla sinistra cercando di allontanare il suo inseguitore, ma non vi riesce.

È il più lungo combattimento individuale nel quale si sia mai trovato impegnato, ma questa volta si trova dalla parte sbagliata!

Pur continuando a evitare pallottole sa che è perduto al primo sbaglio che possa commettere e sa che il gioco non può continuare cosi, indefinitamente.

Deve poterlo interrompere.

Adesso il Focke-Wulf prende un po' di quota, continuando a seguirlo dall'alto... aspettando che arrivi il momento buono, quando Johnson dovrà mettersi in volo diritto.

Ma Johnson continua a far frullare lo Spit da una parte all'altra senza offrirgli mai un bersaglio pur rendendosi conto che deve fare una mossa, uno sforzo qualsiasi per scappare.

Deve mettersi alla svelta con la prua a nord, deve tornare a casa; anche il livello del carburante sta calando rapidamente e non gli consente certamente di rimanere a girare su Dieppe o di evitare per un'eternità l'abilissimo nemico che ha alle spalle. Come potrebbe allontanare il 190 e tornarsene a casa?

Nella mente riaffiora qualcosa delle istruzioni ricevute... navi, navi amiche fuor dei moli... a breve distanza c'è un cacciatorpediniere, circondato da altre navi.

Tutte hanno ricevuto istruzioni di sparare contro qualunque velivolo che si avvicini al di sotto dei mille metri e Johnson è a pelo dell'acqua... ma forse ce la farà a passare attraverso lo sbarramento contraereo... e forse il suo nemico non ce la farà.

È una scommessa, ma è la migliore che possa fare.

Johnson deve fare il tentativo.

Con la sinistra spinge la manetta del gas oltre la tacca di sicurezza, rompendo il filo di ottone per poter strappare al motore la potenza di emergenza; il Rolls-Merlin urla con un soprassalto di giri e lo Spit, virando strettamente verso il mare, si butta in avanti in uno sforzo supremo.

Johnson, sfruttando l'incremento di velocità fornitogli dalla tacca di emergenza e picchiando quei pochi metri che ancora gli restano fino a portarsi al pelo delle creste bianche delle onde, si butta direttamente contro le navi ammucchiate!

In brevi secondi si sta avvicinando e il caccia torpediniere apre il fuoco con grandi scoppi di contraerea da poco più di cinquecento metri di distanza.

Bianche « palline da golf » sfrecciano verso di lui dalle artiglierie minori delle navi. Sulla sua testa passano, più lente, altre traccianti che vanno a perdersi sul davanti: il Focke-Wulf ha aperto il fuoco alle sue spalle!

Ma lo Spit sta volando alla massima velocità e la sagoma della nave da guerra s'ingigantisce velocemente mentre lui si dirige verso di essa a tre metri sul mare. Non avverte colpi a bordo, il motore funziona sempre, ma la contraerea e le traccianti gli passano ancora vicino: amici e nemici stanno cercando di abbatterlo!

Sta per arrivare sul cacciatorpediniere... non c'è più molto... dovrà tirare e far quota ed esporsi,cosi facendo, al fuoco del 190 e a quello delle mitragliatrici della nave mentre passerà in un lampo sul ponte per fuggir via.

Ha tirato appena la leva, quel tanto da far alzare un momento lo Spit... proprio appena appena; passa in tromba sul ponte della nave e sulle armi che sparano, poi si ributta giù a pelo di mare e quindi tira una secca virata, la più stretta che può e che lo preme fortemente nel seggiolino.

Per un attimo tutto sembra calmo... si guarda alle spalle e intorno... non si vedono più traccianti e anche le navi sembra che abbiano smesso di sparare.

Forse lo hanno riconosciuto dai distintivi? Forse hanno cercato di abbattere il Focke-Wulf?

Non lo saprà mai, ma il nemico, che era indubbiamente un magnifico pilota, non è più in vista.

Sollevato, senza nessuno in coda finalmente dopo quindici lunghissimi minuti, Johnson inverte la rotta e si dirige, sempre a pelo di mare, per trecentocinquanta gradi; il Rolls-Merlin sta girando da troppo tempo a tutta potenza e lui si volta per scrutare bene il cielo alle sue spalle... non vi sono caccia nemici in vista.

Allora riduce la manetta e la tensione comincia a rallentarsi: è passato per una prova che non dimenticherà mai.

Dà un'occhiata all'orologio... sono quasi le 8.30... è in volo da meno di un'ora... si domanda che cosa sia successo al suo gruppo e gli sembra strano di doversene tornare a casa da solo.

Pensa a Creagh e spera che sia riuscito a lanciarsi e che sia salvo.

Lo Spit romba sulle onde avvicinandosi alla costa inglese e, più vi si avvicina, più si sente sollevato.

Ecco le scogliere!

Che bella vista, in quella mattina di agosto.

Davanti a lui le bianche, ripide rive di gesso sembrano sempre più alte; Johnson vi si slancia contro sperando di evitare il fuoco contraereo dei suoi compatrioti e supera la costa.

Nessuno spara, West Malling è a qualche minuto di volo ed egli scruta il paesaggio che ha davanti per avvistarlo.

Dopo poco lo vede, a ovest di Maidstone; eccolo, è West Malling.

Riduce la velocità ,per poter abbassare il carrello... arriva subito sottovento, fa scendere i flap e vira in finale.

La velocità scende ancora, centoventi, centodieci, cento, novanta... eccolo a terra e poi in rullaggio per andare al suo decentramento

Johnson è stato uno degli ultimi, del suo gruppo, ad attettare... i suoi uomini sono contenti di vederlo perché sono stati in ansia quando, man mano che gli altri piloti arrivavano, riferivano del brutto combattimento che avevano avuto su Dieppe. Johnson è preoccupato per il gruppo: quanti ne sono rientrati?

Spegne il motore e chiacchiera un po' con gli specialisti, che sono sempre interessati ad ascoltare, dell' esperienza che ha fatto poi s'incammina verso la baracca.

Che novità circa Creagh? Nessuno risponde.

Il gruppo? Non così male come temeva: sembra che quattro piloti siano andati perduti, su dodici.

Aveva temuto di peggio.

Vittorie?

Il gruppo ne ha date quante ne ha prese... tre nemici abbattuti e tre danneggiati; Johnson divide le sue tre vittime con altri piloti.

E, senza che lui possa nemmeno supporlo in quel momento, Creagh telefonerà più tardi per avvertire che si era salvato perché si era lanciato a sei miglia da Dieppe ed era stato ripescato dalla Marina.

Questo riduce le perdite del 610° a tre piloti.

Ma i combattimenti di quella giornata erano appena cominciati.

L'aviazione nemica continuava a girare su Dieppe e le forze d'invasione stavano battendosi contro una dura opposizione, perciò la caccia era continuamente richiesta per la difesa.

Il 610° dovette fare altri tre voli su Dieppe nello stesso giorno e Johnson era sempre alla testa del suo gruppo.

Quella fu davvero una lunga giornata... anche se gli altri combattimenti non dovevano essere cosi disperati come il primo, quello del mattino.

In riconoscimento di quanto aveva fatto il 19 agosto il ministero dell' Aeronautica gli concesse una barra sulla DFC che si era meritata nel 1941 per le sue cinquanta crociere sulla Francia occupata

 

Tratto da sfide nei cieli

 

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Modificato da Dave97
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Tenente R.S. Johnson USAAF

 

Nel 1928 Robert S. Johnson, che allora aveva appena otto anni, si trovò a rimirare, affascinato, le acrobazie che tre piloti dell'Esercito, i « Tre Moschettieri» della prima guerra mondiale, stavano eseguendo durante una delle prime « giornate dell'ala» tenute sull'aeroporto di Post Field, nell'Oklahoma.

Da quel momento Bob Johnson prese a sognare, nel suo intimo, di diventare un pilota da caccia e sedici anni dopo, il 6 marzo 1944, era alla testa di un gruppo di scorta dell'USAAF che accompagnava il primo grande bombardamento di Berlino.

Durante tutto quel tempo era cresciuto, si era arruolato nell'esercito come allievo ufficiale, aveva ottenuto il brevetto, era giunto al fronte ed era divenuto uno dei primi assi della caccia.

I « Tre Moschettieri » avevano compiuto un buon lavoro.

Bob Johnson fu il primo americano in Europa a uguagliare il primato di vittorie del capitano Eddie Rickenbacker della prima guerra mondiale; sul fronte del Pacifico, invece, il maggiore Richard I. Bong batteva Johnson per un punto perché fu il primo pilota americano della seconda guerra mondiale a superarlo.

Alla fine della guerra il cosiddetto « asso degli assi» degli Stati Uniti, Bong, aveva al suo attivo quaranta vittorie, ma perse la vita un anno dopo la resa del Giappone durante un volo su un aviogetto in California.

Johnson, terminati i voli di guerra prima che gli Alleati sbarcassero in Francia, se ne tornò in patria ed è tuttora in servizio di volo presso la ditta Republic, a Farmingdale, New York.

Bob Johnson aveva ottenuto le sue ventotto vittorie, tutte in combattimento, tra il 13 giugno 1943 e l'otto maggio 1944, in poco meno di un anno, riuscendo così a piazzarsi al quarto posto nella lista degli assi ameri¬cani e al secondo di quella relativa al fronte europeo. Il fatto di aver abbattuto ventotto velivoli tedeschi in meno di undici mesi rappresenta un caso unico nella storia delle operazioni aeree americane in Europa.

Strano a dirsi, l'aggressività dimostrata da Johnson in combattimento gli procurò seri guai nel giorno della sua prima vittoria, il che probabilmente gli impedì di arrivare a un totale superiore a quello che ha ottenuto.

L'incidente che doveva influire in tal modo sulla sua carriera gli accadde durante la missione compiuta il 13 giugno 1943.

Johnson era in volo con il 61° Gruppo del famoso 56° Stormo da caccia quando avvistò dodici 109 più bassi della sua formazione; vedendo che il gruppo non attaccava, egli lasciò bruscamente la pattuglia e, con una picchiata sui nemici che non se l'aspettavano o non se n'erano accorti, ne abbatté uno con un veloce attacco di sorpresa.

Il leggendario comandante del Wolfpack ,il colonnello Hubert Zemke, adottò la stessa tattica e abbatté due dei caccia tedeschi.

Quando, a missione terminata, i velivoli ebbero atterrato Johnson venne rimproverato per aver abbandonato la formazione di gruppo; fu così severamente punito che, per lungo tempo, non si azzardò più ad

allontanarsi dai compagni di volo, anche se non accettava affatto la strategia seguita in quell'epoca dalla maggior parte dei gruppi, quella cioè di attendere di essere stati attaccati, prima di reagire.

Qualche tempo dopo quella sua prima vittoria, e dopo aver perduto delle magnifiche occasioni di ottenerne altre, Johnson,per aver voluto rimanere in formazione, fu preso alle spalle e quasi abbattuto.

Alla fine le tattiche vennero cambiate, anche se contrariamente alle obiezioni di molti ufficiali di grado elevato che avevano posti di comando su quel fronte, perché il generale di divisione O.A. Anderson riuscì a ottenere l'approvazione per una condotta più aggressiva durante i voli di scorta dell'Ottava Forza aerea e, da quel momento in poi, Johnson non rimase più ad aspettare di essere assalito.

Quando si resero conto che il sistema da lui adottato risultava davvero redditizio, anche i suoi compagni che, nel frattempo, lo avevano giudicato quasi come un pilota eccessivamente entusiasta e imprevedibile, cominciarono a essergli più amici.

Da quel momento il gruppo prese ad attaccare i tedeschi con soddisfazione, ricavandone una più abbondante messe di vittorie.

Ironicamente, Johnson non riuscì mai a ottenere, durante gli addestramenti, la qualifica ufficiale di tiratore, come pilota da caccia: una dote che invece possedeva al più alto grado quando si trovava in combattimento.

Aveva cominciato la sua vita militare nell'autunno del 1941, poi si era pentito e, l'undici novembre dello stesso anno, aveva fatto domanda per essere accolto come allievo ufficiale nell'aviazione: esattamente ventitré anni dopo il giorno in cui Rickenbacker e altri piloti americani che si trovavano in Francia avevano festeggiato la fine della guerra in Europa, sparando razzi e bruciando benzina sui loro stessi campi schierati dietro le prime linee francesi.

Aveva terminato il corso di addestramento riportando completo successo in tutto tranne che nel tiro, il che lo avrebbe portato a essere assegnato a uno stormo da bombardamento con un ulteriore corso di pilotaggio sui plurimotori.

Sei mesi dopo Pearl Harbor, però, era ugualmente riuscito a essere assegnato al 56° Stormo da caccia: in quell'epoca nessuno si preoccupava molto della precisione di tiro.

In meno di un anno si era poi trovato in Gran Bretagna, in attesa di misurarsi con la formidabile Luftwaffe.

Arrivò in Inghilterra il 13 gennaio 1943 con il 56° Stormo che, tecnicamente, cominciò le operazioni in quell'inverno; siccome però doveva attendere l'arrivo della riserva di velivoli, non tutti i piloti del reparto poterono dare inizio ai voli e dovettero attendere la primavera.

In aprile Johnson, che aveva richiesto di poter volare come ultimo (il quarantottesimo) di tutta la formazione dei tre gruppi, fece la sua prima missione operativa.

Sei mesi dopo era considerato un asso, anche se non ufficialmente.

Il 6 marzo 1944, il giorno della prima grande incursione diurna americana su Berlino, John¬son era ormai già uno dei primi assi della guerra e il comandante del 61° Gruppo del famoso stormo « Wolfpack » comandato dal colonnello Zemke: quello che doveva proteggere i primi tre boxes, le formazioni di punta dei bombardieri pesanti in quello storico volo

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Scorta ai Bombardieri diretti a Berlino

 

Il grosso caccia era già pronto qualche minuto prima delle 10.32 e, dopo che Johnson ebbe ricevuto qualche parola di augurio dal suo capospecialista, il Thunderbolt, col suo grosso motore a stella e un serbatoio supplementare di cinquecentosettanta litri appeso sotto il ventre, cominciò a rullare dirigendosi verso la testata di una pista di cemento bitumato che sarebbe servito per il decollo del 61°.

Gli altri caccia presero a seguire « Keyworth comandante rosso», incolonnandosi dietro di lui man mano che la fila avanzava.

Una metà dei caccia si predispose al decollo su una testata e l'altra metà sulla seconda delle due piste a X di Halesworth; alle 10.32, il comandante della formazione «A» cominciò la corsa, seguito dal suo gregario.

Appena essi ebbero superato l'intersezione delle due piste cominciò a muoversi una coppia dell'altro gruppo di velivoli; così alternandosi, in pochi minuti i trentacinque P 47 erano tutti in volo e avevano già iniziato una lenta virata sulla sinistra per mettersi poi in rotta verso est.

I trentacinque caccia del colonnello Zemke, il resto cioè dello stormo, seguivano a breve distanza.

Le poche nuvole che coprivano l'Inghilterra furono rapidamente superate con una veloce salita poi, per risparmiare carburante, i motori furono messi a milleottocento giri e ventinove pollici di pressione di alimentazione.

Johnson si dette un'occhiata d'intorno e alle spalle: i suoi P 47 erano in perfetta formazione, ben stretti dietro di lui: i tre gruppi che portava avevano una forza inferiore al normale, che sarebbe stata di quarantotto velivoli (sedici per squadriglia) invece del totale di trentacinque che, per quel giorno, aveva in volo dietro di sé.

A una velocità superiore alle centocinquanta miglia orarie, e in graduale salita, lo stormo si lasciò ben presto alle spalle la terraferma inglese; i Thunderbolt avanzavano rombando sempre sul mar del Nord e verso le coste olandesi.

L'altimetro indicava un continuo aumento di quota... milleottocento, duemila, duemilacinquecento metri.

La sovra-Alimentazione dei motori venne eliminata e furono inseriti i serbatoi supplementari in modo da poterli svuotare subito perché, in caso di combattimento, avrebbero dovuto essere sganciati immediatamente.

La quota sale: tremila, tremila trecento, tremilaseicento metri. .

Al di sotto non si può vedere nulla tranne una vasta distesa di acqua; la larghezza del mar del Nord, in quel punto, è di oltre cento miglia e per il pilota eventualmente costretto a lanciarvisi rappresenta un brutto, gelido bagno.

I caccia, dal muso tozzo, scivolano nel cielo... i piloti controllano che tutto l'armamento sia pronto... poi cominciano a guardare le coste olandesi che accennano a delinearsi davanti a loro.

L'altimetro continua a salire e indica quattromilacinquecento, quattromilaottocento, cinquemiladuecento metri di quota; poiché ormai la costa non è più tanto lontana il comandante ordina che le pattuglie assumano la formazione di combattimento.

I Thunderbolt si allargano e vanno a disporsi quasi in linea di fronte, continuando nella corsa in avanti mentre l'altezza continua ad aumentare: settemila, settemiladuecento, settemilacinquecento metri.

Adesso la costa si delinea chiaramente davanti a loro e i piloti accendono i collimatori facendo comparire il cerchietto luminoso; la quota di ottomila è stata, intanto, superata.

Lo stormo taglia la costa; il terreno sottostante è leggermente velato da una foschia diffusa, ma il cielo è sereno.

I velivoli sorvolano le isole Walcheren... poi lo Zuider Zee e intanto ,cominciano ad apparire le prime formazioni dei bombardieri: sono gruppi di lineette sottili, più di una trentina di Fortezze volanti B 17 per ogni box.

Johnson allora punta deciso verso i « grossi amici», come vengono chiamati in codice.

Uno dei tre gruppi dello stormo, il 63°, è in testa; quello di Johnson è leggermente ,più indietro e quindi viene il 62°, con i P 47 di Mike Quirk.

I puntini davanti si fanno sempre più grossi e, mentre si avvicinano, i gruppi si dividono in due colonne che vanno a mettersi in posizione intorno ai « pesanti» ; una delle formazioni dei caccia va a disporsi esattamente al di sopra dei bombardieri, Johnson vira leggermente e va sulla sinistra mentre l'altro gruppo si mette a proteggere il fianco destro.

Si tengono a diverse centinaia di metri al largo dai «grossi amici» e cominciano a serpeggiare in modo da mantenere la velocità e non allontanarsi dai «pesanti », che sono più lenti.

Il primo di questi, la punta di lancia di quest'armata aerea, sfreccia nel cielo olandese a settemila,cinquecento metri di quota, con un gruppo da caccia sulla propria verticale, e penetra addentro nel territorio; dopo breve tempo arriva nei pressi di Zwolle e i grossi batuffoli neri della flak cominciano a punteggiare il cielo.

I caccia manovrano decisamente per mettersi fuori tiro, ma i cannoni che sparano da terra stanno prendendo di mira i « grossi amici », cioè quelli che portano le bombe che debbono arrivare su Berlino.

Un gruppo di puntini compare davanti a loro e i piloti si tendono nell'attesa... sono piccoli... sono dei caccia.

Il 56° si prepara per il combattimento; stanno arrivando... sono alla loro stessa quota e, mentre si avvicinano, Johnson vira leggermente a sinistra per prenderli di fronte.

Si avvicinano sempre più... ormai si vedono benissimo i loro musi tozzi... stanno buttandosi proprio contro la formazione del 56°!

All'ultimo momento, mentre i piloti sono già pronti a sparare, con l'indice sul grilletto, qualcuno chiama per radio, per farsi identificare: quei velivoli sono degli altri P 47 in arrivo, che passano in mezzo al 56°.

La situazione è pericolosa... ma quei piloti inesperti se la cavano ugualmente... passano veloci davanti agli altri e svaniscono... nessuno però spara ai compagni sopraggiunti.

Per qualche minuto il volo continua senza altre novità... poi altri puntini vengono avvistati, di fianco.

Di nuovo i piloti si preparano, tesi... i puntini si fanno sempre più vicini...

Musi tozzi! FW 190 o P 47? I caccia si avvicinano ancora... stanno quasi per arrivare addosso al 56° quando una voce per radio avverte:« Sono sempre i soliti»... e ancora una volta la

« Wolfpack» trattiene il fuoco,sparando invece delle maledizioni.

Il volo continua in perfetto ordine; il cielo è limpido e i bombardieri non si lasciano alle spalle le solite scie di condensazione.

Ecco, davanti a loro, la frontiera tedesca.

In quel momento i P 47 del tenente Quirk si buttano di colpo in virata e picchiano decisi... Johnson guarda, ma non scopre niente di speciale e rimane al suo posto mentre i compagni spariscono verso il basso.

Poi, per radio, gli arrivano delle urla: sono gli uomini di Quirk che si sono buttati in combattimento!

Avevano avvistato una formazione di 109 che faceva quota per attaccare e allora le sono saltati addosso: adesso stanno combattendo una vera e propria battaglia

Quirk valuta che la forza nemica sia di una trentina di velivoli.

Johnson chiama per sapere dove stia avvenendo lo scontro, ma nessuno gli risponde.

Chiama di nuovo, con la speranza di poter entrare anche lui in combattimento, ma Quirk è troppo occupato... o forse il 62°vuole i nemici tutti per sé.

I piloti dei caccia che sono ancora accanto ai bombardieri invidiano quel gruppo; Johnson fa un'ampia virata sulla sinistra per cercar di vedere meglio in basso e l'altro gruppo vira invece a destra, nello stesso intento: nessuno dei due però riesce a scorgere il nemico e allora il 61° ritorna verso i « grossi amici» che si stanno avvicinando al lago di Dummer, un punto d'identificazione fin troppo ben riconoscibile sulla rotta per Berlino.

L'altro gruppo è ancora a sud e allora Johnson si avvicina ai bombardieri e si rimette a volare sulla loro .formazione; quando è arrivato all'altezza dei velivoli di testa compie un'ampia virata a sinistra: i tre gruppi di «grossi amici , che il 56° sta proteggendo , volano come in silenzio, maestosamente.

Sono dozzine di Fortezze, per ogni box, che procedono ben strette.

Il muso tozzo del Thunderbolt vira ancora; mentre sta puntando verso nord... proprio davanti gli compaiono dei puntini sospetti.

Sono le 11.40.

Quelli stanno arrivando diretti a sud e Johnson li scruta mentre si avvicinano: probabilmente si tratta sempre dei soliti P 47 che già per due volte sono passati in mezzo al 56° e allora avverte i suoi gregari: «Guardate quelle scimmie là davanti! »

Nello stesso momento si accorge che non si tratta di amici:

«nemici! » Urla nel microfono:

« Diavolo, sono dei Focke-Wulf ! »

I Thunderbolt sganciano i serbatoi supplementari, si allargano ancor più e si mettono in posizione per poter attaccare i caccia avversari quando saranno a tiro.

Questi stanno puntando verso la formazione di testa dei bombardieri, ma Johnson le è così vicino che gli sarà impossibile fermare i nemici prima che possano aver raggiunto il loro obiettivo.

Si avvicinano rapidamente: sono FW 190, ormai chiaramente identificabili, e allora Johnson cerca di calcolare con precisione la manovra da fare, che deve essere esatta al secondo. Mentre i tedeschi stanno quasi per essere alla sua altezza fa una secca virata sulla destra e si butta contro di loro dando tutto motore.

I caccia sfrecciano a seicento miglia orarie... ma in un secondo i tedeschi hanno superato i Thunderbolt e stanno per attaccare il box di testa dei bombardieri;

Johnson però si slancia e, al termine della virata, è già quasi in coda agli attaccanti, che ignorano i caccia americani e si buttano sui «pesanti».

I « grossi amici », intanto, si preparano a sostenere l'urto dell'assalto... le mitragliatrici di tutte le Fortezze stanno prendendoli di mira e gli auricolari sono pieni di strani rumori oltre che delle urla di avvertimento e di eccitazione del combattimento.

Tedeschi e americani sono così vicini gli uni agli altri che è impossibile per i mitraglieri distinguere gli amici dai nemici. Johnson guarda quello che ha davanti e sul quale sta arrivando a tiro... ,lo sta prendendo di sorpresa.

Sulla sinistra, più a est, c'è un'altra formazione e, in un attimo, si accorge che ve n'è una terza sulla sua testa: ognuna di queste raggruppa da trenta a quaranta velivoli!

I Thunderbolt di Johnson, gli unici che siano adesso disponibili per difendere i B 17, si avvicinano sempre più alla formazione nemica che hanno di fronte, ma i tedeschi sono già arrivati sui bombardieri.

Il cielo comincia a illuminarsi di fiammelle: i proiettili dei cannoncini da venti millimetri lo rigano di bianche scie mentre si dirigono contro i boxes davanti a loro e i razzi che hanno sparato si lasciano dietro una fumosa scia zigzagante.

I B 17, che sono difesi da dieci mitragliere da dodici e sette ciascuno, cominciano anch' essi a sparare con tutte le armi, ma i tedeschi vanno loro addosso e i Thunderbolt li seguono... adesso è troppo tardi per tornare indietro.

I bombardieri sparano ad amici e nemici, senza distinzione; i P 47 attaccano i tedeschi che hanno davanti mentre i loro cannoncini, razzi e mitragliatrici tuonano dovunque.

I caccia sfrecciano in mezzo alla formazione, di sotto, di sopra e di fianco.

Alcuni paracadute cominciano a punteggiare il cielo;

l'azione è così veloce, così letale, che è difficile capirvi qualcosa.

Le altre due formazioni di caccia tedeschi si sono buttate sul secondo box e sul terzo e li attaccano... seminando fuoco e proiettili su tutti i bombardieri, indifesi dai ,propri caccia.

Il 61° Gruppo, inseguendo gli attaccanti nemici, passa anch' esso come un fulmine in mezzo al primo box, sparando contro i tedeschi.

Johnson vede dei paracadute; un B 17 si spacca in due…la coda e un troncone di fusoliera cadono da una parte mentre l’ala, con l'altro pezzo dell'aeroplano, se ne va da un'altra: pochi secondi prima dieci uomini erano vivi e sicuri nell'interno di quel velivolo cosi grosso.

Altri B 17 abbandonano la formazione e precipitano, fumando, colpiti; qualcuno cade in candela lasciandosi dietro scie di fumo nero.

Sono un centinaio, adesso, i paracadute che riempiono il cielo!

Alcuni caccia nemici vanno a sfasciarsi contro i bombardieri: ne seguono esplosioni, fiammate gigantesche e tutti, investiti e investitori, precipitano a pezzi: la lotta è feroce.

Alcuni avversari sono anch' essi in fiamme.

Johnson si avvicina a quattro FW 190 che si trovano a meno di seimila metri; dà tutto quel poco di manetta ancora disponibile e si butta all'attacco dalle « ore cinque», cioè quasi in coda: fino a quel momento non è riuscito a sparare e, intorno a lui, gli aeroplani cadono da tutte le parti.

I FW 190 si stanno avvicinando a tiro mentre egli si precipita col motore in pieno.

Li guarda, tutti e quattro davanti a lui stanno andando molto veloci e sono divisi in due coppie. Li ha dinanzi a sé alquanto sulla sinistra e si mette subito a collimarli attraverso il cerchietto luminoso: uno di essi lo sta quasi riempiendo.

Proprio mentre Johnson sta arrivando a tiro, alle loro spalle, i tedeschi si accorgono del pericolo che li minaccia.

I quattro FW 190 si separano, una coppia per parte, ma egli comincia a sparare: il Thunderbolt romba e freme... e il 190 che è davanti a lui incassa colpi.

Johnson segue il nemico che sta cabrando; il suo aeroplano sputa una valanga di pallottole che vanno a finire nel motore stellare dell'avversario, che ha la cappotta grigio-nerastra.

La mira è precisa e i danni che infligge sono gravi.

Il motore del caccia è colpito... sembra che l'elica rallenti mentre dei pezzi saltano via.

Ma qualcosa si muove sul tettuccio... e di colpo il pilota abbandona l'abitacolo: si è lanciato a grande velocità e cade rapidamente; poi un paracadute si apre, sotto di lui, mentre il FW 190 precipita in candela.

I caccia nemici sono sparsi tutto attorno, isolati, a coppie o in pattuglie più numerose. Johnson, esaltato dalla vittoria, scorge un avversario isolato e vira di colpo per prenderlo alle spalle.

Dà un'occhiata indietro per cercare il proprio gregario, un pilota novellino, ma vede che quello ha un caccia tedesco esattamente in coda; allora stringe la virata, la stringe più che può, impedendo cosi l'attacco.

Adesso, sono una trentina i velivoli che stanno precipitando in fiamme nel cielo.

Vede davanti a sé un altro bersaglio e manovra per mettersi in posizione, ma si ricorda di controllare dove sia andato a finire il suo gregario: dietro a questo si trova, ancora, un altro tedesco.

Per la seconda volta vira violentemente e cerca di poter essere lui a sparare al nemico: in tutti i suoi combattimenti non ha mai perso il proprio compagno di coppia; il caccia avversario però gli sfugge in picchiata mentre cerca di prenderlo in coda.

La scena che gli si presenta sulla testa è indescrivibile, pazzesca.

Velivoli che bruciano e centinaia di paracadute punteggiano il cielo.

Johnson si accorge di un altro caccia che sta virando per andare ad attaccare il suo gregario e, ormai quasi per abitudine, vira di colpo per affrontare il nemico.

Anche questa terza volta gli riesce di allontanare la minaccia; è una strana battaglia: se non dovesse preoccuparsi continuamente del velivolo che ha accanto, avrebbe già potuto ottenere qualche altra vittoria.

Sopra di sé vede due FW 190 che fuggono via: tira di colpo la leva e il velivolo si mette in cabrata, salendo verso i caccia nemici.

Johnson apre il fuoco alla massima distanza e le traccianti attirano l'attenzione degli avversari... che si buttano in picchiata verso il P 47 che sta cabrando.

Soltanto Jhnson e il suo gregario sono ancora insieme: gli altri velivoli del 61°sono dispersi in tutte le direzioni.

I due caccia nemici si fanno sempre più grandi mentre gli si avvicinano a tutta velocità e ormai vede benissimo il lampeggiare all'estremità delle loro mitragliatrici alari.

Anche Johnson spara, ma non vede arrivare a segno nessun colpo.

Quando sono vicini, i due tedeschi virano buttandosi in candela sulla sua destra e subito lui butta la leva in avanti e dà una pedata per lanciarsi dietro di loro.

Per qualche momento i nemici, che hanno una maggior velocità, riescono ad allontanarsi, ma poi Johnson si accorge che i due FW 190 non guadagnano più terreno.

Ormai i quattro caccia sono arrivati a qualche centinaio di metri di quota sul terreno e continuano a picchiare ancora... verso Hannover, che non è molto lontana.

La distanza comincia adesso a diminuire mentre la velocità sta salendo vertiginosamente... trecentoventi cinque, trecentocinquanta, trecentosettantacinque, quattrocento, quattrocentoventidnque, quattrocentocinquanta: i due Thunderbolt si avvicinano e i tedeschi si rendono conto che stanno per esser presi alle spalle.

Di colpo, senza preavviso alcuno, si dividono...

Il gregario nemico vira a destra: adesso vi sono due bersagli e Johnson deve scegliere. Preferisce il capo della coppia e l'altro caccia si allontana.

La distanza diminuisce ancora... è quasi a tiro.

Il FW 190, che è adesso in volo orizzontale, tenta un vecchio trucco: di colpo sparisce la -leggera fumata che lo scarico del motore emetteva e subito la mano di Johnson corre alla manetta, tirandola indietro.

Il nemico ha chiuso il motore per farsi superare dal Thunderbolt e cosi trovarselo davanti, pronto per essere attaccato.

Il P 47 però rallenta, pur continuando ad avvicinarsi al caccia tedesco... un poco sulla destra.

Il pilota del 190 fa una brusca virata a sinistra, con le ali in verticale, ma Johnson gli taglia la strada e il tedesco non può prenderlo in coda, come aveva sperato, perché ha perso velocità anche lui.

Con quella manovra, però, Johnson si trova a tiro, preme il grilletto e le otto mitragliatrici fanno tremare il Thunderbolt, mentre sparano.

Le traccianti si dirigono verso l'avversario e Johnson tira la leva quasi al ventre: la sagoma del caccia nemico dalle lunghe ali gli passa nel cerchietto luminoso, dalla coda al muso... questo significa che sta virando più stretto di lui.

I suoi colpi prendono d'infilata tutta la parte anteriore del tedesco, dai timoni alla cappottatura del motore: per un secondo o due lo mitraglia da brevissima distanza, poi gli arriva addosso e vira a destra per riprendere subito dopo l'attacco.

Quando torna a cercarlo lo vede in picchiata, ormai già abbastanza vicino al suolo; Johnson si butta ancora all'inseguimento, ma questa volta la caccia è breve perché il velivolo nemico è colpito e non può più correre; il Thunderbolt gli piove addosso dall'alto, poi gli si mette in coda, mezzo avvolto dal fumo che quello si lascia alle spalle, e spara a bruciapelo.

Le ali dell'avversario riempiono abbondantemente il cerchietto luminoso e Johnson riprende a sparargli mentre i proiettili s'infilano in pieno nella fusoliera.

Il caccia picchia, gravemente colpito, la terra si avvicina rapidamente e il FW vi sta precipitando.

A un tratto però si accorge che un 190 attacca alle spalle il suo gregario.

Vira allora di colpo in cabrata, interrompendo la caccia per buttarsi contro il nuovo nemico, riuscendo cosi ad allontanarlo.

Johnson è troppo basso per sentirsi a suo agio e comincia una lunga salita per tornare in quota; l'altro velivolo lo segue di fianco.

Si domanda se il FW sia precipitato , per proteggere il suo compagno lo ha perso di vista proprio nel momento critico e può soltanto denunciarlo come probabile!

I due Thunderbolt stanno salendo nel cielo limpido e Johnson si guarda d'attorno alla ricerca dei bombardieri e di un qualche scontro che stia avvenendo, ma non vede nulla.

L'altimetro indica una rapida ascesa e ben presto i due caccia si ritrovano a una quotà conveniente... quattromila, cinquemila, cinquemiladuecento.

Mentre sta ancora arrampicandosi scorge dei nemici, « ore due », in alto; sono in sei e stanno sparando su un B 17 isolato; manovrando sulla destra continua la sua salita... e si butta contro i caccia tedeschi, col gregario sempre vicino.

Tutto motore!

La distanza diminuisce rapidamente e Johnson è pronto ad aprire il fuoco prendendoli alle spalle; sono ormai quasi alla stessa altezza e già tiene il dito sul grilletto.

Prende di mira uno dei nemici e spara: le armi tuonano e il velivolo è scosso dalle vibrazioni.

I tedeschi allora virano strettamente sulla sinistra e si buttano in picchiata, ma Johnson si rovescia a destra e ricomincia un'altra caccia in candela, dietro a due Me 109.

I 109, sull'inizio, sono più veloci dei due P 47 e riescono a sfuggire, ma Johnson rimane alle loro spalle e, a tutto motore, la sua velocità aumenta; sa però che non può ricominciare un inseguimento del genere del precedente perché sta consumando benzina a tutta forza; li ha inseguiti abbastanza, e il livello del carburante accenna a essere alquanto basso.

Però sta guadagnando terreno, gradualmente, rispetto al 109 che ha davanti e allora decide di provare a insistere un altro poco.

Lentamente il velivolo nemico s'ingrandisce nel collimatore... la velocità continua ad aumentare nella .rombante discesa.

Giù, sempre più in basso, ancora una volta vicino al suolo... e Johnson comincia a essere quasi a tiro.

Ma in quel momento, proprio mentre sta per arrivare e ridurre l'angolo di picchiata, sempre tenendosi in coda a quello che ha davanti, vede due altri nemici che si avvicinano.

La distanza è grande, ma Johnson ha fretta e apre il fuoco con le sue otto mitragliatrici: le pallottole volan via, segnate dalle traccianti e il Thunderbolt si scuote tutto.

Bisogna però interrompere lo scontro perché gli altri stanno quasi per giungergli addosso e Johnson vira allora verso di loro, che gli passano accanto in un lampo perché la grande velocità delle due coppie li avvicina in brevi secondi.

Non prosegue, però, la virata per attaccarli; non ricorda di aver mai iniziato tanti combattimenti per essere poi costretto a sospenderli quasi sul punto di riportare la vittoria: ma oggi il cielo è pieno di tedeschi e lui deve tornarsene a casa, senza aspettare oltre.

Un'occhiata ai velivoli nemici gli fa vedere che si stanno dirigendo verso est... combatteranno un'altra volta.

Johnson ne prova sollievo; ,le munizioni ancora disponibili sono poche, ma il livello del carburante rappresenta il suo maggior problema: il mar del Nord sembra tanto largo, quando deve essere attraversato con poca benzina a bordo.

Facendo quota ancora una volta, Johnson avvista una pattuglia di quattro P 47 non troppo lontani, diretti a occidente; li chiama per radio: sono della sua seconda squadriglia.

Anch'essi hanno avuto molto lavoro.

Tutti e sei i velivoli, riuniti, mettono la prua sull'Inghilterra e Johnson ordina di ridurre motore per limitare il consumo del carburante.

Uno dei sei velivoli però è stato gravemente danneggiato e, mentre si dirigono verso ovest, il pilota avvisa per radio che il motore è colpito e che non ce la fa più a continuare.

Johnson gli dice di lanciarsi a cinquemilacinquecento metri, ma l'ufficiale, il tenente Andrew B. Strauss, risponde che a quella quota fa troppo freddo; si lancerà a millecinquecento.

Gli altri piloti lo guardano con una certa compassione e lo scortano mentre perde quota; per l'ultima volta punta il muso del suo aeroplano verso terra scendendo rapidamente, poi lo sentono chiamare, a milleottocento metri: «Vi saluto, ragazzi. Chiudo la radio, mi rovescio e mi lancio ». Il che fa immediatamente.

Il paracadute di Strauss si apre quasi subito mentre il caccia scende, spiralando in picchiata fino al suolo.

Il corpo del pilota ondeggia qua e là, come un pendolo, ma Strauss non riesce ad arrestarne il movimento; scende sempre più verso il suolo continuando a ondeggiare, poi tocca terra battendovi la schiena e il capo.

I suoi compagni, in alto, stanno circuitando e lo guardano, sperando che si rialzi; si leva infatti, in piedi, si passa le mani sulla testa e guarda in alto: vede i suoi amici, lassù dov'era anche lui fino a qualche momento prima, sa che saranno ben presto a Halesworth e allora si mette le mani in tasca e, camminando lentamente, si allontana dal luogo della caduta.

Il resto del 61° ha ripreso subito la rotta verso casa; Johnson punta il suo caccia brontolone sull'Inghilterra e gli altri lo seguono.

Ora il cielo è totalmente libero dai tedeschi ed essi riprendono quota fino a un'altezza di sicurezza e attraversano l'Olanda

Davanti a loro c'è una Fortezza solitaria, danneggiata, e allora le fanno da graditissima scorta; ma intanto Johnson si domanda quanti altri saranno quelli che non ce la faranno a tornare.

Ben presto sono sul mare del Nord. .

Sorvegliando in continuazione il livello del carburante durante l'ultima parte del volo, i piloti del 61° attraversano il mare e sfrecciano alla fine sull'Inghilterra; dopo altri quindici minuti atterrano a Halesworth.

Mentre stanno perdendo quota e si portano all'atterraggio, Johnson dà un'occhiata all'orologio: sono le 13.51; è ancora abbastanza presto, tuttavia i suoi della « Wolfpack» si sono spinti molto addentro nella Germania, si sono azzuffati con grosse formazioni di caccia nemici e sono tornati a casa.

 

Poco dopo aver atterrato, aver rullato fino al parcheggio e aver lasciato gli aeroplani, Johnson e gli altri pilooti stavano rispondendo alle domande dell'ufficiale addetto alle informazioni.

Tutti sono d'accordo nel dire che la Luftwaffe ha dato «la preferenza, nei suoi attacchi, alle prime tre formazioni di bombardieri: c'erano assai più tedeschi di quanti molti di loro non ne avessero mai visto prima di allora, da un bel pezzo! »

Le perdite americane, ovviamente, erano state notevoli.

Berlino aveva subito un bombardamento decisamente efficace, ma l'Ottava Forza aerea aveva perduto sessantanove bombardieri (seicentonovanta uomini) senza contare i caccia, che erano soltanto undici velivoli:

quella però risultava la più grande incursione fino allora effettuata sulla capitale.

Johnson e l'Ottava Forza aerea trassero profitto dall'esperienza di quella dura battaglia, nella quale tanti americani delle tre formazioni di testa erano andati perduti in pochi minuti. L'inevitabile conclusione alla quale pervennero fu che i caccia americani dovevano andare molto in avanti, e tenersi lontani dai bombardieri, per essere in condizioni di affrontare in tempo,la caccia nemica che si sarebbe preparata ad attaccare.

Johnson suggeri che il 56° esperimentasse quelle tattiche difensive nelle future incursioni e infatti, alla fine, il Comando caccia ordinò che queste procedure di combattimento fossero adottate da tutti gli stormi dipendenti.

 

Il 15 marzo, durante un'altra grande azione di bombardamento, questi nuovi concetti furono messi alla prova e i caccia di scorta si tennero molto in avanti, e sui fianchi, dei « pesanti»; il tentativo venne coronato dal successo e, sebbene non tutti gli attacchi potessero essere stroncati, le perdite risultarono relativamente leggere.

I piloti furono tutti d'accordo nel rilevare che il nuovo sistema dava buoni frutti: i caccia tedeschi vennero intercettati dagli americani molto spesso prima ancora che riuscissero a riunirsi in una massa organizzata per l'attacco; molti di essi furono abbattuti o dispersi senza che potessero arrivare, almeno una volta, a tiro dei pesanti bombardieri.

Fu cosi che quella grande incursione sulla capitale nemica, che dette origine a una delle più dure battaglie mai combattute nei cieli tedeschi, ebbe una notevole importanza per diverse ragioni.

Per Johnson fu uno dei suoi ultimi voli perché l'otto maggio ebbe termine la seconda rafferma che aveva fatto in servizio di volo di guerra e, poco dopo, venne rimandato in patria; partì per gli Stati Uniti proprio nello stesso giorno in cui gli Alleati sbarcarono in Normandia.

Tornato nel suo paese fu inviato a fare un giro propagandistico e aiutò il governo nel vendere titoli di rendita, girando per i vari Stati con un P 47; questo lavoro fu fatto insieme con un'altra grande figura di asso della caccia, un combattente della guerra nel Pacifico dove volava con un P 38: Richard I. Bong che, fino a quel momento, aveva abbattuto ben ventisette velivoli nemici.

Dopo aver portato a termine questa gita propagandistica con Johnson, Bong riuscì a tornare al fronte dove, prima della fine della guerra, distrusse altri tredici aeroplani: con questi aveva raggiunto il numero di quaranta vittorie, un primato assoluto per i piloti della caccia americana. Quando fece quel giro con Johnson, questi ne aveva ventotto e quindi era, allora,

il più vittorioso asso degli Stati Uniti sul fronte europeo.

Per il suo eroico tentativo del 6 marzo 1944 di impedire, pur trovandosi in condizioni di inferiorità numerica, l'attacco nemico contro i bombardieri, oltre che per l'abbattimento di un caccia nemico (forse due), per la sua aggressiva azione di comando e per il valore dimostrato in combattimento, Johnson fu decorato con la Croce della distinzione in servizio (DSC).

In quell'incursione il suo stormo aveva distrutto settanta caccia tedeschi, perdendone soltanto uno.

Dopo aver finito il suo ciclo operativo, oltre alle decorazioni britanniche e a quelle francesi, Johnson aveva ricevuto la DSC, la Purple Heart, la Medaglia Aeronautica con quattro stellette e altre medaglie.

Il suo reparto aveva avuto la ricompensa della citazione del Presidente degli Stati Uniti.

Tutti questi riconoscimenti erano destinati a quel giovanotto del quale era stato detto che mancava di precisione nella mira e che era stato mandato alla scuola dei plurimotori perché non aveva superato l'esame di addestramento al tiro!

Tutto andava in onore di un bambino che, all'età di otto anni, fremeva di entusiasmo nell'ammirare le bravate e l'audacia dei Tre Moschettieri e che aveva, proprio allora, preso la decisione di divenire, come poi divenne realmente, un pilota da caccia.

 

Sfide nei cieli

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"L’operazione Jubilee" finora è uno dei racconti di Dave che mi piacciono di più perchè a differenza di altri non si limita a un mero racconto di "ho virato e abbattuto xx e tornato a casa".E' una vera telecronaca!

In più la cosa che mi piace di più è che ci fa apparire questi assi come esseri umani.Johnson ci narra quello che prima o poi è successo a tutti gli aviatori :ha trovato qualcuno più bravo/più avvantaggiato di lui.E la disperazione con il quale lotta è la cosa che secondo me è stata resa meglio..Son rimasto affascinato a leggere di come si sia spremuto fino all'ultimo per provare tutti i trucchetti di cui era a conoscenza.E' stato fortunato...Molte volte molti piloti non sopravvivono a queste prove e non possono così mettere a frutto l'esperienza acquisita.

 

 

Un'altra cosa che mi piace è il racconto successivo dove si vede un capopattuglia Usaf che si preoccupa del suo gregario continuamente appena può.Non è nell'ottica "sei novellino,arrangiati,cerca di starmi dietro che se muori è colpa tua".Anzi.Cerca di aiutarlo,farlo sopravvivere il più a lungo possibile perchè sa che un giorno potrebbe essere proprio quel novellino a salvargli la pellaccia.

 

 

Ciao a tutti.Continua così Dave.Vai forte.

 

 

EDIT: Grazie di avermi fatto notare che stavo parlando contemporaneamente di 2 omonimi! :D

Modificato da Takumi_Fujiwara
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  • 2 settimane dopo...

typhoon%20small.jpg Lieutenent Pierre Clostermann

 

Scuola di caccia nel Galles

1942 Le alte montagne del Galles, sepolte nella nebbia, sfilano a destra e a sinistra della linea ferroviaria.

Immersi nella densa fuliggine, abbiamo passato Birmingham, Wolverhampton e Shrewsbury.

Senza dir parola, Jacques e io guardiamo con indifferenza il paesaggio deprimente, lavato da una eterna pioggia sottile, le sporche città minerarie che si inerpicano su per le valli, schiacciate sotto una nuvola di fumo grigio, così ancorata alle case che nemmeno il vento riesce a disperderla con le sue raffiche gelate.

I passeggeri dello scompartimento osservano con curiosità le

nostre uniformi francesi, bleu marine con bottoni d'oro.

Brillano fieramente, sul nostro petto, il distintivo pilota dell'Armée de l' Air e, sopra la tasca sinistra, le ali della RAF.

Appena quindici giorni fa eravamo ancora allievi piloti del Royal Air Force College di Cranwell, alle prese con manuali di navigazione, teorie di tiro e grossi quaderni d'appunti.

Tutto ciò è ormai un ricordo.

Fra qualche ora, forse, piloteremo uno Spitfire, superando così

l'ultimo gradino che ci separa dalla grande arena.

Pochi minuti ancora e saremo a Rednal, 61° OTU, per un corso d'abilitazione al pilotaggio degli Spitfire prima di essere assegnati alla squadriglia.

Improvvisamente Jacques preme il viso contro il vetro:

« Guarda, Pierre, i nostri Spitfire! »

Il treno sta costeggiando un aeroporto e un raggio di sole umido, riuscendo a forare la nebbia, fa emergere una ventina di velivoli allineati lungo il margine di una pista asfaltata.

Il gran giorno è arrivato!

È nevicato per tutta la notte, e l'aeroporto abbaglia sotto il cielo

azzurro.

Mio Dio, com'è bella la vita!

Aspiro a pieni polmoni l'aria gelida e sento scricchiolare sotto i piedi la neve, liscia e cedevole come un tappeto; quanti ricordi risveglia in me.

La prima neve che vedo dopo tanto tempo...

Nel dispersal, l'istruttore mi attende sulla soglia, con un sorriso sulle labbra.

« Come vi sentite? »

«Bene, signore », dico, cercando di nascondere la mia emozione.

Mi ricorderò per tutta la vita il mio primo contatto con lo Spit.

Quello che dovevo pilotare era segnato con la matricola TO-S.

Mi soffermo un momento a contemplarlo, prima d'infilarmi le cinghie del paracadute: linea rastremata della fusoliera, motore Rolls Royce finemente carenato. Un vero purosangue.

« È vostro per un'ora. Buona fortuna! »

Padrone di quel bolide per un'ora, sessanta minuti d'ebbrezza! Cerco di richiamare alla mente i consigli del mio istruttore.

Tutto mi pare così confuso.

Mi allaccio la cinghia, tremando; m'assesto il casco e, ancora stordito per la massa di strumenti, quadranti, contatti, manette serrati l'uno contro l'altro, tutti vitali, e che il dito deve toccare al momento esatto, mi preparo alla prova decisiva.

Ripasso accuratamente- il cockpit drill monnorando:

« BTFCPPUR: Brakes (freni), Trim (alette di compensazione dei

comandi), Flaps (freni aerodinamici), Contacts (contatti), Pression (pressione nel sistema pneumatico), Petrol (carburante), Undercarriage (leva del carrello bloccata), Radiator ».

Tutto è pronto. Il motorista chiude lo sportellino laterale ed eccomi imprigionato in quel mostro di metallo che devo padroneggiare.

« Tutto sgombro davanti? Contatto! »

Manovro le pompe a mano e i contatti della messa in moto.

L'elica comincia a girare lentamente, poi, di colpo, con un fragore di tuono, il motore parte.

I tubi di scarico sputano lunghe fiamme azzurre avvolte di fumo nero, mentre l'aeroplano comincia a vibrare come una caldaia sotto pressione.

Tolti i tacchi d'arresto, apro completamente il radiatore, perché questi motori raffreddati a glicole si surriscaldano molto rapidamente, e con prudenza rullo fino alla pista di decollo sgombrata dallo spazzaneve, nera, diritta nel biancore del paesaggio.

« Tutor 26, potete decollare, ripeto potete decollare! »

Via radio la torre di controllo mi autorizza a partire.

Il cuore mi batte fino quasi a scoppiare.

Ingoio saliva. Abbasso il seggiolino e, con la mano bagnata di sudore, do motore lentamente.

Mi sento immediatamente travolto in un ciclone.

Frammenti di consigli mi tornano in mente.

« Non abbassare troppo il muso! »

Davanti a me l'enorme elica, che deve assorbire tutta la potenza del motore, ha solo un lieve margine di spazio fra il diametro d'aria che spazza e il suolo.

Lentamente spingo la manetta del gas in avanti e, con un balzo che mi inchioda allo schienale del seggiolino, lo Spitfire si slancia, accelera, accelera, mentre l'aeroporto sbanda a destra e a sinistra con velocità crescente.

Freneticamente, con violenti colpi sulla pedaliera, controllo le

imbardate.

D'un tratto, come per miracolo, mi trovo in aria, col fiato mozzo.

La ferrovia passa sotto di me in un lampo.

Ho una vaga visione d'alberi, di case che svaniscono.

Faccio rientrare il carrello, chiudo il tettuccio e il radiatore,riduco il gas e metto l'elica a passo di crociera.

Gocce di sudore mi colano sulle tempie.

Ma immediatamente le mie membra reagiscono come le leve ben regolate d'un automa.

I lunghi mesi d'addestramento hanno preparato i miei muscoli e i miei riflessi per questo istante.

Che magnifica docilità di comandi!

La minima pressione del piede o della mano basta per lanciare l'apparecchio in cielo.

La velocità è tale che pochi secondi mi hanno portato a una decina di chilometri dall'aeroporto.

La pista nera è soltanto un tratto a carbone all'orizzonte.

Inizio timidamente una virata, ripasso sulla base e giro a destra e a sinistra; con una lieve tirata di cloche salgo a tremila metri in un batter d'occhio.

A poco a poco la velocità m'inebria e mi fa ardito; uno spostamento di qualche millimetro della manetta del gas basta a scatenare il motore.

Decido di provare una picchiata.

Spingo leggermente la cloche: 550, 600, 650 chilometri l'ora.

La terra pare mi s'avventi contro in modo terrificante.

Spaventato dalla velocità, tiro istintivamente la cloche, che varia l'angolo del timone di quota, e subito la testa affonda nelle spalle, una massa di piombo s'abbatte sulla colonna vertebrale e mi schiaccia sul seggiolino.

Gli occhi si velano.

Come una sfera d'acciaio che cada su un blocco di marmo, lo Spitfire è rimbalzato sull'aria elastica e, dritto come un cero, è salito nel cielo.

Ripresomi a malapena dagli effetti della forza centrifuga, m' affretto a ridurre il gas perché non ho ossigeno e l'apparecchio prosegue la sua volata.

Sento il controllo che mi chiama per radio.

Un'occhiata all'orologio. Già un'ora!

Sembra che tutto si sia svolto in un secondo.

È ora di atterrare.

Apro tutto il radiatore, tolgo il gas, metto l'elica a passo minimo, apro il tettuccio, alzo il seggiolino e mi preparo a toccar terra.

Sono ripreso dall'ansia: l'enorme motore davanti a me, con i suoi poderosi tubi di scarico, mi nasconde tutta la pista.

Come un cieco, la testa costretta all'interno dalla formidabile pressione dell'aria, sono prigioniero nell'abitacolo.

Faccio uscire il carrello e abbasso i flap.

La pista s'avvicina a una velocità spaventosa.

Mai più riuscirò a mettere le ruote per terra.

L'aeroporto sembra restringersi e saltarmi addosso.

Tiro la cloche, disperatamente, l'apparecchio sprofonda con un gran colpo metallico che rimbomba nella fusoliera e... sento che rulla goffamente sull'asfalto.

Un colpo di freni a destra, uno a sini¬tra, e lo Spit si arresta al limite della pista.

I sussulti del motore che gira al minimo ricordano i fianchi palpitanti di un cavallo da corsa ansimante.

L'istruttore salta sull'ala, m'aiuta a togliermi il paracadute, sorridendo nel vedere la mia faccia pallida e tirata.

Faccio due passi, poi, stordito, devo appoggiarmi alla fusoliera.

« Molto bene. Nulla di preoccupante! »

Se sapesse, però, come mi sento orgoglioso.

Ho finalmente pilotato uno Spitfire.

Mi sembra bello, vivo.

Un capolavoro d'armonia e di potenza, ora che lo vedo immobile.

Dolcemente, come si può accarezzare la guancia d'una donna, passo la mano sull'alluminio delle ali, freddo e liscio come uno specchio, di quelle ali che m'hanno sostenuto.

Tornando al dispersal col paracadute sulle spalle, mi volto

ancora e sogno il giorno in cui in squadriglia avrò uno Spitfire

tutto per me, che porterò in combattimento, che racchiuderà la mia vita nella sua angusta cabina, e che amerò come un fedele amico.

 

**************

 

Furono due mesi invernali penosi, quelli passati al,reparto d'addestramento operativo.

Le lezioni si succedevano alle lezioni, le ore di volo aumentavano, le missioni di tiro sulle montagne del Galles coperte di neve si sommavano rapidamente sul libretto.

E non senza fatica e senza lutti.

Lo Spitfire di uno dei nostri compagni belgi esplose in volo durante una prova d'acrobazia.

Due dei nostri amici della RAF s'uccisero sotto i nostri occhi, in una collisione.

Poi, Pierrot Degail, uno dei sei francesi del corso, andò a schiantarsi, in una sera di nebbia fitta, contro la cima di una collina coperta di ghiaccio.

Occorsero due giorni per arrivare ai rottami nella neve.

Fu trovato inginocchiato, la testa fra le braccia come un bimbo che dorme, accanto al suo Spitfire.

Non potendo muoversi perché aveva le gambe spezzate, era morto di freddo nella notte.

La cerimonia della sepoltura, con gli onori militari, fu commovente nella sua semplicità Jacques, Menuge, Commailles e io portavamo la bara avvolta nel tricolore.

Dio, come era pesante e triste sotto la pioggia fine e fredda.

E la sfilata lenta e silenziosa, di noi a uno a uno, davanti alla fossa che risuonava delle paiate di terra inglese sparse sulla bara.

Dopo cinque settimane a Rednal, passammo le ultime tre settimane di addestramento a Montford Bridge, piccola base satellite sperduta fra le montagne.

Senza interruzione, appena il tempo schiariva un poco, decollavamo.

Voli in formazione a tre, a quattro, a dodici apparecchi; manovre d'allarme, di combattimento aereo, di tiro, lezioni di tattica, d'identificazione d'apparecchi, di comunicazione radio.

Il freddo era atroce.

Vivevamo in baracche semicilindriche di lamiera ondulata, senza intercapedini isolanti, e il problema del calore era difficile da risolvere.

Con Jean Scott, il beniamino della nostra banda, che divideva con me una camera, andavamo a prendere « in prestito » il carbone in un vicino deposito della ferrovia.

Era buffo vedere Jean così ricercato nei modi, in equilibrio tra i fili spinati, passarmi con aria disgustata certi blocchi untuosi d'antracite, tenendoli fra il pollice e l'indice della mano guantata.

Seguiva poi l'impresa d'accendere la stufetta, che avrebbe dovuto riscaldare la nostra baracca.

Ci volevano litri di benzina, sottratti all' autocisterna, per eccitare l'entusiamo vacillante del carbone umido e della legna bagnata.

Mi ricordo che una sera la stufa, satura di vapori di benzina, esplose, trasformando Jean, Jacques e me in guerrieri zulù di un bellissimo nero.

La notte dell'ultimo dell'anno trascorse calma e molto malinconica in quell'angolo sperduto.

Poi venne il giorno delle assegnazioni.

Commailles, Menuge e io dovevamo partire per Tumhouse in Scozia, raggiungere il 341° gruppo da caccia « Alsazia », delle Forze Aeree Francesi Libere, allora in fase di formazione.

Jacques, Jean e Aubertin partivano per il 602° gruppo di stanza a Perranporth.

Cominciava la guerra vera.

Finalmente!

 

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Modificato da Dave97
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Prime vittorie

Anche oggi in aria c'è odor di polvere.

La colazione è sbrigata alla svelta.

Briefing alle 14.30.

Questo pomeriggio, il nostro obiettivo è l'aeroporto di Triqueville. Dovremo bombardarlo in grande stile con due ondate di settantadue Marauder.

Triqueville, nei pressi di Le Havre, è il nido di uno dei migliori stormi da caccia tedeschi: il famoso « Richtoffen dai musi gialli ».

Secondo nostre informazioni sono stati riequipaggiati recentemente con l'ultimo tipo di Focke Wulf, il 190 A-6, munito di un motore più potente e, si dice, di flap speciali che gli permettono di far virate molto secche.

I « Richtoffen » sono tutti piloti selezionati.

Comandati da uno dei grandi assi della Luftwaffe, il maggiore von Graff, si sono specializzati con i loro nuovi apparecchi, e con molto successo, nell'attacco ai nostri bombardieri diurni.

Si è tentato in precedenza di distruggerli al suolo, di far piazza pulita del loro campo.

Ma ogni volta hanno decollato prima del bombardamento e sono andati tranquillamente ad atterrare in una delle loro tre basi di riserva: Evreux-Fauville, Beaumont-le Roger o Saint-André.

La commedia è durata quattro mesi e la RAF vuol farla finita oggi, tanto più che il quartier generale americano dei Marauder ha dichiarato che rifiuterà di ordinare nuove missioni in quel settore, se prima non sarà fatta piazza pulita dei « Richtoffen ».

Oggi dunque Triqueville e le altre tre basi saranno bombardate simultaneamente.

Quanto a noi, qualora fossero già per aria, dobbiamo agganciadi a tutti i costi e dar loro una buona lezione.

Si vedrà.

Senza dubbio vi sarà una bella baraonda.

Al dispersal mi attende una delusione: non sono sul quadro della sweep. Faccio una scenata, grido che è un'ingiustizia, pesto i piedi.

Buono com'è, e anche per essere lasciato in pace, Martell si lascia commuovere e mi porta con sé come numero 2.

Non ho fortuna al gioco.

Appena lasciata la costa inglese il serbatoio supplementare s'inceppa, forse per qualche accidente nelle tubazioni.

Maledizione!

So bene che questa impresa può condurci molto lontano a sud di Le Havre, fino a Rouen o a Evreux.

Dopo il combattimento, se combattimento vi sarà, rischio di restare molto a corto di carburante.

«Tanto peggio: al diavolo il buon senso, io resto! »

La Manica è coperta di nebbia, ma, sopra i mille metri, il tempo è splendido. Nemmeno l'ombra d'una nuvola.

Già a metà fra Le Havre e Rouen, si può distinguere sotto lo strato di nebbia la Senna che si snoda come un serpente d'argento.

Rompendo il silenzio, la voce del controllore suona molto eccitata alla radio.

« Attenzione, Turban! Donald Duck e i suoi ragazzi hanno già decollato e salgono a rotta di collo, non posso darvi ancora informazioni precise. »

Donald Duck è il nome convenzionale affibbiato a von Graff.

Un umorista del servizio y deve averlo chiamato così perché, a quanto pare, parla col naso come l'omonimo papero di Walt Disney!

La vecchia volpe conosce le astuzie e sa che il miglior modo di parare il colpo è quello d'attaccare.

Se li lasciamo passare fra le nostre maglie, i Marauder rischiano di lasciarci qualche penna.

Mouchotte, che oggi conduce lo stormo, è, come sempre, padrone di sé. Ma, con un po' d'ansia, m'accorgo che Martell, il quale guida la nostra sezione, si stacca insensibilmente dal resto del gruppo e comincia a salire.

Ben presto gli altri Turban ci appaiono come una serie di punti lucenti sperduti nell'azzurro del cielo.

« Sezione gialla, avvicinatevi un po'. »

Mentre Mouchotte ci rilancia l'ordine, è interrotto da un grido dei Gimlet che volano mille metri sopra di noi, sulla destra.

« Per amor di Dio, disimpegnatevi, Gimlet! »

Il vecchio Donald Duck ha atteso il nostro passaggio, annidato nel sole col suo branco di pirati.

Stava sul punto di far finir male il 611° e soltanto per caso uno dei neozelandesi li ha visti arrivare.

Ci ha messo in guardia e tutti lo fronteggiano mentre piomba giù a settecento all'ora.

Tutto accade in un batter d'occhio.

All' sos del 611°, Mouchotte vira in cabrata con le sue sezioni blu e rossa per accorrere in aiuto.

Noi ci troviamo così isolati, a 1500 metri sotto la zona dello scontro.

Martell ci fa virare a sinistra e prendiamo quota per partecipare alla battaglia.

D'un tratto, m'accorgo che una dozzina di Focke Wulf ci piomba addosso contro sole.

« Focke Wulf a ore undici, Giallo. »

Guidati da un magnifico FW-190 A-6, tutto dipinto di giallo,pulito e luccicante come un gioiello, i primi filano già sulla nostra sinistra e, a meno di cento metri, virano su di noi.

Distinguo nettamente sotto i lunghi tettucci trasparenti la sagoma dei piloti tedeschi.

« Avanti, Turban. All'attacco. »

Martell s'è già tuffato, deciso, in piena formazione nemica.

I numeri 3 e 4 perdono contatto immediatamente e ci lasciano nel turbine dei musi gialli e delle croci nere.

Stavolta non ho nemmeno il tempo d'aver paura.

Sento un crampo allo stomaco, ma mi esalta un'eccitazione violenta.

È la gran mischia e perdo un po' la testa.

Senza rendermene conto, lancio urli forsennati da pellerossa, manovrando bruscamente il mio Spitfire.

Già un Focke Wulf si stacca, lasciandosi dietro una spirale di fumo nero, e Martell, che non perde tempo, ne insegue un altro per farlo fuori.

Mi sforzo da buon compagno di sezione di tenergli dietro per proteggerlo alle spalle, ma mi sopravanza di molto e stento a seguirlo nei suoi rovesciamenti e avvitamenti .

Due Boche si infiltrano a forbice sulla sua scia.

Faccio fuoco su di loro, benché siano fuori tiro; non li piglio, ma li obbligo a deviare verso di me. È la mia fortuna.

Faccio una rapida cabrata e, prima che loro possano completare i 180 gradi della loro virata, mi trovo dietro al secondo e stavolta a portata utile.

Una leggera pressione sulla pedaliera e l'inquadro nel collimatore.

Credo a stento ai miei occhi: c'è solo una piccola correzione, facile da fare a meno di duecento metri di distanza.

Svelto, premo il pulsante di sparo.

La sua fusoliera s'illumina d'esplosioni.

La mia prima raffica è arrivata a segno.

Il Focke Wulf s'incendia immediatamente.

Lunghe fiamme intermittenti si sprigionano dai serbatoi squarciati, lambiscono lafusoliera.

Qua e là bagliori incandescenti soffocati dal pesante fumo nero che avvolge l'apparecchio.

Il pilota tedesco si lancia in una virata disperata.

Nell'aria sconvolta dall'estremità delle sue ali, si formano due sottili scie bianche di condensazione.

Improvvisamente il Focke Wulf scoppia come una melagrana.

Un gran bagliore, una nuvola nera, rottami che volteggiano intorno al mio velivolo.

Il motore cade come una palla di fuoco.

Una delle ali, strappata dalla deflagrazione, va giù lenta in giravolte che mostrano, alternativamente, il ventre giallo tenue e il dorso verde oliva.

Urlo la mia gioia via radio, come un ragazzo.

« Giallo 1, Turban Giallo 2 vi chiama. Ne ho preso uno! Ne ho abbattuto uno! »

Ma il cielo è ora pieno di Focke Wulf che mi sfiorano, m'assalgono da ogni parte, in un fuoco d'artificio di traccianti.

Non mi mollano. È un succedersi di attacchi frontali, in coda,a destra, a sinistra.

Comincia a girarmi la testa e mi fanno male le braccia.

Ansimo; pilotare uno Spitfire a settecento all'ora è sfibrante, poiché la velocità irrigidisce i comandi.

Soprattutto a ottomila metri d'altezza.

Ho l'impressione di soffocare nella maschera e metto l' ossigeno su emergenza.

Il cuore mi galoppa e ne sento il battito alle tempie, ai polsi, alle caviglie.

Il mio Spitfire tiene testa gagliardamente; fa corpo con me come un cavallo da battaglia ben addestrato, e il motore rende al massimo. Benedico il Rolls Royce, tutti gli ingegneri e gli operai che hanno disegnato, costruito, montato con amore questo poderoso congegno d'orologeria meccanica.

Pur battendomi alla meglio, economizzando munizioni, sparo

ogni tanto sui Focke Wulf che mi passano a tiro.

Con la coda dell'occhio, vedo Martell che fa fuori un secondo

Boche.

Nelle mie manovre un po' pazze, capito sulla verticale di un Focke Wulf, sul quale mi precipito in picchiata, senza curarmi d'altro. .

Lo vedo ingrandire nel collimatore, di piatto, con le ali corte, il motore colorato di giallo e la fusoliera che s'affina verso la coda.

Attraverso il tettuccio trasparente intravedo la macchia chiara della faccia del pilota alzata verso di me

Due brevi raffiche mi bastano per correggere il tiro.

Il tettuccio vola in frantumi e i miei colpi devastano la fusoliera dietro il pilota.

Trascinato dalla velocità sto per andargli addosso.

Istintivamente, spingo in avanti la cloche, sbatto la testa contro il parabrezza blindato, ma evito per un pelo la collisione.

Esco dalla picchiata e vedo il Boche planare sul dorso, con una scia di fumo nero che esce dal motore.

Una sagoma scura si stacca dalla carlinga, volteggia nell'aria, segue per un attimo il velivolo come appesa a un filo invisibile... all'improvviso il gran fiore ocra d'un paracadute si apre come inchiodato sul posto, mentre il Focke Wulf prosegue nella sua ultima traiettoria.

Sono stordito. Ho abbattuto due Boche! Due Boche!

L'orgoglio m'esalta e in pari tempo tremo di contenuta paura,

coi nervi rilassati.

Dov'è Martell? Penserà forse che l'ho lasciato solo.

Il cielo è vuoto. Benché cominci ad abituarmici, il fenomeno della scomparsa istantanea di tutti i velivoli mi sorprende anche adesso.

Forse i Focke Wulf sono già in picchiata verso la loro base a 3000 metri sotto di noi e si dileguano ormai nel paesaggio.

Tutti meno uno!

Alzando il capo, vedo, alto sopra di me, uno Spitfire, quello di Martell probabilmente, e il famoso Focke Wulf giallo.

Fanno sfoggio di acrobazia d'alta scuola.

E’ affascinante!

Virate Immelmann, tonneau veloci, ma senza che uno guadagni un centimetro sull'altro.

Improvvisamente, insieme, come di comune accordo, una virata e s'attaccano frontalmente.

È una pazzia.

Lo Spitfire e il 190 si precipitano l'uno contro l'altro, facendo fuoco con tutte le loro armi.

Il primo che smetterà sarà perduto, perché esporrà senza scampo il suo apparecchio ai proiettili dell'avversario.

Col fiato mozzo, nell'attimo in cui sembra imminente la collisione, vedo il Focke Wulf fremere, sconquassato dallo scoppio dei proiettili, poi d'un sol colpo disintegrarsi.

Lo Spitfire, miracolosamente illeso, passa attraverso un fascio di rottami in fiamme, che ricadono a pioggia.

Martell e io rientriamo insieme, ma sono molto a corto di carburante e devo atterrare a Shoreham per rifornimento.

Sono ancora così scosso di nervi ed eccitato che per poco l'atterraggio non finisce in una catastrofe.

Il campo è troppo corto per uno Spitfire IX e sono costretto a frenare bruscamente, rischiando di tranciare il carrello.

Rullo fino all'autobotte presso il controllo, tolgo i contatti e salto a terra con un'aria di superiorità, come se mi si potesse leggere in viso che ho abbattuto ,due apparecchi nemici.

Dalla torre di controllo dell'aeroporto non posso resistere al piacere di telefonare a Biggin Hill; un po' per avvisarli che sono sano e salvo, e più ancora per avere la soddisfazione di buttar là, con negligenza (dando un'occhiata discreta ai presenti):

« Oh!, a proposito, ho abbattuto due Focke Wulf! »

Quasi con raccoglimento eseguo il mio primo tonneau della vittoria sui nostri alloggiamenti.

Martell conferma la mia prima vittoria: ha visto il Focke Wulf incendiarsi. Il mio secondo sarà senza dubbio omologato, dopo conferma della cinefotomitragliatrice.

Non chiudo occhio tutta la notte, e alla mensa sottufficiali annoio i presenti con la storia del mio combattimento ripetuta centinaia di volte.

Questa azione è stato un successo per il gruppo « Alsazia ».

Boudier ha abbattuto un Boche e Mouchotte e Bruno hanno sparato insieme su un altro.

Mouchotte, con un bel gesto, lo attribuisce al suo numero 2.

Dal canto suo, il 611° ne ha abbattuti tre.

Miracolosamente, se si contano i sette apparecchi danneggiati, non abbiamo avuto perdite.

La sera del 27 luglio ci perviene un telegramma:

 

AI RAGAZZI DELL'« ALSAZIA» E DEL 611° STOP

NOVE VITTORIE SENZA PERDITE È UN GRAN BEL RISULTATO STOP

CONTINUATE COSI' STOP

WINSTON CHURCHILL

 

A completare il quadro, tre giorni dopo la radio tedesca an¬nuncia che il maggiore von Graff, decorato della croce di ferro con spade, foglie di quercia e diamanti, è stato ferito nel corso di un eroico combattimento contro una soverchiante formazione nemica.

 

Tratto da La Grande Giostra

 

 

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Modificato da Dave97
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La paghiamo cara!

 

Bisogna diffidare di questi accidenti di cacciatori tedeschi come della peste: non sai mai con chi hai a che fare.

Ore 17.30. Attacchiamo una colonna di camion nei pressi di Bény-Bocage.

Con queste nuvole basse e con la contraerea, il sistema che si inaugura di volare in due sezioni non mi dice nulla di buono.

Volo oggi con una sezione eccellente: Jimmy come numero 2, Bruce Dumbrell come numero 3 e Mouse Manson come numero 4. Con loro non c'è bisogno di grandi spiegazioni via radio.

Un semplice battito d'ali e sono già in formazione d'inseguimento e di battaglia.

Jimmy mi segnala due velivoli, lontano, davanti, a sinistra.

Volano rasente gli alberi.

A 3000 metri li identifico: sono Focke Wulf 190

Faccio mollare i serbatoi e acceleriamo.

Guadagniamo su loro facilmente.

Debbono scortare qualcosa sulla strada, probabilmente grosse colonne con precedenza assoluta di autocisterne per carri armati inchiodati dalle parti di Bény¬Bocage.

A 1000 metri lascio la protezione del suolo e inizio una candela per metterci in posizione di combattimento.

Ci avvistano immediatamente e salgono per affrontarci.

Proprio in quel momento il comandante e il suo numero 2 passano attraverso noi come ciechi.

Per evitare una collisione, effettuo una brusca virata e la formazione della mia sezione è rotta.

Giocando d'audacia, i due Boche attaccano in candela.

Sono due tipi in gamba.

La loro manovra temeraria mi disorienta.

M'ero preparato a tagliar loro la strada delle nuvole, ma non m'attendevo di vederli così celermente su di noi.

L'errore del mio nuovo comandante mi ha fatto perdere il vantaggio iniziale.

Prima ancora che abbia potuto fare il minimo movimento difensivo, un enorme motore stellare s'inquadra nel mio parabrezza e un fascio di traccianti mi arriva dritto fra gli occhi. Istintivamente spingo la cloche, sento il vortice della sua elica sui miei impennaggi e a stento evito un albero.

Viro disperatamente, con la cloche contro il ventre, in tempo per vedere una formidabile deflagrazione al suolo, presso una casa colonica: un nuvolone nero.

Un'ala di Spitfire rimbalza, strappata.

Il comandante e il suo numero 2 sono scomparsi.

Il secondo Focke Wulf insegue uno Spitfire completamente smarrito, che riesce a infilarsi fra le nuvole, non senza aver sparacchiato tre o quattro colpi. . .

Impegno il Boche: vira così stretto che lo sfioro senza poter ottenere una correzione sufficiente per tirargli.

Bisogna fare attenzione: è un tipo che conosce tutte le malizie.

Jimmy, intanto, chiede soccorso. È stato colpito.

Il Focke Wulf ritorna verso di me, perfidamente, in scivolata e sono costretto a disimpegnarmi così bruscamente che l' apparecchio va in auto-rotazione e mi riprendo solo a filo degli alberi, con un mezzo tonneau molto rischioso, che mi dà un tuffo al cuore.

Sparo a mia volta sul Focke Wulf, ma quell'animale è svelto a derapare sulle sue ali corte e lo fallisco.

Riprendo quota con una Immelmann.

La flak riattacca: solito accavallamento di traccianti rossi e verdi.

A tutto motore risalgo verso le nuvole.

I Focke Wulf sono scomparsi: l'azione è durata sessanta secondi.

A questo punto, scorgo di fronte a me uno Spitfire che scende planando, con il motore al minimo.

Dai suoi radiatori squarciati sfugge una lunga nuvola di glicole in fiamme. .

Leggendo la matricola, mi sento un colpo allo stomaco che mi

toglie il respiro: LO-S. È Jimmy!

Gli passo molto vicino, per vedere.

Chiamo Jimmy, ma non ottengo risposta.

Vorrei fare qualcosa, aiutarlo, non assistere terrorizzato e impotente alla fine d'un buon amico.

Non posso distinguere nella cabina che una forma vaga, rattrappita, abbandonata sulla cloche e, proprio dietro, nella fusoliera, una serie di strappi a intervalli regolari.

Lentamente lo Spitfire si mette in picchiata man mano accelerando.

Chiudo gli occhi, mi prende una nausea amara alla gola...

... poi c'è solo un braciere ai bordi d'una strada.

Rientrando, sento colarmi le lagrime lungo il naso.

Che dirà Max? E tutto per colpa di Clueless Claude.

Speriamo che Dumbrell sia rientrato.

Farsi accoppare in quattro contro due in tali condizioni è una vergogna!

Mio Dio, fate che Bruce sia rientrato.

Non saprei da solo spiegare come sono andate le cose.

Bayeux... Longues, finalmente.

Un capannello s'agita attorno a uno Spitfire sfasciato lungo il margine della pista.

Faccio un passaggio per rendermi conto.

Il pilota, Dio sia lodato, fa grandi segni. È Bruce, salvo!.

 

La Grande Giostra

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Abilitazione sul Typhoon

 

Quel pomeriggio stesso sbarcavo a Aston-Down, dove dovevo seguire un rapido corso teorico-pratico ed essere abilitato al pilotaggio dei Typhoon e dei Tempest.

Il comandante della base, tenente colonnello J .S. Shaw, presa visione del mio stato di servizio e del numero delle mie ore di volo, decise di abbreviare le formalità e di dispensarmi dai corsi teorici.

Potrò quindi fare questo pomeriggio il mio primo decollo su

un Typhoon.

Arrivo alla base con tutto l'equipaggiamento di volo e mi presento all'istruttore, un australiano, Mac Far, chiamato dai suoi compagni « l'immacolato Mac » per via del suo aspetto ispido e trasandato.

Col paracadute sulla schiena, ci vogliono tre persone per aiutarmi a salire nell' abitacolo del Typhoon che si trova a due metri e mezzo dal suolo.

L'apparecchio è molto liscio, non c'è modo di aggrapparsi a niente. Bisogna attaccarsi ad alcune nicchie con coperchio a molla che tornano in posizione appena si toglie la mano o il piede, come una trappola per le volpi.

Finalmente mi issano, mi installano, mi danno una manata sulla schiena e dopo un ultimo augurio di buona fortuna mi trovo soletto nelle viscere del mostro.

Poiché i gas di scarico, a elevato contenuto di carbonio, che s'infiltrano nella cabina sono veramente dannosi, bisogna inalare continuamente ossigeno e quindi m'affretto a mettermi la maschera e apro la valvola di regolazione.

Ripasso in fretta nella mente tutti i consigli degli istruttori.

Apro il radiatore. Controllo che il carrello d'atterraggio sia bloccato.

Accendo le lampadine del cruscotto.

Regolo la manetta del gas.

Spingo in avanti il comando del passo dell 'elica.

Verifico il livello dei quattro serbatoi di carburante e pongo il selettore sulla riserva centrale per decollare (in tal modo posso contare sull'alimentazione per gravità in caso di avaria alla pompa della benzina).

Svito gli iniettori; introduco la cartuccia per la messa in moto.

Con un dito sul contatto del magnete e un altro sull' accensione della cartuccia, scateno il sistema.

Il motorista, aggrappato all'ala, mi aiuta a dare l'avvio al motore, che parte con un fracasso cinque volte più potente di quello dello Spitfire.

Dopo qualche brontolio, prende a girare più regolarmente, pur seguitando a sputare olio da tutti i pori.

Il suono di questo motore e le sue vibrazioni mi insospettiscono. Ho i nervi tesi e non mi sento affatto sicuro.

Alzando la testa, vedo i motoristi, un po' stupiti del mio silenzio, in attesa che io dia il segnale per togliere i tacchi.

Comincio a rullare, un po' troppo rapidamente.

Attenzione, non bisogna abusare dei freni, perché si riscaldano presto. Un freno caldo perde efficacia.

Si rulla alla cieca, cercando il cammino da seguire alla maniera dei granchi, con un colpo di freno a destra e uno a sinistra, alternativamente, per aver libera la visuale.

Al limite della pista, prima di allinearmi, do una pulitina alle candele seguendo le istruzioni.

Provo il motore dando gas fino a tremila giri e subito una nuvola d'olio investe il parabrezza.

Due Typhoon che si trovano nel circuito d'atterraggio si posano alla meno peggio, ma il controllore non sembra disposto a darmi luce verde.

Tiro fuori la testa dalla cabina per fargli un segno, a rischio di prendermi una goccia d'olio bollente in un occhio.

Sempre luce rossa.

Certamente ho dimenticato qualcosa; e intanto quel maledetto

motore comincia a scaldare.

Il mio radiatore è già a 95 gradi.

Un'occhiata all'interno: i flap sono, come devono essere, a 15 gradi; il radiatore è aperto.

Avevo dimenticato la radio!

La inserisco e chiamo il controllore, che mi dà finalmente luce verde.

Stringo le cinghie, mollo i freni, m'allineo accuratamente sulla linea bianca che segna il centro della pista di cemento e do motore lentamente, col piede sinistro a fondo sulla pedaliera.

M'avevano avvertito che il Typhoon imbardava, ma fino a questo punto!... E questo animale accelera come un razzo!.

Correggo per quel tanto che posso, col freno, ma sono lo stesso spinto pericolosamente verso destra.

A metà pista, la ruota destra sfiora l'erba.

Con un arnese del genere, se vado fuori dal cemento, cappotto.

Rischio per rischio, meglio staccarsi dal suolo.

Questo velivolo è di una instabilità laterale che sgomenta. Continuo ugualmente a derapare e non oso abbassare troppo l'ala sinistra, con questi alettoni della malora che non rispondono se non oltre i 200 chilometri l'ora.

Per fortuna, in conseguenza d'una serie d'incidenti dovuti alla stessa causa, hanno demolito l'autorimessa F.

Passo ugualmente, non troppo bene, accanto all'autorimessa E.

Ritiro il carrello, ma dimentico di bloccare i freni.

Una vibrazione formidabile che squassa il velivolo dalla coda alla prua mi rivela che il carrello è rientrato al suo posto con le ruote che girano a gran velocità.

Speriamo che non abbia massacrato i pneumatici!

Quando penso che stavo così tranquillo al mio tavolino allo Stato Maggiore...

Alla fine, dopo qualche minuto, riprendo la mano e mi sento più calmo.

Le virate derapano sempre un po', ma in complesso non c'è male.

Una piccola picchiata timida, tanto per rendermi conto.

Che massa! Con le sue sette tonnellate, questo animale accelera in modo prodigioso.

Verifico con soddisfazione che fila molto più dello Spitfire.

Che sarà poi col Tempest!

Una mezz'ora passa presto e comincio a radunare tutto il mio coraggio per atterrare.

Dapprima un circuito a tutto motore a 700 chilometri l'ora per pulire questi accidenti di candele che si sporcano presto.

Ma poi, per quanto riduca il motore, faccia derapage, abbassi il radiatore, non riesco ugualmente a ridurre la velocità a quella prevista per fare uscire il carrello.

Un circuito, con motore al minimo a 500 all'ora.

Un altro circuito a 400.

Non potendo fare altro, eseguo una virata in cabrata senza motore e risalgo di mille metri circa, riducendo però la mia velocità a 320.

A bassa velocità questo bestione è terribilmente instabile e l'uscita dell' enorme carrello ha conseguenze imprevedibili sul centraggio. Anche per questo, benché prevenuto, mi son fatto sorprendere da imbardate formidabili che rassomigliano addirittura a un principio di avvitamento.

Domando l'autorizzazione ad atterrare.

Prudentemente, in linea retta, con una buona riserva di velocità, effettuo l'avvicinamento, abbasso i flap e tutto va bene fino alla richiamata.

Ma queste ali pesanti, che sembrano avere una grande riserva di sostentamento, sono traditrici; ho appena cominciato a toccare la cloche che già comincio a stallare e il velivolo cade come un sasso, abbattendosi sull'ala sinistra, e poi rimbalza in su di dieci metri, col muso dritto al cielo, in un fracasso spaventoso.

Do tutto motore per attutire la caduta, pur lottando come un disperato con gli alettoni, per non andare a finire sul dorso.

Finalmente, dopo due o tre balzi e colpi di freno stridenti, il mio Typhoon, domato, rulla alla meno peggio sulla pista che pare troppo corta.

Prima di uscire sul raccordo, devo ancora fermarmi in mezzo a una nuvola di fumo e d'olio.

Un forte odore di gomma bruciata si sprigiona dai miei poveri pneumatici che hanno validamente resistito alle sette tonnellate rotolate su loro a 200 chilometri l'ora.

Per fortuna, il mio cattivo atterraggio non è stato troppo notato: ve ne sono stati di così brutti, questo pomeriggio, due dei quali con gravi avarie, che finché l'apparecchio è intatto qualunque atterraggio è considerato buono

Ho la fronte bagnata di sudore, ma il morale è più alto.

 

La Grande Giostra

 

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Modificato da Dave97
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